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A.J. Cross

Niente di umano

Traduzione di

Annalisa Di Liddo

Titolo originale:

Art of Deception

Copyright © A.J. Cross 2013

All rights reserved

Quest’opera è frutto della fantasia dell’autore.

Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale.

http://narrativa.giunti.it

© 2014 Giunti Editore S.p.A.

Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia

Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia

Prima edizione: aprile 2014

Ristampa Anno

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Novembre 1993

Mi hanno colpito e fa così freddo che non riesco a essere lucido…

ho paura. Non vedo vie d’uscita. È strano… Mi ricordo di quando

ero piccolo, di tutte le volte che mi dicevi quanto fossi intelligente,

quanto fossi «sveglio». Se mi vedessi ora non diresti così. Sono qui

perché ho sentito qualcosa di spaventoso e poi ho agito in modo

veramente stupido. Forse è già da un po’ che ho perso la lucidità?

So che cosa sta per succedere. Deve succedere. Perché lui non mi

crederà, neanche se giuro. Perché parlerò. Qualcuno deve…

Mi sembra di aver sentito qualcosa… Sto cercando di mantenere la

calma. La mia mente continua a vagare… Chissà se i miei pensieri

arriveranno fino a te? Per quel nostro legame, sai. Spero che ti rag-

giungano, che capirai… Di’ che mi dispiace, lo farai? Di’ che volevo

esserci. Ci sarei stato, se avessi potuto.

Ho sentito qualcosa. Davvero.

Mamma, è finita.

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Fece un passo avanti, in silenzio, nella luce evanescente del pome-

riggio, guardando la sagoma solitaria alzare un braccio e puntare

due dita oltre l’acqua, verso le cornacchie dalle piume lucide e il

corvo dal becco largo. Vide gli uccelli alzarsi in volo al suono del

«Pam!» e proseguì senza fare rumore nonostante la corporatura

massiccia. Ormai era così vicino da riuscire quasi a toccare quella

schiena, riparata dalla giacca a vento grigio chiaro. Un altro passo

felpato e poi tese il braccio, afferrando la spalla. «Oh!»

La sagoma avvolta nel giaccone si girò di colpo sul terreno

fangoso. «Ma che fai, idiota di un ciccione?»

Sogghignando, Bradley Harper indicò qualcosa con il dito.

«Guarda là, Stuey. Guarda là!»

Stuey lo ignorò. L’ aveva già visto. Non c’era bisogno di guarda-

re di nuovo quel capanno squadrato, dal tetto basso, circondato

da alberi nodosi e ritorti. Era troppo intento a strofinare le suo-

le infangate delle scarpe sportive contro l’erba ruvida. «Mi sono

costate centocinquanta sterline, imbecille.» Indicò un arbusto lì

accanto. «Stacca qualche ramo sottile, così possiamo mettere delle

trappole.»

Di malavoglia, Harper lanciò un’occhiata all’arbusto. Conosce-

va bene la passione del suo compare per gli animali selvatici. E

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anche per quelli non troppo selvatici. A scuola gli insegnanti non

avevano ancora capito che cosa fosse successo ai tre porcellini d’In-

dia che una volta vivevano nel laboratorio di scienze, ma Harper lo

sapeva: avevano incontrato Stuey. Convinto che fosse importante,

continuò a puntare il dito. «È una di quelle casette per le vacanze.

La mamma mi ha detto che una volta c’erano delle grandi tenute

qui nei paraggi, prima che la zona diventasse una riserva naturale.

Probabilmente faceva parte di una di quelle proprietà.»

Ma Stuey se ne stava già andando: era un tipo volubile, e sentir

parlare di nuovo di quel capanno dall’aria spettrale lo aveva fatto

incupire ancora di più. E come se non bastasse, grosse gocce di

pioggia iniziarono a cadere all’improvviso. «Già. E tua madre è

una baldracca obesa e il tizio che sta con lei è un ladro e un ritar-

dato» gridò a Harper senza voltarsi.

«Non è… Dove vai adesso?»

«Vuoi che me ne stia qui al freddo sotto la pioggia? Me ne vado.

Se tu vuoi rimanere finché fa buio e non arriva qualche maniaco,

liberissimo.» Si voltò per rivolgergli un ghigno d’addio. «Magari

è proprio il tuo genere.»

