alcune note su di un approccio economico ordinalista allo studio del

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1      RULES Research Unit Law and Economics Studies  Paper No. 20134 Forthcoming in Ars Interpretandi 2013/2     Alcune note su di un approccio economico ordinalista allo studio del diritto By Fabrizio Esposito    

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RULES Research Unit Law and Economics Studies

 

Paper No. 2013‐4 

Forthcoming in Ars Interpretandi 2013/2 

 

 

  

Alcune note su di un approccio economico ordinalista allo studio del

diritto

By 

Fabrizio Esposito 

 

 

 

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FABRIZIO ESPOSITO

Alcune note su di un approccio economico ordinalista allo studio del diritto

Abstract

The purpose of this essay is to outline the core structure of an ordinal economic approach to the study of law. This method does not measure individual preferences in terms of willingness to pay, nor does it assume the maximization of society’s well-being as its goal. Instead, it adopts an ordinal conception of utility, requires describing voluntary interactions in terms of market transactions and assumes the protection of consumer’s welfare as its goal. Hence, the analysis requires to individuate the failures of the market and to search for counteracting institutions in the legal system. In order to support this approach, it is argued that the maximization of consumer’s welfare finds a foundation in economic theory sounder than the maximization of society’s welfare and, also, that this criteria avoids to support contradictory thesis regarding the evaluation of market power. A discussion on the adoption system is used for comparing the traditional and the ordinal methods of economic analysis of law.

Keywords

Adoption; Competition; Efficiency; Posner; Utility

1. Introduzione

John Kenneth Galbraith nell’Addendum al proprio The New Industrial State osservò che «A molti

sembrerà sempre meglio avere un progresso misurabile verso gli obiettivi sbagliati piuttosto che un progresso non misurabile e quindi incerto verso quelli giusti»1. Nel presente scritto si sosterrà che tale considerazione, espressa da Galbraith con riferimento agli economisti, vale anche per l’analisi economica del diritto. In particolare, si forniranno alcune considerazioni volte a sostituire due tesi diffuse nelle teorie giuseconomiche: (i) la disponibilità a pagare è un’unità di misura del benessere adeguata e (ii) l'obiettivo alla luce del quale reinterpretare2 o valutare la prassi giuridica è la massimizzazione del benessere complessivo (o la minimizzazione dei costi sociali delle azioni individuali)3. Il metodo che si propone a tal fine prevede di descrivere un fenomeno sociale in termini di scambio tra un venditore e un compratore e indagare fino a che punto il sistema di regole che disciplina tale interazione possa essere, o meno, descritto come funzionale a disciplinare quel mercato in modo che gli scambi ivi eseguiti risultino simili a quelli che sarebbero avvenuti qualora il mercato fosse stato perfettamente concorrenziale.

                                                            1 J. K. Galbraith, 1972, 398-399. Il presente estratto, come tutti quelli ove non è diversamente precisato, sono tradotti dall’Autore. 2 P. Chiassoni, 1991, 105-109. 3 R. Coase, 1960.

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Tale metodo consente di adottare una concezione ordinalista dell’utilità, che si contrappone alla più diffusa concezione cardinalista; ogni concezione dell’utilità, sia essa ordinalista o cardinalista, serve a descrivere uno stato mentale o psicologico di piacere, benessere, felicità, associato al soddisfacimento di una preferenza4. Quello in cui le due concezioni divergono è il tipo di informazioni che si ritiene di poter acquisire sull’utilità percepita da un agente. Infatti, seguendo l’approccio ordinalista, si può solo sapere che un agente (Tim) preferisce X a Y ma non si può quantificare l’utilità attribuita a X o a Y, con la conseguenza che non la si può confrontare con l’utilità attribuita a X o a Y da un altro agente (Tom)5; in altri termini, «l’utilità di Tim e di Tom sono cose tra loro eterogenee ed incommensurabili: invero, si sarebbe potuto chiamare l’utilità di Tim “ananasso” e l’utilità di Tom “poltrona”»6. L’approccio cardinalista, invece, necessita di metodi per confrontare le intensità delle preferenze di diversi individui e si affida in particolare alla misurazione della disponibilità a pagare degli individui (questo metodo sarà oggetto di analisi nel paragrafo 6.). La relazione tra queste due concezioni dell’utilità è – non a caso – la stessa che esiste tra numeri ordinali (primo, secondo, ecc.) e numeri cardinali (uno, due, ecc.). Si pensi ad una gara, ad esempio una corsa: il corridore che impiega meno tempo arriva primo e gli altri si classificheranno secondo, terzo, e così via. Inoltre, il tempo impiegato a percorrere il tragitto viene misurato con una precisione che può raggiungere i centesimi di secondo; in altri termini, si conosce la quantità di tempo che i diversi atleti hanno impiegato per terminare la gara. Ciò consente di acquisire numerose informazioni, tra cui di quanto un atleta è stato più veloce di un altro o se è stato battuto qualche record (personale, nazionale, continentale, mondiale ecc.). In sintesi, quella tra ordinalismo e cardinalismo è una mera differenza rispetto alle informazioni che si ritiene di poter acquisire sulle preferenze individuali.

La differenza in commento tra le due concezioni dell’utilità si mostra però rilevante sul piano pratico, ove la concezione ordinalista, che non si fonda sul compimento di una qualche forma di analisi costi-benefici7, considera fuorviante tentare di determinare il benessere complessivo, in quanto ciò richiederebbe di sommare l’intensità delle preferenze di individui diversi, ovvero grandezze che – come detto – sono considerate tra loro incommensurabili nel momento in cui si adotta un approccio ordinalista. Sul punto, fu chiarissimo Pareto, il padre dell’approccio ordinalista, quando, nel Trattato di sociologia generale, osservò che «Se una collettività potesse considerarsi come una persona, avrebbe un massimo di ofelimità8 come l’ha tale persona», aggiungendo però che tale «massimo» non esiste in quanto le utilità individuali «non si

possono paragonare, perché sono quantità eterogenee»9 e, quindi, non si possono neppure sommare per determinare la quantità di benessere complessivo di un certo gruppo di individui10.

Alla luce di queste (e altre) considerazioni, si sosterrà che tutelare il benessere del consumatore e non il benessere complessivo sia l’obiettivo che consente di esprimere una preferenza per la concorrenza perfetta rispetto al monopolio. Conseguentemente, è alla luce di questo obiettivo che si tenterà di reinterpretare la prassi giuridica. Questa impostazione ha delle importanti conseguenze sul modo di accostarsi ai materiali giuridici con l’ausilio della teoria economica. Si consideri il seguente esempio: Tizio vuole vendere un libro ad almeno Euro 5,00 e Caio lo vuole pagare al massimo Euro 7,00. L’impostazione giuseconomica tradizionale sostiene che fintanto che il prezzo concordato è compreso tra Euro 5,00 e 7,00 lo scambio è desiderabile e funzionale a massimizzare il benessere complessivo 11. Diversamente, se si individua nella tutela di una certa classe di individui il desideratum da realizzare con la disciplina di un’interazione                                                             4 La disutilità, invece, indicare un’utilità negativa, ovvero, una circostanza dolorosa, uno stato di malessere, ecc. 5 N. Acocella, 2002, 34; C. Muscato, 2011, 27-32. 6 P. Chiassoni, 1992, 237. 7 V. Pareto, 1988, § 2130. Si vedano anche: P. Chiassoni, 1992, 236; K. Mathis, 2003, 40 (trad. ingl. 2009); M. Sechi, 2006, 277. 8 Pareto adoperava il termine ‘ofelimità’ attribuendogli lo stesso significato che viene normalmente ascritto al termine ‘utilità’: V. Pareto, 1988, §§ 2112-2113; V. Pareto, 2006, cap. 3, § 30. 9 V. Pareto, 1988, § 2030. 10 R. Dworkin, 1980, 201-205. 11 R. A. Posner, 1979, 130; R. A. Posner, 1985, 86; R. A. Posner, 2011, 17; R. Dworkin, 1980, 199-200; A. Kronman, 1980, 229-230; G. Calabresi, 1991, 1222; D. Friedman, 2000, 48-49 (trad. it. 2004).

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volontaria, la massimizzazione del benessere complessivo diventerà irrilevante, poiché diminuzioni di benessere dei soggetti tutelati non potranno essere giustificate in quanto funzionali alla massimizzazione del benessere complessivo. Ritornando all’esempio, tutelare il consumatore significa che non si è indifferenti a quale sia il prezzo dello scambio, ma si preferisce che lo scambio avvenga al prezzo di Euro 5,00. In questo caso, infatti, ambo le parti concordano nell’opportunità di realizzare lo scambio e la posizione del consumatore Caio risulta ottimale: Caio, infatti, eseguito lo scambio si trova ad essere dotato del libro, che valutava Euro 7,00 e di Euro 2,00 di surplus12, per un totale di Euro 9,00. Per qualunque altro prezzo, invece, Caio sarebbe stato dotato di un paniere di beni di minor valore: libro (Euro 7,00) e surplus inferiore a Euro 2,00. Ciò significa che all’interno della classe di transazioni che secondo l’approccio giuseconomico tradizionale sono ritenute ugualmente preferibili (i.e. le transazioni con cui Caio acquista il libro) l’approccio qui proposto individua un’unica soluzione ottimale e ordina tutte le altre soluzioni in base al grado di somiglianza a tale soluzione (ad esempio, un prezzo di Euro 5,50 è preferibile a un prezzo di Euro 6,00). In altri termini, l’approccio tradizionale è indifferente alla distribuzione del surplus tra i due agenti, Tizio e Caio; il che, però, è possibile soltanto muovendo dalla premessa secondo cui il benessere sia adeguatamente descritto dalla disponibilità a pagare degli agenti economici: solo in questo modo, infatti, si può essere indifferenti rispetto alla distribuzione del benessere (cfr., infra, parr. 5. e 6.).

