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“PSICOLOGIA E CRESCITA PERSONALE”

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Bronnie Ware - libro completo (regalo di MyLife)

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“psicologia e crescita personale”

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Bronnie Ware

VorreiaVerlo fatto

i cinque rimpianti più grandi di chi è alla fine della vita

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titolo originale: The top five regrets of the dying

copyright © 2011, 2012 Bronnie Warepublished and distributed by Hay House

Traduzione: Katia prandoEditing: enza casalino

Revisione: sonia Vagnetti, Marco MorraImpaginazione e Grafica di copertina: Matteo VenturiImmagine di copertina: © sublimefocus - fotolia.com

Stampa: fotolito graphicolor snc città di castello (pg)

i edizione: novembre 2012

© 2012 Edizioni My Lifewww.mylife.it - Via garibaldi, 77 - 47853 coriano di rimini

isBn 978-88-6386-201-0

tutti i diritti sono riservati. nessuna parte di questo libro può essere riprodotta tramite alcun procedi-mento meccanico, fotografico o elettronico, o sotto forma di registrazione fonografica; né può essere immagazzinata in un sistema di reperimento dati, trasmesso, o altrimenti essere copiato per uso pubblico o privato, escluso l’“uso corretto” per brevi citazioni in articoli e riviste, senza previa autorizzazione scritta dell’editore.

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indice

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .6dai tropici alla neve . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .11Una carriera inaspettata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .24onestà e resa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .38

Rimpianto 1: Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita fedele ai miei principi e non quella che gli altri si aspettavano da me . . . . . . . . . .53

prodotti del nostro ambiente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .66catene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .78

Rimpianto 2: Vorrei non aver lavorato così tanto . . . . . . . .92finalità e intenzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .103semplicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .115

Rimpianto 3: Vorrei avere avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .128

Mai più sensi di colpa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .140doni nascosti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .155

Rimpianto 4:Vorrei essere rimasto in contatto con i miei amici . . . . . . .165

Veri amici. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .176 concediti il tempo di stare con gli amici . . . . . . . . . . . . . . . . .189

Rimpianto 5:Vorrei aver permesso a me stessa di essere più felice . . . . .201

la felicità è adesso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .213Questione di punti di vista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .226

tempo di cambiamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .236oscurità e alba . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .250nessun rimpianto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .264sorridi e stai sicura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .277L’autrice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .287

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introdUzione

in una mite sera d’estate, in un piccolo paese di campagna, era in corso una conversazione molto simile ad altre allegre chiacchierate che stavano avvenendo contemporaneamente

nel resto del mondo. erano solo due persone che si raccontavano l’una all’altra intessendo una storia. la differenza, però, è che questo dialogo si rivelò essere il punto di svolta nella vita di una persona. e quella persona ero io.

cec è l’editor di una grande rivista di musica folk, la Trad and Now in australia, dove è famoso sia per il sostegno dato a questo genere musicale sia per il suo grande sorriso affabile. sta-vamo chiacchierando del nostro amore per la musica (tema per-fettamente consono, dal momento che ci trovavamo a un festival di musica folk). la conversazione toccò anche le difficoltà che stavo vivendo in quel periodo, vale a dire trovare i fondi per un corso di chitarra e di composizione musicale che volevo avviare in un carcere femminile. “se riesci a metterlo in piedi e a farlo funzionare, dimmelo e pubblicherò la tua storia”, disse cec per incoraggiarmi.

in effetti riuscii a farcela e poco tempo dopo scrissi la storia della mia esperienza per la rivista. in quella circostanza, mi chiesi come mai non mi fossi dedicata alla scrittura di storie e racconti nella mia vita. dopo tutto, scrivevo da sempre. Quando ero una ragazzina tutta lentiggini avevo amici di penna in ogni parte del mondo. era ancora l’epoca in cui la gente scriveva lettere a mano, le infilava in una busta e poi nella cassetta postale.

non ho smesso nemmeno da adulta. sono continuate le lette-re manoscritte agli amici così come anni e anni di diari. e a quei tempi componevo canzoni. Quindi, in fin dei conti, scrivevo an-cora (solo che oltre alla penna, tenevo in mano anche la chitarra). Ma il piacere provato nel raccontare la storia sul carcere, seduta al

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tavolo della mia cucina con una carta e una penna vecchio stile, aveva riacceso il mio amore per la scrittura. così mandai i miei ringraziamenti a cec e subito dopo decisi di aprire un blog. gli eventi che seguirono cambiarono direzione alla mia vita nel mi-gliore dei modi possibili.

“inspiration and chai”, questo il nome del blog, vide la luce in un cottage piccolo e accogliente sulle Blue Mountains in au-stralia, ovviamente davanti a una tazza di tè chai. Uno dei primi articoli che scrissi riguardava i cinque più grandi rimpianti delle persone che stanno per morire, di cui mi ero presa cura. prima del lavoro con la prigione, avevo svolto il ruolo di assistente ai malati terminali e i ricordi erano ancora freschi. nel corso dei mesi se-guenti, l’articolo prese slancio in un modo che solo internet può spiegare. iniziai a ricevere e-mail da persone che non conoscevo e che si collegavano al sito per leggere ciò che scrivevo.

Quasi un anno dopo, mi trasferii in un altro piccolo cot-tage, in una zona agricola. Un lunedì mattina, mentre me ne stavo seduta a scrivere in veranda, decisi di controllare le stati-stiche sul sito, come si fa di tanto in tanto. il mio viso assunse un’espressione sconcertata ma compiaciuta. il giorno successivo controllai ancora, e quello dopo feci lo stesso. non c’erano dub-bi sul fatto che stesse accadendo qualcosa di grosso. l’articolo, intitolato “i cinque rimpianti più grandi di chi sta per morire” aveva spiccato il volo.

iniziarono a piovere e-mail da ogni parte del mondo, insieme alle richieste di permesso da parte di vari autori di citare l’articolo nei loro blog e di tradurlo in altre lingue. la gente lo leggeva sul treno in svezia, alle stazioni degli autobus in america, negli uf-fici in india, a colazione in irlanda e così via. non tutti in verità erano d’accordo con il suo contenuto, ma nacque un dibattito sufficiente affinché continuasse il suo giro del mondo. ai pochi che dissentivano dicevo: “non sparate al messaggero.” io stavo semplicemente condividendo ciò che a loro volta le persone in fin di vita avevano condiviso con me. comunque, almeno il 95 per

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cento dei feedback ricevuti sull’articolo erano positivi. ciò raffor-zò l’idea di quante cose abbiano in comune gli uomini malgrado le differenze culturali.

Mentre succedeva tutto questo, vivevo nel cottage e gode-vo della bellezza degli uccelli e degli altri animali selvatici che popolavano le rive del torrente di fronte casa. ogni giorno, mi sedevo in veranda e continuavo a lavorare dicendo “sì” alle op-portunità che cominciavano a presentarsi da sole. nei mesi che seguirono, più di un milione di persone lesse “i cinque rimpian-ti più grandi di chi sta per morire”. nel giro di un anno, quel numero si triplicò.

per questa ragione e per soddisfare le richieste delle persone che mi contattarono, decisi di approfondire l’argomento. avevo sempre avuto l’intenzione di scrivere un libro vero e proprio un giorno, come capita a molti. Ma solo raccontando la mia storia personale in queste pagine sono riuscita a esprimere appieno le le-zioni che avevo appreso lavorando con i malati terminali. il libro che avevo sempre desiderato creare era pronto per essere scritto. ed è questo.

leggendo la mia storia, ti accorgerai che non sono mai stata il tipo di persona che segue percorsi tradizionali nella vita, se mai esistono. Vivo come mi viene e ho scritto questo libro perché sono una donna con una storia da condividere. Quasi tutti i nomi nel libro sono stati cambiati per proteggere la privacy delle famiglie e degli amici. tuttavia, sono reali i nomi del mio primo maestro di yoga, della mia responsabile al centro prenatale, del proprietario del campeggio per camper, del mio tutor durante l’esperienza in carcere e di tutti i cantautori menzionati. Ho modificato legger-mente l’ordine cronologico per raggruppare insieme i clienti in base alle tematiche che ho affrontato con loro.

i miei ringraziamenti vanno a tutti quelli che mi hanno as-sistito lungo il viaggio. per il supporto e l’influenza positiva dal punto di vista professionale rivolgo un ringraziamento speciale a: Marie Burrows, elizabeth cham, Valda low, rob conway,

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reesa ryan, Barbara gilder, dad, pablo acosta, Bruce reid, Joan dennis, siegfried Kunze, Jill Marr, guy Kachel, Michael Bloeme, ana goncalvez, Kate e col Baker, ingrid cliff, Mark patterson, Jane dargaville, Jo Wallace, Bernadette e a tutti quelli che han-no sostenuto la mia scrittura e la mia musica connettendovisi in modo positivo.

grazie anche alle numerose persone che hanno contribuito a farmi avere sempre un tetto sulla testa: Mark avellino, zia Jo, sue greig, Helen atkins, zio fred, di e greg Burns, dusty cuttell, Mardi Mcelvenny e a tutti i miei meravigliosi clienti di cui ho curato e amato la casa come se fosse la mia. grazie anche a tutte le persone buone che mi hanno dato da mangiare.

per il sostegno personale nei tratti più impervi del cammino, ringrazio tutti gli amici passati e presenti, vicini e lontani, per aver arricchito la mia vita in così tanti modi. Un grazie speciale a: Mark neven, sharon rochford, Julie skerrett, Mel giallongo, angeline rattansey, Kateea Mcfarlane, Brad antoniou, angie Bidwell, Theresa clancy, Barbra squire. prestano tutti servizio presso il centro di meditazione sulle montagne che mi ha permes-so d’incamminarmi lungo un sentiero di pace. ringrazio anche il mio compagno. siete stati tutti la mia barella quando avevo più bisogno di riposare.

naturalmente grazie anche a mia madre Joy: mai nome più appropriato è stato dato a una persona sulla terra. che sacra le-zione d’amore mi hai dato con il tuo esempio! grazie infinite, donna meravigliosa.

a tutte le bellissime persone che se ne sono andate, le cui sto-rie qui narrate hanno influenzato la mia vita: questo libro è un omaggio a voi. ringrazio anche le famiglie dei cari defunti per i momenti dolci e indimenticabili che abbiamo vissuto insieme. grazie a tutti.

infine, grazie alla gazza che canta sull’albero vicino al fiume mentre scrivo questo pezzo. tu e tutti i tuoi amici uccelli mi avete tenuto compagnia durante la stesura di queste pagine. grazie a

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dio per avermi sostenuto e per aver inviato sulla mia strada così tanta bellezza.

a volte ci rendiamo conto che un momento particolare ha cambiato il corso della nostra esistenza quando è già troppo tardi. Molti dei momenti condivisi nel libro hanno cambiato la mia vita. grazie cec per aver dato nuova vita alla scrittrice che c’è in me. grazie, lettore, per la tua bontà e per il nostro legame.

con amore e rispetto,Bronnie

la veranda al tramonto.Martedì pomeriggio.

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dai tropici alla neVe

z

“non riesco a trovare i miei denti. non riesco a trovare i miei denti.” Quelle urla familiari giunsero fin nella mia stanza mentre tentavo di prendermi

il pomeriggio libero come da programma. Misi giù il libro che stavo leggendo sdraiata sul letto e mi incamminai verso la zona soggiorno.

come mi aspettavo, agnes se ne stava lì, confusa e inoffensiva, con quel suo sorriso a tutta gengiva. scoppiammo entrambe in una risata. lo scherzo non avrebbe più dovuto far ridere a quel punto, visto che perdeva i suoi denti quasi tutti i giorni. Ma non fu mai così.

“sono sicura che lo fai solo per farmi tornare di nuovo qui con te” risi, mentre iniziai la ricerca del giorno in posti ora familiari. fuori la neve continuava a cadere, intensificando la sensazione di calore e accoglienza trasmessa dal cottage. scuotendo il capo, agnes fu irremovibile: “assolutamente no, cara! Me li sono tolti prima del sonnellino ma quando mi sono svegliata, non sono riu-scita a trovarli da nessuna parte.” tranne che per la sua mancanza di memoria, agnes era lucida come uno specchio.

avevamo iniziato a vivere insieme quattro mesi prima, quan-do avevo risposto a un annuncio in cui si cercava una dama di compagnia che si trasferisse in casa. da australiana approdata in inghilterra, lavoravo e vivevo in un pub giusto per avere un tetto sopra la testa. era stato divertente e mi aveva permesso di fare amicizia con i colleghi e con gli abitanti della zona. non era la prima volta che lavoravo come barista e avevo potuto iniziare su-

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bito, non appena arrivata nel paese. Quindi ero grata per questo. Ma era giunto il momento di cambiare.

avevo trascorso i due anni precedenti al mio trasferimento oltreoceano su un’isola tropicale, molto più pittoresca di quan-to qualsiasi cartolina possa raffigurarla. dopo aver lavorato per più di dieci anni nel settore bancario, avevo sentito l’esigenza di affrancarmi dal solito tran tran: dal lunedì al venerdì, dalle nove alle cinque.

con una delle mie sorelle, mi ero avventurata in un’isola del Queensland del nord per una vacanza durante la quale avevamo deciso di prendere l’attestato di scuba diving. Mentre lei ci pro-vava con il nostro istruttore, cosa che ovviamente ci tornò molto utile per passare l’esame, mi inerpicai su per una montagna. Una volta raggiunta la cima, mi sedetti su un enorme masso e sorri-dendo ebbi una rivelazione. Volevo vivere su un’isola.

Quattro settimane dopo, il lavoro in banca era andato e ciò che possedevo era stato venduto o spedito presso la fattoria dei miei genitori. consultando una mappa, scelsi due isole solo in virtù della loro comodità geografica. non ne sapevo niente di più, se non che mi piaceva dove si trovavano e che su entrambe avrei trovato un villaggio turistico. Questo avveniva prima dell’avvento di internet, dove puoi trovare tutto in un baleno. inviai le lettere di presentazione in cui dicevo di cercare un nuovo lavoro e mi di-ressi a nord, destinazione sconosciuta. era il 1991, qualche anno prima che i telefoni cellulari arrivassero en masse in australia.

lungo il cammino, il mio spirito spensierato ricevette un tem-pestivo e cauto avvertimento, dopo una brutta esperienza con l’autostop: allora optai per altri mezzi di trasporto. correre il pericolo di trovarmi su una strada polverosa nel mezzo del nul-la, nella direzione sbagliata rispetto al paese di destinazione, fece squillare sufficienti campanelli d’allarme per impedirmi di alzare ancora il pollice. l’uomo che mi aveva dato un passaggio disse che voleva farmi vedere dove viveva, mentre le case si diradavano sempre più e il bush, la tipica boscaglia australiana, si infittiva,

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con la strada polverosa che mostrava poche tracce del passaggio di altri viaggiatori. grazie a dio fui forte e determinata e riuscii a togliermi da quella situazione. era riuscito a darmi solo qualche bacio bavoso quando scesi dalla macchina, piuttosto rapidamente, nel paese giusto. Quella fu l’ultima volta che feci l’autostop.

da allora mi affidai al trasporto pubblico e a parte quella espe-rienza, fu una grande avventura, soprattutto perché non sapevo dove sarei stata il giorno successivo. Viaggiare su autobus e treni fece sì che il mio cammino incrociasse quello di altre persone meravigliose, mentre mi lasciavo trasportare verso climi più caldi. dopo alcune settimane di viaggio, chiamai mia madre che nel frattempo aveva ricevuto una lettera con una offerta di lavoro su una delle isole che avevo scelto. dal momento che volevo dispe-ratamente fuggire dalla routine della banca, avevo commesso lo stupido errore di dichiarare che ero disposta ad accettare qualsiasi impiego: così pochi giorni dopo mi ritrovai a vivere su una bellis-sima isola, sommersa da pentole e padelle luride.

comunque la vita da isolana è stata fantastica, perché mi ha liberato non solo dal tran tran quotidiano, ma anche dal sape-re che giorno della settimana fosse. era bellissimo. dopo un anno trascorso come sguattera lavapiatti (così come era poco affettuosamente conosciuto quel lavoro) mi feci strada come barista. in realtà, fu un periodo molto divertente, che mi ha insegnato un mucchio di cose sulla cucina creativa. Ma era un lavoro pesante che mi faceva sudare sette camicie, in quella cucina priva di aria condizionata, ai tropici. per lo meno i gior-ni liberi li trascorrevo vagabondando nelle bellissime foreste pluviali, navigando su barche in affitto alla volta delle isole circostanti, facendo immersioni o semplicemente rilassandomi in quel posto meraviglioso.

lavorare al bar mi aprì le porte del paradiso, con vista da un milione di dollari sulle calme acque blu, sulle spiagge bianche, sulle palme ondeggianti. non posso dire insomma che sia stato un lavoro duro. avere a che fare con clienti felici che facevano la

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vacanza della vita ed essere addetta alla preparazione di cocktail degni dei cataloghi turistici, era lontano anni luce dalla vita che conducevo quando lavoravo in banca.

fu proprio al bancone del bar che conobbi un europeo che mi offrì un impiego nella sua stamperia. il desiderio di viaggiare aveva sempre fatto parte di me, e dopo più di due anni di vita sull’isola iniziavo ad avere fame di cambiamenti e avevo voglia di godere ancora una volta delle gioie dell’anonimato. Quando vivi e lavori nella stessa comunità giorno dopo giorno, inizi a venerare la tua privacy come qualcosa di sacro.

chiunque abbia abitato per un paio d’anni su un’isola si aspetta di avere uno shock culturale quando ritorna sulla terra-ferma. Ma da lì, catapultarmi direttamente in un paese straniero dove non avrei potuto nemmeno parlare la mia lingua, era a dir poco una sfida. durante quei mesi, conobbi alcune belle persone e sono contenta di aver fatto quella esperienza. Ma avevo nuo-vamente bisogno di amici che la pensassero come me, così alla fine partii per l’inghilterra. arrivai lì con i soldi sufficienti per un biglietto che mi portasse dall’unica persona che conoscevo, e con il resto di una sterlina e sessantasei penny iniziò un nuovo capitolo della mia vita.

nev aveva un grande sorriso affettuoso e una testa piena di bianchi riccioli sottili. era anche un esperto appassionato di vini e lavorava nel reparto vini di Harrods. era il primo giorno dei saldi estivi e reduce da una notte in traghetto attraverso la Mani-ca, avevo l’aspetto di una trovatella mentre vagavo in quel posto elegante e pieno di gente. “ciao nev, sono Bronnie. ci siamo co-nosciuti una volta, anni fa. sono un’amica di fiona. Hai passato la notte sulla mia poltrona a sacco qualche anno fa” annunciai al di là del bancone con un sorriso allegro.

“ciao, Bronnie, mi ricordo di te” fui sollevata di sentirgli dire. “che succede?”.

“Ho bisogno di un posto dove stare per qualche notte, per favore” dissi speranzosa.

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pescando la chiave da una tasca, nev rispose: “certo. ecco qui” e mi diede le indicazioni per raggiungere casa sua. così ave-vo un tetto sulla testa e un divano su cui dormire.

“posso chiederti in prestito anche un deca?” chiesi ottimista. senza esitare, tirò fuori un deca dalla tasca posteriore. Mi profusi in parole di ringraziamento e con un sorriso pieno di allegria mi ritenni sistemata. avevo un letto e del cibo.

la rivista su cui avevo intenzione di trovare un lavoro usciva proprio quella mattina, così ne comprai una copia, tornai a casa di nev e feci tre telefonate. il giorno successivo ebbi un colloquio per un impiego in un pub che offriva anche l’alloggio, a surrey. nel pomeriggio vivevo già lì. perfetto.

la vita filò liscia come l’olio per un paio d’anni tra amicizie e storie d’amore. furono momenti divertenti. la vita di paese faceva al caso mio; a volte mi ricordava la comunità sull’isola ed ero circondata da persone che amavo. non eravamo nemmeno tanto lontani da londra, così facevo capatine regolari in città, la maggior parte delle quali furono un vero piacere.

Ma alla lunga sentii nuovamente il richiamo del viaggio. Mi sarebbe piaciuto esplorare il Medio oriente. i lunghi inverni in-glesi erano stati un’esperienza positiva ed ero contenta di averne vissuti un paio. erano in totale contrasto con le lunghe, calde estati australiane. dovevo scegliere se restare o partire, e questa volta decisi di fermarmi per un altro inverno con la ferrea inten-zione di mettere da parte un po’ di soldi per il viaggio. per farlo dovevo lasciare il pub e resistere alla tentazione di starmene fuori a socializzare tutte le sere. non ero mai stata una gran bevitrice e da tempo ormai ero diventata astemia, ma stare in giro fino a tardi ogni notte aveva comunque un costo e avrei potuto rispar-miare quei soldi per il viaggio.

Quasi subito dopo aver preso quella decisione, l’annuncio di lavoro da agnes attirò la mia attenzione, perché si trovava proprio nel paese accanto a surrey. Mi fu offerto il posto al primo collo-quio, quando l’agricoltore Bill si rese conto che anche io ero una

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ragazza di campagna. sua madre agnes aveva quasi novant’anni, portava i capelli grigi lunghi fin sulle spalle, aveva una voce al-legra e una pancia tonda e sporgente, coperta praticamente ogni giorno dallo stesso cardigan rosso e grigio. la loro fattoria distava solo una mezz’ora di viaggio da surrey, quindi rivedere gli amici nei giorni liberi non sarebbe stato difficile. Ma mi sembrò di stare in un altro mondo quando mi trasferii lì. ero molto isolata, dal momento che stavo con agnes tutto il giorno, dalla domenica al venerdì. due ore libere ogni pomeriggio non mi davano molto tempo per socializzare, ma mi permettevano di vedere il mio fi-danzato inglese di tanto in tanto.

dean era una cara persona. fu il senso dell’umorismo a unir-ci fin dal primo minuto. e anche l’amore per la musica. ci eravamo conosciuti il giorno successivo al mio arrivo nel paese, dopo il colloquio al pub, e ci parve subito evidente che le no-stre vite erano più ricche e più divertenti grazie al fatto che ci eravamo incontrati. purtroppo però non era in compagnia di dean che passavo la maggior parte del tempo all’epoca. di soli-to restavo bloccata dalla neve in casa con agnes e più spesso ero occupata nella ricerca dei suoi denti. È incredibile quanti posti diversi uno possa trovare in una stanza così piccola per smarrire i propri denti.

il suo cane, princess, era un pastore tedesco di dieci anni che lasciava peli dappertutto. aveva un’indole buona ma stava per-dendo forza nelle zampe posteriori a causa dell’artrite, a quanto pare una malattia comune nei cani di quella razza. avendo impa-rato dalle esperienze passate, le sollevai il didietro e guardai sotto cercando i denti della sua padrona. in un’altra occasione princess ci si era seduta sopra, quindi valeva sempre la pena di dare un’oc-chiata. Quel giorno non ebbi fortuna. princess dimenò la grossa coda poi ritornò nel mondo dei sogni accanto al fuoco, dimenti-candosi della breve interruzione nel giro di un secondo. più volte, agnes e io ci incrociammo mentre continuavamo la ricerca. “Qui non ci sono” gridava dalla camera da letto.

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“nemmeno qui” rispondevo dalla cucina. alla fine, comun-que, mi ritrovavo a setacciare la stanza di agnes, mentre lei ri-passava la cucina. ci sono talmente poche stanze in cui cercare qualcosa in una casa piccola che le ripassavamo entrambe, per essere doppiamente sicure. Quel giorno in particolare, i denti erano scivolati dentro la borsa del lavoro a maglia, di fianco alla poltrona in salotto.

“oh sei proprio un tesoro, cara” disse, rimettendoseli in bocca. “Vieni a guardare la televisione con me già che ci sei.” era una strategia che usava spesso e io sorrisi mentre assecondavo la sua richiesta. era una vecchia signora che aveva vissuto sola per lungo tempo e ora si stava godendo la compagnia che aveva a disposizio-ne. il mio libro poteva aspettare. il più delle volte non si trattava affatto di un lavoro faticoso. era semplice compagnia e se ne aveva bisogno anche al di fuori del mio orario, non c’era problema.

in precedenza, i denti erano stati rinvenuti sotto il suo cusci-no, nel portaoggetti in bagno, in una tazza nel mobile in cucina, nella sua borsetta e in molti altri posti poco credibili. Ma era-no ricomparsi anche dietro alla televisione, nel caminetto, nel secchio dell’immondizia, sopra il frigorifero e in una delle sue scarpe. e ovviamente sotto a princess, nascosti dal suo possente fondoschiena.

Molte persone sono contente di avere una routine. personal-mente mi trovo più a mio agio nel cambiamento. Ma in certe si-tuazioni la routine è positiva e funziona benissimo per tante per-sone, soprattutto quando invecchiano. con agnes c’erano routi-ne settimanali e quotidiane. ogni lunedì andavamo dal medico, perché doveva fare regolarmente gli esami del sangue. avevamo l’appuntamento sempre alla stessa ora tutte le settimane. tuttavia un impegno al giorno era più che sufficiente, altrimenti avrebbe rovinato le sue abitudini del pomeriggio che consistevano nel ri-posare e lavorare a maglia.

princess ci accompagnava ovunque, con la pioggia, la grandi-ne o il sole. abbassavo prima la sponda ribaltabile del pick-up,

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mentre il vecchio cane aspettava paziente, sempre scodinzolando. era una creatura meravigliosa. poi le alzavo le zampe anteriori appoggiandole contro la sponda e afferrando rapidamente il suo posteriore la issavo a bordo prima che le zampe di dietro cedesse-ro e dovessimo ricominciare tutta la manovra. rimanevo coperta di peli color sabbia per il resto dell’uscita.

saltare giù era più facile, malgrado necessitasse ugualmente di assistenza. princess sarebbe scesa da sola appoggiando le zampe anteriori a terra, ma aspettava che fossi io a farle muovere quelle posteriori. se nel frattempo agnes aveva bisogno del mio aiuto, il cane aspettava in quella posizione con il didietro per aria finché non avessi finito con la sua padrona. Una volta giù, camminava felicemente e senza dolore, dimenando sempre la sua grossa, vec-chia coda.

il martedì lo passavamo a fare la spesa al supermercato nel pa-ese vicino. parecchie delle persone anziane con cui ho lavorato da allora in poi erano molto frugali. Ma agnes era tutto il contrario. cercava sempre di comprarmi cose, soprattutto quelle che non mi servivano o che non volevo. in ogni scompartimento si poteva assistere alla medesima scena: due donne, una anziana e l’altra più giovane, che discutevano tra loro. entrambe sorridevano e a volte scoppiavano in una risata, ma erano determinate. poteva trattarsi di diverse prelibatezze vegetariane, manghi d’importazione, una spazzola nuova, o qualche dentifricio dal gusto improponibile.

il mercoledì era la volta del bingo, in paese. la sua vista stava peggiorando, perciò io ero i suoi occhi nel controllo delle cartelle. riusciva a leggere i numeri e ci sentiva anche abbastanza bene, ma per essere sicura mi faceva verificare prima di barrare le caselle coi numeri. adoravo tutti gli anziani che erano lì. avevo quasi trent’anni ed ero la più giovane, il che faceva sentire agnes molto speciale. parlava di me come della “sua amica”.

“la mia amica e io siamo andate a fare shopping ieri e le ho comprato qualche paio di mutande nuove” annunciava seriamen-te e con orgoglio alle sue vecchie compagne di bingo.

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tutte annuivano e mi sorridevano mentre me ne stavo lì sedu-ta pensando: “oh mio dio!”.

e poi andava avanti: “Questa settimana sua madre le ha scritto dall’australia. sapete, fa molto caldo là adesso. e ha un nuovo nipotino.” ancora una volta le teste annuivano e sorridevano.

non mi ci volle molto per imparare a dosare le informazioni che le davo. non mi piaceva immaginare quello che altrimenti avrebbe-ro saputo sulla mia vita, specialmente quando mia mamma mi spe-diva adorabili completini intimi e altri regali, per coccolarmi da lon-tano. Ma agnes era innocua e affettuosa, perciò sopportavo senza troppi problemi l’imbarazzo e la vergogna che a volte mi suscitava.

il giovedì era l’unico giorno che stavamo fuori a pranzo. era una lunga giornata a spasso, per tutte e tre, princess compresa ovviamente. guidavo fino a una città nel Kent e pranzavamo con la figlia di agnes. cinquanta chilometri erano un bel tratto per gli standard inglesi, invece per un australiano era come arrivare in fondo alla strada. la percezione della distanza è uno degli ele-menti che differenzia le nostre culture.

in inghilterra puoi guidare per tre chilometri e arrivare in un altro paese. l’accento potrebbe essere completamente diverso da quello del villaggio precedente e magari non conosci nessuno, anche se hai vissuto nel paese vicino per tutta la vita. in australia invece può capitarti di dover guidare per ottanta chilometri solo per comprare un filone di pane. i tuoi vicini possono essere così lontani che per parlarvi siete costretti a telefonarvi o a usare la ricetrasmittente anche solo per un saluto; ciononostante conti-nuate a pensare di essere vicini di casa. Una volta ho lavorato in una zona talmente remota nel territorio del nord che le persone prendevano l’aereo per andare al pub più vicino. la sera presto la piccola pista di atterraggio era piena di aerei a uno o a due posti, ma la mattina seguente era vuota, perché erano tornati tutti a casa dal loro bestiame, mezzi pieni di grog.

la trasferta del giovedì, quindi, era davvero un giorno impegnati-vo per agnes; per me invece era una piacevole scarrozzata in macchi-

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na. sua figlia era una donna cordiale e l’occasione piacevole. tutt’e due facevano sempre un pranzo rustico, con manzo, formaggio e sottaceti. Mi sono meravigliata spesso dell’amore degli inglesi per i sottaceti. tuttavia era un buon paese anche per i vegetariani, perciò avevo un’ampia scelta. dal momento che faceva così freddo, di solito gustavo una zuppa bollente o un abbondante piatto di pasta.

il venerdì invece restavamo in zona. Vivevamo in una fatto-ria in cui si allevava il bestiame e all’interno c’era una macelleria propria. la fattoria era gestita da due dei figli di agnes. la nostra uscita del venerdì mattina aveva come destinazione la macelleria. sebbene agnes si ostinasse a prendersi tutto il tempo per osser-vare ogni pezzo con attenzione, comprava le stesse identiche cose tutte le settimane. il macellaio si era persino offerto di farle avere l’ordinazione a casa, ma niente. “grazie mille ma devo scegliere personalmente” rispondeva con educazione.

a quei tempi ero vegetariana. adesso sono vegana. lì vivevo in una fattoria dove si allevava il bestiame, non molto diversa da quella in cui ero cresciuta. Malgrado non fossi tra i sostenitori della carne, capivo quell’attività e lo stile di vita che ne consegui-va. era un territorio familiare, dopo tutto.

tornavamo dalla macelleria passando per la stalla e ci ferma-vamo a parlare con i braccianti e con le mucche. agnes avanzava lentamente con il suo bastone da passeggio, io stretta al suo fian-co e princess dietro di noi. se faceva tanto freddo, ci mettevamo addosso più strati di vestiti. il venerdì lo passavamo in questo modo: visita alla macelleria e poi alle mucche nella stalla.

ero stupita da come venissero trattate diversamente rispetto a quelle australiane, con le stalle riscaldate e attenzioni individuali. Vero è che le mucche australiane non dovevano sopportare gli inverni inglesi. a ogni modo mi metteva una tristezza terribile conoscere quelle bestie una per una, sapendo che probabilmente un giorno o l’altro avremmo finito col comprare la loro carne al banco del macellaio. era una cosa difficile con cui scendere a patti e non ci sono mai riuscita veramente.

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la scelta di diventare vegetariana prese forma quando ero an-cora a casa, malgrado il mio tentativo di silenzio e il rispetto che nutrivo per lo stile di vita scelto dalla mia famiglia. non sono mai stata il tipo che ne parla a più non posso. Ma dopo tutte le cose che ho visto crescendo, e in seguito a una gita scolastica al matta-toio che mi ha segnato per tutta la vita, capisco benissimo perché alcuni vegani e vegetariani alzano la voce e si appassionano alla causa. Quando trovi il coraggio di guardare con onestà quello che succede dietro alle pareti di quelle aziende, ti si spezza il cuore.

Ma per quanto mi riguarda, ho sempre preferito essere sem-plicemente e serenamente da esempio, rispettando il diritto di ognuno di vivere come sembra loro giusto. parlavo delle mie convinzioni solo se mi veniva chiesto e allora ero felice di farlo, perché c’era un interesse genuino. È incredibile che persone quasi sconosciute, abituate a mangiare carne, mi abbiano attaccato nel corso degli anni senza alcuna provocazione da parte mia, soltanto per via delle mie scelte alimentari. forse è anche questo il motivo per cui ho scelto di vivere una vita vegetariana silenziosa. Volevo solo la pace.

così quando agnes mi chiese come mai fossi vegetariana, esitai. la sua sopravvivenza si basava sulle entrate della fattoria d’allevamento. anche la mia, suppongo, sebbene non diret-tamente. avevo accettato il lavoro con l’intento di mettere da parte un gruzzoletto e regalare un po’ di brio all’esistenza di una vecchia signora.

Ma lei si ostinava con le sue domande. così le raccontai quello che avevo provato da bambina, quando assistetti all’uc-cisione del bestiame e delle pecore e di quanto la cosa mi avesse sconvolto, quanto amassi gli animali e di come avessi notato la differenza nel muggito delle mucche quando sentono che stan-no per morire, suoni di terrore e panico che continuano a osses-sionarmi ancor oggi.

ecco tutto. agnes dichiarò seduta stante di essere vegetaria-na. “oh signore” pensai. “come faccio a dirlo alla sua fami-

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glia?”. ne parlai con il figlio e lui espresse ad agnes il desiderio che lei continuasse a mangiare carne. all’inizio non cedette di un millimetro, ma alla fine accettò di mangiare carne rossa, pe-sce e pollo un giorno alla settimana. durante i miei giorni liberi era la famiglia ad aiutarla col cibo, così avrebbe mangiato carne anche in quelli.

nel corso del tempo il mio punto di vista si è rafforzato e oggi non accetterei mai un lavoro che richieda di cucinare carne. all’epoca lo facevo e detestavo quel compito. Quando preparavo la carne non potevo evitare di rattristarmi all’idea che quella una volta era un bellissima creatura vivente, con dei sentimenti e il diritto di vivere. così accolsi subito con favore questa decisione, sebbene anche pesci e polli siano animali, secondo il mio modo di pensare.

tuttavia si scoprì che agnes aveva accettato la proposta di suo figlio Bill solo per quieto vivere. non aveva intenzione di mangiare carne in nessun giorno della settimana. così passai il resto dell’in-verno e i mesi primaverili preparando deliziosi banchetti vegeta-riani a base di pane di cereali e frutta secca, zuppe divine, verdure multicolore saltate in padella e pizza da gourmet. penso che altri-menti agnes sarebbe stata felice di limitarsi a uova sode e fagioli stufati. era inglese, dopo tutto, e gli inglesi adorano i loro fagioli.

la neve si sciolse e con l’arrivo della primavera sbocciarono i narcisi. le giornate si allungarono e il cielo ritornò azzurro. la fattoria si risvegliò a una nuova vita e i vitellini appena nati scor-razzavano tutt’attorno sulle loro zampe rachitiche e malferme. tornarono anche gli uccelli e ci allietavano tutto il giorno con il loro canto. agnes e io riponemmo i cappotti e i cappelli invernali e continuammo con la nostra routine per un altro paio di mesi, godendoci il sole primaverile. eravamo due donne di generazioni molto diverse che camminavano a braccetto giorno dopo giorno, condividendo continuamente storie e risate.

tuttavia sentivo sempre il richiamo del viaggio. sapevamo en-trambe fin dall’inizio che me ne sarei andata. anche dean mi

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mancava. il tempo del weekend con lui non mi bastava più e avevamo una gran voglia di partire per un viaggio insieme. poco dopo poco fu messo un annuncio per trovare qualcuno che mi sostituisse; eravamo consapevoli che le nostre giornate insieme stavano per finire. Quei mesi con agnes sono stati meravigliosi e speciali. sebbene avessi accettato il posto soprattutto per realiz-zare il mio desiderio di viaggiare, fare la donna di compagnia è stato un bel lavoro.

Mi è piaciuto molto di più che spillare la birra. preferivo di gran lunga aiutare a camminare una persona anziana e fragile, piuttosto che giovane e ubriaca, o persino vecchia e ubriaca. ave-vo dovuto fare entrambe le cose un sacco di volte quando lavo-ravo sull’isola e nel pub inglese. era meglio cercare i denti di una vecchia signora che portare via posacenere sporchi e bicchieri di birra vuoti.

dean e io viaggiammo in Medio oriente, e ci stupimmo di quanto fosse diverso dal mondo occidentale, ricco di culture affa-scinanti (e mangiammo del cibo delizioso). dopo un anno mera-viglioso, tornai a trovare agnes. Un’altra ragazza australiana aveva preso il mio posto e facemmo una lunga e piacevole chiacchierata dopo che l’anziana donna si era appisolata sulla poltrona. condi-videmmo tante storie e lei ammise di essersi sorpresa alla prima domanda di Bill durante il colloquio. Mi chiesi quale potesse es-sere e mi piegai in due dalle risate quando me la disse.

la primissima domanda che Bill le aveva fatto era stata: “non sei vegetariana, vero?”.

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Una carriera inaspettata

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dopo quegli anni in inghilterra e in Medio oriente, finalmente tornai a casa nella mia amata australia. ero molto cambiata, come spesso accade dopo un viaggio.

ritornai a lavorare in banca e fu subito chiaro che questo impiego non mi avrebbe mai più dato soddisfazioni. il servizio al cliente era l’unico aspetto interessante del mio ruolo e sebbene fosse facile trovare lavoro nella mia città, ero inquieta e infelice a causa della mia vita professionale.

anche l’ispirazione creativa stava iniziando ad abbandonar-mi. a quei tempi vivevo nell’australia occidentale e un giorno mi sedetti lungo la riva del fiume swan, a perth, intenta nella preparazione di due liste. in una c’erano le cose in cui ero brava. nell’altra quelle che amavo fare. dovetti riconoscere che c’era un’artista dentro di me, dal momento che l’unica voce presente in entrambi gli elenchi era il talento creativo.