Harper stava fissando la schiena di Stuey che si allontanava.

«È stato un sacco di tempo fa.»

Stuey accelerò, aumentando la distanza tra loro. «Che provino

ad avvicinarsi, e gli taglio le palle. Basta che…»

Harper smise di ascoltare, tanto erano cose già sentite. Piut-

tosto, osservando la giacca e le scarpe costose di Stuey, decise di

sfruttare la sua ben nota avidità. «Prova a pensarci, però» gridò.

«Lì dentro potrebbe esserci della roba interessante…» All’im-

provviso la pioggia aumentò fino a farsi torrenziale. Tirandosi

il cappuccio sui capelli biondi scarmigliati, Harper si voltò e si

mise a correre, incespicando sul terreno in salita che portava al

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capanno. Balzò sui gradini, verso la doppia porta, e afferrò le due

maniglie. Le strattonò avanti e indietro, poi si girò senza fiato. «È

chiuso! Dai! Vieni ad aiutarmi.»

Capanno o casa per le vacanze che fosse, era comunque un

riparo e Stuey stava già tornando sui suoi passi. Si inerpicò con

foga sul sentiero fino a raggiungere le porte, cui assestò una bella

spallata. Si sarebbero dovute aprire verso l’esterno, ma cedettero

con uno scricchiolio di cardini spalancandosi verso l’interno.

I due ragazzi entrarono in silenzio. Quando Harper aprì boc-

ca, emise una nuvoletta di vapore. «È fantastico, Stu. È asciutto.

Nessuno sa dove siamo e…»

Stuey gironzolò per la stanza, soffiandosi sulle mani. «Fa un

freddo cane e qui non c’è niente.» A giudicare dallo sguardo, do-

veva aver escogitato qualcosa. Si voltò. «Sai cos’è che ci vuole?»

«… No, che cosa?»

Sul viso incorniciato dai capelli scuri e ordinati apparve un

ghigno. Poi arrivarono le parole, lente, calcolate. «Un… bel…

fuocherello… caldo.»

Harper lanciò una rapida occhiata all’amico, quindi disse pia-

no: «Lascia stare, okay? Solo… calmati un po’, ecco. Lo so…».

«Taci, cazzo. Tu non sai niente.»

«Okay… okay» si arrese Harper in tono conciliante, alzando

le mani grassocce per allentare la tensione. Osservando Stuey che

vagava in cerca di qualcosa su cui sfogarsi, non ci mise molto a

capire che non avrebbe potuto frenarlo. «Ci fermiamo qui giusto

per un attimo, okay? Belli tranquilli. Ci facciamo un paio di siga-

rette e poi smetterà di piov… No, Stu, no!»

Una delle costose scarpe sportive di Stuey aprì uno squarcio

nel muro grigiastro. «Per fare un fuoco ci vuole la legna. Vedi? È

bella secca.»

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«Piantala, Stu. Io non…»

Stuey smise per un istante di accanirsi sulle assi e fissò il com-

pagno con fare truce. «Che cosa? Tu non… cosa?» All’improvviso

si scagliò su Harper e caddero a terra entrambi, due corpi che si

dibattevano. Il rumore secco del legno spezzato mise fine alla lotta.

Si tirarono su e si misero seduti, spostando lo sguardo sul pavimen-

to vicino alla parete. «Guarda che cosa hai fatto!» gracchiò Stuey.

Trattenendo il respiro, Harper guardò il buco che si era appena

aperto nel legno, proprio sotto al battiscopa malandato. Guardò

Stuey che si avvicinava e faceva leva su un ginocchio per afferrare

le assi del pavimento danneggiate e staccarle a strattoni. Ormai

Harper si sentiva stanco. Aveva freddo. Non voleva altri guai.

Ne aveva abbastanza di Stuey e voleva andarsene da quel posto.

Voleva tornare a casa. Una volta rientrato, avrebbe chiesto a sua

madre di fargli le patatine fritte. «Hai ragione. Andiamo. Sai una

cosa?» Si voltò indietro per lanciare un’occhiata alle finestre: si

stava facendo buio. «Mi è sembrato di sentire un rumore.»

Stuey era ancora affaccendato ad armeggiare con lo squarcio.