Ecco allora che tra uso dell’utilità concepita in modo cardinale e misurata in forza della disponibilità a pagare degli individui, obiettivo di massimizzare il benessere complessivo e approccio giuseconomico tradizionale si viene a creare una connessione concettuale che si fonda sulla premessa che quanto qualcuno sia disposto a pagare per avere un bene (o farsi pagare per cedere un bene) è una misura adeguata dell’utilità che associa a tale bene, con la conseguenza che la distribuzione del surplus sia indifferente ai fini dell’obiettivo di massimizzare il benessere complessivo. Tuttavia, come si vedrà nel paragrafo 6., la disponibilità a pagare non rappresenta una misura del benessere individuale che consente di confrontare adeguatamente le preferenze individuali; ciò comporta che, rigettata la riduzione dell’utilità alla disponibilità a pagare, per massimizzare il benessere complessivo in uno scambio bisognerebbe conoscere la distribuzione di surplus tra i due agenti che consenta di massimizzare la somma dell’utilità che i due agenti attribuiscono alle diverse quantità di surplus. Il che significa ritornare al punto di partenza, ovvero alla difficoltà di quantificare il benessere individuale e aggregarlo per determinare il benessere complessivo (presupposto necessario, questo, per chiunque sia interessato a massimizzare il benessere complessivo).

L’approccio volto a tutelare il benessere del consumatore, invece, non necessita di indagare se l’utilità che il compratore attribuisce al surplus sia superiore o inferiore a quella che gli attribuisce il venditore: posto che l’obiettivo è massimizzare il benessere del consumatore, egli dovrà avere il bene e tutto il surplus disponibile (con cui potrà acquistare altri beni e soddisfare così altre preferenze), a nulla rilevando che – ammettendo per un attimo di poter confrontare adeguatamente le utilità associate da un individuo al soddisfacimento di una preferenza – una diversa distribuzione di surplus avrebbe potuto massimizzare il benessere complessivo. Conseguentemente, l’obiettivo di massimizzare il benessere dei consumatori consente di adottare una concezione ordinalista dell’utilità in quanto risultano irrilevanti i problemi di quantificazione connessi con l’obiettivo di massimizzare il benessere complessivo e che, per essere affrontati, necessitano di adottare una concezione cardinalista dell’utilità.

Sin d’ora pare opportuno compiere alcune precisazioni relative alle finalità della presente analisi e all’ambito di applicazione del metodo qui delineato. Rispetto al primo profilo, si intende sviluppare un approccio allo studio del diritto finalizzato a reinterpretare i materiali giuridici alla luce di concetti e criteri economici. Il che comporta che si è interessati non tanto alla desiderabilità delle prescrizioni ricavate mediante tale metodo, quanto piuttosto al grado di corrispondenza delle norme valide appartenenti a un                                                             12 Per surplus qui si intende, più precisamente, il surplus del consumatore, ovvero la differenza tra il prezzo pattuito e il prezzo massimo che il consumatore sarebbe stato disposto a pagare (prezzo di riserva del consumatore); per surplus del venditore si intende la differenza tra il prezzo pattuito e il prezzo minimo che il venditore sarebbe stato disposto ad accettare (prezzo di riserva del venditore); infine, per surplus complessivo si intende la differenza tra i prezzi di riserva di consumatore e venditore.

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sistema giuridico con quelle delineate ricorrendo all’analisi economica. In particolare, essendo oggetto di studio la regolazione giuridica dei fenomeni analizzati, la corrispondenza delle prescrizioni elaborate mediante l’analisi economica ad una qualche concezione morale non pare rilevante.

Con riferimento al campo di applicazione, a differenza dell’elaborazione standard dell’analisi economica del diritto, non si vuole presentare un approccio (astrattamente) applicabile a tutte le disposizioni di un ordinamento giuridico; come il modello economico da cui trae origine, infatti, l’approccio qui presentato è riferito unicamente alle ‘transazioni volontarie’, ovvero agli scambi volontari di ‘beni economici’. A ben vedere, neppure tutti gli aspetti della suddetta classe di interazioni possono essere analizzati in tale cornice concettuale, in quanto la teoria del mercato si interessa unicamente alle condizioni a cui avvengono gli scambi, restando indifferente rispetto ai criteri con cui le risorse sono inizialmente assegnate ai diversi agenti13. A tal proposito, si può «prevedere» che, attesa l’ampiezza semantica di ‘bene economico’, la cornice concettuale qui proposta possa essere applicata al di là di quello che verrebbe comunemente inteso come un ‘mercato’14. Infatti, nella teoria economica un bene è semplicemente tutto ciò che permette di realizzare i fini (o le preferenze) dell’agente15; conseguentemente, il consumatore è l’agente che, grazie al bene, può soddisfare una propria preferenza, il venditore è il soggetto che produce o, quantomeno, ha la disponibilità del bene e la transazione è l’accordo con cui il venditore trasferisce al consumatore la disponibilità del bene16.

2. Nel ‘mercato delle adozioni’ cosa si scambia? Iniziamo la trattazione dei temi delineati nel paragrafo precedente applicando il metodo qui proposto a

un’interazione che, a prima vista, potrebbe apparire lontana da una «logica di mercato». Tale analisi sarà anche l’occasione per confrontare un’analisi economica tradizionale con il presente approccio ordinalista. Per fare ciò, si commenterà17 un famoso articolo di Elizabeth Landes e Richard Posner, The Economics of the Baby Shortage18, con cui gli Autori dichiarano di voler compiere un'analisi economica della «regolamentazione dell’adozione dei bambini», un’interazione sociale dove «vi (sarebbero) dei potenziali

guadagni nel trasferire la custodia dei bambini a un nuovo insieme (set) di genitori»19. La trattazione di Posner e Landes può essere suddivisa in tre parti: prima parte, ove gli Autori giustificano l’identificazione delle cause dei problemi del sistema delle adozioni da cui muove la loro indagine; nella seconda parte, sono discusse possibili obiezioni alla proposta che formulano; infine, nella terza parte Posner e Landes delineano come attuare tale proposta di riforma e suggeriscono di testarla consentendo ad una o più agenzie di simulare una dinamica dei prezzi di mercato e «usare l’aumento di surplus generato dall’innalzamento delle tariffe per effettuare pagamenti in favore di donne incinte intenzionate ad abortire per indurle invece ad avere il bambino e darlo in adozione»20.

                                                            13 F. Knight, 1957, 81-82 (trad. it. 1960); G. Di Nardi, 1972, 57. 14 G. M. Hodgson, 1996, 104-105. Il più noto economista che ha esteso il campo di indagine del metodo economico è Gary Becker. Cigno, ad esempio, ha osservato che «nessuno ha fatto più di Gary Becker» nel mostrare come «Dal matrimonio al crimine, dall’allevamento dei figli alla discriminazione delle minoranze, dall’educazione alla tossicodipendenza è difficile trovare un aspetto dell’attività umana, non importa quanto lontano da quelli tradizionalmente considerati economici, che non contenga un problema di assegnazione di mezzi scarsi a fini alternativi e che non si presti, quindi, ad analisi economica» (A. Cigno, 1998, 9). 15 H. Johnson, 1958; M. Milgate, 2008. 16 Si è adoperato il termine ‘disponibilità’ in quanto ampio e giuridicamente a-tecnico, nonché tale da comprendere nel concetto di transazione tutti i vari istituti giuridici che consentono l’uso di beni (in senso economico) altrui. 17 Per un’analisi dell’articolo in commento contestualizzata in una più ampia riflessione sull’approccio di Posner ai materiali giuridici, si veda: P. Chiassoni, 1999. 18 E. Landes, R. A. Posner, 1978. 19 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 323. 20 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 347-348.

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Nell’impostare la propria analisi, i giuseconomisti di Chicago individuano nei genitori naturali i produttori, nei genitori adottivi i consumatori, e nei bambini i beni da scambiare, mentre le agenzie pubbliche – che sono «agenzie per la cura del benessere dei bambini»21 e «cercano di allocare i bambini solo

a genitori “adeguati” o amorevoli (caring)»22 – rivestono il ruolo di «principali fornitori di bambini per le

adozioni»23. Posner e Landes premettono a tale interpretazione economica del «mercato dei bambini» che gli

«Studiosi di adozioni concordano … sul fatto che vi è una penuria di bambini bianchi dati in adozione» e un «ammasso di bambini neri e di bambini che non sono più neonati (in particolare se sono mentalmente o fisicamente handicappati)»24 e teorizzano che «il sistema attuale … (abbia) creato la penuria di bambini» e contribuito all’ammasso di bambini neri, non più neonati e diversamente abili25. A detta degli Autori, infatti, la struttura del sistema delle adozioni avrebbe creato «una penuria di bambini (e, di conseguenza, un mercato nero) impedendo al libero mercato di equilibrare la domanda con l’offerta di bambini»26 e avrebbe altresì

«contribuito all’ammasso di bambini non adottati»27 in quanto «Atteso che i genitori naturali non hanno alcun incentivo economico a dare in adozione un bambino, spesso invece decideranno di lasciarlo in custodia»28.

In tale contesto, Posner e Landes suggeriscono di sperimentare «una regolazione meno ampia del mercato dei bambini»29, che consenta «a una o più agenzie di adozione» di «usare l’aumento di surplus

generato da … tariffe più alte», calibrate sulla disponibilità a pagare dei genitori adottivi, «per effettuare pagamenti in favore delle donne incinte che pensano di abortire per indurle, invece, ad avere il bambino e darlo in adozione»30.

L’analisi dei due giuseconomisti di Chicago, di seguito, verrà criticata su due piani distinti, ma connessi: il piano della relazione mezzi-fini e quello della validità giuridica della proposta di riforma legislativa.