“oso pensare di poter essere un’artista?” dissi tra me e me. Malgrado fossi cresciuta in un ambiente di musicisti, mi era stata instillata l’idea che la sicurezza era legata solo a un “buon posto di lavoro”. ecco perché nessuno riusciva a comprendere la mia inquietudine nei confronti della vita da posto fisso otto ore al giorno in banca. era un “buon lavoro”; sì, un buon lavoro che mi stava lentamente e inesorabilmente uccidendo.

seguì una intensa ricerca spirituale nel tentativo di capire cosa sapessi fare bene e nello stesso tempo mi piacesse. furono tempi duri perché tutto stava cambiando dentro di me. alla fine giunsi alla conclusione di dover lavorare con il cuore, visto che

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farlo solo con la testa mi aveva già lasciato troppo vuota e insod-disfatta. così iniziai a sviluppare le mie doti creative attraverso la scrittura e la fotografia, e alla fine in modo indiretto giunsi a comporre canzoni e a esibirmi. per tutto il tempo ho continua-to a svolgere lavori in ambito bancario, ma per lo più a tempo determinato. non avrei più potuto sopportare le catene di un impiego a tempo pieno.

perth comunque era parecchio fuori mano e per quanto amassi viverci, il desiderio di essere più raggiungibile dalle persone care mi spinse a tornare negli stati orientali. così attraversai il maesto-so nullarbor plain e le catene dei Monti flinders, lungo la great ocean road, fin su, lungo la new england Highway, raggiun-gendo il Queensland, che dichiarai “casa” per il successivo lasso di tempo. in quel periodo lavorai per un po’ in un call center rivolto alle persone che volevano abbonarsi a un canale di film per adulti. certe volte era molto più interessante del settore bancario.

“Uhm.”silenzio.“chiamo da parte di mio marito.”“Quindi vuole abbonarsi a ‘film della notte’?” rispondevo in

tono amichevole e accondiscendente, cercando sempre di mettere le donne a loro agio.

oppure gli uomini chiedevano: “com’è? Voglio dire, si vede tutto?”.

“Mi spiace signore, non l’ho mai visto. Ma posso offrirle una notte di prova a 6,96 dollari e se la trova di suo gusto, può richia-mare e abbonarsi mensilmente.”

e naturalmente c’erano anche le classiche telefonate del tipo “di che colore sono le tue mutandine?” e allora attaccavo. Ma una volta placate le risa, restava semplicemente un altro lavoro d’uffi-cio. avevo fatto amicizia con i colleghi, perciò il tempo passava piacevolmente. Ma la mia irrequietezza continuava a crescere.

ci trasferimmo nel mio stato natale, il nuovo galles del sud. dean, l’uomo con cui ero stata in inghilterra e in Medio oriente,

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era venuto in australia con me. Ma subito dopo il trasferimento nel nuovo galles del sud, la nostra storia giunse al termine. ci amavamo affettuosamente da anni ed eravamo stati migliori ami-ci per gran parte del tempo. fu devastante assistere alla rottura della nostra amicizia. Ma le numerose differenze nel nostro stile di vita non potevano più essere nascoste sotto il tappeto o ridico-lizzate, come facevamo un tempo.

ero vegetariana. lui mangiava carne. lavorando al chiuso tutta la settimana, desideravo stare all’aperto nei weekend. al contrario, lui lavorava all’aperto tutta la settimana e voleva sta-re al chiuso. la lista andava avanti e nel giro di una settimana sembrò essersi allungata a dismisura. l’amore per la musica con-tinuava a legarci e ci fece stare in sospeso per un po’. Ma alla fine, il canale di comunicazione tra noi si indebolì ed entrambi dovemmo fare i conti con la perdita, assistendo alla disintegra-zione dei sogni condivisi.

fu un periodo straziante quando la relazione finì e soffrii tan-tissimo. Mi raggomitolavo singhiozzando, desiderando che le cose si sistemassero, ma sapevo in fondo al cuore che non era possibile. la vita ci chiamava a seguire direzioni diverse e a quel punto la nostra relazione era più un ostacolo che un supporto.

la ricerca di un senso più grande nella mia vita si intensificò e di conseguenza il problema del lavoro crebbe di importanza. ave-vo aperto gli occhi sul fatto che essere un’artista fosse un modo molto difficile per sopravvivere, almeno finché l’attività non prende slancio e non ottiene un buon riscontro dal pubblico. nel frattempo dovevo trovare una nuova direzione. Vivere facendo l’artista alla fine sarebbe stato possibile. se potevo sognarlo, allora potevo anche farlo.

Ma avevo bisogno di tornare a guadagnare, in un ambito che mi permettesse di lavorare con il cuore e di esprimermi sponta-neamente. la pressione nella vendita dei prodotti all’interno del settore bancario era aumentata e io ormai ero troppo cambiata. non ero più adatta a vivere in quel mondo, se mai lo ero stata.

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determinata a continuare il mio viaggio verso la creatività, decisi di lavorare ancora come dama di compagnia. almeno non sarei rimasta bloccata in un posto perché pagavo l’affitto o un mutuo, e in questo modo mi liberavo anche dalla rigidità della routine.

nonostante gli anni di ricerca spirituale che mi avevano por-tata fino a quel punto, la decisione finale fu presa quasi per caso. semplicemente, accettai il posto di dama di compagnia per pro-seguire il mio percorso creativo e per lavorare con il cuore, per-mettendomi allo stesso tempo di vivere senza dover pagare un affitto. allora non avevo idea che avevo soddisfatto il desiderio di un impiego empatico e che gli anni a venire avrebbero rappresen-tato una parte molto significativa della mia vita e del mio lavoro.

nel giro di due settimane, mi trasferii in una casa vicino al porto in uno dei sobborghi più esclusivi di sydney. il fratello maggiore di ruth, la mia cliente, l’aveva trovata priva di coscien-za sul pavimento della cucina. dopo aver trascorso più di un mese all’ospedale, le fu concesso di tornare a casa, a patto che fosse seguita ventiquattro ore su ventiquattro.

la mia esperienza nel settore dell’assistenza domiciliare era stata solo quella di dama di compagnia con agnes. non mi ero mai presa cura di persone malate e fui onesta su questo punto con l’agenzia che mi aveva contattato, ma a loro non importava. Badanti disposte a vivere in casa del paziente erano una merce rara e non avevano intenzione di farmi scappar fuori dalla loro rete. “fingi semplicemente di sapere quel che fai e chiamaci se ha bisogno di aiuto.” accidenti Bronnie, benvenuta nel gioco dell’assistenza domiciliare.

la mia naturale empatia mi permise di svolgere il lavoro abba-stanza bene per essere alle prime armi. Mi limitai a trattare ruth come se fosse stata mia nonna, che avevo tanto amato. soddisfa-cevo i suoi bisogni ogniqualvolta si presentavano, e col passare del tempo me la cavavo sempre meglio. l’infermiera veniva ogni po-chi giorni e mi faceva domande a cui non sapevo rispondere. dal momento che ero sincera con lei, finì con l’aiutarmi tantissimo,

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insegnandomi a fare le medicazioni e a badare alla cura personale del cliente; imparai persino il linguaggio di settore.

anche i miei capi capitavano lì di tanto in tanto. per farli con-tenti bastava che lo fosse il loro cliente, e quand’era così se ne andavano subito. non avevano idea del fatto che mi stessi rapi-damente esaurendo sia sul piano emotivo che fisico. non sono nemmeno sicura che me ne fossi resa conto io per prima.

la famiglia di ruth era felice perché la viziavo. le facevo mas-saggi ai piedi, manicure, maschere viso e intrattenevamo tantis-sime affettuose conversazioni davanti a una tazza di tè prima di andare a letto. come ho detto, la trattavo come avrei fatto con la mia cara nonna. non conoscevo altro modo.

ruth suonava il campanello anche di notte e io scendevo le scale in un lampo per aiutarla a mettersi sulla comoda ed eva-cuare. “oh sei stupenda” mi diceva quando sopraggiungevo. do-vevo sembrarle seducente perché a volte raccoglievo i capelli in uno chignon quando andavo a letto, ma solo perché ero troppo esausta per sciogliere i nodi. e la mia camicia da notte anch’essa “stupenda” dipendeva dalle insistenze di mia madre affinché la portassi con me.

“non puoi stare a casa di quella signora e dormire nuda o con una vecchia maglietta” aveva pregato mia mamma. “per favore, prendi questa e promettimi di usarla.” così per rispetto dei suoi desideri, andavo a letto con indosso una camicia da notte di satin. e di certo dovevo avere un aspetto meraviglioso durante le incur-sioni nella stanza di ruth quattro o cinque volte per notte, mezza addormentata e con gli occhi che lottavano per restare aperti, desiderando riprendermi da quello stato di prostrazione. ruth aveva bisogno di me anche tutto il giorno successivo, perciò era-no sempre pochissime le occasioni per concedermi qualche ora di sonno indisturbato. facevo anche i mestieri, e me ne occupavo durante i suoi sonnellini pomeridiani.

seduta sulla comoda di solito voleva anche chiacchierare. ruth amava ogni tipo di attenzione, dopo anni di vita trascorsi

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per conto suo. anche io ero molto contenta della nostra amicizia, tranne quando mi toccava ascoltare quali tazze e piattini avevano usato a quel party trent’anni prima, mentre urinava alle tre del mattino e il mio corpo desiderava solo tornarsene a letto.

nel corso delle settimane ruth mi raccontò degli anni in giro per la baia e dei figli che giocavano giù nel porto. con un carret-to trainato da un cavallo che avanzava lungo le strade silenziose, venivano fatte le consegne di latte e pane. la domenica tutto il vicinato si vestiva a festa per andare in chiesa. ruth raccontava di quando i figli erano piccoli e del marito da tempo passato a miglior vita. sua figlia Heather, che trovavo deliziosa, veniva a trovarci ogni uno o due giorni ed era una ventata di aria fresca. il figlio di ruth viveva con la sua famiglia in aperta campagna e se Heather non lo avesse menzionato, sarebbe stato facile di-menticarsi della sua esistenza. non aveva un ruolo attivo nella vita della madre.

Heather era la roccia che aveva sostenuto ruth nei lunghi anni di vedovanza. anche suo fratello maggiore l’aiutava. Veniva a tro-varci a piedi ogni pomeriggio, percorrendo i due chilometri che separavano le loro case. potevi regolare l’orologio a ogni sua visi-ta. ecco lì, con lo stesso maglione, giorno dopo giorno. aveva già ottantotto anni e non si era mai sposato. la sua mente era luci-dissima ed era una persona meravigliosa; fu un piacere conoscerlo e godere della semplicità della sua vita.

tuttavia ruth non stava guarendo dalla sua malattia e dopo un mese era ancora a letto. Vennero fatti ulteriori esami e fu allora che seppi che stava morendo.

camminai verso il porto con le lacrime agli occhi, tutto sem-brava surreale. i bambini giocavano nell’acqua bassa. il pon-te pedonale sopra la baia oscillava leggermente mentre persone dall’aria felice lo attraversavano. i traghetti scivolavano sull’ac-qua seguendo la rotta verso circular Quay, nel centro della città. camminavo come in sogno, mentre risate squillanti provenivano da un gruppo di persone che facevano un pic nic.

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Mi sedetti contro uno scoglio di arenaria, con l’acqua che qua-si mi sfiorava i piedi, e guardai in alto il cielo meraviglioso. era uno di quei giorni invernali perfetti, quando il calore del sole è come un balsamo. sydney non è molto fredda in inverno, a dif-ferenza dei paesi europei. era una bellissima giornata, ed era suf-ficiente indossare un cappotto leggero. ero molto vicina a ruth, perciò il pensiero del suo trapasso mi lasciava in lacrime per il dolore inevitabile che avrei provato. era uno shock sapere che l’avrei persa. le lacrime inondavano il mio viso mentre uno yacht pieno di persone sane e felici passò lì davanti. Mi sovvenne anche il pensiero che ero la sua badante, e che sarei stata io ad assisterla fino alla fine.

essendo cresciuta prima in una fattoria per l’allevamento del bestiame e poi delle pecore, avevo visto tantissimi animali morti o in fin di vita. non era una novità per me, sebbene fossi sempre terribilmente sensibile alla cosa. Ma la società in cui vivevo, la società moderna della cultura occidentale, non esponeva la sua popolazione al contatto con corpi morenti. non era come in cer-te culture dove la morte umana avviene allo scoperto ed è una parte evidente della vita quotidiana.

la nostra società ha tagliato fuori la morte, negandone quasi l’esistenza. Questo rifiuto lascia sia la persona morente che la fa-miglia, o gli amici, del tutto impreparati a qualcosa di inevitabile. siamo tutti destinati a morire. Ma invece di riconoscere l’esisten-za della morte, cerchiamo di nasconderla. È come se cercassimo di convincerci che “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” fun-zioni davvero. Ma non è così, perché ci ostiniamo nel tentativo di affermarci attraverso la vita materiale e i comportamenti dettati dalla paura che ne conseguono.

se riuscissimo a rapportarci in anticipo e con sincera accet-tazione alla nostra inevitabile dipartita, allora cambieremmo le nostre priorità prima che sia troppo tardi. in questo modo avrem-mo la possibilità di volgere le nostre energie verso i veri valori e verremmo guidati da ciò che vuole veramente il nostro cuore.

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Una volta riconosciuto che ci resta un tempo limitato, sebbene non sappiamo se si tratti di anni, settimane o ore, siamo meno mossi dall’ego e smettiamo di dare importanza a ciò che gli altri pensano di noi. riconoscere che ci avviciniamo inevitabilmente alla morte ci dà l’opportunità di trovare uno scopo più grande e una soddisfazione maggiore nel tempo che ci rimane.

sono giunta a comprendere quanto sia deleteria questa nega-zione nella nostra società. Ma in quel momento, in quella soleg-giata giornata invernale, non mi aiutò affatto a immaginare cosa mi aspettava con ruth e in cosa sarebbe consistito il mio ruolo di badante. con la testa appoggiata sulla roccia di arenaria, pregai di avere la forza. avevo già dovuto affrontare tantissime sfide nella mia vita da ragazza e da adulta, perciò ero convinta che non sarei stata portata in quel posto se non avessi avuto le capacità di svol-gere quel lavoro. tuttavia quella sensazione di fiducia non alleviò più di tanto il mio personale dolore e la mia tristezza.

seduta nel caldo abbraccio del sole, con le lacrime che scivo-lano pacate lungo il viso, sapevo di avere un compito da svolgere: dare a ruth tutta la felicità e il sollievo di cui ero capace nelle sue ultime settimane di vita. restai seduta a lungo, riflettendo sulla vita e su come non avessi potuto prevedere tutto questo. Ma ri-conoscevo anche di avere dei doni da condividere, ed era proprio quello che mi veniva chiesto di fare. Mentre tornavo a piedi verso casa, una forte risoluzione maturò dentro di me. avrei dato il massimo in quella situazione e mi sarei messa in pari col sonno in un secondo momento.

la mia responsabile arrivò più tardi quel giorno. le spiegai che non avevo mai visto un cadavere, né tantomeno mi ero mai presa cura di qualcuno che stava per morire, ma le mie parole caddero nel vuoto. “la famiglia ti adora. andrà tutto bene.”

“andrà tutto bene” è un’espressione talmente diffusa che la presi alla lettera. da quel momento l’aggravarsi della condizione di ruth fu piuttosto veloce. altre badanti mi davano il cambio nei miei giorni liberi e visto che i suoi bisogni aumentavano, fui

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dispensata dal servizio notturno. continuavo a essere chiamata dalle altre collaboratrici perché supervisionavo l’andamento delle cose. Ma adesso almeno riuscivo a dormire un po’ di più.

i giorni erano ancora speciali e quasi sempre restavamo solo ruth e io. era un quartiere tranquillo, solo occasionalmente qualche risata risuonava attraverso gli alberi dal parco del porto sottostante. Heather veniva a farci visita, così pure James e una fila di specialisti che facevano il loro lavoro. la lezione che mi veniva offerta era immensa e stavo crescendo tantissimo nel mio ruolo, senza rendermi nemmeno conto della portata che aveva. facevo semplicemente ciò che serviva e chiedevo un sacco di in-formazioni ogni volta che potevo.

Una mattina mi stavo preparando per una breve vacanza di due giorni, ero eccitata all’idea di andare fuori città per far visita a mio cugino e per godere di un po’ di leggerezza dopo il peso di tutta quella situazione, quando avvertii l’odore che proveniva dalla camera da letto. la badante del turno di notte non l’aveva notato, oppure non aveva voluto farlo, sperando di poter lascia-re quell’incombenza alla collega del turno del mattino che stava per sopraggiungere. Vidi molti comportamenti del genere negli anni successivi.

non potevo assolutamente lasciare giacere la mia amica in quello stato un minuto di più. l’intestino si era rilassato e aveva evacuato completamente. distesa inerme, ruth fu in grado di rispondermi solo con placidi grugniti. gli organi principali stava-no collassando. la badante della notte si staccò malvolentieri dal-la rivista di gossip che stava leggendo e mi aiutò a ripulire quella buona signora e a cambiarle le lenzuola. fu un sollievo quando l’assistente diurna arrivò, lasciò cadere a terra le sue cose e si diede subito da fare con sorriso allegro. ruth era pulita e riposava, e presto cadde in un sonno profondo, esausta.

Mentre me ne stavo seduta nel bush con mio cugino più tardi quel giorno, il mio cuore era ancora a casa. accolsi la leggerezza e l’allegria che mi dava sempre la sua compagnia. ero contenta

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di stare un po’ con lui, eppure non sarebbe stato possibile per me restare fuori due notti. ruth era nei miei pensieri ed ero certa che non le restasse molto da vivere. ero da mio cugino da poche ore quando mi chiamò il mio capo per dirmi che ruth aveva le ore contate e chiedermi se potevo tornare.

rientrai che era già buio, la cupa atmosfera della casa era palpabile fin da fuori. Heather era lì con il marito, insieme alla nuova badante di notte che era appena arrivata, una dolce ragaz-za irlandese.

Heather mi chiese se sarebbe stato un problema se fosse andata. le risposi cortesemente che doveva fare quello che sentiva giusto per lei. e casa fu. tuttavia, dopo che se ne fu andata, ebbi qualche difficoltà a evitare di giudicarla, almeno all’inizio. non potevo fare a meno di immaginare mia madre morente e al fatto che avrei mosso mari e monti pur di stare con lei in quel momento.

si dice che tutto derivi dall’amore o dalla paura: ogni emozione, ogni azione e ogni pensiero. Mi resi conto che a muovere la deci-sione di Heather era stata la paura e allora provai per lei un moto di compassione e di affetto. fin dall’inizio della nostra collaborazio-ne, l’avevo trovata una donna molto pratica e quasi distaccata. Ma questa era una situazione del tutto nuova per me. non volevo che le mie convinzioni e i miei condizionamenti ostacolassero il riguar-do nei confronti di una persona a cui volevo bene, soltanto perché gestiva le cose in modo diverso da come avrei fatto io. seduta nella stanza buia con erin, l’altra badante, giunsi ad accettare e a rispet-tare le azioni di Heather. faceva quello che avrebbe dovuto, perché aveva fatto quanto poteva. per anni aveva tenuto in ordine la vita della madre così come quella della sua famiglia. a questo punto era completamente esaurita, sia fisicamente che emotivamente. aveva dato tutto quello che poteva e voleva ricordare la sua mamma paci-ficamente addormentata, com’era prima che se ne andasse. sorrisi rispettosamente alla mia presunta comprensione.

tuttavia, nei giorni seguenti, quando ebbi modo di parlare con Heather, scoprii che ruth aveva fatto capire alla figlia che non vo-

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leva che assistesse alla sua morte. Heather conosceva la madre ab-bastanza bene da intuire i suoi desideri. Quindi era stato per amore che se n’era andata a casa, non per paura. situazioni simili diven-nero familiari negli anni a venire. non tutte le persone che stanno per morire vogliono avere vicino la famiglia. dicono addio quando sono ancora coscienti e preferiscono essere seguite da professionisti, permettendo ai parenti di mantenere intatto il loro ricordo.

Mentre erin e io chiacchieravamo a bassa voce nella stanza di ruth, la presenza della morte aleggiava su di noi. la ragazza mi spiegò che, se si fosse trattato di qualcuno della sua famiglia, a quel punto la stanza sarebbe stata piena di gente. zie, zii, cugini, vicini di casa e bambini, tutti sarebbero venuti a dire addio, ad “accompagnare fuori” il morente.

poi ci fu silenzio e ci limitammo entrambe a guardare ruth, a osservare e ad aspettare. la notte era incredibilmente calma men-tre dal cuore inviavo silenziosamente tutto il mio amore a ruth. erin e io parlammo ancora un po’ e poi restammo di nuovo in silenzio. era una bella persona con cui condividere quella espe-rienza, perché le stava a cuore. le veniva spontaneo farlo.

“Ha aperto gli occhi” disse erin improvvisamente, sorpresa. fino a quel momento ruth era rimasta in uno stato di coma par-ziale. “ti sta guardando.”

Mi avvicinai al letto e le presi la mano. “sono qui tesoro. Va tutto bene.”

Mi guardò dritto negli occhi e un attimo dopo il suo spirito iniziò a lasciare il corpo che fu scosso brevemente da un tremito. poi tutto restò immobile.

subito, le lacrime rotolarono giù dalle mie guance. parlandole con il cuore, silenziosamente, la ringraziai per quello che aveva-mo condiviso, le dissi che le volevo bene e che le auguravo di fare buon viaggio. fu un momento molto solenne, colmo di serenità e amore. nella stanza buia, con tutti i sensi all’erta, pensai tra me e me a quale benedizione mi fosse stata concessa nell’assisterla in quel momento.

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poi sorprendentemente il corpo di ruth fece un altro grande respiro. Balzai indietro, imprecando, con il cuore che mi batteva a mille. “Merda!” dissi a erin.

rise: “sai Bronnie, è abbastanza normale. succede spesso.”“oh bene, grazie per avermelo detto” risposi sconvolta, sorri-

dendole. il cuore mi martellava nel petto e tutta la solennità del momento era sparita. Mi riavvicinai al letto con grande esitazio-ne. “pensi che succederà ancora?” sussurrai.

“potrebbe.”aspettammo in silenzio per un altro minuto o due, quasi sen-

za respirare. “se n’è andata, erin. sento che se n’è andata” dissi alla fine.

“dio la benedica” dicemmo piano entrambe, all’unisono.accostando le sedie al letto, sedemmo un po’ insieme a ruth

in sacro silenzio e amorevole rispetto. avevo anche bisogno di riprendermi un attimo, dopo il terrore provato poco prima.

Heather e la mia responsabile mi avevano chiesto di chiamarle non appena fosse successo, cosa che feci. erano circa le due e mezza del mattino. non ci restava molto da fare a quel punto. il giorno prima, mi era stato detto come avrei dovuto comportarmi a partire da quel momento. così chiamai il dottore affinché ve-nisse a compilare il certificato di morte. Quando anche questo fu fatto, chiamai le pompe funebri.

erin e io sedemmo in cucina finché il corpo di ruth non fu portato via, proprio nel momento in cui il sole sorgeva. duran-te quelle ore di attesa, di tanto in tanto andavamo entrambe a dare un’occhiata a ruth. sentivamo l’impulso di occuparci del suo corpo, anche se ormai lo aveva lasciato. non mi piaceva che restasse nella stanza da sola. in un certo senso, il tempo strano e oscuro che seguì fu molto speciale. Ma quella notte si avvertiva anche un vuoto tangibile nella casa, dopo che se ne fu andata.

l’indomani mi fu offerto di occuparmi della casa di ruth. He-ather diceva che ci sarebbero voluti dei mesi prima che si riuscisse a vendere la proprietà e piuttosto che lasciarla vuota, la famiglia

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si sarebbe sentita più sicura se qualcuno ci avesse vissuto. così continuai a vivere lì per qualche tempo, il che fu una vera bene-dizione per la mia condizione fisica. era anche un bene trovarmi in un posto diventato familiare.

avevo capito che il lavoro a domicilio ventiquattro ore su ventiquattro era troppo stancante. non essendo capace di fare le cose a metà, adesso sapevo che avrei avuto bisogno di allonta-narmi dai futuri pazienti, tra un turno e l’altro, andando a casa ogni notte. il lavoro di assistenza richiedeva molto di più della semplice compagnia.

nel corso dei mesi successivi, osservai e aiutai Heather a spostare altrove gli oggetti di ruth. il suo mondo materiale veniva smantella-to un pezzo alla volta, come accade per chiunque. ero stata nomade per così tanto tempo che continuavo a provare una certa avversione nel possedere troppi beni. di conseguenza rifiutai molti degli og-getti che Heather caramente mi offriva. non erano altro che cose e sebbene fossero appartenute alla mia amica ruth, sapevo che il suo ricordo sarebbe rimasto vivo nel mio cuore, come infatti è stato.

tuttavia mi ero innamorata di una coppia di vecchie lampade che sono rimaste con me fino a oggi. in seguito, la casa di ruth fu demolita dai nuovi proprietari e rimpiazzata da un moderno edi-ficio in cemento. il vetusto frangipani che aveva diffuso per anni i profumi dell’estate per tutta la casa fu abbattuto in un batter d’occhio e sostituito da una piscina. ricevetti l’invito per la festa di inaugurazione della nuova casa.

le persone che avevano comprato la proprietà di ruth si erano sentite a disagio con i ragni e le ragnatele tra gli alberi in giardino. eppure in precedenza, noi due eravamo state sedute al sole a guar-dare il ragno golden orb tessere una tela così resistente da poterla sollevare per camminarci sotto. era una meraviglia che entrambe avevamo amato e condiviso. in piedi, accanto alla piscina, men-tre osservavo tutte le nuove piante chic che avevano rimpiazzato il giardino naturale che ruth aveva amato per anni, fui felice di scorgere un ragno golden orb tessere la sua tela tra le foglie.

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con un sorriso inviai amore a ruth e sapevo che a suo modo era venuta a farmi visita proprio lì quel giorno. la sua casa poteva non esserci più, ma il suo spirito era con me. ringraziai i nuovi proprietari per l’invito, feci due chiacchiere e poi m’incamminai verso il porto. Mi sedetti dove ero stata il giorno in cui avevo saputo per la prima volta che ruth aveva una malattia terminale, e mi sentii grata per tutto quello che avevamo condiviso e per ciò che avevo imparato stando insieme.

Quel giorno d’estate sorrisi, comprendendo quanto avessi ri-cevuto in cambio allora, molto più di un posto dove vivere gratis. Mentre la giornata si dispiegava felicemente davanti a me, conti-nuai a sorridere grata. e avendo attirato la mia attenzione su quel ragno golden orb, ruth aveva ricambiato il mio sorriso.

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onestà e resa

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dopo la morte di ruth avvennero alcuni cambiamenti lungo il mio cammino. ai cambi di turno avevo conosciuto altre badanti. era l’unico momento di

socializzazione con il personale. durante le lunghe dodici ore di lavoro, non c’era nessun compagno di squadra né risate: ci incontravamo soltanto per il passaggio di consegne. il cliente, la famiglia e il personale sanitario che venivano in visita divennero il nostro unico contatto.

ciò fece sì che le relazioni diventassero ancora più personali. Mi diede anche il tempo di leggere occasionalmente, di scrivere, di continuare la mia pratica di meditazione o di fare un po’ di yoga. Molte badanti impazzivano all’idea di avere troppo tempo per sé e non era raro arrivare in una casa e trovare la televisio-ne accesa già prima di colazione. grata di amare la mia stessa compagnia, le lunghe ore di silenzio mi si confacevano piuttosto bene. anche se c’erano persone attorno, di solito con un malato in punto di morte l’ambiente in casa era sereno.

fu proprio questo il caso di stella, che abitava in un sobborgo alberato. non era solo il fatto che stesse morendo. si trattava a tutti gli effetti di persone pacifiche e buone. stella aveva lunghi capelli bianchi.

“elegante” fu il primo aggettivo che mi venne in mente quan-do la conobbi, malgrado fosse a letto malata. suo marito george era un bell’uomo e mi accolse con naturalezza.

dover accettare che un membro della famiglia stia per morire rappresenta un momento di grande cambiamento già di per sé.

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tuttavia, quando quella persona finisce per aver bisogno di assi-stenza ventiquattro ore su ventiquattro, la vita non è più la stessa. l’intimità e i momenti speciali vissuti a due nella casa diventano un lontano ricordo.

le badanti entravano e uscivano, cambiando turno di giorno e di notte. alcune erano regolari, ma altre venivano solo una vol-ta, perché seguivano continuativamente altri clienti. così c’erano facce nuove da gestire, nuove personalità e diverse etiche del la-voro. dopo poco tempo, comunque, divenni la badante diurna ufficiale di stella. Veniva anche un’infermiera, così come il me-dico omeopatico. lo incrociai durante l’assistenza a molti altri clienti nel corso degli anni successivi ed era proprio una persona speciale, deliziosa e dal cuore d’oro.

dopo l’esperienza con ruth, la mia responsabile disse che me l’ero cavata a meraviglia e mi propose di seguire un corso di formazione nel campo dell’assistenza domiciliare, nel caso in cui avessi voluto intraprendere quella strada. accettai la sua proposta dal momento che sentivo che la vita mi stava chiamando verso quella direzione. il tempo passato con ruth e le cose che avevo imparato da quella esperienza avevano esercitato un profondo ef-fetto su di me, lasciandomi il desiderio di crescere e di fare mag-giore esperienza in questo campo.

la formazione prevedeva due seminari. in uno di questi fu mo-strato a me e alle altre badanti il modo giusto di lavarsi le mani. l’altro consistette nella rapida spiegazione di alcune procedure di sollevamento. Questo fu a grandi linee il mio addestramento for-male. poi, quando mi inviò a lavorare da stella, il mio capo mi raccomandò di non dire loro che avevo assistito solo un cliente. riteneva, come me, che avrei potuto svolgere comunque il lavoro.

l’onestà era sempre stato un tratto importante della mia per-sonalità. Ma quando la famiglia mi fece domande sulle mie pre-cedenti esperienze professionali, mi ritrovai a mentire, perché avevo bisogno di lavorare. inoltre erano state approvate nuove leggi sulle qualifiche del personale, e io non ne avevo nessuna.

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sebbene non potessi dimostrare di avere le capacità necessarie a svolgere il lavoro parlando di esperienze pregresse, volevo a tutti i costi che la famiglia di stella si sentisse a suo agio con me. nel profondo del cuore, sapevo che sarei stata in grado di svolgere bene il mio compito, dal momento che si trattava più di essere gentili e svegli che altro. così, quando me lo chiesero, mentii, dicendo che avevo accudito molte più persone di quante ne aves-si assistite in realtà. tuttavia, mentire mi fece sentire talmente a disagio che non riuscii più a farlo con gli altri clienti.

stella era fissata con l’igiene e voleva lenzuola pulite tutti i gior-ni. Ma era anche una donna di stile e pretendeva che le camicie da notte che indossava fossero abbinate al colore o al motivo delle lenzuola. george rise con me un giorno che era finito nei guai per aver scelto le lenzuola sbagliate per la camicia da notte che lei vole-va mettersi. gli dissi ridendo: “purché sia felice.” finii col ripetere questa frase alle famiglie di quasi tutti i miei futuri clienti.

e fu così che questa donna alta ed elegante relegata a letto in attesa di morire, con le lenzuola e la camicia da notte abbinate, un giorno mi chiese della mia vita.

“Mediti?” chiese.“sì” risposi felice. non mi aspettavo quella domanda. stella proseguì: “che percorso segui?”. glielo dissi e lei annuì

in segno di comprensione. “fai yoga?” chiese poi.“sì,” risposi ancora “ma non tanto quanto vorrei.”“Mediti tutti i giorni?”.“sì,” risposi “due volte al giorno.”non potei fare a meno di sorridere quando, dopo poco, lei

continuò con voce gentile: “oh grazie a dio. sono anni che aspetto una persona come te. adesso posso morire.”

stella era stata istruttrice di yoga per quarant’anni, molto tempo prima che lo yoga si diffondesse nella cultura occidentale. all’epoca era qualcosa di strano che veniva dall’oriente. era stata in india parecchie volte ed era molto devota al suo percorso.

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all’inizio, dal momento che la sua occupazione era troppo ec-centrica per il mondo in cui viveva, diceva di essere un’istruttrice di educazione fisica, invece che una insegnante di yoga. fortuna-tamente, con l’evolversi della società nel corso del tempo, questa disciplina divenne qualcosa di più convenzionale e lei poté uscire allo scoperto e insegnare a tanti allievi le arti e la saggezza di que-sto percorso.

il marito di stella era un professionista in pensione e lavorava ancora da casa, anche se meno di prima. era una persona molto serena e la sua presenza mi faceva piacere. la biblioteca era piena di classici spirituali. Molti li avevo letti, ma ce n’erano parecchi che avevo sempre voluto leggere senza esserci mai riuscita. era un so-gno che diventava realtà, specialmente per una persona interessata alla filosofia, alla psicologia e alla spiritualità come me. ne divorai il più possibile. Quando stella si riprendeva dal sonno, mi chiede-va quale libro stessi leggendo, a che punto fossi arrivata e passava a commentarlo. li conosceva tutti. se era sufficientemente luci-da per intrattenere lunghe conversazioni, cosa che non succedeva spesso, parlava sempre di filosofia. condividevamo molte teorie e scoprimmo di pensarla allo stesso modo su diversi argomenti.

anche la mia pratica yoga migliorò. non sentivo la necessità di nascondere quello che stavo facendo, o di andare in un’altra stan-za. la porta della camera di stella non era mai chiusa, così l’aria fresca ci soffiava dentro liberamente. era un posto piacevole dove lavorare. il suo serafico gatto bianco, Yogi, se ne stava sdraiato ai piedi del letto e mi guardava. Visto che i pomeriggi erano partico-larmente tranquilli e anche il vicinato, sfruttavo al massimo quei momenti per fare gli allungamenti e respirare. a volte pensavo che stella stesse dormendo e invece scoprivo con grande piacere che era sveglia e commentava qualche posizione dandomi le dritte per migliorare una postura o per provarne un’altra simile, magari più dinamica e difficile, prima di sprofondare di nuovo nel sonno.

a quei tempi, facevo yoga da circa cinque anni. avevo iniziato a fremantle, un sobborgo di perth, quando vivevo in australia

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occidentale. due volte la settimana inforcavo la bicicletta e pe-dalavo fin lì, a un paio di sobborghi di distanza da casa mia. il maestro si chiamava Kale. fu davvero un ottima guida all’intro-duzione dello yoga. egli stesso aveva trovato tardi la strada verso quella disciplina. ci era arrivato a causa del mal di schiena. ov-viamente la vita aveva grandi progetti per lui e alla fine trovò la sua vocazione, con grande beneficio dei suoi tanti allievi devoti.

dopo aver lasciato perth, la vita fu instabile per qualche tem-po, ma lo yoga continuava a chiamarmi. ovunque abbia vissuto, ho sempre cercato un corso anche se potevo frequentarlo solo per poco tempo. Ma cercare un gruppo con il quale entrare in sintonia, come avevo fatto con quello di Kale, fu inutile. non si faceva trovare.

nel periodo trascorso nella stanza di stella, capii che fino a quel momento non avevo guardato la mia pratica yoga dalla giu-sta prospettiva, perché avevo continuato a contare sulla media-zione del maestro, invece che su me stessa. grazie alla guida di stella, questo aspetto cambiò definitivamente. da allora ho se-guito altri corsi, perché mi permettono di evolvere la mia pratica domestica. rappresentano anche un ottimo modo per incontrare gente affine. tuttavia i miei esercizi a casa non sono venuti meno, dal momento che la pratica stessa è maestra. stella ha lasciato il segno sulla sua ultima allieva.

la sua frustrazione maggiore era che fosse pronta a morire e ciò non accadeva. arrivavo la mattina e le chiedevo come si sen-tisse. “Be’, come vuoi che mi senta?” rispondeva. “sono ancora qui e non voglio esserci.”

non riusciva più a meditare. dopo tutti gli anni di disciplina mentale e di connessione con se stessa che aveva sperimentato at-traverso la meditazione, pensava che sarebbe stata una cosa spon-tanea, ora che si stava avvicinando il suo ritorno a casa. infatti, aveva creduto che la sua pratica si sarebbe intensificata. Ma in verità fu la mia a farlo. ogni pomeriggio, quando si appisolava nuovamente, facevo la mia seduta pomeridiana. “sei fortunata”

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mi diceva più tardi. “È talmente frustrante. non riesco a medita-re e non riesco a morire.”

“forse sei ancora qui per me. forse ci sono altre cose che ho bisogno di imparare grazie a te ed è per questo che il tuo momen-to non è ancora arrivato” suggerivo.

annuiva: “Questo lo posso accettare.”Ma come spesso accade quando due persone interagiscono,

eravamo lì per imparare entrambe l’una dall’altra. Quando toc-cai l’argomento della resa, stella iniziò a trovare una maggiore pace interiore. Mi sedevo accanto al suo letto e parlavo dei gior-ni andati, di imparare a lasciare andare, e lei mi ascoltava con interesse.

nel corso degli anni, ero passata da un atto di fede all’altro. le raccontai di come anni prima mi fossi messa in viaggio verso sud con niente più che una tanica piena di benzina, cinquanta dollari e l’intenzione di arrivare in un posto dove facesse più fred-do e di restarci per un po’. avevo in mente un paese della costa a sud nella nuova scozia Meridionale e mi ero incamminata verso quella direzione generica. Quando mi fermavo a far visita agli amici lungo il tragitto, trovavo un lavoro per un paio di giorni che mi permetteva di continuare il viaggio. avendo già vissuto in modo così nomade, avevo amici sparsi ovunque e fu meraviglioso incontrarli; alcuni non li vedevo da anni. alla fine giunsi nel pa-ese stabilito ma con pochissimi soldi in tasca.