Faceva scorrere le dita lungo il legno scheggiato, mostrando quel-

la profonda concentrazione che sempre innervosiva Harper, o

chiunque si trovasse nelle immediate vicinanze. «Questa roba è

secca. Dai! Tiriamone via ancora un po’.» Afferrò un’altra asse

rotta, che stridette forte prima di spezzarsi del tutto. Schioccò le

dita. «Dammi quella torcia che ha fregato il tuo vecchio.»

Harper si tirò faticosamente in piedi. Aveva già capito che c’era-

no guai in vista. «No. Ha detto di non portarla fuori casa. Stasera

viene a trovare mia madre, quindi devo rimetterla a posto…»

Vide Stuey avvicinarsi, gli occhi azzurri impassibili, e sentì che la

piccola torcia gli veniva sfilata dalla tasca dei pantaloni. Sapeva

che opporre resistenza sarebbe stato del tutto inutile.

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Osservò il ragazzo tornare verso il buco, posare la torcia sul

pavimento e staccare altre assi. Sforzandosi di spezzarne una, che

scricchiolava forte, Stuey gli lanciò un’occhiataccia. «Mi aiuti o te

ne stai lì a bocca aperta?»

Di malavoglia, Harper si avvicinò, prese una delle assi e poi la

lasciò andare. «E se arriva qualcuno? E se…»

Stuey scosse la testa. «Sei proprio una mezzasega.»

Harper si lasciò spingere da parte e osservò Stuey afferrare

una delle assi più lunghe, che fece poi ricadere quasi all’istante.

«Merda!» Vide una piccola goccia rossa sul dito, prima che Stuey

se lo infilasse in bocca.

Nel giro di pochi minuti, anche senza l’aiuto di Harper, il buco

era ormai largo più di un metro. Harper guardò Stuey spostare i

listelli di legno rotto con un calcio e poi infilare la testa dentro la

voragine nera. Fece qualche passo in avanti cercando di distrarlo,

di attirarlo lontano da lì. «Che ne diresti di fare un salto al centro

ricreativo, Stu? Andiamo lì, ci facciamo quattro risate, una partita

a biliardo, facciamo un po’ di casino. Eh? Che ne dici?»

Sentì lo scatto attutito del pulsante della torcia, seguito dalla vo-

ce di Stuey. «C’è qualcosa… che riesco… quasi… a toccare…» La

frase fu troncata da un ansito improvviso, mentre Stuey arretrava

agitando selvaggiamente gambe e braccia, la torcia ancora stretta

in mano. Quindi si bloccò, gli occhi allucinati, il respiro affannato.

Harper guardò Stuey, poi il buco, poi di nuovo l’amico. «Che

cosa c’è? Che c’è lì dentro?» Incerto, osservò Stuey, pallido come

un cencio, asciugarsi la bocca con la manica e poi alzarsi svelto,

lasciando cadere a terra la torcia. Troppo lento di riflessi, Harper

la vide sbattere sul pavimento e rotolare via a velocità costante

verso il bordo irregolare delle assi rotte, dove traballò e poi scom-

parve. Si mosse troppo tardi. «Cavolo, sono morto. Quando mio

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padre…» Si voltò di scatto. «Dov’è che vai?». Rimase a guardare

Stuey precipitarsi fuori dalla porta e scomparire nella luce che

andava rapidamente scemando, mentre lo scalpiccio dei suoi piedi

si allontanava. Forse udì qualcos’altro? Aggrottò la fronte, con-

centrato, le orecchie tese. No. Niente. Solo silenzio.

Una volta scomparso Stuey, il capanno sul lago sembrava tran-

quillo. «Coniglio!» gridò Harper, sicuro che Stuey fosse ormai

lontano. Fece un tentativo incerto di sbirciare nello squarcio. Non

sarebbe stato facile carpirne i segreti… sempre che ve ne fossero.

Stuey stava semplicemente cercando di spaventarlo. Era una testa

di cazzo. Lo pensavano tutti, anche se non glielo dicevano mai in

faccia. Harper si mise in ginocchio e abbassò la testa, cercando di

scorgere qualcosa nell’oscurità. Stuey era un bugiardo. Non ci si

poteva fidare di quel che diceva. Era fuori di testa. E anche questo

lo pensavano tutti. Si tirò a sedere, con gli occhi ancora fissi sulla

voragine buia. La torcia di suo padre era lì dentro, da qualche

parte. Doveva riprenderla.