Sotto il primo profilo, l’analisi di Posner e Landes si mostra viziata da una mancanza di coerenza tra la proposta (liberalizzare la vendita di bambini e adoperare l’aumento di entrate per convincere le donne in stato interessante a non abortire e dare in adozione il proprio figlio) e i due problemi del sistema delle adozioni indicati dagli Autori («penuria» di bambini di «prima qualità» e «ammasso» di bambini di

«seconda qualità»). Infatti, assegnare bambini in base alla disponibilità a pagare dei genitori consentirebbe di

aumentare l’offerta di bambini di «prima scelta» incentivando le donne che vogliono abortire a non farlo: in

questo modo si tutelerebbe l’interesse dei genitori adottivi ad avere dei figli di «prima qualità» migliorando altresì la condizione dei genitori naturali e di bambini che, altrimenti, non sarebbero mai nati; ma cosa succederebbe ai bambini di «seconda qualità» che sono già disponibili sul mercato? Si troverebbero a dover competere con una quantità superiore di bambini che sono più corrispondenti alle preferenze dei potenziali genitori adottivi31 e, di conseguenza, vedrebbero diminuire ulteriormente le proprie possibilità di essere adottati, in un contesto in cui sono gli stessi Posner e Landes a osservare che, già prima della riforma che

                                                            21 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 328. 22 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 342. 23 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 326. 24 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 324-325. 25 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 324 e 327. Così, anche M. E. Ertman, 2003, 43. 26 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 324. La tesi degli Autori si fonda sull’idea che nei mercati i prezzi aumentano (o diminuiscono) in caso di eccesso di domanda (o di offerta) eliminandon modo da eliminare così l’eccesso di domanda (o di offerta). 27 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 324. 28 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 338. 29 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 324. 30 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 348. 31 N. Duxbury, 1995, 684-685.

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propongono, vi è «un numero relativamente basso di potenziali genitori adottivi disposti ad adottare bambini

di un’altra razza, bambini che non sono più neonati, o bambini che hanno un handicap fisico o mentale»32. In sintesi, nonostante le asserite intenzioni degli Autori33, la loro analisi si rivela funzionale a risolvere

il solo problema della mancanza di bambini di «prima qualità», disinteressandosi però degli effetti derivanti

dal «potenziale eccesso di offerta di bambini più grandi o handicappati»34. Se la presente analisi è corretta, l’impostazione dei due giuseconomisti diviene fortemente

problematica sul piano della validità giuridica delle riforme che propongono: l’approccio di Posner e Landes, infatti, si pone in conflitto con le finalità della normativa di riferimento, volta a tutelare i bambini da adottare35, in quanto determina uno «spostamento del focus delle politiche sull’adozione dal miglior interesse del bambino al miglior interesse dell’adulto consumatore»36. Il che, dal punto di vista del diritto positivo, è evidentemente un grave limite dell’impostazione degli Autori, che non riesce a dare conto delle preferenze etico-politiche espresse dal sistema delle adozioni, il quale individua nel «miglior interesse del minore» il

principio che deve presiedere alla costruzione e regolazione del «mercato delle adozioni minorili». Tale limite dell’approccio di Posner e Landes, inoltre, è reso ancora più grave dal fatto che essi non esplicitano affatto il conflitto normativo che vanno a creare e non offrono argomenti circa l’opportunità di passare da una tutela dei bambini a una tutela dei genitori adottivi.

Delineati i limiti principali dell’analisi dei due giuseconomisti di Chicago, applichiamo alla fattispecie in esame il metodo ordinalista introdotto nel paragrafo precedente. Si tratta di considerare l’adozione come una transazione tra un compratore (il bambino) che acquista «servizi parentali» dai produttori degli stessi (i genitori adottivi). In questo modo, il fenomeno – conformemente alla finalità della normativa di riferimento – viene rappresentato in termini economici come una transazione di cui i bambini sono i beneficiari. Conseguentemente, in base alla cornice concettuale qui proposta, sono giustificati tutti quegli interventi finalizzati a fare in modo che i bambini acquistino servizi parentali grazie a scambi che imitino il mercato di concorrenza perfetta.

Si immagini, per un momento, come sarebbe questo diverso mercato qualora fosse perfettamente concorrenziale: avremmo un mercato ove, in assenza di costi transattivi, i venditori (i potenziali genitori adottivi) offrono beni omogenei (i servizi parentali) a consumatori (i bambini da adottare) perfettamente razionali e informati. Nel mondo reale, però, la situazione è molto diversa: i bambini soffrono di enormi limiti alla propria razionalità37 e non sono in grado – similmente a quanto avviene nel mercato dei bidoni di Akerlof 38 – di distinguere tra buoni genitori adottivi e cattivi genitori adottivi; pertanto, in questo mercato, vi sono alti (rectius, insuperabili) costi di transazione sotto il profilo dei costi di informazione e dei costi di negoziazione. Ecco allora che, in assenza di una regolazione, non vi sarebbero scambi, con la indesiderabile conseguenza che i bambini non verrebbero adottati. Si può allora spiegare l’esistenza di un sistema di agenzie governative in quanto funzionale a permettere alla domanda di confrontarsi con l’offerta a condizioni similari a quelle di concorrenza perfetta: le agenzie, infatti, si impegnano a ricercare potenziali genitori adottivi e verificare che essi possano essere considerati adeguati e amorevoli.

                                                            32 E. Landes, R. A. Posner, 1978, 327. 33 M. B. Dorff, K. K. Ferzan, 2009, 600. 34 M. F. Brinig, 1994, 556. Si veda anche J. M. Cohen, 1987, 109. 35 Sulla strumentalità delle adozioni alla tutela dell’interesse dei bambini nel sistema statunitense, si vedano: M. F. Brinig, 1994, 560; A. B. Carroll, 2011, 462; R. Carlson, 2011. Sul punto, si consideri in particolare l’osservazione di M. Garavaglia, 2002, 14, secondo cui l’analisi di Posner e Landes «non appare limitata a un sistema dove abbiamo bambini indesiderati o di cui non ci si può prendere cura, e ci interessiamo al loro miglior interesse “dopo il fatto” della loro nascita effettiva». 36 C. S. Silverman, 1989, 336. Si veda anche P. Schlag, 1989, ove si osserva che «Una delle conseguenze di descrivere il mercato in questo modo – come un mercato di bambini – è che le preferenze o interessi dei bambini diventano completamente subordinate a quelle del venditore volontario (la madre naturale) e degli acquirenti volontari ( i futuri genitori adottivi)». Per un’articolazione del pensiero di Posner sul punto, si veda R. A. Posner, 1987, 67. 37 H. L. A. Hart, 1994, 163; D. Canale, G. Tuzet, 2010, 205. 38 Si veda, l’analisi del modello del «mercato dei limoni» di cui al successivo paragrafo 4.

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Riassumendo, rispetto all’analisi di Posner e Landes, la presente interpretazione riesce a: (i) rispettare la finalità – premessa ma poi disattesa dagli stessi Autori – del sistema delle adozioni; (ii) spiegare perché l’«adozione … sia regolata così rigidamente anziché essere lasciata, come altre transazioni volontarie, al libero mercato»39; nonché, infine, a (iii) essere coerente con l’obiezione che sottolinea come «i bambini non

dovrebbero essere comprati e venduti»40 o che, in altri termini, non dovrebbero essere considerati una merce41.

A tal proposito, pare opportuno compiere una precisazione. Come anticipato, l’analisi di Posner e Landes è stata criticata sotto il profilo pratico e della validità, intesa come corrispondenza delle norme giuridiche alle finalità ascritte alla disciplina delle adozioni minorili nel diritto vigente considerato. Il fatto che, come appena visto, la proposta dei due Autori fosse considerata immorale, mentre l’impostazione che si è proposta pare immune a tal critica, è una circostanza che si è ritenuto opportuno segnalare nonostante non sia rilevante per le finalità della presente indagine. Ai fini della presente indagine, come detto, infatti non interessa il rapporto tra diritto e morale, sicché è rilevante il fatto che agire nel miglior interesse del minore sia la finalità del sistema giuridico delle adozioni, mentre la circostanza che tale modo di agire sia ritenuto moralmente desiderabile è un elemento meramente contingente. 3. Il problema economico del mercato e la sovranità del consumatore

Evidenziata la differenza tra l’approccio tradizionale e quello ordinalista che qui si presenta, tentiamo di giustificare la tesi secondo cui la tutela del benessere del consumatore e non del benessere complessivo è l’obiettivo in forza del quale il mercato perfettamente concorrenziale è considerato il migliore. Preliminarmente a tale giustificazione si affronteranno due questioni: la prima questione, relativa alle ragioni che consentono di individuare nella massimizzazione del benessere del consumatore una funzione svolta dai mercati perfettamente concorrenziali; la seconda questione, che verrà affrontata nel prossimo paragrafo, concerne alcuni temi relativi ai modelli e all’uso che ne viene fatto dagli economisti, che verranno discussi in quanto rappresentano un’opportuna premessa all’analisi del rapporto tra concorrenza perfetta, benessere dei consumatori e benessere complessivo che verrà svolta nel paragrafo 5.

Iniziamo l’iter argomentativo osservando che l’economia, generalmente, è intesa come la scienza che studia le azioni basate su decisioni relative agli usi alternativi di risorse scarse42, intendendo per scarsità la circostanza che «interessi e pretese confliggenti non possono essere soddisfatti contemporaneamente»43.

Ciò detto, individuiamo le risorse che entrano in gioco nel mercato. Questo non è un compito difficile, in quanto nel mercato avvengono scambi di un bene economico a fronte di un prezzo, sicché le risorse scarse sul mercato sono il bene e la moneta ceduta per averne la disponibilità44.

Di maggiore interesse, ai fini della presente ricerca, è la riflessione sui beni scarsi nel mercato di concorrenza perfetta. Infatti, ritenere che entrambe le risorse scambiate in un mercato perfettamente concorrenziale sono scarse sarebbe un errore: i beni scambiati non sono affatto scarsi, in quanto la loro quantità è determinata dall’incontro tra la curva della domanda – rappresentativa delle preferenze dei consumatori – e il prezzo concorrenziale che, in quanto funzione del costo marginale di produzione, non può essere modificato dai venditori e, quindi, nel modello è una costante45. A essere scarse, invece, sono le dotazioni dei consumatori, che questi cedono per massimizzare il proprio benessere mediante il

                                                            39 R. A. Posner, 1992, 411 (trad. it. 1995). 40 M. Sandel, 2012, 97 (trad. it. 2013). 41 Si veda, ad esempio, M. J. Radin, 1987, 1925-1928. 42 L. Robbins, 1945, 16. Secondo Backhouse e Medema, la definizione di Robbins è la più adoperata, anche se non ha mai ricevuto un consenso universale (R. E. Backhouse, S. G. Medema, 2008, 722). 43 W. J. Samuels, 1971, 440. 44 Sul punto, ad esempio, si vedano: R. Dorfman, 1967, 27-50 (trad. it. 1968); J. Harvey, 1969, 67-74. 45 Gli agenti economici, infatti, in concorrenza perfetta sono meri price takers.