Un campeggio adibito alla sosta dei camper sul promontorio aveva la vista migliore in città, sopra al maestoso oceano pacifico. così mi fermai lì per una notte. avevo rimosso il sedile posteriore della mia vecchia jeep e lo avevo rimpiazzato con un materasso. prima di mettermi in viaggio avevo appeso delle tendine ed ecco fatto, avevo anch’io una casa-mobile. Quando controllai gli an-nunci di lavoro in città, mi resi conto che le cose sembravano un tantino complicate. Ma era autunno, il mio periodo dell’anno preferito. così assaporai il clima perfetto per un paio di giorni e feci un sacco di passeggiate.

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tuttavia non riuscivo più a pagare regolarmente l’affitto della piazzola nel campeggio. stavo finendo i soldi e del resto sfruttavo il campeggio solo per la doccia e come punto d’appoggio, mentre cercavo qualche contatto. così comprai del cibo e mi diressi nel bush, seguendo le indicazioni verso un fiume nell’entroterra, non molto lontano da lì. avendo già vissuto prima attraverso atti di fede, sapevo di dover affrontare le mie paure a testa alta ancora una volta. se avevo intenzione di ottenere qualcosa solo per mez-zo della fede, dovevo smettere di pensare con la testa, e questa era la parte più difficile.

affiorarono nella mente schemi di pensiero sbagliati, risultato del condizionamento passato e delle imposizioni sociali, in base ai quali non era lecito che vivessi a quel modo. la paura iniziò a farsi sentire mentre mi chiedevo perché mai stesse succedendo di nuovo. ancorarmi al presente era l’unica cosa che mi aveva sal-vata in passato e mi avrebbe salvato anche adesso. non c’è posto migliore della natura per affrontare i propri timori: lì puoi ritor-nare al vero ritmo della vita.

Quando le paure si assopivano, godevo di splendide giornate fat-te di abitudini salutari e semplici, mangiando cibo frugale e sano, nuotando nelle acque pulite e trasparenti del fiume, osservando an-dare e venire i musi curiosi degli animali selvatici, ascoltando i canti degli uccelli e leggendo. fu un periodo solenne, bello e sereno.

passarono quasi due settimane prima che incontrassi un’altra persona. era una bella giornata e sul fiume era giunta una famiglia di tre generazioni per un pic nic. dedussi da questo particolare che fossimo durante il weekend. lasciai la jeep aperta e decisi di fare una lunga camminata nel bush, lasciando il posto tutto per loro. nel tardo pomeriggio mi sdraiai sul retro della jeep, con il bagagliaio e i finestrini spalancati, e lessi per un po’. la bellissima luce del crepuscolo filtrava magicamente tra gli alberi.

Mentre la famiglia stava per andarsene, una delle donne, mia coetanea e madre di due bambini, si staccò dal gruppo, men-tre il marito, i genitori e i figli proseguirono verso la macchina.

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camminò silenziosamente verso di me e salì a bordo della jeep. sollevai la testa dal libro leggermente sorpresa e sorrisi, mentre lei mi sussurrò: “invidio la tua libertà.” a quelle parole ridemmo en-trambe, poi se ne andò, senza aggiungere altro; non ebbi neanche il tempo di ribattere.

sdraiata nella jeep, quella notte, con le tendine aperte, le rane che gracidavano lungo il fiume e una coperta di milioni di stelle a tenermi compagnia, sorrisi ripensando a quella donna. aveva ragione. ero libera. non avevo soldi né cibo a sufficienza se non per pochi giorni ancora, ma in quel momento, ero libera quanto può esserlo una persona.

la gente mi chiede spesso delle mie numerose escursioni nel bush e dei viaggi per il paese, e mi domanda se abbia mai temuto per la mia incolumità. la risposta è no: sono state rare le occasio-ni in cui ne ho avuto motivo. ci sono state un paio di situazioni pericolose, come quella volta dell’autostop. Ma andò tutto bene e quelle rare occasioni mi sono servite come monito e lezione per il futuro. dal momento che ogni spostamento veniva compiuto se-guendo l’intuito, cercavo di andare avanti con fiducia come me-glio potevo, sapendo che qualcuno si sarebbe preso cura di me.

Ma siamo creature sociali, così alla fine tornai in città. telefo-nai a mia madre, con cui avevo un rapporto sano e affettuoso. il suo istinto materno la teneva in costante apprensione per il mio benessere. capiva però che la vita da nomade faceva parte di me. non giudicava le mie scelte, ma era sempre sollevata quando mi sentiva. il giorno prima aveva speso due dollari per comprare un biglietto della lotteria, con l’intento di vincere dei soldi per me. È una persona così generosa, che la fortuna l’ha baciata!

“tu mi dai così tanto in tanti modi” diceva. “Voglio che pren-da questi soldi. li ho vinti perché avevo intenzione di aiutarti.” così, piena di gratitudine, mi ritrovai con dei soldi per tirare avanti un altro paio di settimane.

il mattino dopo mi svegliai e mi diressi verso gli scogli, per guardare l’alba sull’oceano. adoro quella prima occhiata di luce,

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quando si vedono ancora le stelle ma tutto un nuovo giorno sta per cominciare. Mentre il cielo diventava rosa e poi arancione, sedevo sugli scogli osservando un branco di delfini nuotare lì vi-cino, intenti al gioco, mentre saltavano fuori dall’acqua per puro piacere. in quel momento seppi che tutto sarebbe andato bene.

più tardi quel giorno, dopo una lunga e piacevole chiacchie-rata sulla vita e sul viaggio, il proprietario del campeggio tornò alla mia jeep facendo dondolare una chiave. “il furgoncino alla piazzola otto non mi serve nei prossimi dieci giorni. È tuo e non voglio un centesimo. se mia figlia dormisse sui sedili posteriori di una macchina, vorrei tanto che qualcuno facesse lo stesso per lei” dichiarò ted.

“che dio ti benedica ted, grazie” dissi ricacciando indietro lacrime di gratitudine.

così avevo un tetto sopra la testa per le successive dieci notti e un posto dove cucinare. durante quel periodo però, le paure sta-vano riprendendo a infuriare con forza dentro di me per via della mia situazione precaria. dovevo guadagnare qualcosa. la scorta di cibo si stava assottigliando nuovamente. ogni giorno facevo visita a tutti i negozi della città e nonostante abbia conosciuto un sacco di gente simpatica, non c’era lavoro in vista. tornando a piedi su per la collina, verso il promontorio e il furgone, respiravo a fondo cercando di restare nel presente, ma tentando anche di trovare una soluzione.

detestavo quell’aspetto della mia vita, l’impulso di gettare al vento ogni cautela e mettermi in situazioni così complicate, continuamente. eppure era quasi una dipendenza. tutte le volte che lo facevo, sfidavo le mie ansie a testa alta e riuscivo sempre a cadere in piedi. in un certo senso, ogni atto di fede successivo al precedente era sempre più duro e impegnativo, perché mi spin-geva al centro delle mie paure più profonde. Ma era anche più facile. avevo messo alla prova la mia fede in diverse situazioni estreme e così avevo guadagnato saggezza e fiducia in me stessa. in questo modo la vita acquisiva senso per me, a prescindere da

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quanto fosse dura. non ero fatta per vivere secondo le conven-zioni della società.

fu proprio a quel punto, mentre guardavo l’alta marea riti-rarsi, che ricordai l’importanza della resa, di lasciarsi andare e permettere alla natura di tessere la sua magia. la stessa forza che equilibra il flusso delle maree, quella forza che ordina l’alternarsi perfetto delle stagioni e crea la vita, era senz’altro capace di offrir-mi l’opportunità di cui avevo bisogno. Ma prima di tutto dovevo arrendermi. cercare di controllare il ritmo e orientare il risultato era un terribile spreco di energia. avevo espresso le mie intenzioni all’universo e avevo fatto tutto quello che potevo. il mio compito adesso era togliermi di mezzo.

risi dolcemente di me per aver dimenticato questo concetto, frutto di una lezione del passato: nei momenti di difficoltà, quan-do mi trovavo in bilico su un filo fragile e sottile, la sola cosa da fare era abbandonarmi e vedere dove sarei caduta. era giunto il momento di lasciarmi andare di nuovo.

arrendersi non significa rinunciare, tutt’altro. richiede una enorme dose di coraggio. spesso riusciamo a farlo solo quando il dolore che proviamo nel tentativo di controllare il risultato diven-ta troppo grande da sopportare. raggiungere questo punto è libe-ratorio, anche se tutt’altro che divertente. essere capaci di accetta-re che non c’è nient’altro che possiamo fare, se non rimettere tutto a una forza più grande, è il catalizzatore che alla fine apre la via.

la mattina seguente, all’alba, scesi fino all’acqua, dove i delfini intenti al gioco mi salutarono. Mi sentivo del tutto svuotata e prosciugata dopo l’attacco sferrato dalla paura, dal dolore e dalla resistenza, e finalmente mi stavo lasciando andare. l’esaurimento emotivo mi aveva consumata. Ma osservando i delfini, assorbii la nuova alba e lentamente, con dolcezza, permisi a me stessa di farmi nuovamente pervadere dalla speranza.

durante una conversazione estemporanea con alcune persone in vacanza nel campeggio, qualche giorno dopo, mi fu offerto un lavoro a Melbourne, a sette ore circa più a sud. “perché no?” pen-

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sai. ero libera di andare dove volevo, e desideravo vivere in un cli-ma più freddo. presto Melbourne divenne la mia città australiana preferita ed è rimasta tale. all’epoca non pensavo di trasferirmi lì, e non avevo idea del bene che mi avrebbe fatto vivere in una città tanto creativa. fu solo arrendendomi e restando nel presente che permisi a quella opportunità di lavoro di manifestarsi.

Quando finii di raccontare la mia storia a stella, sorridemmo en-trambe. Mangiò mezza fragola e annuì. fino a quel momento aveva cercato di controllare il momento del suo trapasso, ma era giunta l’ora di arrendersi e lasciare andare il desiderio che fosse tutto sotto il suo potere. per quanto non le piacesse particolarmente l’idea, accet-tò di farlo. ci vogliono nove mesi perché il corpo si formi. a volte ci vuole del tempo anche perché interrompa la sua attività.

a quel punto, comunque, stella era già molto debole e rifiuta-va quasi del tutto il cibo. non aveva la forza di mangiare ma ac-cettava piccoli pezzi di frutta soltanto per il gusto di assaporarla. il giorno prima, erano stati due acini d’uva. oggi mezza fragola.

la malattia avrebbe dovuto procurarle parecchio dolore, so-prattutto perché si era sviluppata molto tempo prima rispetto alla diagnosi. Ma la sofferenza era minima, cosa che stupiva il dottore. la conseguenza del suo diffondersi era solo un grande sfinimento. tutto il lavoro che aveva fatto lungo il viaggio spiri-tuale contribuì a darle una forte sintonia con il corpo, che ora la ricambiava con una quasi totale assenza di dolore. fu anche per questo che se ne andò dolcemente.

due o tre giorni prima, avevo notato che le dita si erano gon-fiate al punto che la fede le aveva lasciato un solco profondo nell’anulare. sembrava che le stesse compromettendo la circo-lazione sanguigna. telefonai alla mia responsabile e l’infermiera mi suggerì di toglierle l’anello. Mentre george le stava sdraiato accanto, sul letto, lavorai con acqua e sapone finché glielo sfilai delicatamente. ci volle tantissimo tempo per farlo e a quel punto sia stella che george erano in lacrime. Mi sentivo come l’avvoca-to del diavolo, se non che, quando riuscii a rimuovere il simbolo

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del loro amore che era rimasto al dito di stella per più di mezzo secolo, scoppiai a piangere anch’io.

george, un uomo sempre così caro, la chiamò con il nomi-gnolo tenero che era stato parte della loro vita matrimoniale per tanto tempo. Uscii dalla stanza mentre condividevano un raro momento di intimità, giacendo l’uno nelle braccia dell’altra forse per l’ultima volta. chiusa in bagno a piangere, mi sentii fortuna-ta di poter essere testimone della profondità del loro amore. era diverso da quelli che avevo visto prima. erano veri amici, due persone cortesi e premurose con tutti, soprattutto l’uno con l’al-tra. Ma era ugualmente doloroso per me vederli piangere mentre la fede veniva rimossa per sempre dal dito di stella.

i figli venivano regolarmente in visita, molto più spesso ades-so, visto che il tempo stava giungendo al termine. Mi piacevano anche se erano diversi tra loro, sebbene tutti fossero cortesi e af-fettuosi. tuttavia avevo legato soprattutto con una delle figlie.

Un giorno il tempo volse improvvisamente al brutto e mi tro-vai a lavorare senza essere sufficientemente coperta. george insi-stette affinché indossassi uno dei cardigan di stella. sia lui che lei concordarono sul fatto che mi stava benissimo. era una di quelle cose che normalmente non avrei mai notato in un negozio, per-ché non era il mio genere. Ma quando l’ho indossato, me ne sono innamorata all’istante. Quel giorno la famiglia, compresa lei, mi dissero di tenerlo. a distanza di anni lo porto ancora. aveva stile, la nostra stella.

Quella notte stessa entrò in coma, mentre io ero a casa a dor-mire. Quando ritornai la mattina seguente trovai un’atmosfera solenne. george e il figlio david erano lì. Mentre la brezza gentile soffiava attraverso la porta della camera, george si distese sul letto accanto alla sua bella moglie. la sua mano stringeva quella di lei, che ora stava diventando fredda. era ancora viva, ma in questi casi, con il sopraggiungere della morte, la circolazione del sangue alle estremità è compromessa. anche i piedi avevano perso il loro calore. david sedeva su una sedia tenendole l’altra mano. presi

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posto su una sedia al fondo del letto e appoggiai una mano sui suoi piedi. suppongo che sentissi il bisogno di toccarla anch’io.

dopo più di dodici ore di coma profondo, stella aprì gli occhi e sorrise in direzione del soffitto. george si alzò: “sta sorridendo” dichiarò sorpreso. “sta sorridendo a qualcosa.”

stella non si rendeva più conto della nostra presenza. Ma il sorriso rivolto a quel qualcosa o a qualcuno che catturava il suo sguardo, rafforzò in me una certezza che non è mai venuta meno. le meditazioni che avevo fatto fino ad allora mi avevano portata in posti meravigliosi, ben al di là di dove può arrivare un aeropla-no, e per questo non avevo mai dubitato dell’esistenza di una vita dopo la morte. Ma dopo essere stata testimone della gioia estatica di stella mentre sorrideva al soffitto con gli occhi aperti, niente al mondo avrebbe mai più potuto farmi credere il contrario. c’è qualcosa di più verso cui andare, o a cui fare ritorno.

dopo aver sorriso, emise un flebile sospiro, gli occhi si rove-sciarono all’indietro e ci fu silenzio. george e dave mi guardaro-no per avere conferma. avendo assistito solo al trapasso di ruth prima di allora, aspettavo il grande respiro finale che però non arrivava. “È morta? È morta?” mi chiesero in preda alla dispera-zione, col cuore rotto dal dolore.

le tastai il collo in cerca del battito ma il mio stesso cuore pul-sava a più non posso, e riuscivo a sentire solo quello. ero sotto una grandissima pressione e non avevo idea di cosa fare. Mi guardarono disperati. non volevo dichiarare la sua morte, per poi scoprire che avrebbe vissuto un altro giorno o due, o anche solo per il tempo di fare un ultimo grande respiro. così pregai per un consiglio.

allora su di me discese la calma e guardandola seppi che se n’era andata. era stata una dipartita talmente dolce, delicata e piena di grazia che non ero riuscita a capirlo subito. Ma quell’on-da di amore che ora batteva attraverso di me mi confermò che ormai non era più con noi. annuii. george e david lasciarono immediatamente la stanza. Un singulto straziante risuonò per tutta la casa mentre george si rendeva conto che la sua amata

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moglie si era spenta. restai seduta in silenzio accanto a stella, piangendo anch’io.

Un paio d’ore più tardi, con il resto della famiglia lì riunito ed espletati gli ultimi dettagli, ci dicemmo addio. il mattino mite si era trasformato in una giornata molto calda e io stavo pensando cosa fare di me. desideravo solo una distrazione superficiale. avevo continuato a usare la stessa jeep con cui avevo fatto tutti quei chilo-metri, e adesso per chiudere adeguatamente la porta del guidatore dovevo dare un colpo secco. ero andata avanti così per un bel po’. Quel giorno, però, ripetendo il solito gesto, tutto il finestrino dalla parte del guidatore andò in frantumi cadendo all’interno del pan-nello della portiera. rimasi seduta a guardarlo, già stordita per gli avvenimenti del mattino e ancora più scombussolata a causa del forte rumore del vetro in frantumi. guardai fuori dal finestrino e vidi che non c’erano frammenti, fatta eccezione per qualche scheg-gia. decisi che forse la cosa migliore da fare era tornare a casa.

il finestrino di ricambio arrivò dopo tre giorni. li trascorsi a casa e giù al porto. ringraziavo spesso stella durante quel periodo per avermi mandata a casa. era la cosa migliore perché mi per-metteva semplicemente di esistere. Un paio di mesi dopo ricevetti una lettera di Therese, la figlia di stella con cui avevo legato. il giorno dopo la sua morte, Therese stava camminando, pensan-do alla madre. Un enorme cacatua bianco era volato giù proprio davanti a lei, a distanza talmente ravvicinata che riuscì a sentire l’aria smossa dalle sue ali. stella era quel tipo di donna, capace di inviare dei segnali, e lessi con piacere quelle parole.

dopo un anno, feci visita alla famiglia per una cena. non ve-devo l’ora di passare quella serata insieme, soprattutto per rivede-re george e scoprire come se la passasse. c’erano anche Therese e suo marito. la serata iniziò bene e appresi con piacere che george aveva stretto nuove amicizie, iniziando a giocare a bridge e impe-gnandosi in altre attività. poi, non so come, la conversazione finì di nuovo nel reparto “bugie”. Therese mi stava chiedendo in che modo la morte della madre fosse stata diversa da quella dei miei

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clienti precedenti, o qualcosa di simile. era la mia grande occa-sione per venire allo scoperto e per rivelare la mia inesperienza in quella circostanza. non penso che gli sarebbe dispiaciuto a quel punto, dal momento che erano stati molto contenti del servizio ricevuto. Ma non riuscii a vuotare il sacco perché george era così felice di avermi lì e continuava a ripetere quanto era bello che fossimo di nuovo tutti insieme. sono sicura che si sentiva come quando c’era stella. Volevo prendere da parte Therese quella sera, e raccontarle la verità, ma non ci fu l’occasione.

la vita proseguì, e dopo quella serata ci perdemmo di vista. Qualche anno più tardi, però, ci risentimmo e mi fu data la pos-sibilità di confessare alla famiglia la mia inesperienza e il mio rim-pianto per non essere stata subito sincera con loro. accettarono la cosa in modo meraviglioso e mi perdonarono, dicendo che avevo compensato largamente la mia inesperienza con l’empatia e la compassione. come me, avevano sentito fin da subito che ero la persona giusta per prendersi cura di quella donna. fu molto dol-ce ricongiungerci e ricordare quello che avevamo condiviso. ogni inverno, indossavo il cardigan e pensavo a stella. l’inverno scorso ce lo avevo addosso mentre rileggevo un libro che mi aveva dato lei, ho interrotto la lettura e ho sorriso ai ricordi. Questo lavoro mi ha fatto conoscere persone splendide.

a ogni modo, la storia della bugia è stata una grande lezione. dopo il periodo con stella, decisi che non avrei più mentito ai clien-ti. la cosa più importante era aver imparato da quella esperienza. ero una persona onesta e per quanto fosse difficile, era l’unica via sulla quale avrei potuto camminare completamente a mio agio.

imparare da quell’esperienza mi permise di perdonare me stes-sa, il più grande perdono di tutti.

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riMpianto 1:

Vorrei aVer aVUto il coraggio di ViVere

Una Vita fedele ai Miei principi

e non QUella cHe gli altri si aspettaVano da Me

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ci volle pochissimo perché grace diventasse una delle mie clienti preferite. era una donna minuta dal cuore grande. aveva trasmesso questa qualità ai figli, genitori

essi stessi e persone ugualmente meravigliose.grace viveva in una parte completamente diversa della città,

cosa insolita per i nostri clienti. era una strada di periferia come tante altre, senza ville imponenti sui due lati. la mia prima im-pressione fu che sarebbe stata perfetta per girarci una serie tele-visiva, perché irradiava energia familiare. la cosa che apprezzai maggiormente di grace e della sua famiglia è che erano molto terra-terra e accoglienti.

i primi giorni con lei trascorsero come al solito con i nuovi clienti, condividendo storie per conoscerci. in bagno si senti-vano commenti sfacciati sul fatto che grace non avesse più di-gnità, costretta a farsi pulire il posteriore da un’altra persona, e di quanto fosse ingiusto che una giovane cosina graziosa come

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me dovesse svolgere un compito tanto spiacevole. Mi abituai a quella parte del mio lavoro e cercai di alleggerire la situazione per grace e per tutti i clienti cercando di non fare troppe storie a riguardo. essere malati è senz’altro un modo per annientare la forza del proprio ego. la dignità scompare per sempre nel passato quando sei un malato terminale. accettare la situazione, e anche la presenza di qualcuno che ti pulisce il didietro, è ine-vitabile, anche perché dopo un po’ si diventa troppo malati per preoccuparsi di cose simili.

sposata da più di cinquant’anni, grace aveva condotto la vita che ci si era aspettati da lei. aveva cresciuto dei figli adorabili e adesso gioiva dei nipoti, ormai adolescenti. tuttavia, a quanto pareva, suo marito era stato un vero despota e aveva trasformato il matrimonio in una prigione. fu un sollievo per tutti quando l’uomo venne ricoverato in una casa di cura in modo permanente qualche mese prima.

grace aveva passato la sua vita coniugale desiderando di essere indipendente dal marito, di viaggiare, di non essere sottoposta alla sua tirannia e soprattutto di godere di una esistenza semplice e felice. Malgrado fosse sull’ottantina, era sempre stata in for-ma e in salute per la sua età. Un buono stato fisico permette di muoversi liberamente e questo grace lo aveva capito soprattutto quando il marito era stato ricoverato nella casa di cura.

aveva riconquistato la tanto attesa libertà da pochissimo quando iniziò a sentirsi molto male. Qualche giorno dopo, le fu diagnosticata una malattia terminale in stadio avanzato. fu an-cora più straziante sapere che la malattia fosse dovuta alla vecchia abitudine del marito di fumare in casa. il male era aggressivo e dopo un mese grace perse completamente le forze. restò costret-ta a letto, tranne che per brevi momenti in cui zoppicava lenta-mente verso il bagno con l’ausilio di un deambulatore e sempre assistita. i sogni che aveva coltivato per tutta la vita non sarebbero mai diventati realtà. l’angoscia che provava per questo motivo era costante e la tormentava.

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“perché non ho fatto quello che volevo e basta? perché gli ho permesso di comandarmi? perché non sono stata forte abbastan-za?” erano domande che sentivo spesso. era arrabbiatissima con se stessa per non avere avuto il coraggio di cambiare le cose. i suoi figli confermavano la vita dura che aveva vissuto e i loro cuo-ri soffrivano per lei, come il mio.

“non permettere mai a nessuno di impedirti di fare quello che vuoi, Bronnie” mi disse. “promettilo a questa donna condannata, ti prego.” glielo promisi e andai avanti spiegandole che ero for-tunata ad avere una madre meravigliosa che, con il suo esempio, mi aveva insegnato a essere indipendente.

“guardami adesso,” continuò grace “sto morendo! Morendo! Ho aspettato tutti questi anni per essere libera e indipendente e adesso è troppo tardi! com’è possibile?”. non si poteva negare che fosse una situazione tragica e sarebbe stata senz’altro un mo-nito costante a vivere a modo mio.

nella sua stanza, punteggiata di oggetti sentimentali e foto di famiglia, durante quelle prime settimane trascorremmo ore a parlare. Ma il suo declino progredì velocemente. grace mi spiegò che non era contro il matrimonio, affatto. poteva essere una bella cosa e una grande opportunità per crescere, attraverso l’insegna-mento reciproco. Ma era contro le regole imposte dalla sua ge-nerazione, secondo le quali il matrimonio andava salvaguardato a prescindere da tutto. ed era ciò che aveva fatto, rinunciando sempre alla propria felicità. aveva dedicato la vita al marito che aveva dato per scontato il suo amore.

adesso che stava morendo, non le importava niente di quel-lo che pensava la gente di lei, e si angustiava di non aver svilup-pato prima questo atteggiamento. grace aveva salvato le appa-renze e aveva vissuto come si aspettavano gli altri. aveva capito solo ora che la scelta era sempre stata sua e che era stata basata sulla paura. sebbene le offrissi i miei consigli, compreso quello di perdonarsi, il fatto che fosse troppo tardi ormai continuava a sopraffarla.

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la maggior parte dei miei incarichi erano di tipo personale, con clienti a lungo termine che avrei seguito individualmente fino alla morte. Ma nel corso degli anni ce ne sarebbero stati anche altri che avrei visto solo poche volte, sostituendo momen-taneamente le loro badanti regolari. le parole di grace, piene di angoscia, disperazione e frustrazione, divennero familiari perché le sentii pronunciare anche da tanti altri malati. di tutti i rim-pianti e lezioni condivise con me mentre sedevo accanto ai loro letti, il rimpianto di non aver vissuto una vita fedele ai propri prin-cipi era il più comune di tutti. era anche quello che causava più frustrazione, perché ci si rende conto troppo tardi.

“non pretendevo di vivere una vita grandiosa” spiegò grace dal letto in una delle tante conversazioni. “sono una brava per-sona e non ho mai augurato il male a nessuno.” in effetti era una delle persone più dolci che avessi mai conosciuto e non sarebbe stata capace di fare del male. non faceva parte di lei. “avrei voluto fare anche delle cose per me, ma non ne ho avuto la forza.”

adesso si rendeva conto che sarebbe stato meglio per tutti se fosse stata abbastanza coraggiosa da rispettare questo desiderio. “Be’, per tutti tranne che per mio marito” disse con una smorfia di disgusto verso di sé. “sarei stata più felice e non avrei permesso a questa tristezza di pervadere la nostra famiglia per anni. perché l’ho sopportato? perché Bronnie, perché?”. i suoi singhiozzi stra-zianti erano irrefrenabili e continuavano mentre io l’abbracciavo.

Quando le lacrime cessarono, mi guardò con fiera determina-zione. “dico sul serio. prometti a questa donna morente che sarai sempre fedele a te stessa, che sarai abbastanza coraggiosa da vivere come vuoi, a prescindere da quello che dicono gli altri.” le tende di pizzo ondeggiarono dolcemente al vento, facendo entrare nella stanza la luce del giorno, mentre ci guardavamo l’un l’altra con amore, lucidità e determinazione.

“te lo prometto grace. sto già cercando di farlo. Ma ora giuro di continuare sempre a farlo” le risposi con sincerità, dal profon-do del cuore. stringendomi la mano, sorrise, con la certezza che

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ciò che aveva imparato non era stato del tutto inutile. grace iniziò a capirmi un po’ di più e mi ascoltò con grande interesse quando le raccontai che per più di dieci anni, avevo lavorato rico-prendo incarichi insoddisfacenti in banca, nell’amministrazione e nel management. tornata a casa dopo l’esperienza oltreoceano, lavorai ancora in banca per qualche tempo. Ma quelli sono stati gli anni del mio svezzamento in cui mi sono preparata a uscire definitivamente da quel settore.

i primi due anni dopo la scuola erano stati divertenti. c’era-no stati un sacco di stage e il lavoro era più che altro un modo per socializzare. tutti gli stagisti avevano sui diciassette, diciotto anni. Quindi il nostro compito consisteva per lo più nell’andare d’accordo con quei nuovi amici e guadagnare i soldi per sovven-zionare i nostri weekend. all’inizio il lavoro fu molto semplice per me e sarebbe potuto restare così, se ci avessi messo anche il cuore. Ma non successe mai. dopo quei primi anni, divenni rapidamente inquieta e iniziai a pormi delle domande sulla vita. tuttavia, per più di dieci anni, continuai ad andare avanti come ci si aspettava che facessi, con la consapevolezza che ci fosse qual-cos’altro ad aspettarmi se solo avessi avuto il coraggio di cercarlo.

ciò che mi trattenne di più fu la paura del ridicolo a cui mi sarei esposta davanti ad alcuni parenti se avessi rotto lo stampo al quale si aspettavano che mi uniformassi. Vivevo la vita di qualcun altro indossando i miei panni e proprio per questo non avrebbe mai funzionato. eppure continuai così, cambiando regolarmente incarichi in banca, uniformi e posti. il risultato fu che mi ritrovai in vetta nella carriera professionale, avendo lavorato per la mag-gior parte delle banche e avendo ricoperto tanti ruoli per una persona della mia età. fu una vittoria a tavolino.

disperatamente infelice, continuai a regalare la mia settimana lavorativa a un settore che non contribuiva per niente all’arricchi-mento della mia anima. ci sono un sacco di persone che amano il proprio incarico in banca e sono felice per loro. le banche hanno bisogno di impiegati simili. oggi però c’è la possibilità di impe-

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gnarsi in altre aree e dare il proprio contributo alla comunità. come grace, avevo vissuto la vita che gli altri si aspettavano da me, non quella che volevo.

non potevo contrariare alcuni membri della mia famiglia, perciò stavo facendo il possibile per essere chi volevano che fossi e per tenermi stretto un “buon lavoro”: quantomeno ciò li avrebbe tenuti alla larga da quell’aspetto della mia vita. ero bloccata dalla paura e dall’idea del potenziale dolore che avrei creato se mi fossi esposta a critiche ancora peggiori di quante ne avessi già sopportate.

essere la pecora nera della famiglia non è un compito facile. le pecore nere giocano un ruolo diverso nelle dinamiche fami-liari. Ma non è mai facile. Quando alcuni dei giocatori principali guadagnano il potere a discapito degli altri, il tutto si trasforma in una faticosa strada in salita. tuttavia, lavorare con tante famiglie diverse mi ha fatto capire che sono pochissime quelle in cui non ci sono conflitti. ognuna di esse ha la sua lezione da imparare. la mia non faceva eccezione, malgrado questa consapevolezza non servì ad alleviare il mio dolore ai tempi.

per quel che ricordavo, prendersi gioco di me era stato a lungo lo sport di famiglia. ero una nuotatrice in una famiglia di caval-lerizzi, vegetariana in una fattoria che allevava pecore, nomade in una famiglia di stanziali e così via. spesso le cose venivano dette per scherzo e la persona che le pronunciava poteva non rendersi conto del dolore che mi procurava. Ma le battute si logorano dopo anni passati a ripeterle. altre volte, invece, le cose venivano dette intenzionalmente e per pura crudeltà. anche se hai la forza di mille persone, col passare del tempo queste esperienze ti ab-battono, soprattutto se hai difficoltà a ricordare un periodo della tua vita in cui non sei stata messa in ridicolo, sgridata e ritenuta un caso senza speranza.

di conseguenza, fino a quel momento, non avevo apprezzato particolarmente la vita familiare. il modo più facile per gestire tutto questo era continuare a vivere come si aspettavano. alla

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fine però, iniziai a negarmi e a chiudermi. era il mio personale meccanismo di difesa.

gli artisti di tutto il mondo sono spesso incompresi, e io ero un’artista. solo che non l’avevo ancora capito. tutto quello che sapevo era che vendere prodotti assicurativi a persone che vo-levano soltanto incassare la loro busta paga non faceva per me. non m’importava un bel niente del fatturato alla fine del mese. M’interessava solo di dare al cliente un servizio amichevole e ac-cogliente, cosa che facevo molto bene. Ma non era abbastanza nel mondo in trasformazione del settore bancario. Bisognava vende-re, vendere, vendere.

si dice che spendiamo più energie per evitare il dolore che per provare piacere. così è solo quando la sofferenza diventa inso-stenibile che troviamo il coraggio di cambiare. il dolore dentro di me aveva continuato a crescere fino a raggiungere un punto di rottura.

Quando lasciai un altro “buon impiego” per andare a vivere sull’isola, fu il caos. “perché lo fa? dove vuole andare questa volta?”. nonostante tutto, riuscivo solo a pensare con eccita-zione: “andrò a vivere su un’isola!”. Quanto più sarei andata lontano, tanto più sarei stata felice. in quel luogo la mia vita mi apparteneva ed era come la volevo io. l’unico contatto con la terraferma era rappresentato dalla mia cara mamma, mio soste-gno e amica preziosa.

fu durante quegli anni sull’isola che mi avvicinai alla medita-zione. in seguito trovai la strada che mi avrebbe offerto l’oppor-tunità di entrare in sintonia con la mia essenza divina interiore. attraverso questo cammino, iniziai a capire e a provare compas-sione. È una forza bellissima e potente.

il dolore che avevo accettato dagli altri non era che una proie-zione della loro sofferenza su di me. le persone felici non trattano gli altri in quel modo. non giudicano chi vive prestando fede ai propri principi. casomai, lo rispettano. rendendomi conto del dolore riversato nella mia generazione da quelle precedenti, avevo

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la possibilità di scegliere di liberarmene. le persone cambiano quando sono pronte e perché lo desiderano.

imparare a guardare la vita con compassione e accettare che avrei potuto avere relazioni basate sulla comprensione e l’amore, come avevo desiderato un tempo, fu liberatorio. trasformò la mia esistenza su molti piani. Vista la sofferenza provata per guarire, accettai che non tutti avessero il coraggio di affrontare il passato, almeno finché il suo peso non fosse diventato insostenibile.

a un certo livello, le stesse dinamiche persistettero ancora per qualche anno, ma iniziarono a condizionarmi sempre meno. Mi ci vollero tempo e forza, ma finalmente giunsi a capire che non si trattava di me, ma delle persone che cercavano di rifilarmi le loro critiche o i loro giudizi.

Una parabola buddista racconta di un uomo che andò da Bud-da urlando rabbiosamente contro di lui, mentre questi se ne stava pacifico come se nulla fosse. Quando gli fu chiesto come avesse fat-to a mantenersi calmo e imperturbabile, Budda rispose con un’altra domanda: “se qualcuno ti dà un regalo e tu scegli di non accettar-lo, a chi appartiene alla fine?”. ovviamente resta al donatore. fu lo stesso con le parole che talvolta mi piovevano addosso ingiusta-mente. smisi di farmene carico e iniziai a provare compassione. dopo tutto, quelle parole non venivano da un luogo felice.

tuttavia, la cosa più importante che abbia mai imparato è che la compassione parte da se stessi . sviluppare questo sentimento per gli altri faceva in modo che avvenisse la guarigione e permanes-se. in un certo senso mi toglieva dall’equazione quando i vecchi schemi comportamentali tentavano di prendere il sopravvento. potevo riconoscere la sofferenza e capire che non dipendeva da me, ma dal dolore dell’altro che emergeva e trovava sfogo. Questo non riguardava solo le relazioni familiari, ovviamente. Valeva per tutti i tipi di rapporto, sia personali, sia pubblici sia professio-nali. tutti noi soffriamo, di tanto in tanto, e abbiamo il nostro fardello di dolore da portare. e siamo anche molto duri con noi stessi, ingiusti talvolta. imparare a essere gentile e amorevole con

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me stessa e riconoscere che anche io avevo sofferto tanto, fu un cambiamento molto difficile da compiere. era quasi più facile dare ascolto alle opinioni sbagliate degli altri e farmene carico, dal momento che ormai ci ero abituata. Magari non mi avrebbe reso felice, ma imparare a essere compassionevole con me stessa mi avrebbe fatto evolvere e crescere spiritualmente. il processo di guarigione comunque era cominciato.

grazie all’intenzione di provare amore, rispetto e compassione per me stessa, le vecchie dinamiche familiari iniziarono a perdere potere. trovai la forza per reagire, permettendomi finalmente di essere ascoltata, invece che continuare a ritirarmi. naturalmente questa volta era il mio stesso dolore a trovare espressione e non c’entravano nulla le persone verso cui lo indirizzavo.

tutti noi interpretiamo a modo nostro le cose che ci accado-no. lo stesso valeva per me quando esprimevo e rilasciavo la mia sofferenza. ci volle fegato per rompere schemi presenti da anni. Ma il dolore che provavo mi diede il coraggio necessario e ormai a quel punto non avevo più niente da perdere. stando così le cose, non sarei riuscita a portare ancora addosso il peso del silenzio.

alla fine, comunque, è il desiderio di essere reciprocamente amati, accettati e capiti che alimenta il dolore in tutti noi. Quindi il solo modo per andare avanti consiste nel provare compassione: compassione e pazienza. nonostante tutto, l’amore, sotto fragili mentite spoglie, vive ancora tra noi.

era come nuotare lungo lo stesso fiume, e trovarmi ogni volta davanti a un enorme masso che mi impediva di procedere. era sempre lì. Un giorno però ho capito che sarebbe potuto rimanere sempre lì. invece di affrontare sempre lo stesso ostacolo, bisognava scegliere un posto diverso dove nuotare, dove sarei stata libera di andare avanti. non ero condannata a scontrarmi sempre con quello scoglio che impediva il mio naturale avanzamento, procu-randomi blocchi e dolore.

era giunto il momento di fare le cose in modo diverso, di sce-gliere un’altra strada, di alzare la voce e dire “basta”. non ero più

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disposta a tollerare gli stessi schemi. forse mi sarei ritrovata più sola, ma almeno sarei stata in pace. l’altro cammino di certo non era all’insegna della serenità.

dopo aver fatto sentire la mia voce, le cose iniziarono a cam-biare dentro di me. il rispetto che nutrivo nei miei confronti si fortificò e l’espressione della mia personalità si delineò meglio. finalmente erano stati piantati dei semi nuovi e più sani. non sa-pevo ancora come nutrirli, ma erano saldi nel terreno. era giunto il momento di iniziare a vivere come la persona che volevo essere, un piccolo passo alla volta.

dopo aver condiviso tutto questo con grace, ci affezionam-mo l’una all’altra in modo spontaneo. era d’accordo col fatto che tutte le famiglie avessero una lezione da imparare. non le veniva in mente nessuna che non avesse dovuto affrontare delle difficoltà, e credeva che proprio in quell’ambito si trovassero le lezioni più preziose per le persone. parlammo di come l’unico modo possibile di provare amore consistesse nell’accettare gli al-tri esattamente com’erano, senza avere aspettative su di loro. per quanto fosse più facile a dirsi che a farsi, quello era l’approccio più amorevole possibile.

grace condivise con me molti racconti; rifletteva sulla sua vita, sui figli che erano cresciuti, sui vicini che erano cambiati, finendo spesso a parlare del rimpianto presente. avrebbe voluto avere il coraggio di vivere rispettando il proprio cuore, e non secondo le aspettative degli altri. Quando si ha poco tempo a disposizione, non si perde nulla a essere completamente onesti. Quello che condividemmo in quei momenti andava dritto al nocciolo della questione. non facevamo più chiacchiere oziose perché tutti gli argomenti trattati erano profondamente personali. aprirmi a lei ebbe un inaspettato potere risanatore su di me e la mia capacità d’ascolto aiutò lei a guarire.

alla fine arrivammo anche a parlare del punto in cui era giunta la mia vita, dei miei obiettivi musicali e di come avessi iniziato a scrive-re e suonare canzoni. Mentre sorseggiavamo una tazza di tè, grace

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insistette affinché portassi con me la chitarra al lavoro il giorno suc-cessivo per suonarle qualcosa, cosa che feci con grande piacere. col cuore pieno di gioia, cantai per lei mentre sorrideva e mormorava, seduta dritta nel letto. accolse tutti i brani come se ognuno fosse il miglior pezzo al mondo. anche la sua famiglia venne ad ascoltarne alcuni e fu altrettanto bello e salutare. c’era una canzone in parti-colare che grace amava su tutte, dal momento che le sarebbe tanto piaciuto viaggiare. s’intitolava “sotto cieli australiani”.

da quel giorno, mi chiese regolarmente di cantarle qualcosa. non c’era bisogno di avere la chitarra, diceva. così mi sedevo nella sua stanza, intonando qualcosa per quella deliziosa piccola signora, mentre chiudeva gli occhi sorridendo, assorbendo ogni parola del mio canto. Mi chiedeva continuamente di cantarle qualche canzone e non mi stancavo mai di farlo.

la salute di grace peggiorava di giorno in giorno. la sua strut-tura minuta si ridusse ancor di più. i vecchi amici venivano a trovarla per dirle addio. i parenti si sedevano accanto al suo letto chiacchierando e sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime. la sua famiglia era attenta, molto partecipe, e le faceva visita re-golarmente. Mi piaceva la cosa. ero attratta dalla gentilezza che scorgevo in loro. Ma quando se ne andavano tutti e restavamo solo noi due lei mi chiedeva di cantarle altre canzoni. sono stati momenti speciali.

adesso non riusciva più a esprimersi bene e sebbene avesse acconsentito all’impiego della comoda accanto al letto per fare la pipì, si rifiutava di usarla per le evacuazioni intestinali. Voleva usare un bagno vero così non avrei dovuto pulire la comoda. fu irremovibile su questo, anche quando cercai di rassicurarla del fatto che non fosse un problema per me. così ci mettevamo anni per raggiungere il bagno, che fortunatamente era accanto alla sua camera da letto. ormai era debolissima. Quando aveva finito di liberarsi, e dopo che l’avevo pulita, l’aiutavo ad alzarsi e le tiravo su le mutande. per tenerla in equilibrio mentre la rivestivo, dove-vo fare tutto rapidamente.