Si sdraiò e allungò un braccio, tastando lo spazio con le dita,

sfiorando qualcosa di liscio e morbido. Ruotò il polso, sentendo

una fitta ai tendini del braccio, e trovò il fusto sottile della torcia

sul fondo del buco. La afferrò, quasi stordito dal sollievo. Ora il

suo vecchio non avrebbe potuto sgridarlo. Doveva solo arrivare

a casa prima di lui.

Sollevò la torcia, esitante, poi premette il bottone. Il suono

smorzato dello scatto produsse un debole bagliore. Puntò il fascio

di luce verso il basso e lo seguì con gli occhi sul suolo irregolare

e coperto di sabbia, fino a illuminare un oggetto che brillò. Sen-

tendo salire l’eccitazione, osservò il piccolo…

Alzò la testa e guardò in direzione dell’ingresso. «Stuey?» Silen-

zio. Lo chiamò di nuovo, questa volta a voce più alta. «Sei tu, Stu?»

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Ancora silenzio. Gli tornò in mente quello che avevano detto sui

frequentatori notturni di quella zona. Harper reagì come faceva

sempre quando qualcosa lo turbava: chiuse una porta mentale

sull’argomento. Proprio mentre un’ombra scivolava oltre le fine-

stre, infilò di nuovo la testa nel buco, questa volta più in basso,

per puntare meglio la luce della torcia verso ciò che aveva visto.

Se fosse riuscito a prenderlo…

Poi schizzò in piedi, incespicando all’indietro proprio come

aveva fatto Stuey poco prima. Si fermò a distanza, con il cuo-

re che batteva all’impazzata. Ora sapeva che cosa aveva visto il

suo amico. In attesa che il sangue smettesse di martellargli nelle

orecchie, rimase a fissare la voragine nera, incerto se prendere

ciò che desiderava nonostante la paura. Magari valeva un bel po’

di soldi. Forse se lo sarebbe perfino tenuto. Ma per farlo doveva

tornare lì e infilare il braccio nel buco. Aggrottando le soprac-

ciglia, pensò alla volta in cui aveva accompagnato sua madre a

vedere la nonna. Si ricordò della mamma che, con un mazzo di

fiori in mano, lo cingeva spiegandogli che i morti non possono

fare male a nessuno.

Dando prova di una determinazione mai vista nei suoi sedici

anni di vita, Harper tornò sull’orlo dell’apertura, riaccese la torcia

quasi scarica e infilò la testa nel buco, distogliendo lo sguardo.

Non voleva rivedere quella cosa. Quando trovò ciò che stava cer-

cando, tese il braccio finché non riuscì a stringerlo tra le dita.

Si alzò in piedi, coperto di sudore, il respiro affannoso e irre-

golare. Premette l’oggetto piccolo e freddo contro il palmo della

mano, poi attraversò la stanza e si mise a sedere, la mano chiusa

a pugno, gli occhi fissi sul buco nero lì accanto. Bisognava dirlo a

qualcuno. La polizia. Corrugò la fronte. Non voleva altri guai. No.

Non l’avrebbe detto a nessuno. Mai. Non avrebbe detto neanche a

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Stuey che l’aveva visto. Aprì la mano e osservò l’oggetto alla luce

fioca della torcia. Lo ripulì dalla sabbia. Bello. Magari lo avrebbe

potuto portare a…

Si voltò di scatto. «Chi c’è?» sussurrò, gli occhi fissi sulla porta.

Doveva essere Stuey che era tornato indietro per dare un’altra

occhiata, o magari per prendersi proprio quello. Aprì la tasca in-

terna del parka e vi nascose l’oggetto, poi tirò su la zip e passò le

dita sulla stoffa del giaccone. Sentendosi più sicuro, chiamò di

nuovo l’amico, questa volta a voce più alta. «Che si fa, allora? Si

va al centro?»

I cardini rotti gemettero al passaggio di una folata d’aria fredda

e umidiccia. Harper si alzò in piedi, con gli occhi sbarrati, e co-

minciò a indietreggiare, sentendo la propria voce tremare, quasi

irriconoscibile: «Non ho fatto niente…».