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soddisfacimento delle proprie preferenze46 conformemente al seguente criterio: «l’individuo spende il proprio denaro in modo tale che l’utilità marginale della moneta produca la stessa quantità di soddisfazione in qualunque cosa venga spesa»47. La scarsità delle dotazioni dei consumatori, inoltre, deriva dal fatto che i produttori-venditori cercano di massimizzare il proprio profitto tentando di ottenere dal consumatore, in cambio dei beni messi in vendita, il prezzo più alto possibile. Ecco allora che il problema economico inerente il mercato di concorrenza perfetta viene risolto individuando nella massimizzazione del benessere che i consumatori godono mediante il consumo il criterio con cui risolvere il conflitto tra la massimizzazione del benessere dei consumatori e del profitto dei produttori-venditori.

Tale considerazione trova una serie di conferme nel pensiero economico: (i) nell’economia di mercato il consumo è considerato il «fine del processo economico»48, nel senso

che, come ha affermato Hicks, «l’intera attività economica … consiste in nient’altro che un’immensa cooperazione di lavoratori o produttori per fare cose e creare cose che i consumatori vogliono»49 in quanto «è solo con il consumo finale che l’intero processo economico acquisisce significato»50;

(ii) l’efficienza allocativa può essere intesa51 come «quella condizione che assicura la migliore allocazione delle risorse fra le diverse produzioni di beni e servizi che renderà massima l’utilità dei consumatori e la quantità prodotta»52;

(iii) Frank Knight (che – ironia della sorte – è uno dei padri fondatori della Scuola di Chicago53) qualificava il monopolio come «un’ingerenza sulla proprietà posseduta da altri o sulle loro stesse persone; una partecipazione cioè alla proprietà» 54.

La tesi qui sostenuta trova, infine, particolare forza nel concetto di sovranità del consumatore, espressione adoperata per indicare che «in una certa realtà la produzione è condizionata dal soddisfacimento di un assetto autonomo di bisogni dei consumatori, che risultano gli scopi finali dell’attività economica»55. La sovranità del consumatore, del resto, è stata qualificata come «il deus ex machina che risolve tutti i problemi di allocazione delle risorse: quali fattori produttivi sono impiegati, e come; per produrre quali beni e servizi, a quali prezzi venduti»56.

Alla luce delle considerazioni che precedono, lasciando per ora impregiudicata la questione relativa al rapporto tra benessere del consumatore e benessere complessivo, pare di poter concludere che nel pensiero economico sia ritenuto desiderabile tutelare il consumatore.

4. L’analisi di modelli economici mediante la statica comparata

                                                            46 Sulla teoria economica della scelta razionale si vedano: A. Sen, 2008; S. Hargraves-Heap, 2008. 47 I. M. D. Little, 1950, 24 (trad. it. 1976). Simili considerazioni sono offerte anche da J. K. Galbraith, 1972, 218-219. 48 C. Napoleoni, 1962, 10. L’Autore offre un excursus del pensiero economico evidenziando l’importanza del consumo nella teoria economica. Si veda anche A. De Strobel, 1970, 21-28. 49 J. H. Hicks, 1971, 17-18. 50 P. Campbell, 1949, 189. 51 Il tema non può essere approfondito in questa sede, ma si osserva che ‘efficienza allocativa’ viene anche considerata come sinonimo di ‘efficienza paretiana’ e intesa come situazione in cui nessuno può stare meglio senza far stare peggio qualcun altro: D. Begg, S. Fischer, R. Dornbusch, 2005, 268 (trad. it. 2008); R. S. Pindyck, D. L. Rubinfeld, 2006, 476; C. A. Bollino, W. D. Nordhaus, P. A. Samuleson, 2008, G8 (trad. it. 2009). 52 S. Alessandrini, F. Passarelli, 2004, 462. Per definizioni simili di efficienza allocativa, si vedano: A. De Strobel, 1970, 29; B. Salaniè, 1998, 2 (trad. ingl. 2000); D. Salvatore, 2003, 689 (trad. it. 2010); L. Campiglio, 1999, 34; C. De Vincenti, E. Saltari, R. Tilli, 2011, 212. 53 Su Frank Knight, si veda G. Stigler, 2008. 54 F. Knight, 1957, 175 (trad. it. 1960). 55 A. De Strobel, 1970, 39. Si vedano anche G. P. Penz, 1986, 10, il quale definisce la sovranità dei consumatori come «la massimizzazione del consumo in accordo con le preferenze dei consumatori» e B. Leoni, 1997, 114-121. 56 G. Vaciago, 2006, 823.

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Prima di commentare la spiegazione tradizionale delle ragioni per cui la concorrenza perfetta sia da preferire al monopolio è opportuno soffermarci sui modelli economici e, in particolare, sul metodo con cui vengono confrontati, specie nell’economia neoclassica.

Iniziamo con l’osservare che i modelli economici sono strumenti per rappresentare un fenomeno catturandone gli elementi essenziali alla luce della finalità con cui il modello viene elaborato57. Rispetto alla struttura dei modelli, da tempo, vi è un dibattito che si concentra sulla necessità (o meno) che gli assunti siano realistici. In questa sede, tuttavia, il dibattito non pare venire in rilievo, in quanto il criterio alternativo al realismo degli assunti è la capacità del modello di fornire predizioni accurate58. Tale criterio, infatti, non può essere adoperato nel momento in cui il modello viene usato con finalità normative poiché, in tal caso, il modello serve a giustificare delle conclusioni volte non tanto a indicare le cause di un particolare fenomeno59, quanto a orientare la condotta degli individui alla luce di un obiettivo da realizzare60. Si riconsideri per un momento il problema delle adozioni. Una delle critiche all’analisi di Posner e Landes è stata l’aver formulato una proposta che avrebbe aggravato uno dei due problemi del sistema delle adozioni di cui era stata riconosciuta l’esistenza. Tale critica, però, non si sarebbe potuta muovere qualora si fosse assunto che l’unico problema del sistema delle adozioni è la presenza di una penuria di bambini da adottare61. Questo è solo un esempio della pericolosità di adoperare delle premesse fattuali che non offrono una fedele descrizione della realtà nella costruzione di modelli normativi.

Dopo aver introdotto le questioni relative alla struttura dei modelli che sono rilevanti in questa sede, osserviamo come i modelli vengano adoperati per mezzo della c.d. ‘statica comparata’, ovvero un «metodo consistente nel comparare due situazioni di equilibrio62»63 al fine di osservare i valori assunti da alcune variabili e formulare delle congetture sulle ragioni che determinano tali differenze. Per vedere come viene adoperato questo metodo, si consideri il famoso articolo di George Akerlof The Market for «Lemons»: Quality Uncertainty and the Market Mechanism64. L’Autore studia gli effetti indesiderati delle variazioni di «qualità e (dell’)incertezza» nel mercato65, sottolineando come, tuttavia, esistano delle «istituzioni di contrasto (counteracting)»66 rispetto a tali effetti. Più precisamente, Akerlof sostiene che «Numerose istituzioni sorgono per contrastare gli effetti dell’incertezza sulla qualità”, tra cui, ad esempio, “garanzie … [e] marchi»67.

                                                            57 G. Myrdal, 1969, 8-9 (trad. it. 1973); D. M. Bailer-Jones, 1999, 23-39; W. J. Samuels, 2004, 357. 58 Sul punto, si veda P. D. McClelland, 1975, 136-143. 59 G. A. Akerlof, 1984, 3; J. H. Hicks, 1971, 247; F. Guala, 2006, 40-93. 60 Il premio Nobel William Sharpe, ad esempio, considera scelte di investimento basate su assunti irrealistici «Magical thinking» e «Bad economics»; W. F. Sharpe, 2012, 1. 61 Tale assunzione ricorre spesso nella letteratura successiva all’articolo commentato nel paragrafo 2. Si vedano, ad esempio: G. Minda, 1978, 446; D. Morgan, 1985, 1; B. K. Kopytoff, 1988, 241; D. J. Boudreaux, 1995, 118; M. Garavaglia, 2001, 11; A. B. Carroll, 2011, 444-445. Tale considerazione vale anche per le seguenti pubblicazioni di Richard Posner sull’argomento: R. A. Posner 1987; R. A. Posner, 1992, 407-420 (trad. it. 1995); R. A. Posner, 2011, 196-200. In R. A. Posner, 1987, 65, in particolare, l’Autore, dopo aver adombrato un certo scetticismo sull’effettiva presenza di «un tipo di bambini di cui non manca l’offerta», afferma che il «sistema attuale è, in ogni caso, un metodo per incoraggiare l’adozione dei bambini difficili da sistemare grandemente inefficiente nonché occultato». 62 ‘Equilibrio’ è un termine generalmente adoperato nella teoria economica per descrivere una situazione ‘stabile’, nel senso che se essa subisce un mutamento a causa di un qualche evento esterno, entrano in gioco forze interne alla situazione stessa che annullano gli effetti dell’interferenza esterna. Si vedano: R. Cooter, 1996, 56; V. Pareto, 2006, cap. 3, § 22; D. Salvatore, 2003, 59-60 e 855 (trad. it. 2010); R. Cooter, U. Mattei, P. G. Monateri, R. Pardolesi e T. Ulen, 2006(a), 27; D. Hendry, 2008, 13; M. Milgate, 2008, 12-14; R. A. Posner 2011, 10-11. 63 C. Bollino, M. L. Katz e H. S. Rosen, 2007, 54. Si vedano anche V. Pareto, 2006, cap. 3, § 11; J. Nachbar, 2008, 33-36. 64 G. A. Akerlof, 1970. 65 G. A. Akerlof, 1970, 488. 66 G. A. Akerlof, 1970, 488. 67 G. A. Akerlof, 1970, 499-500.