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Quando iniziavamo il tragitto di ritorno verso la camera da letto, grace si piegava sul deambulatore e io la seguivo tenen-dola per i fianchi; in qualche caso mi accorgevo che nella fretta le avevo infilato un lembo della camicia da notte nelle mutan-de. sorridendo a quella cara donnina nei suoi ultimi giorni, che incespicava verso il letto, venivo sopraffatta dalla gioia quando iniziava a cantare “sotto cieli australiani” mentre camminava. Qualche parola finiva nel posto sbagliato ma ciò non faceva altro che rendere quei momenti ancora più commoventi.

seppi allora che avevo appena vissuto il picco più alto della mia carriera musicale. niente di quello che sarebbe potuto acca-dere dopo avrebbe superato la gioia provata allora. non mi sarei crucciata se non avessi mai più scritto una canzone. avere donato a quella cara persona così tanto piacere con la mia musica, e aver ricevuto in cambio la soddisfazione di sentirle cantare la mia can-zone nei suoi ultimi giorni, aprì il mio cuore più di qualsiasi altro successo musicale.

Un paio di giorni dopo, quando arrivai al lavoro, fu evidente che quelle sarebbero state le ultime ore per grace. le spiegai che avrei chiamato la sua famiglia, ma inizialmente scosse la testa in segno di diniego. debole ed esausta si allungò per abbracciarmi. per risparmiare la fatica alle sue esili braccia, mi sdraiai sul letto e la strinsi tra le mie. le piaceva, e restammo sdraiate a parlare piano per un po’, mentre le sue dita mi accarezzavano il braccio. le chiesi come mai non volesse avere accanto la sua famiglia, e lei rispose che temeva di causare loro altro dolore. li amava troppo.

Ma avevano bisogno di dirle addio, le dissi, e negare loro questa possibilità avrebbe finito col causare sofferenza e senso di colpa per non aver vissuto questo momento con lei. capì e acconsentì, riconoscendo che non voleva si sentissero in colpa per non essere stati presenti. così feci alcune telefonate e la fami-glia arrivò subito. Ma poco prima che fossero lì, in quello stato di profondo affaticamento, grace mi disse: “ricordati della tua promessa Bronnie!”.

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annuendo tra le lacrime risposi: “sì.”“sii fedele al tuo cuore. non preoccuparti mai di quello che

pensano gli altri. promettimelo Bronnie” aggiunse in un flebile sussurro.

“te lo prometto grace” le dissi dolcemente. stringendomi la mano scivolò nel sonno e si risvegliò solo per brevi momenti, per riconoscere i suoi cari che sedevano al suo capezzale e rimasero lì con lei fino alla fine. nel giro di poche ore se ne andò. era giunta la sua ora. restai seduta in silenzio, in cucina, la promessa che le avevo fatto mi risuonava ancora forte e chiara nelle orecchie. Ma non avevo fatto quella promessa solo a grace. l’avevo fatta anche a me stessa.

sul palco, qualche mese dopo, in occasione del lancio del mio album, le dedicai quella canzone. la famiglia di grace si trovava tra il pubblico. i riflettori avevano oscurato la maggior parte dei visi ma non avevo bisogno di vederli. sentivo l’amore che condi-videvano mentre ricordavo quella cara, esile donna che non aveva vissuto come avrebbe voluto, ma che mi aveva ispirato a farlo.

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prodotti del nostro aMBiente

a nthony non aveva ancora quarant’anni quando ci siamo incontrati la prima volta, un sabato pomeriggio. aveva capelli ricci biondo scuro e malgrado fosse malato, c’era

un alone di malizia attorno a lui. fu un grande cambiamento per me prendermi cura di una persona più giovane. fare amicizia fu un gioco da ragazzi e nonostante le circostanze condividemmo con gioia il senso dell’umorismo fin dall’inizio.

con un fratello, quattro sorelle minori e una famiglia in vista nel mondo degli affari, era stato molto viziato nel corso della sua vita. tutto quello che voleva era suo e lo usava per trarne vantaggio. tuttavia era necessario che fosse sempre all’altezza del successo finanziario della sua famiglia. Questa pressione operò in senso inverso e a dispetto della sua intelligenza e delle opportu-nità, aveva una bassissima autostima. Mascherava questo aspetto piuttosto bene con l’ironia e la malizia. anthony non poteva esse-re ciò che la famiglia voleva, ed essendo il figlio maggiore la cosa aveva suscitato una forte tensione dentro di lui.

i suoi anni da giovane adulto erano stati spesi alla guida di macchine veloci, inseguito dalla polizia, assoldando le prostitute più costose e causando scompiglio a chiunque incrociasse il suo cammino. era un percorso comune per molti giovani dei ricchi sobborghi. alcune delle azioni compiute da anthony erano diffi-cilmente apprezzabili. a causa della sua scarsa autostima, viveva in modo sconsiderato, sfidando la morte e mettendosi in situa-zioni di pericolo. a causa di questo suo comportamento finì in ospedale con lesioni a organi e tessuti, con il rischio di perdere per sempre la salute e l’autonomia che da essa derivava.

i dottori stavano facendo il possibile per restituirgli la libertà, ma sembrava non ci fossero speranze. anthony era già piuttosto

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rassegnato. aveva capito che i danni causati probabilmente sa-rebbero stati permanenti, così chiese ai medici di procedere con l’intervento chirurgico successivo il prima possibile, in modo da sapere come stavano le cose. furono eseguite un paio di operazio-ni. poi gli antidolorifici lo fecero dormire per la prima settimana, mentre io sedevo accanto al suo letto nella stanza d’ospedale. do-podiché non ci restò che aspettare e stare a vedere, sperando in un recupero graduale.

presi l’abitudine di leggere per lui. cominciai un giorno quan-do mi chiese che cosa stessi leggendo. ero già stata in Medio oriente, ma volevo tornarci e il libro offriva una prospettiva in-telligente e obiettiva sullo stile di vita e sulla storia di quei luoghi. ero consapevole dello stato di asservimento delle donne in alcuni di quei paesi, e sapevo fino a che punto arrivassero certi estremisti nel nome della religione (ogni religione ha i suoi e sono coloro che hanno perso di vista gli insegnamenti di bontà comuni a tutti i credo). ciononostante, avevo colto un aspetto di quella cultura che sfortunatamente non viene mai ritratto dai media.

la gente è cordiale e orientata alla famiglia: tra loro ho tro-vato alcuni dei padroni di casa più ospitali. col cuore aperto mi hanno accolta senza esitazioni. era avvenuta la stessa cosa con gli abitanti di una regione dell’australia che avevo cono-sciuto in quel periodo. in occidente abbiamo perso l’abitudine a questo legame familiare, soprattutto quando si tratta delle generazioni più anziane. Me ne rendevo conto personalmente tutte le volte che mi capitava di lavorare nelle case di riposo constatando quanto fosse elevato il numero degli anziani ospi-tati dalla struttura.

sono affascinata dalle altre culture e dai diversi stili di vita, così come dalle prelibatezze culinarie da scoprire nelle altre tradi-zioni. eppure per certi versi siamo tutti molto simili. il razzismo è una cosa che non capirò mai. la maggioranza delle persone sono uguali, accomunate dal desiderio di essere felici. e i nostri cuori soffrono tutti in una certa misura.

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anthony era interessato a saperne di più sull’argomento. così, dopo aver preparato una teiera di tè alle erbe, mentre l’aroma che si spandeva dolcemente nella stanza, lo aggiornavo sul libro. poi la lettura continuava, ma a voce alta. trascorrevamo in quel modo una o due ore ogni giorno e divenne un momento piacevole per en-trambi. dopo parecchie settimane passate così, fui in grado di fargli conoscere libri di cui altrimenti non avrebbe mai saputo nulla. gli proponevo una selezione di argomenti, ma lui rispondeva sempre che sarebbe stato felice di ascoltare qualsiasi cosa stessi leggendo.

così gli feci conoscere alcuni classici spirituali. condividem-mo libri sulla vita, sulla filosofia e sul pensiero anticonformista. poi ne discutevamo, mentre attendevo ai suoi bisogni sollevando-gli il braccio che non funzionava, l’altro nel gesso, fasciando la ferita alla gamba paralizzata, imboccandolo, pettinandolo e pren-dendomi cura della sua igiene personale.

tuttavia, fu presto evidente che gli interventi non erano anda-ti del tutto a buon fine. alcune cose erano state sistemate, ma al-tre restarono danneggiate in modo permanente. non era in grado di tornare a casa perché la vita che lo attendeva adesso richiedeva un’assistenza personale costante. fu così deciso che venisse rico-verato in una casa di cura, una delle migliori in città, almeno in base alla brochure e ai prezzi.

anthony era un uomo giovane circondato da pareti dai colori smorti e da persone anziane prossime alla morte. era un ambiente terribile e avrei voluto dipingere i muri con dei colori più vivaci. tuttavia all’inizio ci si trovò abbastanza bene. gli dava pace sape-re che la famiglia era stata sollevata dalla pressione, visto che ora c’era qualcuno a prendersi cura di lui. fu capace anche di portare il buonumore tra gli anziani ospiti, e loro lo adoravano. Ma col passare del tempo, la sua luce si spense e la mancanza di stimoli esterni ottenebrò la sua intelligenza che restava inutilizzata. iniziò a trasformarsi in un prodotto di quell’ambiente.

siamo creature profondamente malleabili e flessibili. abbia-mo la possibilità di pensare con la nostra testa e disponiamo del

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libero arbitrio per vivere secondo il nostro cuore, ma l’ambiente in cui ci troviamo ha un enorme effetto su tutti noi, soprattutto finché non cominciamo a decidere con maggiore consapevolezza.

possiamo accorgerci di un altro esempio di influenza ambienta-le se osserviamo persone concrete e già felici che restano intrappo-late nella corsa per avere di più, dopo una promozione al lavoro. il desiderio di essere all’altezza dei nuovi amici, su un nuovo livello di ricchezza, spesso trasforma profondamente le persone così che pos-sano adattarsi all’ambiente. il quartiere dove prima vivevano felici non va più bene, così si trasferiscono in un posto più adatto, per esempio. a volte tutto questo dà la felicità, certo, ma non sempre.

Molta gente proveniente dalla campagna si adatta alla vita di città e si lascia influenzare dalle mode cittadine e da stili di vita pieni di impegni. non che la campagna manchi di fascino. ce l’ha eccome. Ma ripeto, si tratta di essere influenzati dal posto in cui si vive. ci sono persone cresciute in città che si adattano alla campagna e rallentano il loro stile di vita, abbandonano gli abiti firmati e trovano la felicità nei jeans e negli stivali di gomma, mentre lavorano sodo la loro terra. ovunque ci troviamo, l’am-biente ci influenza enormemente se ci stiamo il tempo sufficiente.

Quando avevo venticinque anni mi sono divertita parecchio, ma l’inizio dei vent’anni è stata dura. a diciannove ero già fi-danzata e la mia vita era seria e inquadrata, con tanto di rate del mutuo da pagare. Ma era una relazione malata. in qualche modo sono sopravvissuta a quel periodo. guardandomi indietro, non so come abbia fatto. le forti pressioni a cui ero sottoposta, i gio-chi psicologici e la rabbia nelle sue varie sfumature espressa dal mio compagno fecero diminuire la sicurezza in me stessa.

a un certo punto non ce la feci più. trovai un nuovo lavoro, ovviamente, in una banca. i colleghi erano meravigliosi e ripresi a godere della vita. avere un lavoro fisso mi permise anche di so-gnare un mondo diverso da quello in cui mi trovavo e così riuscii a venirne fuori. non passò molto tempo che mi trasferii sulla costa settentrionale, per un nuovo inizio.

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in men che non si dica, diedi via libera al ballo e alle frivolezze che divennero parte della mia vita spensierata. circolava anche un sacco di droga attorno a me. avevo capito che bere non faceva per me e, sebbene non vi avessi ancora rinunciato del tutto, non era una parte importante della mia vita. tuttavia c’erano un sac-co di altre sostanze sul mercato e nel giro di un anno ne provai parecchie. era il periodo precedente le droghe sintetiche, come le anfetamine e altre tipologie di cui non conosco nemmeno i soprannomi comuni. nella mia cerchia di amici andavano per la maggiore le coltivazioni domestiche e quando un amico mi diede l’opportunità di provare l’oppio, accettai.

avevo la possibilità di provare nuove cose ma era altrettanto chiaro che le avrei abbandonate dopo la prima esperienza; per fortuna non fui mai tentata di mettere in pratica questa teoria con l’eroina. non mi ci sono mai nemmeno avvicinata. provai una sola volta anche l’oppio, i funghi allucinogeni, l’lsd e la cocaina. lo feci nell’arco di quei dodici mesi e poi mai più. im-magino che avessi bisogno di sperimentare un po’ di impruden-za, dopo i confini entro cui ero cresciuta e quelli della relazione precedente. a un livello inconscio, però, si trattava di una totale mancanza di autostima che era diventata parte di me e che io continuavo ad alimentare.

lasciarmi andare a un eccessivo consumo di droga non faceva per me. lo capii immediatamente e malgrado fossi contenta di provare alcune cose, dicevo a me stessa che si trattava più che altro del desiderio di sperimentare la vita e non del bisogno di sentirmi diversa. non mi ci volle molto a capire che preferivo una vita più sana. a livello inconscio però, c’erano ancora tantis-simi anni da disfare, durante i quali avevo permesso alle opinioni degli altri di controllare il mio sistema di convinzioni. la felicità dipendeva ancora da forze esterne.

Qualche anno dopo, mi trasferii in inghilterra, dove spillavo birre in un pub di paese. lo speed girava parecchio. dopo averne sniffato un paio di righe, i ragazzi del posto facevano il loro in-

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gresso nel pub con enormi pupille dilatate e digrignando i denti per tutta la serata. anno dopo anno ripetevano sempre le stesse abitudini. Quando uno si faceva di speed, riusciva ad alterare la percezione della realtà abbastanza da avere una prospettiva diver-sa dello stesso scenario. cercavano soltanto di sfuggire alla noia e osservandoli nei giorni seguenti, con la malinconia e la stanchez-za che seguivano, mi domandavo se il gioco valesse la candela.

in qualche rara occasione io e il mio compagno decidemmo di unirci a loro. Ma non ci volle troppo tempo per capire che non faceva per noi. Quando l’effetto finiva era terribile e mi detestavo per aver inflitto una cosa simile al mio corpo. Un mese dopo o giù di lì, mi ritrovai a vivere un’esperienza che avrebbe cambiato la mia esistenza, ancora una volta influenzata dall’ambiente, dalla mancanza di volontà e dall’incapacità di decidere di vivere una vita migliore.

dean lavorava nel weekend così mi unii agli altri ragazzi del paese e saltai sul primo treno per londra per passare la serata. no-nostante avessi quasi trent’anni, non ero mai stata a un rave party semplicemente perché non suonavano la musica che mi piaceva. per non lasciarmi a casa da sola, i ragazzi mi convinsero ad andare con loro, promettendomi che sarebbe stata l’esperienza più bella della mia vita. erano tutti miei amici, perciò acconsentii.

avevo provato l’ecstasy una sola volta prima di allora, ed era andato tutto bene. avevo trascorso una notte assurda ed ero so-pravvissuta ai postumi, per quanto non fossero stati affatto piace-voli. ebbi lo stomaco sottosopra e le energie scariche per giorni. Quella sola esperienza mi era bastata e da allora avevo declinato qualsiasi altra offerta. in seguito avevo provato un grande disgu-sto per me stessa e non l’avevo più provata. eppure in quella oc-casione mi trovavo su un treno diretto a londra con otto ragazzi che cercavano di convincermi a prendere una pastiglia di ecstasy.

chi stava in città si calava un sacco di pillole tutte le settima-ne, quindi perché facevo tante storie per prenderne una sola? non biasimo affatto quei ragazzi, assolutamente. a loro piaceva quella

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roba e stavano solo cercando di rendermi partecipe. fu mia la de-cisione di farmi scivolare quella pillola in gola, proprio mentre il treno entrava a Victoria station. eravamo in pieno inverno e fuori si gelava, come spesso accade a londra in quel periodo dell’anno.

nell’istante in cui entrammo nel locale, detestai la musica e desiderai che la serata fosse già finita. preferivo la musica acustica a qualsiasi suono digitale, anche se ognuno ha i suoi gusti ovvia-mente. gli altoparlanti sparavano musica techno a tutto volume. scegliendo consapevolmente di smettere di giudicare la situazio-ne e accettando il fatto che sarei rimasta lì fino all’alba, mi lasciai andare e mi unii ai ragazzi sulla pista. Mentre loro se la spassava-no da matti, io cercavo di sopportarla.

poi l’effetto della pastiglia mi salì di colpo e seppi all’istante di dovermi allontanare dalla ressa. sudavo copiosamente. ogni urto con i corpi di chi stava ballando mi faceva soffocare. feci qualche passo malfermo in cerca di un posto in cui fermarmi. i bassi fa-cevano vibrare le assi del pavimento e tutto il mio corpo. Vedevo confusamente i visi sorridenti dei ragazzi che stavano ballando lì vicino. stavo perdendo rapidamente il controllo e dovevo trovare un posto sicuro.

il rumore, le facce allegre e la luce erano sempre più distorti mentre mi facevo strada verso il bagno delle donne in uno stato di disperato stordimento. purtroppo non era possibile tenere un cubicolo tutto per me per l’intera serata come avrei voluto. ci pensai su per un po’ mentre mi trovavo all’interno, ma poi dovet-ti cederlo alle ragazze là fuori che avevano cominciato a bussare alla porta per capire se c’era dentro qualcuno.

faceva troppo freddo per stare fuori e il primo treno utile per tornare a casa partiva alle sei. il rumore nei bagni delle donne e le risate della gente che entrava e usciva mi lasciarono in uno stato di vorticoso stordimento. poi notai il davanzale della finestra. il mio paradiso, decisi. Mi arrampicai sul lavandino e raggiunsi il davanzale, sufficientemente spazioso per sedermici sopra senza il rischio di scivolare giù. avevo trovato un bell’angolino in dispar-

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te, sopra i lavandini del bagno delle signore. il traffico umano e il caos restavano sotto di me. almeno potevo riposare la schiena e la testa contro la finestra e cercare un po’ di pace.

continuavo a sudare copiosamente. i vetri ghiacciati contro cui ero appoggiata mi diedero il sollievo di cui avevo bisogno. adesso ero nel mio mondo e avrei gestito le cose in modo mi-gliore. il mio povero cuore batteva più forte del normale e pregai perché sopravvivesse a quella notte. non accennava a rallentare. tuttavia non mi passò nemmeno per la testa di chiedere un soc-corso medico. forse fu per la paura della legge e delle droghe ille-gali. non so. sentivo che ciò di cui avevo bisogno era stare seduta con la testa appoggiata contro la finestra ghiacciata.

“stai bene tesoro?” mi chiese una ragazza inglese tirandomi l’orlo dei pantaloni all’altezza dei suoi occhi.

Udii vagamente la sua voce, ma restai immobile con la bocca aperta, la testa all’indietro e gli occhi fissi al soffitto. era troppo faticoso rispondere. il battito del mio cuore era fuori controllo e non riuscivo a muovermi.

“tesoro, tutto bene?” insistette. radunai tutte le forze a dispo-sizione e guardai in giù annuendo.

“Hai dell’acqua?” mi chiese. scossi le spalle, al che sparì per tornare poco dopo con una bottiglia d’acqua per me. “Bevi” or-dinò. riconoscente, la guardai riempire la bottiglia dal rubinetto del bagno.

“grazie” riuscii a dire con un debole sorriso. parlare mi face-va bene, anche se era difficile. dovevo concentrarmi invece di perdermi nel viaggio che la mente e il corpo stavano facendo. riuscimmo a chiacchierare per un po’. era un angelo.

rimasi tutta la notte su quel davanzale, incapace di muover-mi, con il cuore che continuava a martellarmi nel petto, mentre il freddo della sera che penetrava attraverso la finestra alle mie spalle bilanciava l’eccesso di calore del corpo. Quella bella ragaz-za venne regolarmente a controllare il mio stato, mi riempiva la bottiglia di acqua e scambiava due parole con me tutte le volte.

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ancora oggi non so chi fosse, ma non oso pensare a ciò che sareb-be stato di me senza di lei.

a mezz’ora dalla chiusura del locale, mi aiutò a scendere. ero ancora in uno stato di alterazione terribile, ma riuscivo a parlare con maggior chiarezza. riuscimmo a sorridere e a chiacchierare un pochino. anche se ci stavamo ridendo sopra, entrambe eravamo consapevoli della gravità di quello che mi era successo, così l’ab-bracciai ringraziandola. poi mi accompagnò nel locale e mi aiutò a trovare gli altri. Mi avevano cercato per tutta la notte ed erano contenti di rivedermi. “tenetela d’occhio” disse la ragazza, dando la mia mano a uno di loro e salutandomi con un bacio e un sorriso.

sul treno del ritorno, i ragazzi non riuscivano a smettere di ridere tra loro e di parlare della fantastica serata appena trascorsa, desiderando essere ancora là e dispiaciuti del fatto che l’effetto della droga fosse già passato. appoggiai la testa contro il finestri-no e finsi di dormire, sapendo che ci sarebbe voluto del tempo prima di riuscirci veramente. il mio cuore batteva ancora all’im-pazzata e il mio unico desiderio era che smettesse.

da quel giorno smisi di sconvolgere il mio corpo con sostanze chimiche tossiche. dormii per due giorni filati e al risveglio ero una donna nuova, grata per la grande lezione che avevo impa-rato. sdraiata a guardare il soffitto, esausta dalla galoppata a cui avevo sottoposto il mio fisico, ero felice di essere sopravvissuta. era giunto il momento di trattarmi con maggiore rispetto e sal-vaguardare il dono della salute che mi era stato fatto.

parecchi anni dopo mi offrirono una pastiglia di ecstasy a un concerto, ma declinai educatamente l’offerta senza esitare. da quel giorno restò una cosa del tutto aliena da me. Mi resi con-to di essermi trasformata nuovamente nel prodotto del mio am-biente. avevo adottato uno stile di vita salutare. il tempo con gli amici veniva trascorso con del cibo sano, bevendo tè attorno al fuoco, facendo lunghe passeggiate e nuotando nei fiumi. era un ambiente che faceva molto più al caso mio. non mi dispiaceva affatto essere un suo prodotto.

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anthony invece era diventato lo specchio del suo ambiente nel modo peggiore possibile. durante le mie visite nel suo primo anno presso la casa di cura, aveva discusso con piacere delle no-tizie alla radio o alla televisione. era furbo e sempre pronto a of-frire un’opinione intelligente o sfacciata. Mi incoraggiava anche a raccontargli quello che stava succedendo nella mia vita ed era sinceramente interessato.

nel corso del tempo però la sua luce si affievolì al punto che non voleva neanche più che lo portassi fuori. prima trascorreva-mo momenti piacevoli immersi nella luce del sole conversando con i passanti. a volte restavamo semplicemente seduti in giardi-no a guardare gli uccelli, approfondendo la nostra conoscenza. in entrambi i casi erano sempre stati momenti divertenti con tante chiacchiere e risate.

se qualcuno dei suoi amici o parenti gli suggeriva di appren-dere nuove abilità e di crearsi una vita migliore, si rifiutava di ascoltare. “non ne vedo l’utilità” mi ripeteva. “le cose qui mi vanno bene così come sono, accetto il mio destino.” anthony sentiva di essersi meritato quello che gli era successo per via del male che aveva fatto agli altri in passato.

“Hai pagato per i tuoi errori,” gli dicevo. “Hai imparato la lezione e questo è ciò che conta.” Ma non riusciva a perdonar-si. inoltre, non gl’importava di costruirsi un’esistenza migliore. aveva rallentato il ritmo, seguendo l’andatura tranquilla e caden-zata della casa di cura e non aspirava affatto a tornare alla vita di società. in un certo qual modo, la condizione di disabile gli die-de una sensazione di sollievo perché poteva smettere di provarci, malgrado tantissime persone disabili abbiano una vita piena e stimolante. Ma soprattutto, forte di queste scuse, non rischiava di fallire. Quando glielo chiesi, ammise di non avere il coraggio di mettersi in gioco. se rinunciava, non avrebbe rischiato di fallire. non aveva più un briciolo di motivazione e mentre il sole sorgeva e tramontava ogni giorno, anthony sceglieva di lasciar scivolare via passivamente la sua esistenza.

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continuai a fargli visita di tanto in tanto per circa un anno, per quanto il suo ambiente fosse opprimente. Ma un’amicizia a senso unico è logorante per chiunque ed era quello che stava diventando il nostro rapporto. anthony aveva perso lo stimolo di chiamare gli altri, compresa me, come invece aveva sempre fatto tra una visita e l’altra. Quando lo vedevo, adesso, le nostre conversazioni ruotavano attorno al buon funzionamento del suo intestino e a quanto fosse scortese il personale. non era possibile ignorare nemmeno quanto trascurasse il proprio aspetto.

era precocemente invecchiato e malgrado fosse almeno trent’anni più giovane della maggior parte degli altri ricovera-ti, adesso ci stava a pennello. era il prodotto del suo ambiente. osservare spegnersi la luce in quest’uomo mi offrì un ulterio-re esempio di quanto sia importante avere il coraggio di vivere restando fedeli al proprio cuore. purtroppo la sua esistenza era l’esempio di ciò che non volevo.

suo fratello minore mi chiamò qualche anno dopo per av-visarmi che anthony era morto. fino ad allora, la sua vita non era cambiata e aveva continuato a rifiutarsi di uscire dalla casa di cura, anche solo per le riunioni di famiglia. aveva smesso di dare importanza alle cose. non potei fare a meno di pensare quali sia-no stati i suoi ultimi pensieri mentre giaceva sul letto, guardando indietro alla propria vita.

l’impatto del senso di fallimento di anthony mi spinse ad andare avanti. senza fare il minimo sforzo, non si era concesso l’opportunità di migliorare né di cambiare. il fallimento non ri-guardava tanto la possibilità di riuscire in quello che avrebbe ten-tato di fare. anche soltanto cominciare sarebbe stato un successo. il fallimento maggiore è stato quello di diventare il prodotto del suo ambiente, senza il desiderio di mettersi alla prova e quindi di cambiare la sua vita. era un peccato che una persona tanto brava e intelligente, naturalmente dotata, si fosse buttata via così.

se è vero che siamo destinati a essere un prodotto del nostro ambiente, la cosa migliore che potessi fare era scegliere gli am-

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bienti giusti, che avrebbero agevolato la direzione lungo la qua-le desideravo andare. la nuova consapevolezza degli effetti che l’ambiente circostante avrebbe potuto esercitare su di me sempli-ficò il mio viaggio.

e così, grazie a questa nuova presa di coscienza e al rinnovato coraggio, divenni più attenta alla vita che stavo creando e al pote-re che risiede nella libertà di scegliere.

z

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catene

non tutti i rapporti che ho intessuto coi clienti sono cominciati bene. sebbene il grosso del mio lavoro fosse con i malati terminali, a volte c’erano clienti che avevano

bisogno di cure a causa di malattie mentali. siccome esercitavo un effetto positivo e calmante su questi clienti a breve termine, iniziai a occuparmi dei casi più difficili. nessuna esperienza è sprecata nella vita. in passato ero stata esposta a una quantità di comportamenti irrazionali che ora sembravano aiutarmi con le persone difficili.

la maggioranza delle volte, i clienti difficili non mi sconvolge-vano più di tanto. talvolta invece capitava. poteva succedere che la mia calma non li acquietasse affatto, anche se le provavo tutte. Quando arrivai in quella villa meravigliosa, di certo una delle mi-gliori in città, mi tornarono in mente gli avvertimenti che avevo ricevuto sulla padrona di casa. florence infatti si metteva osti-natamente sulla difensiva quando si parlava del suo bisogno di assistenza, e insisteva di non averne bisogno. non era una novità. Moltissimi pazienti anziani erano riluttanti ad accettare di non essere più indipendenti come una volta. non era sempre facile per loro riconoscere di essere arrivati a quel punto.

Ma non ero preparata alla pazza che mi rincorse per il vialetto brandendo una scopa e inveendo contro di me a gran voce. i suoi capelli non vedevano una spazzola da non so quanto tempo. le unghie erano piene di sporcizia, se non peggio. con ai piedi una sola ciabatta, poteva rappresentare a stento la cenerentola delle favole. e sembrava che non cambiasse vestito da un anno.

“Vattene. fuori dalla mia proprietà” urlava. “ti ammazzo. fuori dalla mia casa. sei come tutti gli altri. Vattene o ti am-mazzo.”

la scopa mulinò nell’aria mancandomi di un soffio.

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ora, sono in grado di gestire tante situazioni nella mia vita, ma non sono stupida. né voglio fare la martire. cercai di rabbo-nirla con qualche frase gentile. Ma fu come parlare al vento e in tutta risposta, florence minacciò di rompermi il parabrezza con la scopa. non dovette insistere oltre per convincermi. “ok, ok” dissi. “Me ne vado florence. Va tutto bene.” sembrava selvaggia e indomabile mentre se ne stava in piedi alla fine del vialetto difen-dendo il suo territorio, con la scopa fieramente in pugno.

Mi allontanai alla guida della mia macchina e quell’immagine restò nello specchietto retrovisore finché non fui completamente fuori visuale. non si mosse. per quanto a un osservatore esterno la scena potesse sembrare divertente, il mio cuore provava di-spiacere per quella donna. Mi chiedevo chi fosse stata un tempo, come fosse stata la sua vita e che cosa l’avesse ridotta così.

Un mese dopo trovai le risposte a queste domande, quando fui rimandata allo stesso indirizzo. da allora, florence era stata presa con la forza e sedata. È un’immagine a cui detesto pensa-re. Quanto deve essersi spaventata! era stata in una casa di cura temporanea per malati mentali e ora stava bene. i medici erano soddisfatti della risposta ai farmaci e la rimandarono a casa con il consiglio di farsi assistere ventiquattro ore su ventiquattro.

l’infermiera mi stava aspettando quando arrivai. “adesso dor-me, ma dovrebbe svegliarsi a breve. aspetto con te” spiegò. aprii le doppie porte della villa e fui accolta da una imponente scalinata di marmo, da candelieri e da una casa piena di meravigliosi mo-bili antichi. Mi assalì anche una puzza assolutamente disgustosa.

“abbiamo finito con l’ingresso. ti faccio vedere il resto della casa” disse l’infermiera, indicandomi la squadra di addetti alle pulizie che incrociammo nella stanza accanto. florence aveva vis-suto in un lurido ammasso di rifiuti per più di dieci anni senza che nessuno se ne accorgesse, fino a poco tempo prima quando una vicina aveva raccontato all’infermiera di alcuni suoi compor-tamenti insoliti e bizzarri. Quando andò a trovarla, venne alla luce il livello di squallore nel quale viveva. non direttamente gra-

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zie a florence, naturalmente, perché nessuno poteva avvicinarla, ma sbirciando dalla finestra e verificando lo stato dell’abitazione.

sopravviveva con del cibo in scatola e ne aveva una scorta per un anno nella dispensa. non c’era traccia d’altro, certamente niente di fresco o di cucinabile. era quasi impossibile distinguere le piastrelle del pavimento in cucina tanto era ricoperto di ri-fiuti. Quel poco che si intravedeva aveva sopra quattro dita di sudiciume. il bagno non era in condizioni migliori. era un antro mefitico pieno di asciugamani sporchi, pezzi di sapone essiccato e segni evidenti del fatto che nessuno usasse la doccia o la vasca da bagno da molto tempo.

l’infermiera mi accompagnò al piano di sotto: qui altre sei stanze e un paio di bagni erano stati abbandonati nelle stesse condizioni. gli addetti alle pulizie erano stati assunti per ripulire tutta la casa ed erano state previste alcune settimane di lavoro. di sotto, le finestre si aprivano su una piscina sudicia; inabitabile persino per le rane, ne sono certa. da lì guardai in alto verso il piano nobile della casa e a tutto il suo splendore, chiedendomi cosa avrebbero raccontato i muri se avessero potuto parlare.

florence aveva subito una trasformazione positiva grazie alle cure ricevute in ospedale e ora riposava in una bella camicia da not-te pulita. i suoi capelli erano senza nodi ed erano stati lavati e ta-gliati; le unghie erano candide. era come guardare un’altra donna.

Un letto da ospedale aveva sostituito il suo. Mi furono date chiare istruzioni sul fatto che dovesse restare a letto con le sponde sempre alzate tutte le volte che ero a casa sola con lei. Un’altra badante sarebbe venuta per due ore la mattina e altre due il po-meriggio per darmi una mano. la mattina era dedicata alla doc-cia, alla cura del corpo e alla colazione. il pomeriggio bisognava portarla fuori in giardino o sulla terrazza per godere un po’ di aria fresca. forti dosi di sedativi facevano parte della gestione di flo-rence. il resto del tempo se ne stava in uno stato di lieve torpore. Una conseguenza di questo piano terapeutico della paziente fu che divenne molto più compiacente.