Nei minuti che seguirono, i battiti d’ali, la nebbia, gli alberi e

le acque scure e placide del lago assorbirono ogni suono che uscì

dal capanno.

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«Qui, ragazzi!» L’ uomo col Barbour schioccò la lingua e si avvolse

su un braccio i guinzagli di cuoio intrecciato, in modo da poter

battere le mani. In risposta giunse solo qualche latrato attutito.

Dove diavolo erano andati a finire? L’ uomo sollevò la manica per

guardare l’ora: erano le sei e cinquanta del mattino. Il martedì era

sempre una giornata piena, al lavoro. Se voleva arrivare in ufficio

in orario, doveva tornare a casa, farsi una doccia, fare colazione

e uscire al più tardi alle otto e mezzo. Passò in rassegna l’area

circostante, gli occhi velati dal freddo intenso. Irritato, si diresse

verso i latrati, chiamando di nuovo: «Barney! Zac! Qui. Ora!».

Raggiunse il lago, dove temeva che li avrebbe trovati, anche se

sperava che non fosse così, perché non aveva tempo di asciugarli.

Ma non erano in acqua. Non si vedevano da nessuna parte. Tese

le orecchie. I latrati venivano dall’interno di una costruzione di

legno dall’altra parte del lago. Accelerò e si diresse verso il piccolo

edificio, chiedendosi come avessero fatto i cani a entrare. Mentre

si avvicinava esaminò le porte: una era mezza aperta ed entrambe

erano danneggiate. Salì le scale e spinse il battente. Inizialmente

la porta non cedette, ma con una seconda spinta l’uomo riuscì a

entrare.

Barney e Zac si erano fermati in un punto sul pavimento di

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legno, i corpi che fremevano, le lingue penzoloni, le code ritte.

L’ uomo si avvicinò, vedendo che saltellavano sulle zampe anterio-

ri. Riconobbe quel comportamento, sapeva che cosa significava:

profonda frustrazione. «Qui, ragazzi. Dai.» I cani rimasero dov’e-

rano. Posando un ginocchio a terra, l’uomo grattò e accarezzò il

dorso di Zac e il fianco di Barney. «Ehi, ehi, cosa state combinando

voi due? Che cosa vi ha fatto agitare tanto?»

Alzò lo sguardo sul punto del pavimento in cui mancavano

alcune assi. Immaginò che le zampate rabbiose dei cani le aves-

sero fatte saltare e cadere di sotto. Incuriosito, si chinò sul buco.

L’ eccitazione dei cani aumentò quando un’altra asse si staccò. Con

un dito, l’uomo sollevò un listello, che posò da una parte mentre

i cani guaivano e gli gironzolavano intorno.

Provò a guardare all’interno della piccola apertura, ma senza

riuscire a scorgere niente: era troppo buio. Raddrizzò la schiena

e infilò la mano in una delle tasche della giacca, ne estrasse una

torcia e si chinò in avanti per illuminare. Gli ci volle qualche se-

condo per capire che cosa stesse guardando. I cani uggiolavano e

gemevano. «Buoni… buoni, voi due. Va… va tutto bene» li tran-

quillizzò, anche se aveva capito che le cose, invece, non andavano

bene per niente.

Inspirando forte, spense la torcia e prese il cellulare. L’ opera-

trice rispose quasi subito. «Emergenze. Come posso aiutarla?»

«Pronto?»

«Servizi di emergenza. Come posso aiutarla?»

Fece calmare i cani e si passò una mano sulla fronte umida.

«Non direi proprio che si tratta di un’emergenza…»

La voce stanca dell’operatrice insisté: «Qual è il suo problema,

signore?».

«I miei cani…» Percepì l’impazienza dell’interlocutrice, la im-

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maginò stringere le labbra in un’espressione scocciata. Probabil-

mente era stufa di prendere chiamate di gente che segnalava gatti

rimasti bloccati su un albero. «Hanno trovato… credo… credo

che abbiano trovato un corpo.»