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L’argomentazione dell’Autore può essere riassunta come segue. Si immagini un mercato delle auto usate dove: (i) è possibile comprare una buona auto usata o un bidone (ovvero una cattiva auto usata)68, ma «non è possibile per un compratore individuare la differenza tra un’auto usata buona e un’auto usata cattiva»69; (ii) «la domanda … dipende principalmente dal … prezzo … e dalla qualità media» delle auto70. Dopo aver presentato tale modello, l’Autore ne costruisce uno differente, dove l’unica variazione è che le macchine sono tutte della stessa qualità71, e determina le condizioni di equilibrio di questo diverso mercato. Successivamente, Akerlof confronta le condizioni di equilibrio nei due modelli e conclude che nel secondo vi è un «aumento di utilità» rispetto al primo72. La ragione è semplice: posto che il prezzo nel mercato è funzione della qualità media delle auto, nel primo mercato i proprietari di auto di buona qualità inizieranno a ritirare i propri beni dal mercato, in quanto il prezzo di mercato non rispecchia il valore delle loro automobili, ma di auto di qualità inferiore. Questo, però, è solo l’inizio di un «meccanismo … inesorabile»73: a mano a mano che le auto di qualità superiore alla media vengono ritirate dal mercato, la qualità media e il prezzo diminuiranno e, così, altre auto verranno ritirate, fino a quando resteranno soltanto auto assolutamente invendibili e, quindi, non si realizzeranno scambi74.

In conclusione, l’Autore, grazie alla comparazione tra i due modelli, individua nell’asimmetria sulla qualità dei beni un ostacolo alla realizzazione di transazioni desiderabili e giustifica l’esistenza di una serie di istituzioni in quanto volte a «contrast(are) gli effetti dell’incertezza sulla qualità»75. 5. La concorrenza perfetta è preferibile al monopolio, ma il motivo è controverso

Nel presente paragrafo si adopera il metodo della statica comparata per confrontare i modelli di concorrenza perfetta e monopolio e indagare se la ragione per cui la concorrenza perfetta può essere considerata un meccanismo di allocazione delle risorse migliore del monopolio consista nella tutela del benessere del consumatore o, piuttosto, del benessere complessivo. Ciò è importante in quanto (ammettendo – pur con le riserve già evidenziate nell’introduzione – che abbia senso parlare di benessere complessivo) possono darsi situazioni in cui una condotta generi benefici in favore di qualcuno superiori ai costi inflitti ai consumatori. In tali situazioni, infatti, l’obiettivo di massimizzare il benessere complessivo richiederebbe di sacrificare l’interesse dei consumatori. Pertanto, sebbene l’aumento del benessere del consumatore possa spesso risultare compatibile con la finalità di massimizzare il benessere complessivo, a volte ciò non accade.

La circostanza che alla concorrenza perfetta sia attribuito un valore normativo è evidenziata dal fatto che sia ritenuto opportuno correggere i fallimenti del mercato quali, ad esempio, le asimmetrie informative, la razionalità limitata, le esternalità o una differenza di potere negoziale tra le parti76. Un esempio di ciò è offerto dall’analisi degli effetti delle asimmetrie informative sulla qualità dei beni offerta da Akerlof discussa nel paragrafo precedente.

Per una maggiore chiarezza espositiva, le differenze tra concorrenza perfetta e monopolio in un contesto statico77 saranno evidenziate per mezzo di un grafico.

                                                            68 Le auto usate di cattiva qualità, che in italiano vengono colloquialmente chiamate bidoni, in lingua inglese si chiamano lemons; da qui il nome dell’articolo di Akerlof. 69 G. A. Akerlof, 1970, 489. 70 G. A. Akerlof, 1970, 490. 71 G. A. Akerlof, 1970, 492. 72 G. A. Akerlof, 1970, 492. 73 F. Guala, 2006, 48. 74 G. A. Akerlof, 1970, 491. 75 G. A. Akerlof, 1970, 499. 76 Sul punto, si vedano: J. Ledyard, 2008, 300-304; N. Acocella 2002, 145-197. 77 Si definisce statico un mercato in cui non vi sono innovazioni di prodotto o processo né economie di scala. Evidentemente, questo assunto rappresenta una semplificazione in quanto, come si domanda retoricamente Stiglitz, «Si può credere davvero che si sono descritti bene i moderni paesi industrializzati se non si prende in considerazione la

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Nella Figura 1 sono stati sovrapposti due mercati, di cui il primo perfettamente concorrenziale e il

secondo monopolistico. Ciò consente di osservare, fermo il resto, gli effetti del potere del monopolista di influenzare i prezzi di mercato. Sull’asse delle ascisse è rappresentata la quantità di beni scambiati (Q) e sull’asse delle ordinate il prezzo (P), mentre la curva D rappresenta la domanda (che non varia a seconda della struttura del mercato). Nel mercato concorrenziale, il prezzo di scambio è pari al costo marginale di produzione del bene (Pc). Nel monopolio, invece, il prezzo di scambio è determinato dal monopolista in modo tale da massimizzare il proprio profitto (Pm). Tale condotta del monopolista genera un equilibrio di mercato con prezzi più alti e quantità scambiate più basse rispetto alla concorrenza perfetta. Gli effetti di questo diverso equilibrio su consumatori e produttori, nella Figura 1, sono individuati dal rettangolo denominato «denaro trasferito» e dal «triangolo di Harberger» 78. Ciò che questi due poligoni mostrano è, rispettivamente, uno spostamento di ricchezza dai consumatori al produttore e una perdita secca di benessere dovuta alla diminuzione del numero degli scambi. Pertanto, posto che l’aumento del potere di mercato del venditore non comporta altre conseguenze, è necessariamente in queste due differenze che andrà individuata la ragione per cui la concorrenza perfetta è ritenuta migliore del monopolio.

Iniziamo dalla giustificazione standard, commentandone una versione estremamente chiara nell’individuarne gli elementi costitutivi e i relativi limiti: «L’esercizio del potere di mercato da parte delle imprese rappresenta una causa di fallimento del mercato che suggerisce un intervento correttivo, nella forma di una politica di promozione della concorrenza, teso a ridurre l’inefficienza allocativa da esso determinata. Il tradizionale approccio è basato sul concetto di surplus del consumatore o sulla perdita di benessere dovuta al monopolio. Una riduzione di surplus deriva da due elementi distinti: i) il monopolista vende a un prezzo più alto, appropriandosi di una parte del surplus che i consumatori ricevevano in condizioni di concorrenza; ii) il monopolista vende una quantità minore di quella corrispondente all’eguaglianza tra prezzo e costo

                                                                                                                                                                                                     competizione tecnologica?» J. E. Stiglitz, 1991, 23. Ciò comporta che si possono venire a creare dei conflitti tra l’obiettivo di massimizzare il consumo di un certo prodotto e gli obiettivi di aumentare il benessere dei consumatori mediante innovazioni di prodotto, processo o economie di scala (A. Nicita, 2009, 398; A. Sarra, 2005, 508; A. Jacquemin, 2001, 450-451). Uno studio della problematica è offerto da M. Maggiolino, 2011. 78 Tale triangolo, che rappresenta la perdita secca di benessere, prende il nome dall’economista Arnold C. Harberger.

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marginale, in quanto eguaglia il costo marginale con il ricavo marginale. Mentre il primo elemento comporta un trasferimento dal consumatore al monopolista, il secondo elemento comporta una perdita secca di benessere (c.d. dead weight loss), dovuta all’inefficienza allocativa causata dal monopolio»79.

Questa spiegazione è piuttosto chiara nell’individuare le conseguenze del monopolio nella redistribuzione in favore del monopolista e nella perdita secca di benessere; tuttavia, mentre la perdita secca di benessere viene chiaramente indicata come un elemento negativo, la posizione rispetto alla redistribuzione è ambigua: prima sembra che essa determini una «riduzione di surplus», ma poi viene presentata come un mero «trasferimento», non «associato» – a differenza della perdita secca – «all’inefficienza allocativa causata dal monopolio». In generale, l’importanza della redistribuzione viene spesso trascurata nella comparazione tra concorrenza perfetta e monopolio. Secondo alcuni, infatti, l’unica cosa rilevante è il triangolo di Harberger 80, in quanto – come spiegano gli autori che ritengono necessario approfondire l’analisi – il trasferimento di surplus dal consumatore al produttore sarebbe socialmente neutro in quanto quello che il consumatore «perde è il guadagno del monopolista»81. Secondo altri, invece, lo spostamento di surplus dai consumatori ai produttori solleva «difficili questioni di equità», ma «non vi è ambiguità rispetto alla perdita nel surplus del consumatore» descritta dal triangolo di Harberger, che «è una pura perdita “secca”»82. Vi è, infine, chi offre una spiegazione puramente normativa della questione: «il profitto del monopolista non costituisce una perdita netta per la società nel suo complesso poiché rappresenta semplicemente una redistribuzione del reddito dai consumatori del bene al produttore monopolista. La redistribuzione è considerata “dannosa” solo per il fatto che la società valuta il benessere dei consumatori più importante di quello del monopolista»83. Sebbene gli atteggiamenti rispetto alla redistribuzione siano variegati, tutte queste analisi sono accomunate dall’assumere la disponibilità a pagare come unità di misura del benessere e dal concludere che il monopolio riduce il benessere complessivo a causa della perdita secca di scambi.

La situazione è diversa se il surplus è descritto mediante l’utilità. In tal caso, infatti, non si può affermare che la concorrenza perfetta sarebbe da preferire al monopolio in quanto non genera alcuna perdita secca di scambi e, al contempo, ritenere che l’obiettivo desiderabile sia quello di massimizzare il benessere complessivo. Ciò in quanto non si può escludere che il monopolista di turno non tragga dall’extra profitto di cui gode, rispetto al caso in cui il mercato sia perfettamente concorrenziale, un’utilità superiore a quella sottratta ai consumatori. In tal caso, infatti, il monopolio ben potrebbe massimizzare il benessere complessivo84.