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passò un mese e ora ce ne stavamo nel giardino di una villa scintillante. gli addetti alle pulizie avevano finalmente terminato il loro lavoro, ma erano stati incaricati di badare alla casa setti-manalmente. florence iniziò ad avere alcuni piacevoli momenti di lucidità e fu in grado di condividere qualche storia con me. la sua vita era stata grandiosa ed eccitante. aveva navigato per il mondo a bordo delle navi più lussuose e aveva visitato posti da favola. a volte mi indicava qualche cassetto nelle vicinanze: io lo aprivo e le passavo le foto che trovavo all’interno mentre lei me le spiegava una per una. facevo fatica a credere che si trattasse della stessa persona, se non fosse che spesso riconoscevo proprio lei nella giovane donna bella e sorridente delle fotografie.

non posso dire che diventammo intime, ma ci affezionammo l’una all’altra tanto da accettare la situazione che ci aveva fatte avvicinare. c’erano ancora dei momenti in cui coglievo in lei la donna folle e selvaggia di quel primo incontro. era necessario che ci fosse anche un’altra badante per farla uscire dal letto. non faceva storie nel prendere i farmaci, ma anche sedata era una lotta ogni giorno farle fare la doccia e arrivai ad aspettare con terrore il giorno in cui era previsto il lavaggio dei capelli. Ma una volta fuori dalla doccia era un amore e si pavoneggiava allo specchio, ridendo come la gran dama elegante che era stata un tempo.

la sua fortuna era legata da sempre alla famiglia. “Vecchi, cari soldi”, così li chiamava. anche suo marito era ricco, ma niente a che vedere con il lignaggio che poteva vantare lei. dopo qualche affare pericoloso finì in prigione per parecchi anni. l’unica paren-te a cui florence permetteva di entrare nella sua vita mi raccontò che proprio in quel periodo la donna aveva iniziato a diventare sospettosa e paranoica verso tutti.

suo marito morì un anno dopo essere uscito dal carcere. flo-rence non ebbe più l’opportunità di guarire o arginare la sua pa-ranoia e la stabilità mentale peggiorò. si era fidata totalmente di lui e credeva che gli altri volessero derubarla dei suoi soldi, e che fosse colpa loro se il marito era finito in prigione. ai fini del mio

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rapporto con lei faceva poca differenza che lui fosse colpevole o meno, perciò non stetti lì a soppesare la cosa.

florence accettava di passare a letto la maggior parte del tem-po. era felice di essere a casa sua e certe volte ammetteva di ap-prezzare la compagnia che le offrivano le badanti. tuttavia ogni pomeriggio, poche ore prima dell’arrivo dell’altra assistente, face-va emergere l’altro aspetto della sua personalità e si trasformava nella donna selvatica e aggressiva che avevo conosciuto all’inizio. avrei potuto regolarci l’orologio.

“fammi uscire. fammi uscire da questo dannato letto. aiu-to. aiuto. aiuto. aiUto” urlava, e la sua voce rimbombava per tutta la villa e sui pavimenti di marmo. andavo nella sua stanza e a volte riuscivo a calmarla per due secondi, ma proprio due di numero. poi ricominciava.

“aiuto. aiuto. aiuto. aiUUUUUtooooo.”sono sicura che se non ci fossimo trovate in una villa lussuosa

con muri spessi e a una certa distanza dai vicini, la gente avrebbe chiamato la polizia ogni giorno per denunciare quelle grida. non cambiava nulla se mi trovavo nella stanza o meno. chiamava aiu-to lo stesso e urlava che voleva scendere dal letto finché non arri-vava l’altra badante e la facevamo alzare.

non voleva sentire ragioni in quei momenti e sebbene mi di-spiacesse per lei e fossi tentata di farla alzare, conoscevo anche l’altro suo lato. non valeva la pena di mettere a rischio la mia incolumità. l’immagine di lei che mi cacciava via con la scopa e la sua violenta determinazione non mi aveva più lasciato. erano le urla che si manifestavano nel pomeriggio a persuadermi nel dare ascolto ai medici che avevano stabilito la sua routine in quei ter-mini. tuttavia mi spiaceva per lei. doveva essere terribile sentirsi in prigione nella propria casa!

le sponde laterali del letto, i lacci e le prescrizioni dei medici erano i fattori che concorrevano a intrappolarla. la sua malat-tia l’aveva privata della libertà di uscire di casa, perché provava una ossessiva sfiducia nei confronti della gente e di quello che

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avrebbero potuto rubarle se lo avesse fatto. sebbene la maggior parte delle persone non sia confinata a letto, spesso la loro vita è limitata dalle catene che loro stessi hanno creato e che hanno disperatamente bisogno di eliminare.

Uno dei miei primi ricordi è quello di essere chiusa dentro a una scatola. in verità non mi sentivo in trappola. era una grossa scatola di legno sul lato della nostra casa, in giardino. Uno dei miei fratelli maggiori mi aveva convinta ad arrampicarmi dentro e poi mi aveva rinchiusa. ricordo ancora di essere stata seduta lì dentro al buio e di essermi sentita al sicuro e felice. persino a due o tre anni sapevo che mi piaceva la mia compagnia e che era bello starsene in pace. più tardi mi era giunta la voce spaventata di mia madre che mi chiamava, risposi e tutto finì bene. fui liberata e tornai nella confusione della vita familiare.

Ma c’erano delle catene che mi trattenevano in quel periodo, nella mia vita di adulta. sebbene stessi cercando di trovare il co-raggio di rispettare le mie scelte, un passo alla volta, i vecchi sche-mi di pensiero mi impedivano di farlo del tutto. superare il terrore del palcoscenico fu un processo particolarmente difficile, mentre cercavo di liberarmi dalle trappole che avevo creato io stessa.

se qualcuno mi avesse detto che la fotografia e la scrittura mi avrebbero portato su un palco, un tempo avrei riso dell’assurdità di un’idea simile. iniziai vendendo le mie fotografie ai negozi e alle gallerie. le entrate non erano sufficienti per campare solo di quello, ma c’erano momenti in cui mi sentivo spronata a percor-rere quella strada.

forte di questi timidi segnali di incoraggiamento, decisi di lavorare nel settore della fotografia e accettai un incarico presso uno studio professionale di Melbourne. purtroppo si trattava di un lavoro d’ufficio e dopo un anno di noia, luce al neon e stanze senza finestre mi resi conto che non mi dava più soddisfazione dei precedenti lavori in banca. non mi si presentò mai l’occasione di passare nella parte creativa dell’azienda e arrivai a perdere qualsia-si interesse per quell’attività, tanto che iniziai a fare errori stupi-

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di. ricordo che sospiravo tantissimo; appoggiata sui gomiti, col mento nel palmo della mano, cercavo di capire come fare a tro-vare un po’ di soddisfazione nella vita professionale. e sospiravo.

grazie a questo ruolo però giunsi a comprendere che non ave-vo bisogno di lavorare nel settore per fare delle belle foto. con l’aiuto di una coppia di nuovi amici esperti di informatica, creai un piccolo libro fotografico d’ispirazione. ricevetti altre confer-me a sostegno della qualità del mio lavoro, ma non abbastanza perché il libro venisse pubblicato. gli editori rispondevano che il costo della stampa a colori era un fattore rilevante, anche se alcuni mi dissero che era un bel libro.

per qualche anno gli dedicai anima e corpo, ogni grammo di attenzione ed energia. Ma le lettere di rifiuto si ammucchiava-no l’una sull’altra, malgrado qualcuna riportasse ancora parole di sincero incoraggiamento. fu proprio in un momento di pianto e frustrazione che presi in mano la chitarra. sapevo a malapena suonarla, ma continuai scrivendo metà della mia prima canzone. Mi sarei resa conto dell’importanza di quel momento solo suc-cessivamente.

poiché conoscevo il potere della resa, giunsi ad accettare il fat-to che non era importante se il libro di fotografie fosse stato pub-blicato o meno. era già un grande risultato ai miei occhi, perché avevo avuto il coraggio di provarci. il successo non dipende dalla risposta positiva di qualcuno che ti dice, sì pubblicheremo il li-bro, oppure no, non lo faremo. dipende dal coraggio di essere te stesso, a prescindere. grazie alle lezioni che avevo imparato, alla fine riuscii ad arrendermi. forse avevo creato quel libro proprio perché capissi certe cose. oppure sarei riuscita a pubblicarlo in un secondo momento, quando fossi stata pronta.

a ogni modo non aveva importanza. dovevo arrendermi. tut-ti quegli sforzi mi avevano prosciugata e avevo riposto troppa en-fasi nel fatto che il libro fosse pubblicato. era giunto il momento di tornare a vivere senza cercare di controllare il risultato. anche la canzone che avevo scritto per metà finì nel dimenticatoio men-

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tre cercavo le risposte, dedicando sempre più tempo al mio per-corso di meditazione e di guarigione. dopo uno di quei numerosi momenti di silenzio e di riflessione però, sentii il forte impulso di finire quel pezzo. da quel giorno seppi che scrivere canzoni fa-ceva parte del lavoro della mia vita, perché non solo finii di com-porla, ma ne misi giù anche un’altra. dopo aver cominciato non riuscivo più a fermarmi. si riversavano letteralmente fuori di me.

da piccoli, allestivamo concertini per parenti e amici. avevo la musica nel dna perché nonostante le loro altre carriere “di buon senso”, quando mio padre conobbe mia madre era un chi-tarrista e compositore, e lei era una cantante. tuttavia non avevo mai provato il desiderio consapevole di stare sul palcoscenico. e certamente non lo stavo provando in quel momento, anzi ero terrorizzata al pensiero. non era solo l’idea di salirci. È che mi piaceva essere una persona qualunque. Un sacco di compositori non eseguivano i loro pezzi e io volevo essere una di loro. Ma all’inizio, per far conoscere il mio lavoro, l’unico modo era suo-nare dal vivo.

la cosa mi spaventava e creò una forte turbolenza emotiva dentro di me per un lungo periodo. trovare una professione che mi piacesse era già stata una sfida dolorosa, che sembrava non sarei mai riuscita a superare del tutto. adesso non riuscivo ad accettare che il lavoro verso cui ero stata chiaramente sospinta mi avrebbe esposto allo sguardo del pubblico, quando invece avevo sempre amato e protetto la mia privacy. in definitiva non volevo vivere la vita che vedevo dispiegarsi davanti a me.

tuttavia ci vengono impartite lezioni per guarire, non neces-sariamente per farci felici. fu un momento molto difficile, e la negatività proveniente da alcune persone che avevano a che fare con la mia nuova decisione non mi aiutò per niente. Volevo solo che la vita mi ingoiasse e mi facesse passare inosservata.

trascorsi molto tempo da sola in uno dei miei fiumi pre-feriti, nuotai per settimane cercando di accettare la direzione verso cui mi sentivo guidata. l’acqua fresca mi purificava a ogni

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bracciata. Quando nuotavo sott’acqua il mondo fuori svaniva. lungo il fiume non c’erano rumori, solo il canto degli uccelli e la brezza che soffiava dolcemente attraverso gli alberi sulla riva. la pace serviva a guarirmi, così mi ci immergevo spesso. Un giorno vidi addirittura un platipo, noto per essere una creatura molto timida che difficilmente si avvicina alle persone. Una tale felicità mi rigenerò.

Mentre stavo seduta sulla riva, lasciando che la natura spar-gesse la sua magia sulla mia anima stanca, con la brezza che mi accarezzava il viso, non potei fare a meno di essere sincera con me stessa. Viste e considerate tutte le esperienze che avevo vissuto fino a quel momento, capii che nel profondo una parte di me aveva sempre saputo che sarei finita davanti al pubblico, a un certo livello. la scelta di mantenere una sfera privata spettava a me e potevo gestirla. era la mia vita dopo tutto, e dipendeva da me l’organizzazione di quello che sarebbe accaduto.

alla fine accettai l’eventualità che questo lavoro fosse una par-te del mio percorso esistenziale e aiutai anche gli altri a farlo, sperando così di crescere in quel ruolo. confidare nel fatto che questa consapevolezza mi avrebbe maturato, a prescindere da chi avrebbe ascoltato la mia musica, consolidò la mia accettazione. fu fondamentale anche il sostegno di una coppia di amici, anche loro musicisti.

se ripenso a quando ho cominciato a esibirmi, mi dispiace sia per il pubblico che per me. per quanto la musica fosse tollerabile, fu evidente per molto tempo quanta fatica mi costasse. Mi trema-vano le mani, la chitarra rimbalzava, saltavo gli accordi e la voce usciva del tutto soffocata. detestavo quella situazione e spesso avevo i nervi a pezzi. la meditazione mi aiutava tantissimo, e la praticavo con costanza. se sei perseverante, alla fine migliori con la pratica e ciò vale per qualsiasi attività. Malgrado i nervi tesi e la paura, qualcosa mi fece andare avanti. fu l’accettazione del fatto che fosse parte della mia vita lavorativa e il desiderio di dare il mio contributo. inoltre avevo bisogno di essere ascoltata.

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finalmente potevo condividere pensieri a lungo repressi e taciuti.avevo superato la trentina da un pezzo quando finii quella

prima canzone, e fu necessario un altro anno o due per decidere di esibirmi. avevo smesso di bere alcolici e questo significava che dovevo affrontare le mie paure a testa alta, senza nessun sostegno artificiale. tuttavia esibirmi mi aiutò ad aprirmi. portò con sé tantissimi doni. nel periodo in cui mi prendevo cura di florence, battevo anche il circuito dei cantautori nei pub della città. li odiavo per la maggior parte, ero molto solitaria a quei tempi, per-ché le ferite emotive mi avevano fatto chiudere in me stessa. salire sul palco e cantare le mie canzoni era una situazione gestibile, ma mi ci volle del tempo prima che riuscissi a goderne.

Mi servì per crescere. condividere i pensieri in una stanza pie-na di estranei ti apre nuovamente al mondo. la risposta positiva che continuavano a ricevere i miei pezzi, unita a quello che avevo da dire, mi incoraggiava nel mio lavoro di cantautrice.

in seguito capii che stavo suonando nei posti sbagliati per il mio stile e la mia personalità. negli anni seguenti, dopo uno di quei concerti troppo rumorosi, dissi addio alle performance nei pub. avevo fatto la mia gavetta. forse ci sarebbero state meno occasioni per suonare, ma esibirmi dal vivo nei pub e farmi co-noscere in quel modo non era la mia ambizione, perciò la cosa non m’importava più di tanto. a quel punto avevo iniziato anche a partecipare a qualche festival di musica folk e avevo sperimen-tato la gioia che prova un artista quando si esibisce davanti a un pubblico che non solo ascolta le canzoni, ma le capisce comple-tamente. Quella connessione con persone simili è una sensazione fantastica. così da allora in avanti, scelsi solo location meraviglio-se o festival adatti a me.

se ripenso a chi ero quando iniziai a esibirmi, riconosco a stento quella fragile creatura. adesso, quando suono dal vivo, sono sicura di me, perché lo faccio nei posti giusti, davanti al mio pubblico. scrivo brani ricchi di significato e dolci, per lo più. in questo modo prendono vita, esistono. non è più una lotta per

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superare il brusio di fondo dei pub, né rischio di perdere la sinto-nia con il pubblico perché alla televisione trasmettono la partita. se faccio un errore, rido teneramente di me stessa e vado avanti. dopo tutto, anche gli artisti sono esseri umani.

È un sollievo anche che Mr. invincibile non mi guardi più con desiderio. sto parlando del tizio che deve sempre bere più di tutti al pub e che improvvisamente decide di essere il fratello gemello di Johnny depp. se ne sta lì proprio davanti al palco, guardandoti maliziosamente mentre dondola avanti e indietro, riuscendo non si sa come a non versare nemmeno una goccia della sua diciottesima birra. È certo di essere un dono di dio per le donne quando ti offre la grazia di un cenno o di un occhiolino, mentre fa oscillare i fianchi solo per te. E se sei brava abbastanza, ti aspetta vicino al palco per rispondere a tutte le tue preghiere per quanto concerne gli uomini e le grandi storie d’amore. sì, li ho conosciuti tutti. che dio li benedica.

così non solo dovetti affrontare il mio iniziale terrore di esi-birmi, ma ogni giorno continuavo a percorrere il mio percorso creativo con coraggio. avevo terminato da poco un anno di studi musicali. dal momento che mi sarebbe piaciuto saperne di più sul settore, mi ero preparata sui rudimenti della teoria musicale per riuscire a passare la selezione al corso. la prova incluse an-che una versione molto agitata di una delle mie canzoni. superai l’esame e tornai a essere studente a trent’anni. Mi sono goduta ogni minuto di quella esperienza.

dovetti ricorrere a più espedienti per vincere il mio nervosi-smo quando mi esibivo. la pratica fu certamente uno di questi. continuare a mettermi alla prova là fuori migliorò sempre più le mie esecuzioni sia nel suonare lo strumento, sia nel canto, e aumentò la sicurezza in me stessa. più di ogni altra cosa, mi hanno aiutata gli strumenti che utilizzavo per liberarmi dal gio-go della mente. possono essere applicati a ogni circostanza, non solo alle esibizioni live, e da allora mi hanno dato conforto an-che in altri modi.

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Quando i nervi iniziavano a farsi sentire o quando emerge-vano pensieri negativi, come “cosa diavolo pensavo di fare là sopra?”, tornavo alla pratica della meditazione, anche a metà canzone. in realtà non interrompevo il pezzo, né mi sedevo sul palco nella posizione del loto. per niente. spostavo la mia attenzione sul respiro, osservandolo entrare e uscire. nel frat-tempo, riversavo la mia più totale fiducia nella memoria mu-scolare, che avrebbe ricordato dove mettere le dita sulla chi-tarra e nelle parole che avrebbero continuato a fluire. era sul respiro che dovevo concentrarmi in quei momenti. funzionava a meraviglia, perché mi faceva calmare quanto bastava da per-mettermi di tornare alla canzone con una espressività migliore e una maggiore presenza.

Un ulteriore contributo a un nuovo modo di pensare, che mi fece dire addio al nervosismo, fu quando mi tolsi dall’equazione e considerai l’esperienza come un’occasione per dare qualcosa al pubblico. prima di cominciare, dicevo silenziosamente una pre-ghiera, ringraziando la musica perché fluiva attraverso di me e dava piacere al pubblico. poi mi assentavo e mi godevo la musica tanto quanto gli spettatori.

esibirmi mi ha insegnato tantissime cose importanti. sono grata alla vita per avermi fatto perseverare anche quando non ero del tutto convinta. come potremmo mai sapere quali sono i doni in serbo per noi attraverso le lezioni a portata di mano, se non le viviamo? possiamo scoprirlo solo affrontandole. che continui a esibirmi o meno in futuro non ha più importanza per me. se sarà così, bene! ne godrò immensamente. altrimenti sarò ugualmen-te felice di qualsiasi cosa starò facendo al suo posto. non importa. andrò dove mi porta il mio cammino.

tenendo a bada i nervi durante le esibizioni, avevo iniziato anche a padroneggiare la mia mente, seppur in altri modi. Mi ero liberata dai vincoli che avevo creato nel corso di una vita basata su schemi di pensiero sbagliati. tutti noi abbiamo delle catene da cui dobbiamo liberarci. la maggior parte di esse non sono con-

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crete e se anche lo fossero, probabilmente deriverebbero da limiti non fisici, ma da sistemi di convinzioni nocivi e negativi.

purtroppo però, la cara florence restava bloccata nel letto al-meno finché non arrivava l’altra badante. dal momento che la mia presenza non attenuava il volume delle sue grida, usavo il riguardo nei miei confronti di non stare nella sua stanza. facevo solo capolino di tanto in tanto. allora lei si interrompeva per un paio di secondi, mi guardava, poi distoglieva lo sguardo e ri-prendeva a gridare “aiuto”. Quella donna avrebbe dovuto fare la cantante. di sicuro aveva i polmoni per farlo.

gli yacht solcavano la baia di sydney. ripensai al tempo in cui ero stata amica di alcuni uomini meravigliosi che andavano in barca e sorrisi domandandomi che fine avessero fatto. il suono del campanello interruppe il flusso dei ricordi.

Quando abbassavamo le sponde del letto, le urla cessavano in un nanosecondo. proprio così. florence ci sorrideva. “Be’ ciao a tutt’e due. com’è andata la vostra giornata finora?” chiedeva. noi ci guardavano l’un l’altra sorridendo e l’aiutavamo ad alzarsi. sebbene l’altra badante non dovesse subire ogni giorno per ore le sue urla, veniva accolta tutti i pomeriggi dai suoi acuti.

“Benissimo florence, grazie, e la tua?” chiedevo.“oh non male, cara. Ho guardato le barche nel porto. sai,

mercoledì c’è la regata.”dandole ragione dicevo: “È vero!”.Vagabondando insieme per il giardino ci stupivamo dei colori.

era stato trascurato per anni, ma i parenti che di recente avevano ottenuto la curatela del suo patrimonio avevano insistito che la proprietà venisse rimessa a posto, affinché florence potesse go-derne in qualche momento di lucidità. così i giardinieri avevano fatto ricorso alle loro arti magiche e l’acqua della piscina era tor-nata a essere trasparente.

“guardate il mio bellissimo giardino” ci diceva. “È spettaco-lare in questo periodo dell’anno.” tutt’e due concordavamo di cuore. il giardino era tornato al rigoglioso splendore di un tempo

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nonostante la trascuratezza e lo stato di abbandono in cui era stato lasciato per anni.

“ero proprio qui fuori l’altro giorno a piantare questi fio-ri, sapete. devi starci dietro al giardino, soprattutto con tutti questi rampicanti.” sorridevamo e annuivamo ancora. Visto e considerato che solo un mese prima o due quel posto era una giungla trascurata e lurida, era divertente stare a sentire come lo vedeva florence.

togliendo qualche rampicante dai fiori, continuava: “non puoi permetterti di essere pigro quando hai un giardino. Ha bi-sogno di un sacco di amore e di tempo.” le chiedevamo di alcuni fiori e lei rispondeva con sorprendente lucidità e competenza. “Questo rampicante intrappola i fiori e li soffoca” ci spiegava, mentre strappava via le erbacce. annuivo e lei continuava: “non permetterei mai a niente e a nessuno di intrappolarmi, e non lascerò che qualcosa lo faccia coi miei fiori.”

e mentre procedeva a rompere le costrizioni nel suo bel giar-dino, pronunciai silenziosamente una preghiera di ringrazia-mento per aver trovato il coraggio di iniziare a liberarmi dai miei stessi limiti. come un fiore, anche io adesso ero libera di crescere e sbocciare.

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riMpianto 2:

Vorrei non aVer laVorato così tanto

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Mentre asciugavo i piatti, sentivo il mio cliente John ridacchiare nel suo studio come un ragazzino: “sì, ha proprio l’età giusta” disse soffocando una risata e

continuando a descrivermi al suo amico al telefono. aveva quasi novant’anni mentre io ero ancora sulla trentina. ripensando a una cosa che mi aveva detto una volta un uomo di settant’anni, “tutti gli uomini sono come dei ragazzini”, sorrisi tra me e me, scuotendo la testa.

John era un gentiluomo che aveva lavorato come diplomatico e non aveva alcun segno della malattia. Mi voleva portare fuori a pranzo e mi chiese se per caso avessi un abito rosa da indossare. in caso negativo, avrebbe potuto comprarmene uno. risi e declinai educatamente la sua offerta di comprarmi un vestito, perché in effetti ne avevo uno di quel colore. per quanto non facesse parte della mia uniforme da badante, lo informai che sarei stata felice di accontentare un anziano signore come lui. ne fu meravigliosa-mente compiaciuto.

fu prenotato un tavolo per due in un ristorante molto costo-so. era il posto migliore, davanti e centrale, sovrastante il parco che attraversa il porto. John era elegantissimo nella sua giacca blu marina con passamaneria color oro, circondato da una fresca

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nota di dopobarba. con una mano sulla schiena mi guidò fino al tavolo. contemplai la vista e quando mi voltai vidi che striz-zava l’occhio a quattro uomini seduti a un tavolo vicino. stavano ridacchiando tutti quanti mentre mi squadravano, ma smisero all’istante assumendo un’aria compassata non appena si resero conto di essere stati scoperti.

“amici tuoi suppongo, John?” gli chiesi sorridendo. Balbet-tò qualcosa e ammise di aver voluto che i suoi amici vedessero quant’era fortunato ad avere una badante così fisicamente dota-ta. scoppiai a ridere. “lo è qualsiasi donna della mia età per un gruppo di novantenni.” devo ammettere però che le sue maniere erano impeccabili, e avrei voluto che molti più uomini della mia generazione avessero il fascino e l’etichetta a tavola che lui esibiva con me. facemmo un pranzo delizioso. John aveva preventiva-mente telefonato al ristorante per spiegare che sarebbe stata sua ospite una donna vegana. avevano preparato un pane vegetale squisito, cotto al forno in modo speciale.

scoprii in seguito che John aveva proibito ai suoi amici di interrompere il nostro pranzo e persino di avvicinarsi al tavolo. le presentazioni ci sarebbero state in un secondo momento. così sebbene avessero finito di mangiare da un pezzo, restava-no pazientemente seduti aspettando che finissimo il pranzo e la conversazione. poi, sempre con la mano sulla mia schiena, mi accompagnò al loro tavolo dove giocai alla fidanzata perfetta seducendoli tutti, ma facendo in modo che John ricevesse il massimo della mia attenzione. Mi ricordava un gallo che sfog-gia il piumaggio per orgoglio e per conquistare la femmina. fu divertente.

sotto a tutto questo però c’era un uomo che stava per morire. che male c’era ad assecondare questo gioco innocente in quella che sarebbe stata una delle sue ultime uscite? Una volta rientrati a casa e sostituito il vestito rosa con indumenti più pratici, con grande delusione di John, lo aiutati ad andare a letto. l’uscita lo aveva senz’altro divertito, ma era anche esausto.

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le energie delle persone in fin di vita sono talmente deboli che una breve uscita può esercitare lo stesso effetto di una settimana passata a sollevare mattoni. le prosciuga completamente. nem-meno i familiari e gli amici capiscono quanto le loro visite a fin di bene possano affaticare chi è malato. durante gli ultimi giorni, vi-site di più di cinque o dieci minuti possono essere un duro lavoro per loro, eppure è proprio quello il periodo in cui ne hanno di più.

Quel pomeriggio eravamo solo io e John e lui dormiva pro-fondamente. Mentre riponevo il vestito rosa nella borsa, pensai che era stato bello avergli dato la gioia di quel pranzo. aveva fatto piacere anche a me.

la mia giovinezza aveva giovato a John anche in altri modi. poiché ero molto più brava di lui col computer, ritornai nel suo studio per continuare il lavoro che avevo cominciato il mese pre-cedente. era ammirevole che un uomo della sua età cercasse di approcciarsi al computer per non restare indietro nell’era della tecnologia. Ma i suoi file erano disordinatissimi, perché a quanto pareva ignorava l’esistenza delle cartelle e delle funzioni di archi-viazione. Mentre dormiva, andai avanti a creare categorie e cartel-le per sistemare centinaia di documenti, stilando contemporanea-mente un indice per trovare le cose. la settimana successiva la sua salute era peggiorata notevolmente, perciò fui grata del fatto che fossimo già andati fuori a pranzo. non sarebbe più uscito di casa. avrebbe potuto avere davanti qualche settimana ancora, o forse no, ma le sue forze stavano scomparendo molto rapidamente. seduti in terrazzo più tardi, quel pomeriggio, guardammo il sole tramontare sull’Harbour Bridge e l’opera House. John era in ve-staglia e ciabatte e cercava di mangiare qualcosa, ma faceva molta fatica. “non preoccuparti, mangia solo quello che riesci o che ti va” gli dissi, anche se entrambi sapevamo bene quali erano le parole non dette dietro a quella frase. stava morendo e non man-cava molto ormai. annuendo, appoggiò la forchetta sul piatto, passandomi entrambi. Misi da parte il vassoio e continuammo a contemplare il tramonto.

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nel bel mezzo del silenzio del pomeriggio John affermò: “Vor-rei non aver lavorato così tanto, Bronnie. che razza di stupido sono stato.” ero seduta sull’altra poltrona a sdraio del terrazzo e lo guardavo. non aveva bisogno di incoraggiamento per continua-re: “Ho lavorato troppo e adesso sono un uomo solo che si avvi-cina alla morte. la cosa peggiore è che sono stato solo per tutto il tempo della pensione, e non avrei dovuto.” restai ad ascoltare mentre mi raccontava la sua storia.

John e Margaret avevano cresciuto cinque figli, quattro dei quali adesso erano genitori a loro volta. il quinto era morto a trent’anni. Quando i ragazzi erano diventati adulti e se n’erano andati di casa, Margaret gli aveva chiesto di andare in pensione. erano entrambi sani e in forma e avevano soldi a sufficienza per vivere di rendita. Ma lui diceva sempre che avrebbero potuto ave-re di più. sua moglie, ogni volta, rispondeva che avrebbero potu-to vendere la loro enorme casa, ormai vuota, e comprare qualcosa di più adatto, se necessario, aumentando così la loro liquidità. Questa battaglia tra loro era proseguita per quindici anni, mentre lui aveva continuato a lavorare.

Margaret era sola e desiderava riscoprire la loro vita di coppia senza i figli o il lavoro. per anni aveva divorato cataloghi di viag-gio, proponendo paesi e regioni diverse da visitare. John condi-videva il suo desiderio di viaggiare e acconsentiva a tutto quello che lei proponeva. purtroppo però era felice dello status che gli conferiva il suo lavoro. Mi confessò che non era il lavoro a piacer-gli, ma la posizione che gli dava in società e tra gli amici. la corsa per chiudere un affare era diventata una specie di droga per lui.

Una sera, mentre Margaret in lacrime lo supplicava di andare in pensione, guardò quella bella donna e si rese conto che non solo desiderava disperatamente la sua compagnia, ma che adesso erano vecchi. Quella donna meravigliosa aveva aspettato pazientemente che lui smettesse finalmente di lavorare. guardandola, notò che era bella come il giorno che l’aveva conosciuta. Ma per la prima volta in vita sua rifletteva sul fatto che non sarebbero vissuti in eterno.

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sebbene fosse spaventato per ragioni che adesso non poteva giustificare, acconsentì ad andare in pensione. Margaret gli era saltata al collo e lo aveva abbracciato, mentre la sua tristezza si tra-sformava in gioia. Ma il sorriso non durò a lungo e svanì quando lui aggiunse “tra un anno”. c’era un nuovo affare da trattare in azienda e voleva portarlo a termine. aveva aspettato per quindici anni che andasse in pensione. di sicuro poteva pazientare per un altro anno ancora. era un compromesso che lei accentò con riluttanza. Mentre il sole usciva di scena John mi disse che anche allora si era sentito egoista per quella decisione, ma non era ri-uscito a ritirarsi dal lavoro senza prima chiudere un altro affare.

dopo aver sognato questo momento per anni, le cose iniziava-no a diventare reali per la sua amata moglie. fece qualche proget-to concreto, telefonando regolarmente all’agenzia di viaggi. ogni sera, quando rincasava, lo aspettava con la cena pronta. Mentre mangiavano al tavolo che un tempo aveva accolto tutta la loro famiglia, lei condivideva i suoi pensieri e le sue idee con grande entusiasmo. anche John, adesso, cominciava a scaldarsi all’idea di andare in pensione, sebbene continuasse a insistere di voler chiu-dere l’anno, quando Margaret gli suggeriva di fare diversamente.

dopo quattro mesi dalla decisione di andare in pensione, e otto prima di quel traguardo, Margaret iniziò a stare male. le prime avvisaglie furono le nausee che dopo una settimana non erano ancora passate. “domani ho appuntamento dal medico” gli disse quando lui rientrò dall’ufficio. era già calata l’oscurità della sera. in lontananza si sentiva ancora il rumore del traffico mentre i lavoratori tornavano alle loro case. “Ma sono sicura che non è niente” lo rassicurò cercando di sembrare allegra.

sebbene John fosse preoccupato del fatto che non stesse bene, non gli passò neppure per l’anticamera del cervello che fosse qual-cosa di più di un malessere fino alla sera dopo, quando Margaret gli disse che il dottore le aveva prescritto degli esami. anche se gli esiti sarebbero stati disponibili la settimana successiva, il suo crescente disagio e il dolore che iniziò a provare fecero capire loro

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che c’era qualcosa che non andava. solo che non si aspettavano una notizia così terribile. Margaret stava morendo.

passiamo gran parte del tempo a fare progetti per l’avvenire, contando sulla felicità che ci riserva il futuro, o dando per sconta-to di avere a disposizione tutto il tempo del mondo, quando inve-ce l’unica cosa che abbiamo è la nostra vita oggi. non era difficile capire il grande rimpianto che John provava in quel momento. comprendo quanto le persone possano amare il proprio lavoro, e non c’è bisogno di sentirsi in colpa per questo. anche io amavo il mio, malgrado la tristezza che spesso comportava.

Ma quando gli chiesi se gli sarebbe piaciuto così tanto il suo lavoro senza il supporto della sua famiglia, John scosse la testa. “Mi piaceva quello che facevo, certo. e amavo il mio status, ma a che pro? Ho dedicato meno tempo a quello che mi faceva vera-mente andare avanti nella vita: Margaret e la famiglia, la mia cara Margaret. Mi ha sempre dato il suo amore e il suo sostegno. Ma io non ci sono stato per lei. era una donna così divertente. ce la saremmo spassata viaggiando insieme.”

Margaret morì tre mesi prima del previsto pensionamento di John, sebbene a quel punto si fosse già ritirato. Mi confidò quan-to il suo pensionamento fosse sempre stato gravato dal senso di colpa da allora. persino dopo essere riuscito ad accettare il suo “errore”, come lo chiamava, desiderava ancora poter viaggiare e ridere con Margaret.

“penso che avessi paura. sì, è così. ero terrorizzato. la mia posizione, il mio ruolo, erano ciò che definivano la mia identi-tà, in un certo senso. ovviamente adesso che me ne sto seduto qui a morire, capisco che essere una brava persona è più che sufficiente nella vita. perché dipendiamo così tanto dal mondo materiale per dare valore a ciò che siamo?”. John pensava ad alta voce, frasi sparse piene di tristezza per le generazioni passate e future che volevano tutto, basando la loro importanza su ciò che possedevano e su quello che facevano, piuttosto che su ciò che erano davvero.

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“non c’è niente di male nel volere una vita migliore. non mi fraintendere” mi disse. “È solo che la corsa per avere di più, e il bisogno di essere riconosciuti per i nostri successi e per ciò che possediamo, può allontanarci dalle cose reali, come il tempo da trascorrere con le persone care e da dedicare a quello che noi stessi amiamo. probabilmente è tutta questione di equilibrio, non credi?”.

annuii. adesso sopra di noi splendeva qualche stella e l’acqua rifletteva le luci multicolori della città. anche per me l’equilibrio era sempre stato una cosa difficile da mantenere. sembrava im-possibile anche nel ruolo che ricoprivo. Una normale giornata di lavoro consisteva di turni da dodici ore e quando i clienti si avvicinavano alla fine, loro stessi e le famiglie volevano che le ba-danti fossero sempre le stesse, per quanto possibile. così, durante il loro ultimo mese di vita, non era inusuale lavorare sei giorni la settimana, talvolta facendo anche un turno di notte nel mezzo, il che voleva dire restare lì per trentasei ore filate. Una settimana lavorativa di ottantaquattro ore non è salutare per nessuno, nem-meno se ami il tuo lavoro.

a volte i clienti dormivano, ma bisognava essere sempre pre-senti. c’erano un sacco di altre incombenze da svolgere. era come se vivessi in uno stato di sospensione, sebbene col senno di poi mi rendessi conto che le cose non stavano così, perché anche quella era una parte della mia vita. dopo che il malato se n’era andato, io ero sfinita. spesso succedeva che dopo una tirata simile per un po’ non avessi un cliente regolare. così accoglievo con gioia quella pausa, mi rivedevo con gli amici, ritornavo alla musica e alla scrittura, finché poi tutto ricominciava di nuovo. il tempo libero era meraviglioso, soprattutto in quei lunghi periodi in cui mi capitava solo qualche turno di lavoro sporadico. Ma quell’al-ternanza metteva a dura prova le mie finanze. se non lavoravo, non c’erano soldi.

in uno di quei periodi, mi fu proposto di lavorare una volta la settimana come office manager in un centro prenatale. era un

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impiego regolare e mi piaceva tantissimo. il centro organizzava corsi pre-parto per gestanti e gruppi di madri. c’erano settimane in cui passavo dall’assistenza a persone prossime alla morte, al tempo trascorso con i bambini che si arrampicavano su di me mentre lavoravo, schioccando baci bavosi sulle mie guance.

era un modo sano per ricordarmi delle gioie della vita e del grande cerchio. Un cliente moriva e un nuovo bambino arrivava al centro. i piccoli erano incredibilmente fragili e belli. la mia responsabile, Marie, è una delle persone più brave che abbia mai conosciuto, con un cuore grande così. la adoravo e continuo a stimarla ancora oggi. Una parte del mio lavoro consisteva nell’ag-giornare il materiale del corso prenatale. di conseguenza, passavo gran parte della giornata leggendo di come le donne appartenenti a diverse culture nel mondo affrontassero la gravidanza e tutto il processo della nascita. scoprire la naturalezza con cui molte tra-dizioni si avvicinano a questo processo, e quanto fosse ridotto il dolore in alcune, rinforzò l’idea di come la paura condizioni noi occidentali. la gravidanza e il parto venivano considerati come una celebrazione gioiosa della vita, dall’inizio alla fine.

avvicinarmi alla nascita fu molto salutare per me. passare il tempo con persone in fin di vita e instaurare relazioni empatiche con loro e con le rispettive famiglie a volte mi abbatteva. c’è gente nel mondo che dedica tutta l’esistenza al lavoro con i ma-lati terminali. forse rispetto a me hanno sviluppato un maggiore distacco. o hanno più equilibrio. non lo so. in ogni caso a loro va tutto il mio rispetto. so solo che passare un giorno della setti-mana ad assistere all’inizio del ciclo della vita, invece che alla fine, diede alla mia esistenza un senso di leggerezza che in tutti quegli anni era venuto a mancare senza che me ne accorgessi. l’energia era fresca e vitale, come se qualcuno avesse aperto le finestre per me lasciando entrare dell’aria tersa.

inoltre, lavorare al centro una volta la settimana mi aiutava a vedere i miei clienti malati come i bambini che erano stati. e quando le neomamme mi mostravano orgogliosamente i loro

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piccoli, pensavo col cuore pieno di speranza che sarebbero cre-sciuti vivendo un’esistenza piena. anche per loro, un giorno, la vita sarebbe giunta al termine, proprio come accadeva ai miei clienti. fu un periodo interessante, essere esposta a entrambe le estremità dello spettro. Una vera benedizione.

da quel momento, fui capace di provare maggiore compassio-ne per gli altri, perché mi rendevo conto che un tempo anche loro erano stati bambini vulnerabili e che un giorno sarebbero morti, proprio come me. iniziai a vedere i miei genitori, i miei fratelli e le mie sorelle, gli amici e gli estranei come neonati e bambini, che un tempo si sono affidati alla vita con l’ingenuità e la speranza tipiche dei più piccoli. riflettevo su chi erano stati prima che venissero feriti dagli altri, dalla famiglia, dai loro coetanei o dalla società, perdendo la fiducia e l’apertura mentale con cui erano venuti al mondo. allora mi apparve con chiarezza la bontà insita nel cuore delle persone e iniziai ad amarle tutte con l’atteggia-mento protettivo di una madre affettuosa.

non pensai più che le parole offensive pronunciate da loro nel corso degli anni fossero state intenzionali. Quelle espressioni provenivano dalle ferite ricevute, non dagli esseri puri e belli che erano venuti al mondo sotto le loro spoglie. ciascuno di quei bambini preziosi e innocenti nati tanti anni prima erano ancora parte di loro. e un giorno avrebbero ricevuto anche la saggez-za che sopraggiunge in tantissime persone quando si avvicinano alla morte.

alcune volte avevo creduto di non amare particolarmente cer-te persone della mia vita. Ma poi capii che in verità ciò che non sopportavo era il loro comportamento e le loro parole. adesso amavo i loro cuori innocenti: un tempo confidavano nel fatto che il mondo avrebbe donato loro la felicità e si sarebbe preso cura di loro. Quando ciò non accadde, subentrò il dolore e la sofferenza, e la disillusione che provarono li spinsero a reagire in modi sbagliati. anche io avevo fatto del male agli altri attraverso le mie stesse sofferenze, a causa della delusione che provavo per-

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ché la vita non si era rivelata come avevo sperato. la ragazzina la cui fiducia era stata tradita perché era stata esposta al dolore degli altri, alla fine aveva reagito con la stessa risposta.

i cuori della mia amata famiglia, e di chiunque, conteneva-no ancora quella originale purezza. era solo oscurata dalla pena provata. era ancora da vedere se alla fine sarei riuscita a trovare la felicità e l’amicizia che un tempo avevo sperato di conquistare nel rapporto con alcune persone. Ma non era più così importante. adesso capivo che tutti un tempo erano stati bambini bellissimi, fiduciosi e ingenui. le cose poco carine che erano state dette agli altri non erano che il segno della sofferenza del bambino che ave-va smarrito la via, proprio come era successo a me. e anche solo per questo, potevo continuare ad amarli.

seduta accanto a John sul terrazzo, vidi anche in lui il bam-bino fragile che era stato; un piccolo tesoro che non si sa come, a causa delle esperienze vissute, aveva deciso che affermarsi nel lavoro lo avrebbe reso più felice che viaggiare con sua moglie. ora era un uomo anziano, tuttavia quel piccolo essere innocente era ancora vivo dentro di lui. di tanto in tanto le lacrime scivolavano lungo le sue guance mentre sospirava profondamente. lo lasciai ai suoi pensieri più intimi, portai dentro i piatti e rigovernai la cucina. Quando ritornai gli misi una coperta sulle gambe e lo baciai sulla guancia, prima di sedermi di nuovo.