Lo sbattere della porta, seguito dall’incedere pesante del sovrin-

tendente capo Gander che entrava di gran fretta nella stanza,

catturò l’attenzione del sergente Bernard Watts. Sollevando le

sopracciglia e passandosi una mano tra i capelli, che andavano

ingrigendo, Bernie lanciò un’occhiata dall’altra parte del tavolo,

verso il tenente Joe Corrigan, il collega in trasferta da Boston,

Massachusetts, al quartier generale di Rose Road.

«Dov’è Kate?» Gander proseguì senza aspettare che gli rispon-

dessero. «Hanno trovato un corpo al Woodgate Country Park.

Vicino al lago.»

Bernie rivolse un’occhiata interrogativa al sovrintendente. «E

sarebbe per noi? Per l’Unità Delitti Insoluti?»

«Dai primi rapporti pare che sia lì da un po’. Potrebbe essere

collegato a uno dei vecchi casi insoluti registrati nel sistema. An-

date sul posto. Il medico legale e gli agenti della Scientifica sono

già lì. Fatevi dire cos’hanno scoperto.» Stava già per andarsene

quando si voltò con agilità sorprendente, puntando gli indici per

sottolineare il concetto. «Chiamate Kate. Se è disponibile voglio

che venga anche lei, subito.»

Bernie afferrò il telefono mentre la figura massiccia del sovrin-

tendente scompariva oltre la porta.

Quel primo giorno del primo trimestre del nuovo anno accade-

mico, Kate Hanson era immersa nella vasca da bagno. Il profumo

di una candela accesa lì vicino si era unito al vapore che saliva

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a grandi volute verso il soffitto. Immersa fino alle spalle, i folti

capelli rossi legati sulla nuca, Kate sollevò la spugna e osservò

l’acqua gocciolare giù, con ritmo ipnotico. Improvvisamente fu

investita dal ricordo di una telefonata di Kevin, il suo ex marito,

alle nove di sera della vigilia di Natale. Parlando di straordinari e

di un’imminente partenza per Parigi, Kevin si chiedeva se per caso

Kate non potesse cortesemente dare del denaro a Maisie da parte

sua. Con un sospiro, sul sottofondo degli annunci dell’aeroporto

e di una risata femminile smorzata, Kate aveva riattaccato, era

andata a prendere la borsa, aveva preso dei soldi, li aveva infilati

in un biglietto di auguri imitando la firma di Kevin e scrivendo

«con tanto affetto» e aveva sigillato il tutto in una busta indirizzata

alla figlia.

Ributtando la spugna in acqua, Kate fece un respiro profondo,

concentrandosi sulla giornata che l’attendeva: un tranquillo pas-

saggio al nuovo trimestre accademico, che sarebbe cominciato con

una mattinata di pratiche amministrative. La prima lezione non

sarebbe arrivata prima di… Rilassati. Anno nuovo, Kate nuova…

Tutte le mie responsabilità ben organizzate…

Qualcuno bussò con insistenza alla porta del bagno e le giunse

la voce di una delle sue tante responsabilità. «Mamma?»

… ben gestite, e al diavolo Kevin e le sue…

«Mamma!»

Kate si tirò a sedere, creando così un’ondata che finì per rove-

sciarsi sul pavimento. «Smettila di gridare, Maisie.»

«Telefono! È per te.»

Si immerse di nuovo nel tepore dell’acqua. «È troppo presto.

Chiunque sia, digli di richiamare.»

«È Bernie. Vuole parlarti. Ha detto che è importante.» Kate

sentì il rumore di due piedi che scalpicciavano via svelti.

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«Oh, santo…» Si alzò e agguantò un asciugamano. Vi si avvol-

se, uscì dalla vasca e si infilò le pantofole rosa che le aveva regalato

Maisie a Natale. Aprì la porta del bagno, attraversò il pianerottolo

e scese le scale per sollevare il ricevitore del telefono all’ingresso.

«Che c’è?»

«Buon anno, Doc!»

«Anche a te. Che cosa vuoi?»

«Hai da fare stamattina?» Kate alzò gli occhi al cielo e si strinse

addosso l’asciugamano, con la pelle d’oca. «Io e Corrigan stiamo

andando a ispezionare la scena di un crimine. Goosey ci vuole lì

tutti e tre.»

Kate si allarmò. «Vengo. Dov’è? Che cosa…»

«Il lago del Woodgate Country Park. Lo conosci?»

«Lo troverò. Che cosa sapete?»