Fermo ciò, quello che si può invece osservare è che nel mercato monopolistico, da un lato, il monopolista sta meglio perché la diminuzione di ricavi derivanti dalla contrazione delle quantità scambiate è ampiamente compensata dal trasferimento di surplus che riceve dai consumatori; dall’altro lato, i

                                                            79 A. Del Monte, R. Martina, 2005, 680. Sul punto, si osserva che lo stesso Harberger ha tenuto una posizione non chiara: da un lato, infatti, dichiara di essere interessato alle variazioni di benessere dei consumatori, ma poi si limita a tentare di elaborare una stima della perdita secca, per concludere ironicamente: «Tutto ciò che voglio dire qui è che il monopolio non sembra influenzare molto seriamente il benessere aggregato attraverso i suoi effetti sull’allocazione delle risorse. Lascio ai miei colleghi più inclinati verso la metafisica il compito di decidere ciò che fa attraverso i suoi effetti sulla distribuzione del reddito» (A. C. Harberger, 1954, 87). 80 B. Salaniè, 1998, 143-144 (trad. ingl. 2000); S. Alessandrini, F. Pascarelli, 2004, 181-182; R. S. Pindyck, D. L. Rubinfeld, 2006, 353; C. De Vincenti, E. Saltari, R. Tilli, 2011, 238. Anche i giuseconomisti condividono tale approccio; si vedano, ad esempio: E. Gellhorn, W. E. Kovacic, L. Calkins, 2004, 82; L. A. Franzoni, D. Marchesi, 2006, 25. 81 R. A. Posner, 1985, 88. Si vedano anche: N. G. Mankiw, 2004, 233 (trad. it. 2004); R. H. Frank, 2006, 383 (trad. it. 2007). 82 W. Nicholson, C. Snyder, 2008, 499. 83 D. Salvatore, 2003, 391-392 (trad. it. 2010). 84 Mankinw, non a caso, si chiede se «è possibile che il beneficio per il proprietario dell’impresa monopolista sia superiore al costo che impone ai consumatori, rendendo il monopolio desiderabile anche per la società nel suo complesso?» (N. G. Mankiw, 2004, 231; trad. it. 2004). Si tratta, a ben vedere, di una diversa versione del limite delle teorie utilitariste che Posner ha chiaramente rappresentato con il c.d. ‘utility monster’ (R. A. Posner, 1979, 116-117).

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consumatori stanno peggio a causa di entrambi gli effetti del monopolio: parte dei consumatori non riuscirà ad acquistare il bene e gli altri, invece, per acquistare i beni che desiderano in quel particolare mercato, saranno costretti ad impiegare una quantità di risorse superiore a quella che avrebbero dovuto impiegare in caso di concorrenza perfetta. Pare quindi di poter concludere che adoperare l’utilità come unità di misura del benessere mette in maggiore evidenza il fatto che, come osserva Stiglitz, «Senza competizione, il mercato fallisce … [perchè] i monopolisti sfrutteranno i consumatori [sia] producendo troppo poco, [sia] applicando prezzi troppo elevati»85.

In conclusione, pare che considerare il mercato perfettamente concorrenziale funzionale alla tutela del benessere del consumatore riesca a dare conto di tre elementi presenti nel pensiero economico: (i) alcuni economisti non ritengono che si possa misurare il benessere complessivo; (ii) la concorrenza perfetta è preferibile al monopolio; (iii) è desiderabile che i consumatori massimizzino il proprio benessere. 6. Perché misurare la disponibilità a pagare?

Nel presente paragrafo si cercherà, alla luce delle considerazioni svolte sinora, di comprendere la

funzione attribuita all’assunto della disponibilità a pagare nell’elaborazione giuseconomica. Iniziamo con l’osservare che la disponibilità a pagare è di particolare importanza per l’approccio

economico allo studio del diritto in quanto il criterio della c.d. wealth maximization, introdotto da Posner, e secondo cui le risorse dovrebbero essere ottenute da colui che è dotato della più alta disponibilità a pagare per averle 86, è spesso assimilato all’efficienza di Kaldor-Hicks 87. Pertanto, in considerazione del fatto che i giuseconomisti sono soliti adottare l’efficienza di Kaldor-Hicks come criterio per valutare se un cambiamento sia socialmente desiderabile, è evidente che – una volta assimilata la wealth maximization all’efficienza di Kaldor-Hicks – la disponibilità a pagare svolge un ruolo importante nelle valutazioni giuseconomiche 88.

Ciò detto, osserviamo come David Friedman spiega, nel libro Law’s Order, l’uso di tale unità di misura dell’intensità delle preferenze individuali. L’Autore afferma che Alfred Marshall avrebbe offerto una soluzione «migliore di ogni altra alternativa escogitata» per stabilire se «nei casi … in cui una norma risulta di beneficio per alcuni soggetti e danneggi invece altri … il risultato netto è una perdita o un guadagno» suggerendo proprio di misurare perdite e guadagni ricorrendo alla disponibilità a pagare degli individui 89. In altri termini, Friedman sostiene che gli economisti, da Marshall in poi, considerino la disponibilità a pagare come un’adeguata unità di misura delle preferenze.

La scelta di richiamare l’auctoritas di Alfred Marshall, però, non giustifica affatto l’uso della disponibilità a pagare come criterio di misurazione delle preferenze in indagini normative. Ciò in quanto, diversamente da quanto prospettato da Friedman, Marshall non aveva alcuna intenzione di adoperare la disponibilità a pagare per rispondere a un quesito simile a quello proposto da Friedman. Anzi, Marshall osservò – con una chiarezza che conferma l’attualità del pensiero di questo Autore – «che una gratificazione di uno scellino per un inglese, pot(rebbe) essere considerata equivalente ad una gratificazione di uno scellino per un altro. Ma ognuno saprebbe che questo sarebbe un modo di procedere ragionevole soltanto nell’ipotesi che i consumatori … appartenessero alla stessa classe di persone, e comprendessero genti di ogni genere di

                                                            85 J. Stigliz, 1991, 32. 86 R. A. Posner, 1985, 96. 87 J. Singer, 1988, 513; G. Minda, 1989, 605; P. Chiassoni, 1990, 136; T. Cotter, 1996, 2100-2101; R. A. Posner, 2011, 17. Con efficienza di Kaldor-Hicks, solitamente, si intende un cambiamento in cui i soggetti danneggiati possono essere integralmente risarciti dai soggetti che hanno goduto di benefici da tale cambiamento e questi ultimi starebbero comunque meglio rispetto alla situazione precedente al cambiamento (per questo motivo, tale criterio di efficienza è chiamato anche principio di compensazione o efficienza Pareto potenziale). 88 F. Parisi, 2013, 317-320. 89 D. Friedman, 2000, 45-46 (trad. it. 2004).

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temperamento» e precisa, in una nota di commento, che siccome è «possibile immaginare che vi siano persone di grande sensibilità … se ciò fosse, se ne dovrebbe tener conto separatamente prima di applicare i risultati dell’analisi economica ai problemi pratici dell’etica o della politica» 90. Ed infatti, come ha commentato Hicks, «è impossibile arrivare a un aggregato senza “soppesare” le parti che lo compongono; e in questo caso non vi è alcuna ragione rilevante per scegliere un sistema di ponderazione piuttosto che un altro»91.

La posizione di Marshall e Hicks si fonda su di un argomento di carattere metodologico ampiamente diffuso nella teoria economica, ovvero che non si possano effettuare in maniera adeguata comparazioni interpersonali di utilità92, e porta a concludere che la disponibilità a pagare è uno strumento inadeguato per misurare i benefici e i costi di un’azione. Più precisamente, la «grande sensibilità» a cui si riferisce Marshall è la causa di ciò a cui oggi ci si riferisce usualmente con l’espressione ‘wealth effect’, con cui si sottolinea la circostanza che mediante il confronto tra le rispettive disponibilità a pagare, a parità di «sensibilità», le preferenze del ricco verranno rappresentate come aventi una maggiore intensità rispetto a quelle del meno ricco93. Posner ci offre un lucido esempio del wealth effect. Si immagini di dover decidere a chi assegnare un estratto di ipofisi tra «due offerenti: una famiglia povera il cui figlio diventerà un nano a meno che non ottenga l’estratto [di ipofisi]; il secondo è un ricco dilettante che vuole usare l’estratto per far crescere un gerbillo gigante. Il dilettante è il maggior offerente»94. Risulta chiaro, infatti, che in questa situazione è ragionevole presumere che la famiglia povera attribuisca un’utilità maggiore all’estratto di ipofisi rispetto al ricco, ma tale maggior intensità psicologica risulta celata dalla disparità di mezzi materiali. Il presente esempio consente di evidenziare due aspetti di un’impostazione fondata sulla massimizzazione del benessere misurato in termini di disponibilità a pagare. Il primo è che assegnare una risorsa in base alla disponibilità a pagare (e quindi conformemente al criterio della wealth maximization) può portare ad allocazioni che non massimizzano l’utilità complessiva. Il secondo è che tale criterio si occupa di un conflitto economico dove le parti ad avanzare pretese contrapposte sono due (o più) consumatori95, che viene risolto assegnando le risorse a chi le valuta di più; tuttavia – come visto nel paragrafo 3. – nel mercato di concorrenza perfetta la quantità di beni acquistabili non è scarsa, mentre ad essere scarse sono le risorse dei consumatori. In altri termini, l’assegnazione di un bene al maggior offerte è un criterio irrilevante quando ci si occupa, come in questa sede, dei problemi relativi ai rapporti tra produttori e consumatori e non a quello relativo ai rapporti tra consumatori.