“se posso dirti una cosa sulla vita Bronnie, è questa. fa’ in modo di non arrivare a rammaricarti di aver lavorato troppo. adesso posso dire che non pensavo di pentirmene una volta giun-to alla fine. Ma nel profondo del cuore sapevo che stavo lavoran-do troppo. non solo per Margaret, ma anche per me. Mi sarebbe piaciuto non dare importanza a ciò che gli altri pensavano di me, come faccio ora. Mi domando perché dobbiamo aspettare di morire per capire una simile lezione.” scosse la testa e continuò: “non c’è niente di sbagliato ad amare il proprio lavoro e a volersi impegnare per svolgerlo al meglio. Ma c’è molto altro nella vita. la cosa importante è l’equilibrio, mantenere l’equilibrio.”

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“sono d’accordo con te John. Ho già imparato questa lezione e ci sto lavorando sopra, non preoccuparti” ammisi sinceramen-te. sapeva cosa intendevo. gli avevo raccontato abbastanza di me perché mi capisse. poi John iniziò a ridere da solo. gli chiesi come mai, incoraggiandolo a condividere lo scherzo.

“Be’, ho appena detto che se c’è una cosa che posso consigliarti sulla vita è di non arrivare a pentirti di aver lavorato troppo. Ma me ne è venuta in mente un’altra altrettanto importante.”

“spara allora” sorrisi. Mi guardò maliziosamente. “non but-tare mai via quel vestito rosa!”.

ridendo, John indicò la mia sedia poi diede qualche colpetto sul lato della sua, facendomi intendere di avvicinarmi, cosa che feci ridendo anch’io. passammo un altro paio d’ore seduti fianco a fianco contemplando il porto, ciascuno avvolto da una coper-ta. di tanto in tanto la conversazione scivolava in un piacevole silenzio, prima di ravvivarsi. in altri casi il silenzio veniva inter-rotto da un suo profondo sospiro. gli presi la mano e lui strinse la mia in risposta.

guardandomi con un mesto sorriso mi disse: “se posso lascia-re qualcosa di buono nel mondo oltre alla mia famiglia, voglio che siano queste parole: non lavorare troppo. cerca di mantenere un equilibrio. fa’ in modo che il lavoro non sia tutta la tua vita.” sorridendogli teneramente di rimando, sollevai la sua mano e la baciai sul dorso.

John morì non molto tempo dopo. sebbene non lo sapessi allora, le sue parole mi sarebbero state ripetute ancora da altri clienti. aveva detto una cosa importante e non me la sarei dimen-ticata mai più.

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finalità e intenzione

il passaparola aveva iniziato a lavorare in mio favore per quanto riguardava la situazione abitativa. era passato molto tempo da quella volta a casa di ruth. Ma una rete di persone

meravigliose aveva iniziato a cogliere i vantaggi reciproci di farmi badare alla loro casa mentre erano via. sebbene c’erano delle volte in cui passare di casa in casa ogni poche settimane o mesi mi deprimeva, quella soluzione mi permise di stare in abitazioni molto belle. Mi capitò anche di vivere nella casa dell’uomo più ricco del paese. insomma, mi ritrovavo in ambienti opulenti.

nella maggior parte di queste abitazioni venivano gli addetti alle pulizie e i giardinieri, a volte persino una persona che si dedica-va esclusivamente alla pulizia delle finestre. il mio unico compito era vivere in casa come se fosse mia, e godermela. non c’è bisogno di dire che non si trattava affatto di una cosa difficile. in questa rete di persone benestanti ce n’erano alcune incredibilmente creative. così spesso le case erano luminose, colorate e accoglienti.

fu proprio occupandomi della casa di uno di questi clienti che giunsi a prendermi cura di pearl. abitava in un posto allegro, e lo era anche lei, per quanto possa esserlo una persona che sta per mo-rire. ci piacemmo all’istante. aveva tre cani, uno dei quali di solito molto timido con gli estranei, che mi si sedette in grembo nel giro di pochi minuti. (gli animali riconoscono chi li ama.) la reazione del cagnolino nero facilitò fin da subito il mio rapporto con pearl.

Qualche mese prima, giusto a ridosso del suo sessantatreesimo compleanno, le fu diagnosticata una malattia terminale. per via dei cani e dell’amore per la sua casa, era determinata a morire nel proprio letto. Un’amica si era già offerta di adottare le bestiole quando sarebbe stato il momento, così pearl era tranquilla per-ché sarebbero rimaste insieme. era anche abbastanza serena per quanto riguardava l’avvicinarsi della morte.

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Molti dei clienti di cui mi ero presa cura fino ad allora ini-zialmente avevano negato la loro situazione. passavano attraverso tutta una serie di emozioni prima di accettare l’esito inevitabile. Qualcuno restava sotto shock perché la notizia gli era stata data nel modo sbagliato. a volte chi aveva il compito di comunicarglie-lo lo faceva come se si trattasse di un dato di fatto, senza capirne appieno l’impatto. potevano essere i familiari, oppure il personale medico. in questi casi, invece, è necessario un approccio delicato.

tuttavia, pearl aveva già pienamente accettato che fosse giunta la sua ora. la ragione per cui era più facile per lei, mi raccontò, dipendeva dal fatto che aveva perso il marito e la loro unica figlia, una bimba, a un anno di distanza l’uno dall’altra, più di trent’anni prima. sapeva nel profondo del cuore che presto li avrebbe rivisti.

suo marito le era stato portato via all’improvviso in un inciden-te sul lavoro, anche se non le piaceva usare la parola “incidente”, perché riteneva che non esistessero cose simili. “doveva andare così” mi raccontò. “la cosa mi procurò un dolore indicibile, ma dopo trent’anni sono giunta a capire quanto quella perdita mi ab-bia aiutato a diventare come sono ora, e a dare il mio appoggio gli altri. non sarei chi sono se non avessi vissuto quell’esperienza.”

aveva preso con filosofia anche la scomparsa della bambina. tonia era morta di leucemia a otto anni. “perdere un figlio è ter-ribile proprio come si dice. nessun genitore dovrebbe vivere una cosa del genere. Ma succede, sai, in tutto il mondo, ogni giorno. io sono solo una dei tanti.” l’ascoltavo e apprezzavo la pace che irradiava mentre parlava di sua figlia: “sono contenta che non abbia sofferto troppo. credo che sia entrata nella mia vita per insegnarmi la gioia dell’amore incondizionato. da allora sono ri-uscita a donarlo agli altri, senza che ci fossero necessariamente dei legami tra noi. cara tonia, mio amato angioletto.”

nella mente i ricordi si erano affievoliti rispetto alle immagini nitide di un tempo, ma non nel suo cuore. l’amore di pearl per la figlia era forte come prima. l’amore non muore, mi disse feli-ce. continuò raccontandomi di come la vita fosse stata difficile

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per qualche tempo dopo la scomparsa di tonia; ci vollero alcuni anni prima che gli ingranaggi riprendessero a girare nel modo giusto. Ma non si considerò mai una vittima. aveva sperimentato il dolore che si prova nel perdere un figlio, e non lo avrebbe mai augurato a nessuno, ma aveva conosciuto anche la gioia di essere madre che, sottolineava, non capita a tutti.

eravamo d’accordo sul fatto che ogni prova offrisse un dono. “alcune persone giocano al ruolo della vittima per sempre” con-tinuò. “Ma chi vogliono prendere in giro? non fanno altro che derubare se stesse. la vita non ti deve niente, e nemmeno gli altri. sei tu a dovere qualcosa a te stesso. Quindi, il modo migliore per tirare fuori il massimo dall’esistenza è apprezzarne il dono, e non scegliere di essere una vittima.”

spiegai a pearl che ne avevo conosciute moltissime, ma il più grande campanello d’allarme era stato quando mi ero resa conto di esserlo diventata io stessa. Mi aveva preso del tutto alla sprovvi-sta accorgermi di essere tanto concentrata sulle mie ferite; riuscivo solo a vedere quanto era stata difficile la mia vita fino a quel punto.

fu d’accordo con me, senza giudicarmi. “ci possiamo cadere tutti. c’è una linea sottile tra la compassione e il vittimismo. la prima, però, è una forza di guarigione e proviene dalla bontà che proviamo per noi stessi. fare la vittima, invece, è una perdita di tempo dannosa e non solo allontana gli altri, ma ci priva della possibilità di conoscere la vera felicità. nessuno ci deve niente” ripeté. “solo noi abbiamo il dovere di tirarci su, fare il conto de-gli aspetti di cui essere felici e affrontare le sfide che ci vengono incontro. se vivi con questa prospettiva, pioveranno su di te doni meravigliosi.” adoravo quella donna.

continuò parlando di quanto sia dura la vita per tante perso-ne, di come certa gente si trovi davanti a prove enormi, eppure riesce ad andare avanti lo stesso e a trovare la felicità nelle piccole cose. d’altro canto c’è chi si lamenta senza sosta della propria esistenza e non ha idea di quanto gli sia andata bene, rispetto ad altri. era facile essere d’accordo con pearl su questo punto, per-

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ché malgrado il dolore che certe volte continuavo a provare, non perdevo di vista le cose belle che avevo ricevuto. c’era sempre qualcuno che stava peggio di me.

Quando pearl riuscì a rimettersi in carreggiata, dopo la morte del marito e della figlia, si gettò anima e corpo nel lavoro. le piaceva. Voleva bene ai suoi colleghi e ai clienti, e sentiva che parte della ragione del suo essere al mondo stava proprio nel farli contenti e nello stimolarli, e le riusciva splendidamente. tuttavia dentro di lei c’era sempre un vuoto. per quasi vent’anni lo aveva attribuito alla perdita della sua famiglia.

poi, un giorno, un commento fortuito cambiò la sua vita e si ritrovò, fuori dall’orario di lavoro, ad aiutare un cliente che stava mettendo a punto un progetto a sfondo sociale. senza che ne fosse del tutto consapevole, pearl si lasciò sempre più assorbire dalla cosa, semplicemente perché si era affezionata all’idea che quelle persone volevano realizzare. “per la prima volta dopo più di vent’anni provai di nuovo passione per qualcosa. e sai perché?” chiese, mentre aspet-tavo. “perché avevo uno scopo, un scopo vero. ecco perché avevo provato quel vuoto nel lavoro. non aveva abbastanza senso per me.”

non fu difficile capirla. le raccontai delle mie precedenti espe-rienze professionali, comprese le difficoltà che dovetti affrontare prima di trovarmi a lavorare nel campo dell’assistenza domiciliare e della musica, che mi davano entrambi una soddisfazione sem-pre crescente. anche lei concordava sul fatto che il mio compito avesse un vero scopo, soprattutto se paragonato ai ruoli che avevo assunto prima. Ma come me, era convinta che chiunque potesse trovare il proprio scopo nel lavoro, a patto che fosse nel settore giusto. era solo questione di prospettiva.

pearl aveva una bellissima serra dove il sole invernale splende-va su di noi attraverso il tetto di vetro. era luminosa e accoglien-te. ogni mattina la portavo là fuori sulla sedia a rotelle, di solito con almeno un cane sulle sue gambe, se non tutti e tre. Bevevamo litri e litri di tè alle erbe mentre gustavamo il dono di ogni nuovo giorno. Quando le confidai che stare lì non mi sembrava affatto

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un lavoro, si illuminò tutta e disse: “certo, è così che dovrebbe essere. Quando ami quello che fai, non sembra di lavorare. È una naturale estensione di ciò che sei.”

il progetto a sfondo sociale progredì e divenne la sua professio-ne. nel giro di un anno aveva dato le dimissioni dal vecchio im-piego e si era dedicata completamente al nuovo ruolo. all’inizio lo stipendio era inferiore, ma non le importava. tuttavia nel tempo aumentò. “a volte devi fare qualche passo indietro per prendere la rincorsa prima del grande salto” rise. “si ha spesso una conside-razione errata dei soldi. tengono le persone bloccate per sempre nel ruolo sbagliato perché sono indotte a credere che non saranno in grado di guadagnare facendo ciò che amano; invece può essere esattamente il contrario. se ami ciò che fai, ti apri maggiormente al flusso di denaro perché sei più assorbito dal tuo lavoro e sei più felice. naturalmente ci vuole del tempo per cambiare modo di pensare e smettere di cercare di capire come arriveranno i soldi.”

Una volta, una mia amica aveva espresso a meraviglia questo concetto, e volli condividerlo con pearl. “diamo troppa importan-za al denaro. ciò di cui abbiamo bisogno è capire cosa vogliamo fare, a quale progetto dedicarci, e lavorare con quell’obiettivo in mente, con determinazione e fiducia. non farne solo una questio-ne economica, ma concentrarsi sul progetto. allora i soldi arrive-ranno spontaneamente, spesso attraverso fonti inimmaginabili.”

i miei precedenti atti di fede mi avevano insegnato anche questo. Quando i soldi finivano, di solito era perché mi stavo focalizzando sulla paura della mancanza, e così ne arrivavano an-cora meno. Quando invece mi concentravo sulla bellezza della giornata, contando le cose positive e lavorando a ciò verso cui mi sentivo guidata, ricevevo ciò di cui avevo bisogno.

Una delle più grandi ricompense per aver avuto il coraggio di continuare a impegnarmi per realizzare ciò che volevo fu la regi-strazione del mio primo album. il tempismo era perfetto perché stavo vivendo in una delle mie case preferite dove soggiornavo con una certa regolarità, e lì si potevano effettuare anche le re-

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gistrazioni. era un bellissimo edificio rosa scuro che si affacciava su un lembo di foresta pluviale. il periodo scelto incontrava il favore di tutte le persone coinvolte nel progetto. il mio produtto-re in particolare era un uomo molto impegnato, ma era riuscito a ritagliarsi il tempo necessario. anche gli altri musicisti erano soddisfatti del piano di lavoro. Mancava solo una cosa. i soldi! ne avevo da parte, ma non erano sufficienti.

Una voce dentro di me mi diceva di prepararmi come se stesse succedendo davvero, e così feci. ingaggiai i musicisti. dedicai il tempo a provare e a sistemare le canzoni. Ma con l’avvicinarsi dei giorni fissati per la registrazione, la fiducia che mi aveva spinto ad andare avanti fino a quel punto iniziò a diminuire. nel profondo sapevo che non sarei stata guidata ad agire così se non fosse stato possibile realizzare il progetto. Quindi nei momenti di massima forza, ero convinta che tutto sarebbe andato bene. in fin dei conti avevo già compiuto atti di fede simili in passato. credevo in me stessa e nella mia capacità di attrarre le cose che mi servivano. Ma la paura aveva iniziato a traboccare in superficie, al punto che la mia fede non poteva più tenere giù il coperchio.

le registrazioni erano previste per il lunedì successivo. era già venerdì pomeriggio e dei soldi neanche l’ombra. l’ansia iniziò a montare dentro di me. avrei dovuto pagare il tempo che il pro-duttore mi metteva a disposizione, e anche quello limitato degli altri musicisti. stavo andando in panico, così corsi al cuscino della meditazione e mi sedetti. piansi a dirotto. le lacrime avevano ini-ziato a formarsi nei mesi precedenti, mentre cercavo di essere forte e concentrata. adesso sgorgavano fuori. singhiozzando, lasciai an-dare tutte le frustrazioni, e ammisi che non ce la facevo più. non avevo più energie. avevo seguito la mia guida interiore, ma non potevo più continuare. era troppo faticoso. non ci riuscivo.

e poi “ahh!”, quel bellissimo momento di resa! eccolo! non c’era più niente che potessi fare. dovevo soltanto rimettermi nelle mani di forze superiori. dal momento che mi sentivo terrorizzata e pro-sciugata, decisi di uscire e di ascoltare un po’ di musica per distrarmi.

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stavo andando in un caffè letterario, ma proprio in quel momento mi chiamò un’amica che non conosceva la mia situazione e mi invitò a uscire con lei e un’altra ragazza. Mi parve più invitante che andare da sola a sentire un gruppo, così accettai. promettendo a me stessa di godermi la serata e di dimenticare i miei problemi, uscii di casa felice. domani sarebbe stato un altro giorno e avrei affrontato le eventuali difficoltà. Ma quella sera avevo solo bisogno di non pensarci.

Mentre la mia amica gabriela si aggirava tra i libri, io ero seduta nella lounge del caffè con leanne. ci eravamo incontrate solo una volta di sfuggita anni prima e da allora non ci eravamo più viste. Mi chiese dove vivessi così le raccontai della mia vita come house-sitter. l’argomento la interessava, anche perché stava per entrare nel mercato immobiliare e faceva tesoro delle opinio-ni che avevo maturato sui vari sobborghi in cui avevo abitato. rispondendo alle sue domande, le raccontai di che questo stile di vita era nato dal desiderio di non dover pagare un affitto e di lavorare in ambito creativo, soprattutto musicale.

leanne stava vivendo un divorzio molto complicato, e accoglie-va tutto quello che poteva distrarla, esattamente come stavo facen-do io. così la conversazione proseguì spontaneamente. Quando mi chiese del mio lavoro, tornai coi piedi per terra, nella situazione che stavo vivendo, pentendomi di aver fatto scivolare la conversazione su quell’argomento. Ma le dissi sinceramente a che punto erano le cose, e di come aspettassi un miracolo che mi salvasse.

Mi chiese maggiori informazioni sull’album, sulla gente che ci stava lavorando, sulle strumentazioni a cui avevamo pensato, su dove trovavo l’ispirazione e che cosa mi spingeva a esibirmi. poi senza porre tempo in mezzo dichiarò che aveva sempre desi-derato finanziare l’arte, che non sapeva chi sponsorizzare e visto che stava attraversando un momento difficile nella sua vita aveva bisogno di fare qualcosa di buono, perciò si sarebbe fatta trovare da me lunedì mattina con i soldi di cui avevo bisogno.

scoppiai in un pianto di sollievo e di gioia. non riuscivo a crederci. senza pensarci, l’abbracciai, reprimendo il bisogno di

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singhiozzare apertamente. era finita. ce l’avevo fatta. l’album stava per diventare realtà. avevo attratto i soldi necessari.

leanne fu presente ad alcune registrazioni. fu un piacere aver-la lì, sdraiata sul lungo tappeto ad ascoltare con le cuffie mentre noi suonavamo e cantavamo, registrando ogni nuova traccia. era distaccata da tutto però. le bastava essere lì e assistere a quella creazione. che donna stupenda e generosa! Questa esperienza mi spinse a compiere i successivi atti di fede successivi. l’aiuto di cui hai bisogno arriva sempre. dobbiamo solo toglierci di mezzo.

pearl fu deliziata da questa storia perché rinforzava tutto quello in cui credeva. “È proprio così. la paura ci blocca. i soldi non sono altro che un tipo di energia per ricevere cose buone e felicità. Ma li usiamo nel modo sbagliato, dandogli potere, inseguendoli, temendoli, creando squilibrio nella ricerca, facendoci ossessiona-re” affermò. “il denaro è a nostra disposizione come l’aria che re-spiriamo. e come non ci preoccupiamo se ci sarà aria a sufficienza per noi domani, non dovremmo sprecare tempo chiedendoci se avremo soldi a sufficienza. sono proprio pensieri simili a blocca-re il flusso naturale di questa amorevole energia creativa verso di noi.” capivo quello che intendeva ed ero d’accordo con lei.

Quando pearl si unì per la prima volta al progetto, il finanzia-mento era stato una costante preoccupazione per le persone che già vi lavoravano. tutte le loro energie erano state convogliate per trovare modi di fare cassa, e si erano allontanate dal perché ce ne fosse biso-gno. fortunatamente la squadra di collaboratori era aperta alla filo-sofia di pearl. Malgrado all’inizio non avessero sufficiente fiducia in loro stessi per credere di poter attrarre i fondi necessari per ogni parte del progetto, credevano nella fede di pearl. così furono d’accordo nel continuare a lavorare per il successo di quell’idea, confidando che i finanziamenti sarebbero arrivati, ma nel frattempo avrebbero fatto tutto il necessario per coadiuvare la cosa. impararono anche a lasciare andare quando non c’era più niente che potessero fare a riguardo, e a impegnarsi come se i soldi fossero già sulla loro strada. la fiducia di pearl era incrollabile e ispirava anche gli altri.

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presto i soldi iniziarono a scorrere verso il progetto da nume-rose fonti inaspettate, creando grande gioia tra i collaboratori. il programma coinvolse anche un altro sobborgo, e il numero di individui che poterono beneficiarne aumentò. nel giro di pochi anni, pearl e gli altri giunsero a guadagnare bene e allargarono ul-teriormente il progetto aiutando sempre più persone bisognose. Mai per un solo istante lo sentirono come un lavoro.

il sole si era spostato sopra la casa così tornammo in soggior-no, dove avevo acceso il camino poco prima. pearl era sfinita ma preferiva non andare a letto prima di sera, se riusciva a evitarlo. di giorno riposava sul divano accanto al fuoco. Mettendola comoda, sistemai i cuscini e l’avvolsi in una grande coperta. come pearl e tutta la sua casa, anch’essa era piena di colore. le fiamme gettavano una bella luce nella stanza, donando una sensazione di comfort. Una volta che aveva trovato la posizione, i cani saltavano su e si ac-coccolavano accanto a lei. era una scena meravigliosa; pearl, i cani, il fuoco, i colori della casa: è impressa ancora oggi nella mia mente.

“comunque questa cosa dei soldi è più questione di intenzio-ne che altro” dichiarò. avvicinando la sedia, continuai ad ascoltare, felice di poter condividere i suoi pensieri. “il denaro arriva prima e meglio se le intenzioni sono giuste. siamo riusciti a trovare i fondi per il progetto perché era per il bene degli altri. naturalmente anche noi ne abbiamo giovato, guadagnando con il lavoro che amavamo, ma godevamo anche della sensazione di avere uno scopo nella vita.”

pearl diceva che è per questo che avere un obiettivo è così importante nel lavoro. se sentiamo che c’è una finalità, ci dedi-chiamo a esso con le intenzioni giuste. Qualsiasi lavoro con uno scopo sarà un beneficio per gli altri, in qualche modo. i soldi arriveranno a sostegno di quella intenzione, a patto che intra-prendiamo tutte le azioni possibili e non blocchiamo il flusso con la paura. le persone di mezza età, in particolare, si pongono tantissime domande e sentono il desiderio di trovare una sintonia con il mondo attraverso il loro lavoro. Questo era il naturale de-siderio di uno scopo di cui parlava pearl.

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era una donna intelligente e saggia e condivideva liberamente i suoi pensieri. immaginavo che ci sarebbe stato lo stesso feeling tra noi, anche se non fosse stata in punto di morte. pearl conti-nuò affermando che i genitori, per esempio, non sempre credono nel proprio valore e non immaginano che la loro intenzione di allevare dei figli felici sia uno dei più grandi contributi che si pos-sa dare alla società. È un modo per far crescere bravi adulti. non sopportava sentir dire alle madri che erano solo mamme, quando invece si trattava della cosa più importante, di un compito con un vero scopo. lo stesso valeva persino per le persone che si pren-devano cura dei loro giardini, celebrando la bellezza della terra.

Mi tornò in mente una cara signora che avevo conosciuto quan-do vivevo a perth, e le raccontai di come il suo giardino mi desse felicità ogni mattina quando passavo di lì per andare in stazione. Mi dava così tanto piacere con i suoi fiori in sboccio e le piante colorate che finii con l’infilarle un biglietto nella cassetta delle lettere per rin-graziarla della gioia che provavo. davvero il giardino rendeva ogni giorno migliore. i fiori colorati e le piante esotiche collaboravano in una meravigliosa simmetria, rivelando ogni giorno un cambiamen-to, un nuovo scenario. la gente non sempre si rende conto della gioia che dà agli altri. Un giorno, finalmente, vidi il giardiniere in persona, Yvonne, una signora anziana di ottant’anni, e le dissi quan-to amassi quel posto. non le ci volle molto per capire che ero stata io a scriverle il biglietto e tra noi nacque una bella amicizia.

“sì, quello era il suo scopo: il giardino. trovare un obiettivo nella vita è una delle cose più importanti” continuò pearl. “in un certo senso, vorrei non aver sprecato tutti quegli anni in un lavoro che per quanto piacevole aveva pochissima rilevanza nel compito della mia vita, cioè realizzare il progetto sociale. però mi ha portato dove dovevo essere, visto che è stato proprio un cliente del mio vecchio impiego ad aiutarmi a trovare la strada verso quel cambiamento. possono volerci anni per capire cosa si vuole fare, e così è stato anche per me. Ma la soddisfazione che ti aspetta ti ripaga della ricerca e dell’attesa.”

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ripensando alle difficoltà che anche io avevo dovuto affrontare per trovare il lavoro che mi desse soddisfazione, mi trovai d’accordo con lei sul fatto che ne fosse valsa la pena. seduta accanto al fuoco con quella donna meravigliosa e tre docili cagnolini, ero grata di poterlo chiamare lavoro. lo dissi a pearl e lei sorrise d’accordo.

“se avessi un rimpianto, Bronnie, sarebbe quello di aver pas-sato così tanti anni svolgendo una professione mediocre. la vita è breve. lo so perché ho perso la mia famiglia. a volte, purtroppo, sappiamo le cose ma ce le teniamo dentro per un sacco di tem-po prima di essere pronti ad agire di conseguenza. Quindi potrei rammaricarmene, ma non ho intenzione di farlo. preferisco essere buona con me stessa e perdonarmi per non essere stata in grado di lasciare quel lavoro prima, per aver visto i segnali solo dopo.” con-cordai sul fatto che perdonarsi è molto più salutare che rimpiange-re, e raccontai a pearl di quanto stessi imparando dai miei clienti.

rise dicendo: “giusto. non hai scuse. non puoi trovarti sul letto di morte e dire che avresti voluto capire prima. Hai la for-tuna di conoscere tutti i nostri errori e hai l’occasione di non ri-peterli.” ridendo, condivisi la sua opinione. adesso però vedevo che la chiacchierata la stava stancando troppo e anche lei se n’era resa conto. così mi assicurai che fosse comoda, poi tirai le tende lasciandola riposare al bagliore del fuoco. Mi fermai sulla porta per qualche secondo, guardando lei e i suoi tre cani, e una lacrima scivolò lentamente lungo la mia guancia.

sebbene stessi ancora imparando a conoscere il mio reale valo-re, ero sopraffatta dalla gratitudine perché almeno avevo un lavoro in cui mettere il cuore. così, sorridendo, andai in cucina. dopo essermi preparata una tazza di chai, mi godetti un’altra stanza della casa ricca di pace mentre pearl dormiva. era un pomeriggio tranquillo nel quartiere, ma non avrebbe fatto differenza comun-que. l’edificio era sempre immerso in uno stato di quiete, sia per quanto riguardava il rumore sia l’energia.

passai con lei qualche altra settimana ancora, ma divenne sem-pre più debole finché non si arrese all’idea di non alzarsi più dal

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letto perché era diventata un’impresa. riconoscendo di aver ap-prezzato la casa al massimo delle sue possibilità, mi chiese di con-tinuare a farlo per lei, per il tempo che sarei rimasta lì. sorrisi e le dissi di non preoccuparsi. era pearl che avevo apprezzato, molto più della sua bella casa.

gli amici vennero a dirle addio, compresi quelli con cui aveva collaborato al progetto sociale. raccontarono di come lei aves-se cambiato le loro esistenze e di come il suo impegno avesse lasciato un segno indelebile, aiutando così tante persone. il la-voro non deve essere necessariamente grandioso perché abbia uno scopo. ci sono persone che riescono ad aiutarne migliaia. alcune invece riescono a dare sostegno solo a una o due. Ma il lavoro svolto è importante in entrambi i casi. tutti noi abbiamo uno scopo, e sforzarsi di trovarlo contribuisce al bene di tutti. e naturalmente, aiuta anche ognuno di noi. allora il lavoro smette di essere tale, come diceva pearl, e diventa una estensione grati-ficante di noi stessi.

Quando chiusi la porta dietro di me il giorno che pearl morì, camminai sotto il sole invernale, in una bellissima giornata. Mi fermai e feci un respiro profondo, accogliendo i raggi del sole sul viso. in tutto quel cercare durante gli anni dell’impiego in banca, la mia unica intenzione era stata quella di trovare il la-voro che amavo.

ora, sotto il sole invernale, sorrisi pensando a pearl e alla per-sona meravigliosa che era stata. alla fine avevo trovato una pro-fessione che amavo, e per questo mi sentivo molto fortunata. Mi ci volle un po’ di tempo per spostarmi dal giardino di fronte, persa com’ero nei miei pensieri e nella mia gratitudine, inviando a pearl tutto il mio amore. Ma comunque non importava. sorri-devo e avevo il mio lavoro di cui essere grata.

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seMplicità

si capisce che anche le famiglie dei morenti soffrivano moltissimo durante le ultime settimane di vita del loro caro. generalmente, l’intervallo di età dei familiari andava

dai quaranta ai sessant’anni e la maggior parte aveva figli.il timore di perdere un genitore, e forse anche la paura della

propria stessa sofferenza, innesca alcuni comportamenti forti. era uno degli ambiti che più mi faceva ricordare quanto sia dannoso vivere in una società che cerca di nascondere la morte. la gente non solo è impreparata a gestire il fiume di emozioni che emer-gono, ma diventa anche disperatamente spaventata e vulnerabile, e le famiglie ancor di più. i clienti trovavano la pace prima di morire. Ma i figli spesso provavano sentimenti del tutto fuori controllo, governati dalla paura e dal panico.

lavorare come assistente a domicilio mi ha esposto agli stili di vita e alle dinamiche di un numero notevole di famiglie. Ho imparato che quasi tutte hanno delle difficoltà in alcuni ambiti, cose da risolvere e da imparare l’uno dall’altro. c’era chi non si rendeva nemmeno conto delle micce che venivano innescate. Ma c’erano eccome. Quando vedevo i fratelli e le sorelle diven-tare impazienti o litigare l’uno con l’altro, mi tenevo rispetto-samente alla larga e cercavo di considerare la situazione con la maggiore compassione possibile.

le questioni legate al controllo erano le più importanti an-che in questo caso. spesso c’era uno dei figli che voleva con-trollare tutto: la gestione della casa, la lista della spesa, le ba-danti, l’organizzazione dell’incombente funerale, ogni cosa. se gli altri fratelli o sorelle cercavano di contribuire o di dire la loro, qualche volta scoppiava una lite. tutti avevano il diritto di dare il proprio apporto, soprattutto a causa del poco tempo a disposizione.

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Ma la persona che esercita il controllo nella famiglia spesso in-tensifica ancora di più il suo bisogno di comandare. era straziante assistere a quelle esibizioni di potere, seppure mosse dalla paura.

il benessere del cliente però era la mia priorità su tutto il resto. così quando sentii che iniziava un acceso diverbio sopra al letto di charlie, corsi in un lampo nella sua stanza. il mio cliente gia-ceva sovrastato dai suoi due figli adulti, greg e Maryanne, mentre si urlavano contro in preda alla disperazione da una parte all’altra del letto, fuori controllo. “È sufficiente grazie” dissi con fermezza, ma gentilmente. “andate nell’altra stanza se dovete continuare. guardate vostro padre. sta morendo, per amor del cielo.”

Maryanne scoppiò in lacrime, scusandosi con suo padre. charlie era un uomo tranquillo, e sembrava che lo fosse sempre stato. “Mi assilla continuamente” disse del fratello. aveva bellis-simi occhi azzurri e lunghi capelli neri, avrebbe dovuto fare la modella, pensavo tra me e me. Ma i suoi occhi erano rossi per il pianto e pieni di tristezza.

senza fermarsi, greg reagì con rabbia: “Be’, non vedo perché dovresti prendere quanto me nel testamento. te ne sei andata. Hai fatto meno fatica. io ho lavorato più duramente e ci sono sempre stato per papà dopo che la mamma è morta.” ebbi una stretta al cuore per greg e il suo ragionamento. sotto a queste parole non c’era che un fragile ragazzino ferito. potevo vedere il padre in entrambi, ma penso che greg doveva assomigliare anche alla madre. aveva i capelli castani e la sua pelle era più chiara di quella della sorella. però non piangeva. era arrabbiatissimo.

guardò il padre per un riscontro, ma poi scrollò le spalle rivol-to a me con gli occhi azzurri altrettanto tristi. guidandoli fuori dissi: “penso che sia meglio che usciate dalla stanza adesso. non aiuta nessuno tutto questo, specialmente vostro padre.” feci il tè, ci sedemmo in cucina e li ascoltai mentre parlavano. Maryanne non aveva molto da dire e quando le chiesi come mai, mi rispo-se che non ne valeva la pena. sotto alle parole offensive che si scambiavano potevo percepire che c’era comunque dell’affetto.

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ripensai a come la sincerità avesse contribuito a riparare la mia stessa situazione familiare, perciò li incoraggiai a sfogarsi.

il rapporto con mio padre, per esempio, anni fa era stato tumultuoso e molto doloroso per me. Ma con la sincerità, la compassione e il tempo è guarito. adesso godevamo di una amicizia affettuosa basata sul rispetto e sul gioco. c’è stato un periodo in cui non lo avrei mai ritenuto possibile, ma tutti i rapporti familiari possono essere risanati se c’è ancora amore e se entrambe le parti lo vogliono, come nel nostro caso. era evidente che ci fosse ancora affetto tra greg e Maryanne, così come il desiderio di essere capiti l’uno dall’altra. solo che era tutto distorto dal dolore.

dopo che ebbero espresso le loro rimostranze, chiesi che cosa amassero l’uno dell’altra. “niente” rispose greg seccamente. al-leggerii la situazione con una battuta e riuscì a tirare fuori un paio di cose che gli piacevano della sorella. anche Maryanne ne citò alcune. i loro ego opponevano resistenza, soprattutto quello di greg, perché voleva odiarla. avevo dato loro quel suggerimento perché aveva funzionato con alcuni membri della mia famiglia. durante gli anni in cui i nostri rapporti erano diventati ancora più dolorosi e sofferti, cercavo di tirare fuori aspetti di loro che mi piacessero o che amassi. ero come greg all’inizio, e mi dovetti sforzare per trovarne qualcuno. Ma era solo il dolore a parlare, impedendomi di vedere i loro lati positivi. Quando lo lasciai an-dare, capii che malgrado le differenze nello stile di vita non ci avrebbero permesso di condividere un legame stretto, erano co-munque persone buone e oneste.

fui in grado di ricordare episodi passati in cui erano evidenti le loro buone intenzioni. sebbene alcune cose fossero state usate contro di me in un secondo momento, l’intenzione iniziale era stata positiva. c’erano anche dei momenti ora, in cui riuscivo a rendermi conto che avevano cercato di dimostrarmi l’affetto che provavano, a loro modo. Ma mi ero sentita talmente ferita da censurarlo e respingerlo. al di là delle nostre incomprensioni,

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restavano belle persone, così come lo è chiunque sotto al ciarpa-me che nasconde l’io migliore. Quindi, oggi, toccava a greg e Maryanne superare l’ostacolo rappresentato dal loro disaccordo.

emerse che greg portava rancore nei confronti della sorella da anni soltanto perché lei aveva avuto il coraggio di vivere la vita che voleva. Ma non era stata certo Maryanne a impedirgli di fare altrettanto. era stato lui stesso. Vennero fuori tantissime emozioni quel pomeriggio e per quanto alla fine non diventarono migliori amici, erano più vicini l’uno all’altro che all’inizio. poi ciascuno passò un po’ di tempo da solo con il padre prima di an-dare. infine restammo di nuovo soli, charlie e io.