«Niente, a parte il fatto che secondo Goosey si tratta di un cold

case.»

Una volta tornata in bagno, Kate si mise un velo di crema idra-

tante sul corpo, abbondando in particolar modo sui dieci centime-

tri di cicatrice – ormai in via di guarigione − che aveva sulla coscia,

ricordo di un contatto troppo ravvicinato con una recinzione di

filo spinato nel corso della precedente indagine dell’Unità delitti

insoluti. La cicatrice reagì con una contrazione dolorosa. Si passò

il pettine tra i capelli, ma dovette subito rinunciare e usare un

elastico per domare la folta chioma. Affrettandosi a tornare in

camera, tirò fuori dall’armadio un paio di caldi pantaloni di tweed

e un soprabito, sentendo nel frattempo qualcuno che saltellava

sul pianerottolo. «Maisie?» Nonostante i pochi dettagli ricevuti

nel corso della telefonata, si tolse gli stivali di pelle, li mise in un

sacchetto e poi si infilò un paio di stivali di gomma nera lucida.

«Maisie!»

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Maisie era sul pianerottolo, ancora in pigiama, seduta a gambe

incrociate sulla bassa cassapanca di legno, la ciotola dei cereali

in mano e le cuffie dell’iPod nelle orecchie, la testa che annuiva

a ritmo di musica sotto la massa caotica dei riccioli rosso scuro.

Kate le diede uno strattone.

«Ehi! Oh.»

«Ho fretta e tu a quest’ora dovresti essere già vestita.»

«Non ho potuto farlo perché sono dovuta correre a rispondere

alle tue telefonate e…»

Kate le indicò la camera e si allontanò parlando. «Ora chiamo

la madre di Chelsey e le dico che saremo da loro tra… sette minuti

al massimo.» Tra le aste in legno della balaustra, Maisie osservò

la madre scendere in fretta e furia. Posò la ciotola sul pavimento

e si avviò verso la sua camera a passo sciolto, mentre Mugger

attraversava di corsa il pianerottolo per leccare il latte avanzato.

Dopo appena dieci minuti che erano insieme nella piccola auto di

Kate, Maisie e la sua amica Chelsey avevano preso a comunicare

per squittii e gridolini, facendola innervosire. Colse l’occasione

per dare un’occhiata alla ragazzina seduta accanto a lei, che sem-

brava il ritratto della salute. L’ opposto di quando, l’anno prece-

dente, Chelsey era stata rapita dall’uomo ricercato da Kate e dai

colleghi dell’Udi. Harry Creed.

Tornò a concentrarsi. Se il traffico si fosse mantenuto scorre-

vole, avrebbe raggiunto i colleghi nel giro di venti minuti. Foca-

lizzando l’attenzione sulla strada davanti a sé, pensò al sergente

Bernard Watts, nato e cresciuto a Birmingham. Alto e imponente,

Bernie era uno che non le mandava a dire. A volte pure troppo.

Da accademica originaria del sud, la prima impressione che Kate

aveva avuto di lui era che fosse uno spaccone di prima categoria

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e l’emblema del politically incorrect. Ora invece vedeva in lui un

agente esperto e leale, anche se la sua ostilità nei confronti delle

teorie psicologiche le dava ancora fastidio.

Kate lasciò a scuola le ragazze prima di ricominciare a guidare

lungo Edgbaston Park Road. Oltrepassò la cancellata dell’ingresso

principale dell’università, la sua destinazione abituale, e lasciò che

i pensieri vagassero fino a soffermarsi sul tenente Joe Corrigan. Il

suo ruolo principale a Rose Road era quello di addestratore all’uso

delle armi da fuoco, un’indicazione evidente dei cambiamenti av-

venuti nei corpi di polizia inglesi negli ultimi dieci anni. Era alto

come Bernie, ma aveva i capelli scuri e poco più di quarant’anni.

Joe Corrigan. Il suo nome era quasi sinonimo di calma. Sorrise.

Non era stata esattamente «calma» la reazione delle donne che

lavoravano a Rose Road, quando si era presentato la prima volta.

Il traffico era rallentato e Kate picchiettò le dita sul volante,

impaziente di procedere. Accese il navigatore, indicando con voce

chiara e autorevole: «Woodgate Country Park».