Diversamente da Friedman, Posner ha tentato di offrire una giustificazione normativa dell’uso della disponibilità a pagare come unità di misura del benessere nell’articolo Utilitarianism, Economics, and Legal Theory96. L’eminente esponente della Scuola di Chicago, infatti, ha esplicitato il carattere normativo di tale

                                                            90 A. Marshall, 1920, 224-225 (trad. it. 1972). 91 J. H. Hicks, 1939, 700. Per una trattazione matematica del rapporto tra disponibilità a pagare e utilità, si veda: L. A. Boland, 1996, 22-23. 92 Sul punto, si vedano T. Scitovszky, 1941, 79-80; G. Myrdal, 1953, 123-129 (trad. it. 1981). Si osserva come Pareto, nel Trattato di sociologia generale, arrivò a considerare estranei al campo della teoria economica i movimenti con cui «si nuoce necessariamente ad altri», poiché quando è necessario compiere tali movimenti «occorre, per fermarsi, o per proseguire, ricorrere ad altre considerazioni, estranee all’economia, cioè occorre decidere, mediante considerazioni di utilità sociale, etiche, od altre qualsiasi, a quali individui conviene giovare, sacrificando altri. Sotto l’aspetto esclusivamente economico … conviene che si fermi» (V. Pareto, 1988, §§ 2128-2129). 93 J. L. Coleman, 1984, 661-662. Balkin, ad esempio, per tale ragione, definisce la wealth maximization il «cugino bastardo» dell’utilità (J. M. Balkin, 1987, 1475). Sul punto, si vedano i pregevoli tentativi di R. Zerbe, 2001 e S. Shavell, L. Kaplow, 2002 che sono accomunati dalla modifica del massimando rispetto alla tradizionale impostazione posneriana. 94 R. A. Posner, 1985, 96. 95 Lo stesso è accaduto anche nel caso del mercato delle adozioni: muovendo dalla premessa che vi erano dei consumatori insoddisfatti (cosa che in concorrenza perfetta non sarebbe avvenuta), il ragionamento degli Autori era volto ad assegnare i bambini (i.e. le risorse scarse) a chi era disposto a pagare di più per averli; anche in questo caso, quindi, Posner e Landes erano interessati ad un conflitto tra consumatori e non ad un conflitto tra consumatori e produttori. 96 R. A. Posner, 1979.

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uso affermando che «l’economista, quando fa discorsi normativi, tende a definire il bene, il giusto o l’equo coma la massimizzazione del “benessere” in un senso indistinguibile dal concetto utilitarista di utilità o felicità. … Tuttavia, per le mie finalità normative, voglio definire il massimando in maniera più ristretta, … come “ricchezza”»97. Non interessa in questa sede approfondire le ragioni secondo cui il criterio della wealth maximization rappresenterebbe un principio che «concilia, con elegante semplicità, gli impulsi della nostra natura morale che sono in competizione»98 e rappresenterebbe un buon criterio di scelta sociale. In questa sede, infatti, è sufficiente osservare che Posner si è (consapevolmente) allontanato dagli standard valutativi diffusi tra gli economisti99. Con tale scelta, Posner ha mostrato di non considerare la disponibilità a pagare come un mero dato empirico, ovvero un «indice» o «indicatore» da cui inferire delle considerazioni sui livelli di utilità determinati dalle diverse allocazioni delle risorse. Se così fosse stato, infatti, qualora – come nel caso dell’estratto di ipofisi – informazioni ulteriori (ad esempio sulla ricchezza degli offerenti o sugli usi della risorsa da assegnare) avessero messo in dubbio la funzionalità, rispetto alla finalità di massimizzare il benessere complessivo, di decidere a chi assegnare un bene in base all’intensità delle preferenze espressa mediante l’indicazione della disponibilità a pagare per averle, tale criterio di scelta avrebbe dovuto essere abbandonato o, quantomeno, affiancato da argomenti ulteriori al mero confronto delle preferenze rivelate dalla disponibilità a pagare di più o di meno per avere qualcosa.

Riassumendo: nella teoria economica la disponibilità a pagare è considerata, già a livello teorico100, un metodo inadeguato per descrivere e comparare l’intensità delle preferenze di individui diversi, ragion per cui, autorevoli economisti che si sono occupati espressamente della questione, lo hanno considerato un massimando che non consente, di per sé, di giustificare una decisione normativa. Pertanto, adoperare la disponibilità a pagare a tal fine significa allontanarsi dall’approccio tipico della c.d. «economia politica».

Pare di poter chiarire tale risultato alla luce della distinzione tra guida diretta e guida indiretta al comportamento che differenzia il linguaggio descrittivo dal linguaggio prescrittivo101. Applicando tale dicotomia al caso di specie, si può affermare che la disponibilità a pagare guidi direttamente il comportamento se si conviene che «si devono misurare i benefici e i costi di un’azione in termini di disponibilità a pagare» e indirettamente se, invece, si ritiene che «si devono misurare i benefici e i costi di un’azione in termini di utilità e la disponibilità a pagare, a tal fine, è uno strumento di misura accurato».

Alla luce di tali considerazioni, si ritiene di poter sintetizzare i risultati dell’analisi sulla disponibilità a pagare come segue: (i) gli economisti, tendenzialmente, rigettano la disponibilità a pagare come criterio di guida diretta, ma hanno atteggiamenti contrastanti sul piano della guida indiretta; (ii) Friedman accetta tale criterio come guida indiretta in ragione di un’incomprensione del pensiero di Marshall; (iii) Posner, invece, considera la disponibilità a pagare una guida diretta, adottata per le proprie finalità, allontanandosi così dall’approccio economico al problema in questione.

Nel prossimo paragrafo si sosterrà che, con riferimento alle transazioni volontarie, la disponibilità a pagare non può essere adoperata come criterio di guida diretta a meno di rinunciare a ritenere che gli effetti sul benessere del monopolio gli rendano preferibile la concorrenza perfetta.

                                                            97 R. A. Posner, 1979, 119 (corsivo aggiunto). 98 R. A. Posner, 1979, 136. 99 Occorre però segnalare che, successivamente, Posner ha sostenuto una tesi simile a quella di Friedman, avendo osservato che «Il rifiuto degli economisti moderni di compiere “comparazioni interpersonali di utilità” significa di fatto che usano la ricchezza piuttosto della felicità come criterio per un’efficiente allocazione delle risorse» (R. A. Posner, 1985, 88, corsivo aggiunto). 100 Non sono state oggetto di analisi, infatti, le difficoltà pratiche connesse alla misurazione della disponibilità a pagare. A mero titolo di esempio, si osserva che già nel 1964 Becker, De Groot e Marschark abbiano mostrato come sia insoddisfacente chiedere a un agente la propria disponibilità a pagare per ottenere un bene, dato che in tali situazioni l’agente cercherà comunque di ragionare in maniera tale da garantirsi un certo livello di surplus e, quindi, darà una rappresentazione sottostimata della propria disponibilità a pagare. Sul punto, si veda G. Harrison, 2008, 582. 101 Sul punto, il rinvio è d’obbligo a U. Scarpelli, 1959, 42-52.

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7. In particolare: lo scambio non è desiderabile se una parte gode di potere di mercato; ma anche si? In questo paragrafo vediamo come adoperare la disponibilità a pagare per descrivere le preferenze

individuali porti i giuseconomisti a sostenere tesi che si pongono in contrasto con l’idea che il mercato perfettamente concorrenziale sia da preferire al monopolio.

Come visto nel paragrafo 5., la concorrenza perfetta è preferita al monopolio in ragione degli effetti sul benessere del potere di mercato. Conclusione, questa, a cui, come visto, si giunge a prescindere dall’unità di misura del benessere che si adotta.

Tuttavia, come visto nel paragrafo 1., nelle analisi giuseconomiche si sostiene che è irrilevante quale sia il prezzo a cui le parti si accordano per realizzare uno scambio. Ciò in quanto, fintanto che il prezzo è compreso tra i prezzi di riserva delle parti stesse, lo scambio è idoneo a far star meglio entrambi senza fare star peggio nessun altro e, quindi, aumenta il benessere complessivo. Tale tesi, però, come mostrano le Figure 2 e 3, implica un giudizio non negativo rispetto al potere di mercato, nonostante il potere di mercato sia, nei mercati monopolistici, la causa dell’innalzamento dei prezzi al di sopra di quello concorrenziale.

Nella Figura 2.1 è riproposto il tipico grafico che rappresenta un mercato perfettamente competitivo,

ove, in particolare, il prezzo di mercato (Pc) è pari al costo marginale di produzione dei beni. Nella Figura 2.2 è rappresentato, per mezzo di un segmento AB, l’insieme dei punti compresi tra il prezzo di riserva del venditore Sempronio (punto A) e il prezzo di riserva del consumatore Mevio (punto B). Il punto T rappresenta, invece, il prezzo convenuto dalle parti come corrispettivo per il bene e, pertanto, i segmenti AT e TB sono, rispettivamente, la rappresentazione del surplus del venditore Sempronio e del consumatore Mevio.

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Nella Figura 3 sono state sovrapposte le Figure 2.1 e 2.2 al fine di collocare lo scambio concluso tra A

e B all’interno del mercato rappresentato nella Figura 2.1. Posto che tutti i venditori in concorrenza perfetta non hanno interesse a vendere a meno del costo marginale e non sono in grado di vendere a un prezzo superiore al prezzo di mercato, il prezzo di riserva del venditore Sempronio coincide con il prezzo competitivo, mentre il punto B è collocato sulla curva di domanda, dato che indica il prezzo di riserva (o disponibilità a pagare) del compratore Mevio.

Come si evince dalla Figura 3, se tutti gli scambi nel mercato si fossero realizzati al prezzo T, il risultato sarebbe stato omologo a quello del monopolio, ovvero l'effetto della presenza di un forte potere di mercato. Delle due l’una: o si sostiene che i mercati concorrenziali sono desiderabili, o si sostiene che uno scambio in cui si conviene un qualsiasi prezzo inferiore al prezzo di riserva del consumatore è desiderabile. Nel sostenere entrambe le tesi si cade inevitabilmente in contraddizione.

Tali considerazioni possono essere estese all’analisi di altri istituti giuridici ritenuti funzionali a contrastare il potere di mercato di un agente economico.