Quando rientrai nella sua stanza dopo che se ne furono anda-ti, mi guardò scuotendo la testa e ridendo teneramente: “Be’ mia cara ragazza. era lì che cresceva da vent’anni ormai. Mi sono sem-pre chiesto quando sarebbe esploso” ridacchiò. “sono contento che sia successo ora, prima che me ne sia andato, forse riuscirò a vederli diventare amici dopo tutto.”

gli uccelli cantavano sulle piante selvatiche fuori dalla finestra e una farfalla arancione volò lì vicino. la osservammo entram-bi, sorridendo, e poi continuammo a chiacchierare. charlie mi raccontò di come fossero stati molto uniti da piccoli, greg sem-pre attento alla sua sorellina e lei che lo idolatrava. Ma quando Maryanne divenne un’adolescente che pensava con la sua testa, iniziarono a litigare senza più ritrovare l’intesa di un tempo.

“Ma non è Maryanne che mi preoccupa, Bronnie. lei è relati-vamente felice. È greg. non hai mai smesso di cercare di dimo-strare il suo valore. Quando dice di aver sempre fatto più di sua sorella, ha ragione in un certo senso, per quanto anche lei abbia dato un grande contributo, in modi meno evidenti. tuttavia non lo ha obbligato nessuno. la maggior parte delle volte ha fatto cose a cui potevo badare da solo e di cui anzi mi sarebbe persino piaciuto occuparmi.” sospirando, continuò: “passa una quantità assurda di ore svolgendo un lavoro che detesta, con dei figli che non lo vedono mai, e non so nemmeno il perché.”

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“sa che gli vuoi bene, charlie?” osai chiedergli. Mi guardò sconcertato.

“Be’, credo di sì. gli faccio sempre i complimenti quando fa qualcosa di buono qui in casa. sa che sono fiero di lui.”

“e come? gli hai mai detto in modo diretto che sei orgoglioso della persona che è, piuttosto che di quello che ha realizzato?” insistetti.

restò in silenzio per qualche istante. “no, in modo diretto no. Ma lo sa” rispose.

“sì, ma come?” gli chiesi nuovamente.charlie rise: “santa donna! Vuoi arrivare al dunque, vero?”.

allora, ridendo, condivisi con lui il mio pensiero. Mi ascoltò ri-spettosamente e con cuore aperto. Mi chiedevo se ciò che aveva detto di greg, che cercava sempre di dimostrare il suo valore, non dipendesse dal fatto che cercasse l’amore e l’approvazione del pa-dre. la nostra conversazione continuò mentre gli facevo la doccia e lo riportavo a letto sulla sedia a rotelle. preferiva farsi sempre la doccia il pomeriggio, ma ormai si stancava troppo e prima che passasse molto tempo, poté solo farsi lavare a letto. la sua respi-razione era debole e gli ci voleva un po’ perché si regolarizzasse quando si coricava di nuovo. diventava ogni giorno più fragile. così lo lasciai riposare.

Quando feci capolino dalla porta un paio di ore dopo, lui si voltò verso di me e sorrise. così mi sedetti accanto al letto e lo aiutai a bere, chiedendogli se gli servisse altro. scosse la testa e poi continuò a parlare dei suoi figli: “tutto quello che voglio è che siano felici. È ciò che ogni genitore dovrebbe desiderare per i proprio figli. Vorrei che greg smettesse di lavorare così tanto semplificando la sua vita. È un brav’uomo, ma non è felice dentro di sé” mi disse. “la vita semplice è anche felice. È così che abbia-mo sempre vissuto la loro madre e io. Ma la semplicità è possibile anche oggi. È una buona scelta.”

Una foto lo ritraeva da giovane affascinante quale era stato al fianco della sua sposa, e occupava la posizione centrale sul mobile

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in camera sua. pensai a lui e a sua moglie che crescevano greg e Maryanne piccoli. charlie parlava in modo franco e ed era una caratteristica che apprezzavo. c’era qualcosa di molto antico nella sua sincerità. continuò a condividere con me ciò che gli passava per la testa come se stesse pensando ad alta voce. “sai, non penso che sappia che gli voglio bene. non gliel’ho mai detto.”

“siamo tutti diversi, charlie” dissi io. “ci sono persone che capiscono le cose attraverso i gesti e le azioni, ma la maggior parte ha bisogno di sentirsele dire. forse greg appartiene a questa se-conda categoria. che cosa potrebbe succedere di male, del resto, se glielo esprimessi anche con le parole?”.

annuì. “devo dirglielo. in che mondo orribile viviamo se un uomo di settantotto anni è nervoso all’idea di confidare a suo fi-glio che gli vuole bene!? È che non sono pratico in questo genere di cose” rise. Ma poi divenne subito serio, assumendo un’espres-sione che tradiva la sua determinazione. continuò: “pensi che potrei convincerlo a vivere una vita più semplice se smettesse di cercare la mia approvazione, una volta appurato che gli voglio bene? perché è così, gliene voglio.”

gli risposi che nessuno poteva prevedere le reazioni di un’al-tra persona. non c’erano garanzie del fatto che questo avrebbe cambiato lo stile di vita di greg. Ma sapere di avere l’amore e l’approvazione del padre lo avrebbe fatto sentire in pace.

l’ideale di vita semplice divenne sempre più importante per charlie, mentre i suoi giorni volgevano al termine. diceva che le persone lavorano troppo per le ragioni più svariate. spesso pen-sano di non avere altra scelta, perché non riescono a spezzare la routine avendo le bollette da pagare e la famiglia da mantenere. charlie lo capiva. era d’accordo sul fatto che per molti la soprav-vivenza è una vera e propria sfida, ma c’è sempre la possibilità di scegliere. “a volte si tratta solo di cambiare prospettiva. abbiamo veramente bisogno di una casa così grande? e di una macchina tanto lussuosa?” chiedeva. “in altri casi,” diceva, “bisogna cam-biare modo di pensare e trovare una nuova soluzione, riflettere

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bene su ciò che si ama e lavorare con tutta la famiglia per ottenere un maggiore equilibrio.”

“anche la comunità è un modo per raggiungere una vita sem-plice” spiegava charlie. “se collaboriamo di più e viviamo come una vera e propria comunità, non avremmo bisogno di così tante risorse. ci sarebbe meno spreco e impareremmo ad aiutarci vi-cendevolmente. l’ego e l’orgoglio bloccano sul nascere molte co-munità, o impediscono loro di svilupparsi. Ma se vogliamo vivere più ingegnosamente e in modo più semplice, dobbiamo iniziare a comprendere l’enorme valore della comunione e il bisogno che ne abbiamo nella zona in cui ci troviamo.” sosteneva che i ritmi fossero diventati talmente veloci e squilibrati da averci fatto di-menticare tutto questo.

charlie riconosceva che potesse essere dura di quei tempi, dal punto di vista economico. diceva che la società aveva perso di vista le priorità reali e che aveva bisogno lei per prima di una lezione sulla semplicità. Ma questo può succedere solo se sono gli individui a cambiare, una persona alla volta. alla fine, la società segue la tendenza con cui la maggioranza pensa e vive di solito. charlie riteneva che chi era al potere avessero bisogno di un bel calcio nel didietro. a livello mondiale, c’era qualche brava perso-na sparsa qui e là nel sistema politico. Ma anche loro spesso erano bloccate dalla burocrazia, e da chi aveva più autorità e denaro. Quindi per fare un cambiamento significativo, ognuno deve fare la sua parte e svolgere il proprio compito. semplificare la vita sarebbe stato un ottimo inizio.

charlie aveva mantenuto la sua famiglia da solo, perciò capiva benissimo la pressione che si prova quando la sopravvivenza e la tutela di moglie e figli gravano sulle proprie spalle. Ma stava per morire e adesso vedeva le cose diversamente: magari l’avesse capi-to prima, così da essere un esempio differente per greg! “i bambi-ni sono più contenti se passano più tempo con i genitori piutto-sto che con tanti giocattoli. all’inizio possono anche lamentarsi. Ma i più felici sono quelli che trascorrono del tempo con i propri

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genitori, con entrambi se possibile. anche i maschietti hanno bi-sogno di una maggiore influenza maschile. come può averla il figlio di greg se lui non fa che lavorare, cercando di dimostrare quanto vale?”, charlie sedeva pensieroso e mi resi conto che nuo-ve intuizioni stavano emergendo in lui. “Voglio tanto bene al mio ragazzo. devo dirglielo, vero?”.

annuii felice. poi mi chiese a brucia pelo: “la tua vita è sem-plice?” e rise teneramente.

“sì, la mia vita materiale è piuttosto semplice. e sto lavo-rando per appianare anche quella emotiva, un passo alla volta” risposi sinceramente, ridendo ancora al pensiero delle complica-zioni della mia sfera emotiva negli anni recenti. “la meditazione mi è stata di grande aiuto per semplificare il mio modo di pen-sare. in un certo senso, tutta la mia vita ne ha beneficiato. Mi ha trasformato completamente, permettendomi di superare un sacco di ostacoli che prima mi bloccavano. Quindi oggi il mio modo di pensare è molto più semplice. eh sì, anche la mia vita materiale è più spartana.”

charlie aveva uno stile di vita diverso e apparteneva a un’altra generazione, quindi non sapeva nulla di meditazione: immagina-va che fosse praticata dall’altra parte dell’oceano, da gente vestita d’arancione che se ne stava seduta con gli occhi chiusi. Mi chiese cosa fosse. glielo spiegai nel modo più chiaro possibile, dicen-dogli che imparando a focalizzare la mente siamo in grado di osservare meglio i nostri pensieri. così diventa evidente quanto gran parte della vita venga plasmata dalla mente lasciata libera di creare dolore e paure inutili. con lo sviluppo e l’intensificarsi dei pensieri nocivi, iniziamo a identificarci con questa personalità come se rappresentasse chi siamo e adattiamo la nostra esistenza su di essa, quando in verità non siamo questo, ma molto di più.

siamo esseri saggi e intuitivi accecati dalle paure e dai frain-tendimenti che la mente ha creato negli anni attraverso le sue reazioni, sia positive che negative. così, imparando a focalizzare la mente con la meditazione, per esempio concentrandoci sul no-

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stro respiro, cominciamo a impossessarci di nuovo del controllo sul pensiero, e così diventa possibile scegliere di fare pensieri mi-gliori in modo consapevole. e quindi, di creare vite più felici.

charlie sedeva senza parole, fissandomi. sorrisi, in attesa. “Wow” disse alla fine. “perché non ti ho conosciuta cinquant’anni fa?”. ridendo mi alzai e gli diedi un altro sorso della sua bevanda.

“perché io non mi sono conosciuta anni fa, charlie!?” risi. “Mi sarei risparmiata un bel po’ di dolore.”

la conversazione proseguì e alla fine lui volle sapere qualcosa di più sulla semplicità della mia vita materiale e su che cosa in-tendessi esattamente. dopo tanti anni di traslochi, spiegai, avevo iniziato a interrogarmi sull’importanza degli oggetti. in alcuni trasferimenti avevo portato con me anche i mobili. altre volte invece li lasciavo gratuitamente in deposito nella fattoria di fami-glia, oppure a pagamento in una rimessa. tutte le volte che vivevo un capitolo della mia vita libera da quei possedimenti, capivo sempre meglio che non mi serviva nessuno di essi per essere feli-ce. e allora mi chiedevo perché continuassi a tenermeli.

così vendetti i mobili, riducendo i miei beni giusto a qualche articolo per la casa che mi avrebbe permesso di stabilirmi altrove quando sarebbe giunto il momento. e il momento arrivava sem-pre, perché adoravo starmene nella mia cucina. Ma amavo anche spostarmi e viaggiare. Mi faceva sentire libera, per quanto anche la libertà ha il suo prezzo. ogni cosa ne ha uno. la nostalgia per la mia cucina era ciò che solitamente mi faceva desiderare di fer-marmi da qualche parte per un po’.

tuttavia, dopo essermi sistemata per dodici, diciotto mesi, ri-affiorava la nostalgia per l’eccitazione che provavo a lanciarmi ver-so l’ignoto. possedere cose e oggetti mi opprimeva terribilmente. così, riconoscendo i miei stessi schemi, giunsi ad accettare che per quegli anni della mia vita sarei stata meglio se avessi tenuto solo lo stretto necessario. ogni volta che mi ero ritrovata a met-ter su casa temporaneamente, avevo trovato mobili e attrezzi con estrema facilità grazie al passaparola, ai negozi di seconda mano

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e ai mercatini dell’usato. era bellissimo. comprare oggetti usati contribuiva anche al mio amore per la terra, perché non richie-deva l’utilizzo delle sue risorse esauribili. la nostra società usa e getta sembra essersi dimenticata che le cose nuove provengono da qualche parte, e che quelle vecchie devono pur finire in qualche posto. nella maggioranza dei casi, tocca al pianeta sobbarcarsene il peso. ciò avviene a discapito della sopravvivenza della terra e di tutte le sue creature, esseri umani compresi.

così riuscivo sempre a trovare cose belle con cui mettere in piedi una casa tutta nuova. non mi capitava mai di pensare che avrei avuto difficoltà a recuperare i mobili. perciò, ci riuscivo sempre con estrema facilità. nel corso degli anni, sono venuta in possesso di pezzi meravigliosi. se tutte le volte che mi stabilivo da qualche parte riuscivo a trovare i mobili con cui arredare la mia nuova casa con tale naturalezza, allora sicuramente avrei messo insieme anche il resto.

dopo aver tenuto i miei averi in un deposito a pagamento per dodici mesi, decisi che era uno spreco di soldi e un peso di cui non avevo bisogno. così, con l’aiuto di un caro amico fidato, organizzammo un mercatino dell’usato nel suo garage. posate, libri, tappeti, lenzuola, suppellettili, quadri, venne venduto tutto. fu un tale divertimento guardare l’entusiasmo della gente mentre i miei oggetti diventavano i loro nuovi beni. ciò che rimase fu donato in beneficienza quello stesso pomeriggio.

la macchina che avevo allora era grande quanto una scatola di scarpe. la jeep aveva tirato le cuoia in modo spettacolare un anno prima o quasi, su un’autostrada a sei corsie. la macchina attuale, per quanto incredibilmente economica e scattante in città, era minuscola. la chiamavo affettuosamente “chicco di riso”. lo sco-po della vendita in garage era stato quello di arrivare a possedere lo stretto necessario capace di stare nel chicco di riso.

rimasi con un totale di cinque scatole, tra cui due piene di libri. tenni solo quelli che pensavo di rileggere o di prestare o regalare agli altri per ispirarli. il resto dei libri trovarono nuove mani che li sfogliassero con gioia. le scatole rimanenti contenevano cd, diari,

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album di fotografie, alcuni oggetti che avevano un valore senti-mentale, la trapunta a patchwork che mi aveva fatto la mia mam-ma e i miei vestiti. poi, con il chicco di riso stipato al massimo e la radio accesa, partii alla volta di un altro periodo della mia vita.

la musica che mi accompagnò comprendeva canzoni di guy clark, The Waifs, Ben lee, david Hosking, cyndi Boste, shawn Mullins, Mary chapin carpenter, fred eaglesmith, abba, The Waterboys, JJ cale, sara tindley, Karl Broadie, John prine, Hea-ther nova, david francey, lucinda Williams, Yusuf e The ozark Mountain daredevils. era tutta musica strepitosa, e ciascun bra-no si rivelò essere un ottimo compagno di viaggio. cantavo feli-cemente e in totale libertà mentre la strada scorreva sotto di me, consapevole che tutto ciò che possedevo era lì, nel chicco di riso. dopo circa mille chilometri mi fermai dove vivevano i miei e depositai le scatole. dopodiché, restammo solo i miei vestiti e io.

charlie ascoltò deliziato il mio racconto, sfregandosi le vec-chie mani rugose con gioia. poi gli raccontai di come fossi stata via per un po’ dopo quel viaggio. Vivevo a sidney allora, cu-ravo le case delle persone fuori città ed effettivamente la mia vita materiale era piuttosto spartana. a quel punto non aveva più dubbi sul fatto che capissi appieno quello che cercava di dire sull’importanza della semplicità. concordammo sul fatto che per le persone non sempre è chiaro quanto possedere troppo rischi di opprimerle, anche se non hanno intenzione di spostarsi. eliminare gli oggetti materiali permette di sentire di avere più spazio anche dentro di sé.

greg venne il giorno seguente e trascorse tutto il tempo con il padre. su richiesta di charlie, avevo telefonato a Maryanne per chiederle di non andare a fargli visita. il giorno successivo avreb-bero fatto il contrario e sarebbe stato il suo turno di stare sola con il padre. charlie mi aveva chiesto anche di fare qualche capatina nella stanza di tanto in tanto, nel caso in cui le cose tra lui e il figlio avessero preso una piega difficile; magari la mia presenza avrebbe potuto alleggerire l’atmosfera. Ma non ce ne fu bisogno.

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il paio di volte che andai nella stanza per versare una tazza di tè o riferire un messaggio, era evidente che stavano intrattenendo una conversazione personale molto intensa.

poco prima che greg se ne andasse, per permettere al padre di riposare, mi chiamarono. gli occhi di greg erano rossi di pian-to e i due si tenevano per mano. “Bronnie, voglio che lo sappia anche tu” annunciò charlie. “amo questo ragazzo con tutto il cuore. È un bravo figliolo e un grande uomo.”

a queste parole, ovviamente, anch’io scoppiai a piangere. “Mio figlio è perfetto così com’è” continuò charlie. “non deve dimostrare niente a nessuno. non c’è niente che debba fare o avere per essere una persona migliore. amo l’uomo che sta seduto qui. ed essere suo padre ha donato grande gioia alla mia vita.”

sorridendo dissi che anche greg era fortunato ad avere char-lie come padre. greg si disse d’accordo e usò tutta la manica per asciugarsi le lacrime. “papà dice che potrei imparare da te un paio di cose sulla semplicità” affermò.

ridendo, risposi che charlie avrebbe avuto tempo a sufficienza per lasciare il proprio segno su di lui a questo proposito. non c’era bisogno che lo facessi al posto suo. Ma mentre uscivo, aggiunsi con un sorriso: “però se posso dire una cosa, vivi con semplicità .”

Maryanne venne il giorno successivo. sentii anche lei ridere e piangere con il padre. in quei giorni, la casa era piena di amore condiviso e non potei fare a meno di risentirne positivamente. durante le poche settimane che restarono, i tre passarono tan-tissimo tempo insieme, diventando sempre più intimi. non sen-tii mai charlie salutarli senza dire loro personalmente quanto li amasse, e i suoi figli facevano lo stesso. il canale della comunica-zione era stato aperto in tempo affinché avvenisse la guarigione, mentre lui era ancora vivo.

il giorno della sua morte, greg e Maryanne sedevano accanto al padre, tenendogli una mano ciascuno. su loro richiesta, restai anch’io nella stanza, mentre charlie scivolò via serenamente, il respiro sempre più lento fino a che non si fermò del tutto. era

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una mattina di sole e gli uccelli continuavano a cinguettare fuori dalla finestra, come facevano sempre. pensai che ciò desse un toc-co di bellezza al momento. cantavano per lui.

lasciai greg e Maryanne da soli e mi sedetti per un po’ fuori in veranda, a godere dei ricordi personali che avevo di charlie e invian-dogli preghiere e auguri per il cammino che gli restava da compiere, ovunque si trovasse. Quando rientrai, li trovai seduti sullo stesso lato del letto e si tenevano per mano mentre guardavano il loro padre, ridendo e sorridendo tra le lacrime, parlando di lui con gioia.

dopo quasi un anno ricevetti una e-mail da greg. lui e la sua famiglia avevano venduto la loro grande casa. aveva chiesto il trasferimento all’azienda per cui lavorava, e sebbene adesso guada-gnasse meno, viveva in un piccolo paese di campagna. l’ufficio era distante da casa come il precedente, ma questa volta si trattava di percorrere una strada di campagna e ci metteva la metà del tempo rispetto a prima. ciò gli permetteva di stare un’ora e mezza in più al giorno con i suoi figli. anche il costo della vita si era abbassato dal momento che le loro vite erano diventate più semplici. Ma la qualità era migliorata sensibilmente. anche sua moglie era con-tenta ed entrambi amavano i loro nuovi amici e quello stile di vita. Mi ringraziò per essermi presa cura del padre e parlò con affetto di Maryanne, che a quanto pareva era appena stata a trovarli.

non c’è da sorprendersi se quella e-mail mi riempì di gioia. Mi fece ripensare a charlie, ai suoi occhi azzurri, al suo meravi-glioso sorriso e alle nostre chiacchierate. sapere che le sue parole non solo erano state udite, ma anche messe in pratica mi dava una bellissima sensazione.

la parte migliore della e-mail di greg però era la chiusura. dopo avermi augurato ogni bene, riassunse il tutto in tre paroli-ne, lasciandomi con un grande sorriso sul viso.

“Vivi con semplicità.

proprio così, greg e charlie!”.

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riMpianto 3:

Vorrei aVere aVUto il coraggio di espriMere

i Miei sentiMenti

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per essere un uomo di novantaquattro anni che stava per morire, Jozsef sembrava particolarmente in forma quando ci conoscemmo. era un uomo gentile con un dolce sorriso

che a volte gli dava l’aspetto di un ragazzino. grazie al suo senso dell’umorismo lesto ma pacato, mi affezionai subito a lui.

la sua famiglia aveva deciso di non dirgli che stava per morire. fu difficile per me, ma cercai di rispettare la loro decisione. nel corso delle settimane successive però, la malattia peggiorò improv-visamente e fu impossibile fare finta di niente. essere autosuffi-ciente diventò per lui un ricordo del passato. ogni giorno che passava, dipendeva sempre di più dalle mie forze. non c’era bi-sogno di puntualizzare i segnali della malattia. si palesavano ogni volta che cercava di alzarsi o di sedersi, ed era qualcosa che veni-va silenziosamente registrato tra noi a ogni sforzo. così, sebbene la famiglia si ostinasse a mantenere segreta la sua malattia, Jozsef piano piano arrivò a capirlo da solo. era un uomo molto malato.

i farmaci servivano ad alleviargli il dolore per quanto possi-bile. Ma come accade a molte persone, gli effetti collaterali gli bloccavano l’intestino. esistono medicinali che non presentano queste controindicazioni, ma non andavano bene nel caso di Joz-

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sef. così dovevo aiutarlo a evacuare inserendogli nel retto un far-maco, pover’uomo. Quando sei così malato, non c’è più privacy. di certo non c’era dignità adesso, quando rotolava sul fianco per permettermi di inserirgli la cannula rettale. ovviamente cercavo di alleggerire la situazione e mi ritrovai a dire cose che poi avrei ripetuto spesso ad altri clienti.

“comincia tutto con pappa e pupù, Jozsef, e finisce allo stesso modo, con pappa e pupù” scherzavo teneramente con lui. la-vorare con i malati terminali mi ha portato a conoscere meglio i cicli della vita. ciò che fa stare bene un bambino all’inizio della sua esistenza sono il cibo e l’evacuazione dell’intestino. alla fine della vita, ciò che si chiede di una persona prossima alla morte è se mangi ancora e se riesca ad andare di corpo.

È un sollievo per tutti quando un malato terminale che assu-me forti analgesici, alla fine riesce ad avere un movimento inte-stinale, liberandosi di questa pena. Questo fu il caso di Jozsef e della sua famiglia, quando riuscì finalmente a godersi una bella esplosione dal sedere. ovviamente la cosa dette sollievo anche a me perché non solo il mio cliente si sentì meglio, ma era anche la prima volta che eseguivo una procedura simile.

Uno dei suoi figli viveva in un sobborgo vicino e veniva tutti i giorni. Un altro invece viveva in un altro stato e la figlia oltre-oceano. ogni giorno, Jozsef chiacchierava un po’ con suo figlio, soprattutto delle pagine di economia del giornale, finché non di-ventava troppo stanco. non ci voleva molto dal momento che la sua salute si stava rapidamente deteriorando. non sentivo un forte legame con suo figlio, ma non c’erano ragioni per cui non mi dovesse piacere. Quando in seguito dissi a Jozsef che suo figlio era un tipo simpatico, lui replicò dicendo: “È solo interessato ai miei soldi.” dal momento che preferivo prendere le persone così com’erano, cercai di fare in modo che questo commento non in-fluenzasse la mia opinione su di lui.

nel corso delle poche settimane che seguirono, il mio cliente mi raccontò molte storie relative soprattutto all’amore per il suo

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lavoro. lui e sua moglie gizela erano sopravvissuti all’olocausto ed erano riusciti ad arrivare fino in australia, dopo la liberazione. frammenti della sua vita nei campi di concentramento emerge-vano di tanto in tanto dai suoi racconti. Ma io non feci pressioni perché dicesse di più. ero lì per ascoltare e non per stabilire cosa dovesse condividere. evidentemente era stato più facile vivere senza parlarne. cercai di entrare il più possibile in empatia con la situazione, e mi fece male pensare al dolore che si portavano dietro: il mio cuore era con loro.

Jozsef e io entrammo subito in sintonia e chiacchieravamo sen-za difficoltà. avevamo un senso dell’umorismo simile ed eravamo entrambi pacifici di natura. così ci piacevamo reciprocamente. il divario generazionale contava poco mentre condividevamo le no-stre storie e rafforzavamo sempre più l’intesa tra noi. di tanto in tanto gizela entrava con del cibo incoraggiandolo a mangiare. era un’ottima cuoca, e sebbene lui facesse fatica a ingerire, continuava a cucinare enormi quantità di cibo, in parte per la forza dell’abitu-dine, in parte perché non voleva accettare la realtà dei fatti.

la famiglia era riuscita in qualche modo a convincere anche il medico di Jozsef a tacergli la gravità della sua condizione. era un ri-fiuto di massa. tuttavia, non solo non gli dicevano la verità sul suo stato di salute e sull’inevitabile declino, ma cercavano anche di con-vincerlo che stava migliorando. “avanti tesoro, mangia. Vedrai che starai meglio” ripeteva gizela. stavo male anche per lei. avere così tanta paura della verità doveva essere un peso enorme da portare.

ormai, Jozsef riusciva a ingurgitare solo un vasetto di yogurt al giorno ed era incredibilmente debole; non riusciva più a cam-minare fino al soggiorno nemmeno se accompagnato, eppure continuavano a dirgli che sarebbe guarito presto. non mi intro-misi nella questione finché non fu lui a parlarmene apertamente.

gizela era appena uscita dalla stanza. Jozsef sedeva appoggiato alla testiera del letto mentre gli facevo un massaggio ai piedi, cosa che non aveva mai ricevuto nella sua vita ma a cui si era abituato con grande piacere nel corso delle settimane precedenti. adora-

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vo coccolare i clienti e forse è per questo che ci affezionavamo reciprocamente. Molte delle conversazioni con loro avvenivano mentre massaggiavo loro i piedi, spazzolavo i capelli, grattavo la schiena o tagliavo le unghie.

“sto morendo, vero Bronnie?” chiese quando la moglie uscì dalla stanza.

lo guardai con dolcezza e annuii: “sì, Jozsef, è così.”annuì anche lui, con il sollievo di chi si sente dire la verità. dopo

l’esperienza con la famiglia di stella, mi ero ripromessa di essere sempre sincera. lui guardò fuori dalla finestra per qualche tempo mentre il massaggio ai piedi continuava in un confortevole silenzio.

“grazie. grazie per avermi detto la verità” continuò infine con il suo forte accento. sorrisi teneramente e annuii. per un attimo ci fu silenzio. poi lui proseguì: “non sanno come gestire la cosa” disse della sua famiglia. “gizela non riesce ad affrontare il dolore di parlarne con me. starà bene. solo che non riesce proprio a parlarne.”

era sereno riguardo alla sua situazione e lo ero anch’io per esse-re stata sincera. continuò: “non mi resta molto da vivere, vero?”.

“non credo, Jozsef.”“settimane, mesi?” chiese.“Questo non lo so. Ma credo si tratti di settimane o giorni. È

la mia sensazione, non ne sono sicura” gli dissi in tutta onestà. annuì e guardò di nuovo fuori dalla finestra.

sono pochissime le persone veramente in grado di prevedere con esattezza quando qualcuno sta per morire, a meno che il ma-lato in questione non sia palesemente arrivato ai suoi ultimi gior-ni. Ma era una domanda che clienti e famiglie facevano sempre, a volte ripetutamente. a quel punto ero ormai in grado di misurare il declino delle persone, tenendo presente che le cose potevano cambiare rapidamente. spesso i malati sembravano riprendersi per un breve periodo, prima di spegnersi definitivamente. il suc-cesso nel ruolo di badante derivava dal mio modo di lavorare con l’intuito. era stato proprio su questa base che avevo risposto alla

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sua domanda, anche se ero riluttante. non volevo mentire e dirgli che aveva ancora dei mesi di vita davanti, quando non era così.

terminai il massaggio ai piedi e guardai fuori dalla finestra anch’io. dopo poco Jozsef ruppe il silenzio. “Vorrei non aver la-vorato così tanto.” aspettai che continuasse. “amavo il mio lavo-ro, davvero. ecco perché ho sempre lavorato tanto, per questo e anche per provvedere alla mia famiglia e alla loro.”

“Be’, è una bella cosa. perché pentirsene?”.Mi spiegò che i rimpianti erano legati in parte alla sua fami-

glia, che lo aveva visto così poco per la maggior parte della loro vita in australia. Ma soprattutto era amareggiato per non aver dato loro il modo di conoscerlo. “avevo troppa paura di mostrare i miei sentimenti. così non ho fatto altro che lavorare mettendo una distanza tra la mia famiglia e me. non meritavano di restare tanto soli. adesso vorrei che sapessero chi sono veramente.”

Jozsef mi confidò di essere giunto a conoscere se stesso solo in anni recenti, così si domandava come avrebbe potuto dare agli altri quell’opportunità. i suoi occhi erano tristi mentre parlavamo degli schemi relazionali e di quanto sia difficile romperli. discu-temmo anche della necessità che un rapporto raggiunga il suo massimo potenziale. sentiva di aver perso l’opportunità di creare un legame affettuoso e caldo con i suoi figli. l’unico esempio che aveva dato loro riguardava il rapporto coi soldi e come guada-gnarli. “che senso ha avuto?” sospirò.

“Be’,” cercai di ragionare, “hai fatto quello che ti eri prefissato. li lasci con una vita agiata. Hai provveduto a loro come volevi.”

Una lacrima solitaria scivolò lungo il suo viso: “Ma non mi co-noscono. non mi conoscono.” lo guardai con affetto. “e voglio che lo facciano” disse, e le lacrime iniziarono a scendere copiose. sedetti in silenzio mentre piangeva.

dopo un po’ gli suggerii che forse non era troppo tardi, ma non fu d’accordo. era debole perciò non poteva parlare a lungo: già solo quello lo avrebbe messo in difficoltà. ammise anche di non sapere come esprimere sentimenti tanto profondi. allora mi offrii di an-

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dare a chiamare gizela e il figlio per coinvolgerli nella nostra con-versazione, dicendogli che forse con me presente sarebbe stato più facile. Ma scosse la testa e si asciugò le lacrime. “no. È troppo tardi. non dirgli nemmeno che so la verità. È più facile per loro pensare che ne sono all’oscuro. so che sto per morire. Va bene così.”

Jozsef aveva più o meno l’età della mia cara nonnina quando morì. sebbene le loro vite fossero state del tutto diverse, c’era qual-cosa nello stare con una persona di quella età che mi metteva a mio agio. Mia nonna e io riuscivamo a parlare della morte con estrema facilità. diceva che era più semplice con me che con i suoi stessi figli.

lei e il suo fratello gemello erano i maggiori di undici figli; aveva solo tredici anni quando la madre morì e le toccò crescere gli altri fratelli da sola. il padre era un “uomo duro”, come era solita definirlo quando non lo chiamava “bastardo”. dava loro cibo e poco altro, soprattutto niente amore, diceva.

circa un anno dopo la morte della madre anche la minore delle sorelle, charlotte, spirò. dopo aver cresciuto i suoi fratelli minori, allevò i sette figli, compresa mia madre. Quando nacqui, avevo una massa di ricci scuri e grandi occhi indagatori e mia nonna diceva che ero identica a charlotte. di conseguenza, fin dal mio primo giorno di vita sviluppammo un profondo legame.

eravamo tutti eccitati quando veniva a trovarci. i bambini amano gli ospiti e noi non facevamo differenza. la nonna non era alta più di un metro e cinquanta, ma era una donna dinamica e fenomenale. dipendeva dalla sua educazione. il suo amore per me era incondizionato e mi accettava totalmente. tra tanti, potrei fare l’esempio di quando mia madre si trovava oltreoceano con la sua gemella per una meritata vacanza. Mio padre lavorava fuori casa, così la nonna venne per badare a noi.

avevo dodici anni a quel tempo, quasi tredici, ed ero al mio primo anno di superiori al convento. la scuola era protetta da un doppio muro di mattoni alto tre metri ed era gestita dalle suore, alcune delle quali erano molto dolci. la preside però era un osso duro ed era conosciuta col soprannome poco affettuoso

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di “faccia di ferro”. le studentesse più anziane ci avevano messe in guardia da lei fin dal primo giorno. tuttavia adesso, da adulta, e non più sotto l’influenza di quelle voci, ammetto che probabil-mente quell’aspetto duro e arcigno mascherava una donna amo-revole. Voglio credere che fosse così. la sua gestione era perfetta e negli anni trascorsi là devo dire che non la vidi mai sorridere.

durante il mio primo anno di superiori c’era una parte di me che cercava qualcosa di diverso, e lo trovai frequentando per un po’ le due ragazze più dure della classe. ero una buona alunna e raramente ero stata notata dalla preside, prima di allora.

Una volta, all’ora di pranzo, ci arrampicammo su un albero e, scavalcando la recinzione, corremmo giù in città, ci facemmo strada dentro a un negozio e qui ciascuna di noi rubò un paio di orecchini con le proprie iniziali sopra. forti di questo facile succes-so, ci avventurammo nel negozio accanto e sgraffignammo alcuni lucidalabbra. stavo strofinando le labbra al sapore di frutta l’una sull’altra, ridendo per quanto fosse buono, quando sentii una gros-sa mano gravarmi sulla spalla e una voce dire: “dammelo, grazie.”

con le gambe quasi paralizzate dalla paura, fui condotta nell’ufficio del proprietario del negozio con una delle ragazze. l’altra era scappata. chiamarono la preside che aspettava il nostro mesto ritorno a scuola. Batté il righello nel palmo della mano e ordinò con fermezza: “nel mio ufficio.”

“sì, sorella” dicemmo umilmente all’unisono. se avessimo avu-to delle code le avremmo tenute per tutto il tempo tra le gambe.

l’accordo tra la scuola e il negozio prevedeva che non sarem-mo state denunciate per furto. Ma dovevamo andare a casa e rac-contare personalmente ai nostri genitori che cosa avevamo fatto. poi i genitori avrebbero dovuto chiamare la preside e confermare di essere a conoscenza dei fatti. ci fu proibito di fare sport per un intero quadrimestre ed essendo amanti dell’attività fisica, la cosa ci devastò. anche essere colpite una decina di volte sulla parte posteriore delle gambe con il righello fu un’esperienza poco piacevole. la preside era una donna spietata.

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Mia madre era in vacanza e papà sarebbe tornato a casa alla fine della settimana, perciò ero terrorizzata. dal momento che ero una ragazzina sensibile e buona, bastava qualcuno con la voce grossa per spaventarmi. Ma c’era la nonna, così la presi in dispar-te. con il labbro inferiore tremante, le raccontai quello che avevo fatto. restò seduta ad ascoltare, senza interrompermi né reagire. aspettò che finissi, e a quel punto piangevo a dirotto.

“Bene, hai intenzione di farlo ancora?” chiese.“no, nonna. lo prometto.” dichiarai solennemente.“Hai imparato la lezione?”.confermai: “sì, nonna. non lo farò mai più.”“ok” disse infine. “Bene, non lo diremo al papà e domani

chiamerò io la scuola per te.” e fu tutto. dio la benedica. Ma la paura che avevo provato per quello che era successo fu talmente grande che non solo non ho più rubato niente, ma non sono nemmeno più riuscita a entrare in quel negozio.

anni dopo, finite le superiori, lasciai il paese di campagna in cui ero cresciuta. non vedevo l’ora di spiccare il volo, così accettai il primo lavoro che mi fu offerto in una banca nella città in cui viveva la nonna, a cinque ore di distanza. Vivere a casa sua era la soluzione più pratica.

a diciotto anni, appena uscita dalla fattoria e dalla scuola in convento, non c’era da stupirsi se fossi aperta a nuove opportu-nità. più tardi quell’anno, quando mia madre indovinò che non ero più vergine, ne fu disgustata ed era quasi pronta a rinnegarmi, incapace di credere che io, una brava ragazza con la testa sulle spal-le, mi fossi concessa con tanta facilità. fu la nonna a sistemare le cose ancora una volta, dicendole di non esagerare visto che i tempi erano cambiati e che ero ancora una brava ragazza, a mio modo.

il mio legame con queste due donne meravigliose continuò a rafforzarsi da allora.