Iniziamo dall’istituto dell’unconscionability, che si applica a «Contratti che contengono clausole oppressive o prezzi esorbitanti … quando termini più equi o prezzi più bassi sarebbero stati concordati qualora le trattative fossero state più adeguate»102 e, in particolare, qualora non fossero state il frutto del potere di mercato di una delle parti103.

Seguendo la stessa linea argomentativa che un giuseconomista tradizionale avrebbe adottato con riferimento al prezzo, si potrebbe sostenere che questi scambi dovrebbero essere eseguiti in quanto, se le parti li hanno voluti, sono tali da migliorare la condizione di entrambi i contraenti e, pertanto, dovrebbero essere tutelati. In effetti, Pincione, ad esempio, argomenta proprio in questo senso104, per concludere che dovrebbe essere «esclusa l’invalidazione dei contratti per ragioni differenti dalle classiche difese di fraud, mistake, duress e necessity»105.

                                                            102 W. Z. Hirsch, 1999, 129. Si veda anche L. A. Kornhauser, 1976. 103 Si vedano i casi Williams v. Walker-Thomas e Jones v. Star Credit riportati da W. Z. Hirsch, 1999, 130-131. La prima decisione, richiamata dalla seconda, sancisce che «quando una parte con limitato potere negoziale, e quindi limitata scelta effettiva, stipula un contratto commercialmente irragionevole con poca o alcuna conoscenza delle sue clausole, è difficilmente plausibile che il suo consento, o anche una manifestazione oggettiva del suo consenso, sia mai stata data a tutte le clausole». 104 G. Pincione, 2009, 214. 105 G. Pincione, 2009, 214.

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Anche in questo caso, però, per le stesse ragioni appena viste con riferimento al prezzo a cui avviene lo scambio, si cade in contraddizione: uno scambio concluso in presenza di potere di mercato, sebbene faccia stare meglio entrambe le parti, resta frutto di un fallimento di mercato.

Tale conclusione, del resto, trova conferma nella trattazione giuseconomica dell’istituto della duress 106, un rimedio a tutela di una parte che si trova a subire una minaccia che la lascia senza «alternative ragionevoli» (Section 175 del Restatement (Second) of Contracts)107. Anche in questo caso, infatti, una parte subisce il potere dell’altra di influenzare le proprie decisioni di stipulare un contratto108. Ecco allora che, come osserva Harrison, «il processo definitorio di duress [e unconscionability] è … volto a determinare quali decisioni che raggiungono risultati Pareto superiori sono legittime e quali invece sono il risultato di pressione illegittima»109 (i.e. di un potere di mercato).

Sintetizzando le risultanze dell’analisi svolta, a differenza dell’approccio ordinalista, l’approccio giuseconomico volto a massimizzare il benessere complessivo, misurato in termini di disponibilità a pagare, comporta l’espressione di giudizi contraddittori rispetto a scambi influenzati dal potere di mercato del venditore. 8. Alcune considerazioni conclusive

Giunti al termine delle presenti «note», pare opportuno riepilogare i risultanti raggiunti e compiere

alcune considerazioni conclusive. Nel corso dell’analisi, si sono confrontati due obiettivi che possono essere posti a fondamento di

politiche di regolazione degli scambi volontari. Inoltre, si è evidenziato come l’obiettivo di massimizzare il benessere complessivo richieda necessariamente di adottare una qualche forma di concezione cardinalista dell’utilità, se del caso anche mediante approssimazioni, mentre l’obiettivo di massimizzare il benessere del consumatore, invece, possa essere perseguito anche limitandosi ad adottare una concezione ordinalista dell’utilità. Come anticipato nel paragrafo 1. e mostrato dalla discussione relativa al mercato delle adozioni, infatti, un’analisi economica ordinalista delle transazioni volontarie si differenzia rispetto alla tradizionale impostazione della Law & Economics in quanto non si interessa a quale regola permette di massimizzare il benessere sociale (o di sfornare la torta più grande) ma, bensì, richiede di rappresentare il fenomeno sociale in termini di transazione funzionale a risolvere il conflitto tra consumatore e produttore-venditore in favore del consumatore. Per compiere tale operazione è necessario esprimere (e giustificare) una preferenza in favore di una delle classi di individui che partecipa all’interazione (che verrà qualificato come consumatore) e tale preferenza non può essere celata dietro il velo del benessere sociale. I criteri per guidare tale scelta, quindi, sono un aspetto che richiederà futuri approfondimenti.

A proposito della struttura di un’analisi ordinalista delle transazioni volontarie, il commento dell’articolo di Posner e Landes ha suggerito che un modo per procedere in tal senso consiste in (i) individuare, mediante le tradizionali tecniche ermeneutiche, le finalità attribuite dal legislatore e dalla giurisprudenza alla disciplina giuridica di un’interazione; (ii) verificare se è possibile rappresentare l’interazione in termini di transazione volontaria di un bene economico; (iii) individuare chi sia il

                                                            106 Come visto, proprio secondo Pincione, la duress è una delle poche difese che giustificano l’invalidazione di un contratto. 107 Con riferimento al diritto italiano, si osserva che similmente l’istituto della rescissione per stato di pericolo, secondo cui «Il contratto con cui una parte ha assunto obbligazioni a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvaguardare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, può essere rescisso sulla domanda della parte che si è obbligata» (art. 1447, comma 1, cod. civ.), è stato interpretato come funzionale a fare in modo che, «in presenza di circostanze che alterano il processo di negoziazione, … vengano conclusi contratti come se un mercato competitivo esistesse realmente» (R. Cooter, U. Mattei, P. G. Monateri, R. Pardolesi e T. Ulen, 2006(b), 99). 108 Esemplare, a tal proposito, è la circostanza che in R. A. Posner, 2011, 143-148, i due istituti siano trattati nel medesimo paragrafo. 109 J. L. Harrison, 2000, 99.

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consumatore all’interno della classe di individui protetta dalla normativa; nonché, infine, (iv) accertare se vi siano fallimenti di tale mercato e stabilire se la normativa vigente è in grado di correggerli.

Terminata l’analisi, pare opportuno chiedersi se, in realtà, non ci troviamo semplicemente di fronte ad approcci che, muovendo da differenti teorie del valore e obiettivi sociali, offrono diverse interpretazioni dei fenomeni analizzati. Tale osservazione pare condivisibile, anche se è opportuno segnalare alcuni vantaggi dell’impostazione qui proposta rispetto a quella criticata.

In primo luogo, si riesce a dare conto di tutta quella letteratura economica che vede nel consumo e nella sovranità del consumatore la finalità delle attività economiche (cfr., supra, par. 3). In secondo luogo, si riconosce che la disponibilità a pagare è un assunto che semplifica la realtà offrendone una rappresentazione distorta e si evita di doverne giustificare l’uso facendo riferimento ad argomenti estranei alla teoria economica (cfr., supra, par. 6). In terzo luogo, come visto in occasione della reinterpretazione del mercato delle adozioni, con questo tipo di approccio non si (rischia di) modifica(re) surrettiziamente la finalità della normativa analizzata (cfr., supra, par. 2). Infine, si evita, a differenza dell’approccio giuseconomico tradizionale, di sostenere tesi normative che si pongono in contraddizione con l’idea che i mercati perfettamente concorrenziali siano preferibili ai mercati monopolistici (cfr., supra, par. 7).

I suddetti vantaggi sebbene non possano essere ignorati, tuttavia, non possono neppure essere ritenuti sufficienti per superare un’impostazione teorica consolidata come quella criticata in questa sede. Il giudizio sui due approcci qui confrontati deve quindi essere sospeso e potrà essere deciso alla luce di uno o di entrambi110 i seguenti criteri: da un lato, la capacità dei due approcci di dare conto delle scelte normative che effettivamente vengono compiute da legislatori e giudici111, ovvero dal grado di successo come teoria descrittiva della prassi giuridica; dall’altro lato, invece, sul piano della desiderabilità morale delle prescrizioni ricavate dalla teoria economica. Come affermato in precedenza, chi scrive predilige il primo criterio rispetto al secondo; e ciò, considerato che i limiti dell’approccio giuseconomico criticato in questa sede sul piano descrittivo112 sono riconosciuti anche tra i giuseconomisti113, è una ragione ulteriore per approfondire lo studio del metodo di indagine ordinalista presentato in questa sede. BIBLIOGRAFIA ACOCELLA Nicola, 2002, Economia del benessere. Laterza, Roma. AKERLOF George A., 1970, «The Market for “Lemons”: Quality Uncertainty and the Market Mechanism». The Quarterly Journal of Economics, 84: 488-500. AKERLOF George A., 1984, An Economic Theorist’s Book of Tales. Cambridge University Press, Cambridge, New York. ALESSANDRINI Sergio, PASSARELLI Francesco, 2004, Economia politica. Cisalpino, Milano. BAILER-JONES Daniela M., 1999, «Tracing the Development of Models in the Philosophy of Science». In Model-Based Reasoning in Scientific Discovery, edited by Magnani Lorenzo, Nersessian Nancy J., Thagard P., 23-39. Kluwer Academic / Plenum Publisher, New York. BACKHOUSE Roger E., MEDEMA Steve G., 2008, «Economics, definition of». In The New Palgrave Dictionary of Economics, Vol. 2, edited by Blume Lawrence E., Durlauf Steven N., 720-722. Palgrave Macmillian, New York. BALKIN Jack M., 1987, «Too Good to Be True: The Positive Economic Theory of Law». Columbia Law Review, 87: 1447-1489. BEGG David, FISCHER Stanley, and DORNBUSCH Rudiger, 2005, Economics (trad. it. Economia, McGraw-Hill, Milano 2008).

                                                            110 La scelta dei criteri da adoperare in questo giudizio dipenderà, principalmente, dalle finalità dell’indagine che si compie e dalle concezioni del diritto che si prediligono. 111 J. L. Coleman, 1980, 510. 112 Per tutti, si veda J. L. Balkin, 1987. 113 R. O. Zerbe, 2001, 188-290; D. Friedman, 2000, 557-576 (trad. it. 2004).

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