Quando scoprii il mondo dell’alcol e tornai a casa ubriaca, fu la nonna a lasciare un secchio accanto al letto, giusto nel caso mi fosse servito. era saggia, aperta e ha avuto un ruolo molto positi-

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vo nella mia vita. fu anche sollevata quando annunciai, a un’età ragionevolmente giovane, che l’alcol non faceva per me.

la nonna sopravvisse a tutti i suoi fratelli e sorelle, cosa stra-ziante per lei, dal momento che li considerava come figli suoi. ci scrivevamo ovunque mi trovassi e ci raccontavamo tutto, come un libro aperto. condivisi la sua tristezza per aver perso l’ultima sorella e la frustrazione dovuta all’invecchiamento che la stava gradualmente privando della sua indipendenza. assistere al suo declino negli anni fu penoso anche per me, perché dovevo fare i conti col fatto che non ci sarebbe stata per sempre.

iniziai a trovare difficile riuscire a trattenere le lacrime tutte le volte che parlavamo. così le confidai apertamente quanto la amassi e quanto mi sarebbe mancata quando fosse giunto il suo momento. dopo quella volta, riuscimmo a parlare della morte con candida sincerità. sono contentissima di averlo fatto. senza negare ciò che ci aspettava, gustammo ogni nostra conversazione e lei poté condividere con me i suoi pensieri su quell’argomento. era pronta ad andarsene già da anni.

di ritorno da un soggiorno di alcuni anni oltreoceano, non ve-devo l’ora di rivederla. i cambiamenti in lei erano enormi. i capelli erano diventati tutti bianchi, camminava con un bastone e si era rimpicciolita ancor di più. era diventata una vecchia signora. ave-va novant’anni, ma restava comunque la donna meravigliosa che conoscevo. aveva ancora la mente lucida e le nostre conversazioni continuarono con grande soddisfazione per un altro anno circa.

la telefonata arrivò un lunedì mentre ero al lavoro in banca, dove gestivo la filiale locale. la nonna era spirata nella notte, nel sonno. Mi mancò il terreno sotto i piedi e mi chiusi in ufficio. con la testa tra le braccia, singhiozzai il mio addio alla mia cara, amata nonnina e piansi per la grande perdita. “oh nonna, oh nonna, oh nonna” gemevo tra le lacrime.

Uscii prima dal lavoro e con la vista annebbiata e troppo tri-ste per pensare con chiarezza mi fermai alla cassetta della posta. sfogliando le lettere e le bollette in uno stato di stordimento,

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mi immobilizzai dallo stupore. nella posta c’era un biglietto da parte della mia nonnina. lo aveva spedito venerdì ed era morta nel sonno la notte di domenica. Un fiume di lacrime di gioia e di dolore fluirono da me mentre tenevo il biglietto sul cuore, singhiozzando e ridendo contemporaneamente.

ero grata del legame che avevamo condiviso e per essere stata abbastanza schietta da parlare con lei della morte. ci eravamo dette tutto. lei sapeva quanto l’amavo e io sapevo che lei amava me, e ne ero convinta ancora di più mentre leggevo le parole meravigliose che aveva scritto: “ti voglio tanto bene, tesoro. sei sempre nei miei pensieri. possa il sole risplendere su di te tutti i giorni della tua vita, Bron. con amore, nonna.”

il pensiero della sua morte mi fece piangere prima che si verifi-casse. certamente piansi anche dopo, ma ero serena, sapendo che avevamo affrontato l’argomento con sincerità e apertura. Quella sensazione di pace è ancora con me. il volto di mia nonna mi sorride da una fotografia che tengo sulla scrivania. sebbene ci siano dei giorni in cui mi manca tanto, sono certa che essere state sincere e schiette ci abbia donato un rapporto speciale e positivo che continua a plasmarmi nel miglior modo possibile.

Ma per il mio cliente Jozsef non fu così facile. a quel punto essere sinceri era troppo doloroso per lui e per la sua famiglia. sentivo la pena e la frustrazione che provava e il mio cuore era con lui. non riuscivo nemmeno a pensare a ciò che quel brav’uo-mo aveva dovuto sopportare nella vita. gizela continuava a por-tare pasti abbondanti, incoraggiando il marito a mangiare. lui le sorrideva gentilmente e declinava il cibo tutte le volte. le altre ba-danti venivano la sera, ma io restavo quella principale del giorno. ci conoscevamo ed era comodo e più facile per lui, soprattutto adesso che riusciva ad aprirsi un po’, almeno con me.

perciò fui sorpresa e rattristata di sapere che ero stata rimpiaz-zata. suo figlio si era lamentato dei costi del servizio. anche se gli era stato spiegato che per il padre ormai era solo questione di una o due settimane ancora, fu irremovibile, dicendo che Jozsef

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avrebbe potuto vivere ancora per anni. la soluzione che trovò fu quella di prendere una badante clandestina che lavorava in nero per un compenso molto basso.

supplicare gizela di convincere il figlio a cambiare idea fu inutile. avevano deciso così. avrei trovato lavoro altrove, non era certo questo il problema. il punto era che Jozsef era finalmente riuscito a sfogarsi e si trovava bene con me. di certo la sua felicità avrebbe dovuto essere la priorità di tutti nelle ultime settimane di vita. stavo male al pensiero di quanto impersonale e anonima potesse essere la mia sostituta, soprattutto perché lui non era più in grado di parlare molto a causa della debolezza e delle difficoltà respiratorie. Mi spiaceva anche per la nuova badante e per i pro-blemi di comunicazione che avrebbero dovuto affrontare.

Ma non dipendeva da me e dovevo confidare nel fatto che an-che questi eventi facessero parte del viaggio della vita di Jozsef. come facciamo a sapere quali sono le lezioni che siamo venuti ad imparare? non possiamo. così con un abbraccio e un sorriso che diceva più di tante parole, ci dicemmo addio. Mi fermai sulla soglia della sua stanza e lo guardai ancora una volta. ci sorridemmo allo stesso modo, senza dire nulla ma intendendo tante cose. poi fu il momento di andare. Mentre guidavo allontanandomi da casa sua, sapendo che avrebbe guardato fuori dalla finestra perso nei propri pensieri, scoppiai a piangere. Questo lavoro mi faceva entrare in contatto con persone che altrimenti non avrei mai conosciuto e amavo ciò che veniva condiviso e gli insegnamenti che apprende-vamo l’uno dall’altra, per quanto fosse difficile e doloroso a volte.

la nipote di Jozsef mi chiamò circa una settimana dopo per dirmi che se ne era andato la notte precedente. ne fui sollevata. la sua malattia non gli avrebbe più permesso di vivere bene. era me-glio così. ripensando a come erano andate le cose, capii che tutto si era svolto nel modo migliore. imparare da queste care persone, prima che venissero a mancare, era un dono unico e raro e ne ero grata. tutti noi moriremo, ma questo lavoro mi ha fatto ricordare che possiamo scegliere come vivere nel frattempo.

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Vedere l’angoscia provata da Jozsef per la sua incapacità di esprimere i propri sentimenti mi spinse a essere determinata e coraggiosa nel condividere i miei. i muri della mia riservatezza si stavano gradualmente sgretolando e iniziavo a chiedermi come mai abbiamo così paura di aprirci e di essere sinceri. ovviamente lo facciamo per evitare il dolore che potrebbe sopraggiungere in cambio della nostra onestà. Ma quegli stessi muri che innalzia-mo per proteggerci causano sofferenza, impendendo agli altri di scoprire chi siamo veramente. Vedere le lacrime scendere sul viso di quel bravo vecchio che desiderava tanto essere conosciuto e capito, mi cambiarono per sempre.

dopo aver ricevuto la chiamata che mi annunciava il suo tra-passo, restai seduta in un parco vicino alla spiaggia gustando la vista di ciò che avevo attorno. ovunque c’erano bambini intenti al gioco e osservai con quanta spontaneità condividevano i propri sentimenti. se qualcuno piaceva loro, lo dicevano. se erano tristi, piangevano, lasciavano andare la tristezza e tornavano di nuo-vo felici. non sapevano come reprimere i sentimenti. era bello osservare le loro espressioni sincere. era eccitante vedere come giocassero e collaborassero nel fare le cose.

abbiamo creato una società dove gli adulti sono isolati e se-parati. cooperare, esprimere i propri sentimenti ed essere felici erano cose naturali per i bambini che osservavo. sebbene mi rat-tristasse che, da grandi, avessimo perso la capacità di essere com-pletamente aperti, nutrivo ancora delle speranze. se un tempo anche noi siamo stati così, per quanto a livelli differenti, allora forse potevamo imparare a esserlo ancora.

in quel parco vicino alla spiaggia presi una decisione netta. non mi sarei mai più trovata a rimpiangere le cose come era suc-cesso al caro Jozsef. era giunto il momento di essere più corag-giosa e di iniziare a esprimere maggiormente i miei sentimenti.

i muri attorno al mio cuore non servivano più. il processo di smantellamento era in corso.

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Mai più sensi di colpa

la sveglia suonò, facendomi uscire da un sonno ristoratore nella mia ultima casa. sbucai da sotto la coperta e mettendomi la vestaglia, salii di sopra per accudire Jude.

parole che potevano suonare come un brontolio a un orecchio inesperto, indicavano che aveva bisogno di cambiare posizione, perché le faceva male la gamba. Quando fu di nuovo comoda e sorridente, spensi la luce, le augurai la buona notte e tornai di sotto, al sollievo di un letto meraviglioso.

Jude e io ci eravamo conosciute tramite il passaparola. Qual-cuno nel circuito dei cantautori sapeva che lavoravo come ba-dante e che facevo la house-sitter, così aveva fatto girare il mio numero di telefono. fino a quel momento, la maggioranza dei clienti che avevo avuto erano anziani o avevano superato la mezza età, e molti stavano morendo per patologie legate al cancro. la malattia di Jude, invece, era di tipo neurologico e lei aveva solo quarantaquattro anni. il marito e la figlia, una splendida bambi-na di nove anni dai riccioli ramati e un bellissimo sorriso, erano persone amorevoli e gentili, proprio come lei.

Quando diventai la sua badante, erano ormai stufi delle agenzie che mandavano sempre persone diverse. i bisogni di Jude erano parecchi e alquanto particolari, soprattutto per quel che riguardava la sua comodità e il deteriorarsi del linguaggio. Quindi il desiderio di avere una badante principale divenne prioritario. furono assunte altre assistenti che coprivano i miei turni di pausa, e grazie a dio adesso ero abbastanza esperta da poterle addestrare. dal momento che Jude non era più in gra-do di reggere il proprio peso, usavamo una leva idraulica per spostarla sulla sedia a rotelle e sul letto. ogni giorno assistevo al peggioramento delle sue capacità ed ero contenta di essere arrivata in tempo per poter comunicare ancora con lei, perché

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così fui in grado di interpretare i grugniti e i brontolii che se-guirono.

Jude veniva da una famiglia benestante e da giovane aveva ri-cevuto molte pressioni affinché si sposasse in modo conveniente e vivesse la vita che ci si aspettava da lei. la sua prima macchina fu un modello di lusso che costava più del salario annuale della maggior parte della gente comune. fino a vent’anni non aveva mai messo piede in un normale centro commerciale. i vestiti fatti su misura dagli stilisti erano tutto quello che conosceva. la sua educazione le aveva garantito quel tenore di vita.

eppure era sempre stata una persona creativa e pragmatica. tutto quello che voleva era un’esistenza semplice, mi disse. Ma i suoi genitori insistettero affinché andasse all’università e la co-strinsero a scegliere tra legge o economia. non c’erano altre op-zioni, malgrado il suo breve accenno al desiderio di studiare arte. così, sotto pressione e risentendo delle aspettative dei suoi, scelse legge. la decisione fu basata sull’idea che un giorno i suoi geni-tori sarebbero morti e lei sarebbe stata in grado di mettere le sue conoscenze al servizio di una causa migliore, nell’arte o per il bene comune. le cose però non erano andate così. suo padre era morto da poco ed era molto più probabile che lei se ne sarebbe andata prima della madre. a ogni modo, ormai non era più in grado di lavorare.

il suo amore per l’arte la fece innamorare di edward, un arti-sta. entrambi mi raccontarono di un’attrazione istantanea che da allora non si era mai affievolita. sebbene entrambi fossero timidi all’inizio, la forza dell’attrazione reciproca diede loro la fiducia necessaria per essere audaci.

in men che non si dica si erano innamorati l’uno dell’altra e il mondo intero era scomparso mentre ciascuno diventava il mon-do dell’altro. la famiglia di Jude era disgustata dalla sua scelta, dal momento che edward apparteneva a una famiglia del ceto basso ed era felice di avere uno stile di vita semplice, dedicandosi alla sua arte e ottenendo un discreto successo. Ma non era un

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colletto bianco e non sarebbe mai stato abbastanza bravo per i genitori di Jude.

purtroppo fu costretta a scegliere tra i genitori e edward, così scelse edward. “ovviamente” rise. non fu una decisione vera e propria. lei lo amava con tutto il cuore, e lui ricambiava. in se-guito Jude fu completamente emarginata dalla famiglia. Qualche amico intimo di vecchia data le restò fedele. Ma si era spostata in un mondo diverso, più felice e aperto, e godeva anche delle nuove amicizie che erano entrate nella sua vita.

Qualche anno dopo, la coppia diede il benvenuto nel mondo alla loro piccolina, layla. furono ripetuti gli sforzi per riconci-liarsi con i genitori, perché lei voleva che conoscessero la bambi-na. alla fine suo padre cedette e giunse a godere di un rapporto di amore con la sua cara nipotina prima di morire. anche la sua relazione con la figlia migliorò. sebbene con edward si mostras-se cortese, il padre di Jude lottava ancora con la consapevolezza che un artista avesse conquistato il cuore di sua figlia, quindi il loro non era un legame profondo. tuttavia, come risultato del suo rapporto con layla, comprò per tutti loro la villa in cui abi-tavano tuttora, che si affacciava sul porto, con grande disappun-to della madre.

le cose erano andate avanti bene, mi raccontarono, fino a che Jude non aveva cominciato a diventare goffa e impacciata al pun-to da non poter più ignorare la malattia. Queste storie mi furono raccontate all’unisono da Jude e edward e avevo il sospetto che sarebbe stato così anche se lei non avesse dovuto lottare contro la malattia. erano una coppia molto unita. il loro amore era stra-ziante per me, ma mi dava anche grande ispirazione. appartene-vano alla mia stessa generazione.

tra noi si dispiegarono ore e ore di profonda e sincera conver-sazione. parlammo anche dell’accettazione della morte a un’età così giovane. È facile per noi tutti credere che vivremo in eterno. Ma le cose non stanno così. le tempeste della vita si portano via anche qualche giovane. come fiori in sboccio, non ancora

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maturati a frutto, essi verranno strappati prima ancora di aver compreso il loro pieno potenziale. altri invece arriveranno alla piena maturazione e se ne andranno nel pieno fulgore. altri an-cora supereranno il fiore degli anni e degenereranno lentamente nella vecchiaia.

si parla spesso di “morire prima del tempo”, ma in realtà non è così. ce ne andiamo quando è il nostro momento. ci sono mi-lioni di persone che non sono destinate a vivere una vita lunga. È l’idea che vivremo tutti per sempre, o almeno fino a un’età avan-zata, che ci turba e ci fa disperare quando viene a mancare una persona giovane. Ma in verità è una parte naturale della vita in tutte le specie. alcuni muoiono giovani, altri a metà della loro vita e altri in tarda età. ovviamente è straziante quando accade a dei ragazzi che sembrano avere tutta la vita davanti. Ho degli amici che hanno perso i figli in tenera età e ho assistito al loro dolore. per alcuni non è mai passato. Ma questi bambini o adolescenti non erano destinati a vivere a lungo. sono venuti al mondo, hanno mostrato il loro splendore e ora vengono ricordati con purezza per tutto quello che hanno donato nella loro breve esistenza.

sebbene Jude fosse arrivata ai quaranta in buona salute, sareb-be stato facile pensare quanto fosse ingiusto che una donna tanto buona morisse a quarantaquattro anni. Ma lei e edward erano arrivati ad accettarlo ed erano entrambi grati di essersi incontrati e di aver conosciuto l’amore che si erano scambiati. erano anche stati benedetti dalla venuta al mondo di layla. a questo proposi-to, Jude era serena in un certo senso, riconoscendo di aver avuto l’onore di guidare quella bimba meravigliosa nei suoi primi nove anni di vita. ovviamente però le si spezzava il cuore al pensiero che non l’avrebbe vista diventare una donna e per il dolore che layla avrebbe potuto provare nel perdere la mamma. Ma l’aiu-tava tantissimo sapere che la figlia aveva un padre affettuoso a sostenerla lungo il suo cammino.

a quel punto aveva perso del tutto la sua autonomia e la ca-pacità motoria, ma la frustrazione più grande era che stava per-

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dendo l’uso del linguaggio. la cosa che temeva di più, mi confidò una notte mentre le cambiavo posizione nel letto, era quando non sarebbe più stata in grado di dire che soffriva e avrebbe do-vuto giacere impotente sopportando il male. pensai a quanto sa essere difficile la vita a volte e a quanto sono diverse le lezioni che siamo qui a imparare. doveva essere terribile trascorrere le ultime settimane o mesi nel pieno della consapevolezza ma senza la capacità di comunicare. e come se non bastasse, giacere nel dolore senza nessuno che si renda conto o sappia come fare per alleviarlo. Questo deve succedere in tutto il mondo anche alle persone che soffrono di altre patologie, come di ischemia o lesio-ni al cervello. dio, che modo d’essere. ciò mi spinse a ripensare alla mia vita da un altro punto di vista.

ogni giorno assistevo al graduale deteriorarsi del linguaggio di Jude. c’erano giorni in cui era ancora ragionevolmente buono, quasi comprensibile. altri invece riuscivo a seguire quello che di-ceva solo perché ci conoscevamo e io lavoro d’intuito. in questi casi, a volte ricorreva all’utilizzo di uno speciale programma del computer per comunicare. indossava un paio di occhiali ideato appositamente allo scopo, che aveva tra le lenti un laser che colpi-va le lettere sullo schermo. Jude si soffermava sulla lettera prescel-ta il tempo sufficiente affinché venisse digitata, poi passava alla successiva. dopo aver computato un paio di lettere compariva una selezione di parole tra cui scegliere e così via. era un proce-dimento lento, ma almeno le permetteva di essere udita. ringra-ziai in silenzio chi le aveva dato questa opportunità, mettendo a punto un programma simile. purtroppo però, presto sarebbe arrivato il giorno in cui non sarebbe più stata in grado nemmeno di muovere la testa per usarlo.

così nei giorni buoni, ascoltavo il più possibile Jude che par-lava. c’erano così tante cose che voleva esprimere. le tenevo il succo di frutta accostato alle labbra e aspettavo mentre lo sor-seggiava piano per riuscire a continuare a parlare. c’era una cosa che voleva puntualizzare più di tutte e la ripeteva di continuo:

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“dobbiamo avere il coraggio di esprimere i nostri sentimenti” diceva. Molto adatto, pensavo, considerando il mio personale viaggio fino a lì.

anche se aveva perso il rapporto con la madre scegliendo di stare con edward, era felice di essere stata sufficientemente corag-giosa da fare quella scelta, di cui non si era mai pentita. però in quel momento avrebbe tanto desiderato condividere i suoi sen-timenti con la mamma. rendendosi conto che avrebbe potuto non avere mai una simile occasione, le aveva scritto poco tempo prima. la lettera attendeva nel cassetto della scrivania di edward. la madre di Jude sapeva della sua malattia. Ma si ostinava a non volerla perdonare e non riusciva nemmeno ad andare a farle visi-ta, pur sapendo che stava morendo.

“dobbiamo imparare a esprimere i nostri sentimenti adesso” sottolineò Jude. “non quando è troppo tardi. nessuno di noi sa quando sarà troppo tardi. dì alle persone che le ami. dì loro che le apprezzi. se non riescono ad accettare la tua sincerità o se reagiscono in modo diverso da come avevi sperato, non importa. ciò che conta è che gliel’hai detto.”

secondo lei ciò valeva tanto per le persone che stavano mo-rendo quanto per chi sarebbe rimasto. “chi se ne va ha bisogno di sapere che tutto è stato detto. dà loro pace” diceva. “se anche chi rimane riesce a mettere insieme il coraggio per esprimere con sincerità i propri sentimenti, allora non si porterà dietro il rim-pianto nei confronti di chi muore. né dovrà vivere col senso di colpa che si prova quando qualcuno che si è amato non c’è più ma restano cose non dette.”

il motivo per cui questo punto era così importante per Jude era che l’anno prima aveva perso improvvisamente un’amica. il suo mondo aveva subito una tremenda scossa. tracey era stata una donna frizzante, l’anima di ogni raduno tra amici. era amata da tutti per il suo buon cuore ed era priva di pregiudizi.

“È facile farsi prendere dalla routine e non passare il tempo che vorremmo con le persone che amiamo, sia familiari che ami-

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ci. invece dobbiamo tornare a dedicarci alle relazioni interper-sonali e alla sincerità. la gente non si rende conto di quanto sia importante finché non sta per morire o non vive col senso di colpa dopo che qualcun altro se n’è andato” mi disse Jude.

credeva che non ci fosse bisogno di sentirsi in colpa se avevamo fatto il possibile per esprimere i nostri sentimenti e per trascorrere il tempo con le persone amate. Ma dobbiamo smetterla di pensare che le persone care staranno con noi per sempre. Basta un attimo perché tutto sia finito. Jude era grata di aver avuto il tempo per dire i suoi addii, ma sottolineava il fatto che non a tutti viene data la fortuna di esprimere ciò che provano. a milioni di individui non succede e se ne vanno improvvisamente, in modo inaspettato.

sebbene aver espresso il suo amore per edward avesse rovinato il rapporto con la madre, Jude era contenta di aver avuto il corag-gio di essere sincera. non solo ciò le aveva permesso di conoscere la pienezza dell’amore che entrambi continuavano a condividere, ma era anche serena per essere stata fedele al proprio cuore. le era servito anche a capire quanto avesse subito il controllo dei suoi genitori fino ad allora, soprattutto di sua madre. se una relazione si basa sul potere, diceva, com’è possibile che s’instauri un rap-porto onesto e sano? se questo era l’unico tipo di rapporto che le veniva offerto, allora preferiva farne a meno del tutto.

aver provato a comunicare con la madre le avrebbe permesso di morire libera dal senso di colpa. aveva avuto il coraggio di esprimersi. fortunatamente lo stesso era avvenuto con la sua ami-ca tracey. era sempre stata molto sincera e per quanto lo shock di averla persa fu enorme, non aveva sensi di colpa. pochi giorni prima che morisse, avevano pranzato insieme. Quando si erano abbracciate per salutarsi, Jude le aveva detto quanto le volesse bene e quanto fosse importante la loro amicizia per lei.

Ma non avvenne lo stesso per la maggior parte dei familiari della sua amica o per gli altri amici. tracey era stata una persona talmente solare che sembrava impossibile che non ci fosse più. in-vece era stata strappata alla vita da un incidente d’auto. Un anno

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dopo, gli strascichi del trauma e del senso di colpa aleggiavano ancora molto intensamente nella cerchia di amici di Jude.

“aveva cambiato la vita della gente e non gliel’avevano mai detto. tracey non era il tipo da avere bisogno di conferme, no. Ma da allora le persone dovettero convivere con il rimorso di non averle espresso i propri sentimenti e ho visto questo senso di col-pa trasformarsi in veleno, mentre si interrogavano su come avreb-bero potuto agire diversamente.” naturalmente capivo benissimo ciò che intendeva. “e poi,” continuò Jude, “anche se tracey non aveva bisogno di conferme, avrebbe apprezzato tantissimo riceve-re incoraggiamento dagli altri. era bellissima e aperta. e adesso non c’è più.”

ovviamente concordai con lei che condividere i propri sen-timenti ed essere sinceri fosse importante. la vita mi stava dan-do lezioni sull’argomento, ancora di più adesso che ne parlavo con Jude. era una donna molto bella, ancora dotata di un fascino naturale, per quanto non fosse più in grado di reggersi in piedi. a volte sbavava e i suoi indumenti dovevano essere per necessità più pratici che alla moda. Ma nella sua solarità potevo scorgere lo spirito e le vestigia di quella che era stata un tempo. sorridendole, d’accordo con la sua opinione, condivisi con lei i miei pensieri: “È vero. l’orgoglio, l’apatia, la paura delle reazioni o di essere umi-liati ci trattengono dall’essere sinceri. Ma a volte, ci vuole davvero tantissima forza per farlo e non sempre siamo forti abbastanza.”

“sì, ci vuole coraggio Bronnie” continuò lei. “È proprio quello che sto cercando di dire. serve coraggio per esprimere le proprie emozioni, soprattutto se non stai bene e hai bisogno di assistenza, o se non hai mai comunicato sentimenti sinceri a qualcuno che ami e non sai come verranno recepiti. Ma più ti eserciti nel con-dividerli, qualsiasi essi siano, più le cose migliorano. l’orgoglio è una gran perdita di tempo. davvero, guardami adesso. non rie-sco più nemmeno a pulirmi il sedere da sola. che importa? siamo tutti esseri umani. ci è permesso anche di essere vulnerabili. fa parte del processo.”

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prima che arrivassi da edward e Jude la vita era stata piuttosto dura per me. decisi di raccontarglielo, perché mi sembrava un buon esempio di quanto sia difficile a volte condividere i propri sentimenti.

l’attività di badante a un certo punto era calata. c’erano momenti in cui venivo subissata di richieste e altri invece in cui non trovavo nemmeno un cliente. la cosa non mi preoccupava, perché andava a tutto vantaggio del mio lavoro creativo. tutta-via, dopo un paio di mesi senza lavorare la situazione iniziò a complicarsi e ancora non c’erano incarichi all’orizzonte. di solito reinvestivo subito i soldi che guadagnavo come badante nel mio lavoro creativo, quindi non mi restava un granché su cui fare af-fidamento. Ma essendo già sopravvissuta in occasioni simili, non mi preoccupai più di tanto.

anche il lavoro come house-sitter andava e veniva. a volte non avevo idea di dove sarei andata dopo e sapevo solo quando era previsto il ritorno dei proprietari. di solito però trovavo una casa proprio all’ultimo minuto. nei periodi in cui mi sentivo più forte, in un certo senso godevo del rischio e dell’eccitazione. c’era un sacco di adrenalina. per esempio succedeva spesso che qualcuno mi chiamasse nel panico chiedendomi se potevo badare alla sua casa a cominciare dal giorno successivo, perché doveva partire con urgenza. accoglievo quelle chiamate con un grande sospiro di sol-lievo e tanti sorrisi. occasioni simili salvavano entrambi.

a volte i clienti si mettevano d’accordo con gli amici che si avvalevano della rete di house-sitter per approfittare di quando sarei stata disponibile. così pianificavano di andare in vacanza lo stesso giorno in cui i loro amici sarebbero rientrati, sapendo che allora sarei stata libera. in questo caso a volte ero prenotata con mesi di anticipo. ovviamente mi faceva piacere. Mi sem-plificava la vita.

c’erano delle volte però che non trovavo nessun posto a cui badare per qualche giorno o per una settimana o due, tra una casa e l’altra. così me ne andavo dalla città e facevo visita a qualcuno

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in campagna, godendomi la pausa. oppure se c’era un cliente in particolare che non volevo lasciare, mi installavo temporane-amente nella stanza degli ospiti di qualche amico o sul divano. all’inizio era abbastanza facile. Ma dopo qualche anno vissuto così, iniziai ad aver paura di chiedere e mi sembrava che non fossi più gradita come ospite. gli amici dicevano che non era vero. Mi sostenevano e mi capivano abbastanza da sapere che non si trattava di una situazione definitiva. Quando ebbi delle case mie, anni dopo, erano sempre piene di ospiti, ma per me imparare a ricevere fu più difficile di dare.

dover chiedere ripetutamente agli amici se potevo stare da loro mi deprimeva. sebbene fossi riuscita a elaborare molti dei miei traumi del passato, permettendomi di provare compassione per gli altri, mi costava ancora molta sofferenza e un duro lavoro trasformare i pensieri che avevo su di me. stavo smantellando anni e anni di schemi negativi e cambiare completamente modo di pensare era un processo lento. nuovi semi positivi erano stati piantati e stavano fiorendo in molti modi nella mia vita. Ma do-vevo ancora sradicare tutte le vecchie erbacce che a volte riaffio-ravano ancora.

in questa occasione in particolare, non lavoravo da tempo or-mai, i soldi erano quasi del tutto finiti e mi sentivo di nuovo di-sperata. chiamai la mia più cara amica e le chiesi se potevo stare da lei. stava vivendo un momento difficile e non era possibile. io non c’entravo niente. si trattava di una cosa sua e della sua vita. Ma a causa del mio modo di pensare e del mio stato emotivo di allora, lo presi come un rifiuto e mi sentii anche peggio per averla messa nella posizione di dovermi dire di no. riluttante, chiamai qualche altro amico ma purtroppo uno aveva la casa piena di ospiti, uno era via e l’altro era assorbito da un progetto di lavoro che richiedeva la più totale concentrazione. non avevo i soldi per lasciare la città e tornare senza doverli chiedere in prestito, cosa che mi avrebbe fatto sentire ancora più depressa. così decisi di dormire in macchina.

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anni prima non era stato un problema quando avevo dovuto passare la notte nella jeep durante i miei viaggi. in effetti, non c’era posto in cui avrei preferito dormire che non fosse il retro della mia vecchia macchina, sul comodo materasso che avevo in-filato dentro. Ma non nel chicco di riso, un’auto talmente piccola che non potevo nemmeno distendere le gambe nel tentativo di sdraiarmi. e poi non aveva tendine né privacy ed eravamo in pie-no inverno. tuttavia non mi veniva in mente nessuno che potes-si chiamare senza sentirmi in colpa. per quanto fossi spaventata all’idea di dormire così esposta per le strade della città, mi ero rassegnata, come accade alla gente disperata.

guidai in giro prima che facesse buio, individuando un paio di posti dall’aria relativamente sicura e adatta allo scopo. dovevo anche tenere presente che avrei avuto bisogno di andare al bagno. Mandare fuori di testa le persone urinando sui loro prati nel bel mezzo della notte non era il genere di attenzione di cui avevo bisogno, con tutto quello che stavo già vivendo.

le giornate sono lunghe quando non hai una casa e cerchi di non dare nell’occhio. devi essere sveglio e fuori dai piedi all’alba, e non puoi prepararti per la notte finché tutti gli altri non sono andati a casa e si sono sistemati a loro volta. allo stesso tempo, ovviamente, sei senzatetto quindi non hai un posto in cui aspetta-re. sì, erano giornate veramente lunghe e le notti molto scomode, fredde da far male, e solitarie.

Una notte andai in un bar dove ascoltai della musica, cercando di restare il più a lungo possibile consumando una sola tazza di tè. Mi sentivo come il vecchio nella canzone di ralph Mctell, “stre-ets of london”, che cerca di far durare la sua tazza di tè tutta la notte così da restare al chiuso. Buffo che quella fosse stata proprio uno dei primi pezzi che avevo imparato a suonare alla chitarra.

all’alba andavo ai bagni pubblici vicino alla spiaggia e aspetta-vo che aprissero. poi mi davo una sciacquata, lavavo i denti e usavo la toilette, sopportando per tutto il tempo il cipiglio dell’addetto ai servizi che aveva aperto la porta. penso che mi considerasse una

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campeggiatrice abusiva, una scroccona o qualcosa del genere. Ma niente di quello che poteva pensare di me poteva essere peggiore di ciò che già pensavo di me stessa. così, in verità, me ne infi-schiavo. era uno dei doni che avevo già fatto miei nel momento in cui avevo iniziato a lavorare con i malati terminali, ovvero che non m’importava un bel niente di ciò che gli altri pensavano di me. per come stavano le cose, avevo già abbastanza da fare nel gestire la mia testa.

Un’altra sera partecipai al programma di aiuto tenuto da-gli Hare Krishna “sfama gli affamati”. tutte le volte che avevo avuto dei soldi, ero sempre stata generosa con loro. adesso, fer-ma in coda, trovavo molto ironica la mia situazione, visto che spesso avevo versato dieci o venti dollari nel cestino delle offerte per sostenere questo programma, quando giravano in cerca di fondi. Mi piacevano gli Hare Krishna. erano vegetariani, suo-navano musica allegra e davano da mangiare agli affamati. Mi bastava. Ma ora ero la destinataria della loro bontà e lo trovavo piuttosto umiliante.

Un mattino mi sedetti su uno scoglio vicino al porto pregando di ricevere forza, resistenza e un miracolo. proprio in quel mo-mento, sopraggiunse un branco di delfini e uno di essi saltò fuori dall’acqua per gioco. la mia vita mi era sembrata tanto seria fino ad allora e quell’episodio mi regalò un pochino di speranza. allora pensai ad alcuni amici che vivevano lontano e decisi di chiamarli per chiedergli ospitalità. erano persone amabili. Ma il mio senso del pudore e la disperazione non mi aveva permesso di chiedere ad altri, o anche solo di pensare a qualcuno disponibile. non avevo avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti anche se in tut-ta onestà avrei semplicemente potuto dire a queste care persone: “ascolta, sono a terra. posso venire da te e fermarmi per un po’?”.

così con una nuova più lucida determinazione feci una pas-seggiata per il porto. prima che avessi l’occasione di fare quel-la telefonata però, mi suonò il cellulare ed era edward che mi chiedeva se fossi libera per fare da badante a Jude e se potevo

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cominciare subito. sulla loro proprietà c’era anche un bellissimo appartamento disponibile se ne avessi avuto bisogno. Quella not-te dormii di nuovo sdraiata, con le gambe ben distese, senza più soffrire per i crampi e per il freddo. Un confortevole piumone mi tenne al calduccio dopo un bagno rigenerante. Mangiai un pasto sano con tre persone meravigliose e stavo guadagnando di nuovo dei soldi. come cambia in fretta la vita!

se mi guardo indietro potrei dire che è stato così perché il lavoro era calato e non c’erano case da accudire. Questo è quello che è successo fisicamente. Ma si trattava di una situazione che avevo creato con la mia mancanza di autostima e alimentando vecchi semi che ormai non mi servivano più. naturalmente ce n’erano anche di nuovi piantati di fresco, perché in alcune cir-costanze vivevo in modo prospero e bello. Ma imparare a disfare questi vecchi schemi nella mia testa richiedeva tempo e io avevo complicato le cose non essendo stata capace di chiedere aiuto.

Quando più tardi ci fu un’altra pausa nel lavoro di house-sitter, la prima cosa che feci fu chiamare gli amici a cui avevo pensato la mattina dei delfini. Mi accolsero nella loro stanza degli ospiti con amorevole gioia ed entusiasmo. riuscii di nuovo a far entrare la bontà. stavo ancora imparando come esprimere i miei sentimenti, ma ci stavo arrivando.

confidai a Jude come l’apertura fosse una curva di apprendi-mento per me, perché mi ero chiusa parecchio in passato. Quindi apprezzavo molto la sua opinione e l’occasione di parlarne con franchezza. “tutti noi abbiamo bisogno che ci vengano ricordate certe cose, Bronnie. ciascuno ha dentro di sé emozioni che de-vono essere comunicate, sia che gli altri vogliano stare a sentire o meno. dobbiamo esprimere i nostri sentimenti per poter cresce-re. farlo dà benefici a tutti, in un modo o nell’altro, anche se non è facile capirlo. la sincerità funziona sopra a ogni cosa.”

sorridendo guardai fuori le barche nel porto mentre la luna piena splendeva sull’acqua. era uno scenario bellissimo. Jude tor-nò a parlare del senso di colpa e di come abbiamo la possibilità

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di evitarlo esprimendo sinceramente i nostri sentimenti quando emergono. allora non è mai troppo tardi, soprattutto se una per-sona cara muore inaspettatamente. ci permette anche di liberarci dalle costrizioni, come facevamo da bambini. non dovremmo mai sentirci in colpa per aver espresso i nostri sentimenti e non dovremmo mai far sentire in colpa gli altri perché hanno trovato il coraggio di farlo.

dopo un paio di mesi, le sue condizioni si erano aggravate al punto che fu ricoverata in una casa di cura per malati terminali. l’agenzia aveva ripreso a darmi lavoro con regolarità e mi si era presentata l’occasione di badare a una casa per un periodo ragio-nevolmente lungo. andai a trovare Jude, lieta di poter fare due chiacchiere anche con edward e layla. seduta dall’altra parte del letto c’era una signora che non avevo mai visto prima, ma notai la somiglianza con Jude e non mi ci volle molto a capire che si trattava della madre.

edward aveva preso l’iniziativa da solo e aveva consegnato quella lettera a sua madre, prima che la sua amata morisse. ora non era più in grado di parlare, ma per fortuna aveva messo tutto per iscritto. Jude aveva detto alla madre che l’aveva amata e che ancora l’amava. scrisse dei ricordi felici che conservava caramente e delle cose positive che aveva imparato dal lei. la lettera non conteneva niente di negativo, visto che Jude odiava il senso di colpa e voleva che sua madre sapesse di essere amata, malgrado la tristezza del loro rapporto. la madre comparve inaspettatamente qualche giorno dopo ed era tornata sempre, tenendo la mano di sua figlia e restando a guardarla mentre si spegneva.

Baciai Jude sulla guancia dopo averle parlato per un po’ e le dissi il mio ultimo addio, ringraziandola per tutto: “ci vediamo quando arrivo lassù, Jude” dissi tra le lacrime con un sorriso. Mi rispose con un grugnito e i suoi occhi sorrisero, anche se la bocca non era più in grado di farlo.

edward e layla mi accompagnarono fino al chicco di riso te-nendomi per mano. piangevamo tutti. Ma l’amore fluiva tra noi

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in modo talmente spontaneo e sincero che le lacrime non aveva-no importanza. Mi raccontò che la mamma di Jude aveva parla-to un sacco alla figlia e le sue guance si erano rigate di lacrime, soprattutto quando aveva sentito dire alla madre che l’amava. e poi si era scusata con lei per essere stata così critica e giudicante. aveva ammesso di essere stata segretamente gelosa della figlia e del suo coraggio per aver ignorato le opinioni della società, cosa che a suo tempo l’aveva privata della vera felicità.

dopo aver abbracciato edward e layla dicendo addio, augurai loro il meglio nella vita a venire. pensai alla bella Jude sdraiata nella stanza con la madre seduta accanto a lei, e a quanto fosse potente la forza dell’amore. il cuore mi faceva male ma era anche pieno di gioia.

Un paio d’anni dopo ricevetti una e-mail di edward, una gradi-ta sorpresa. layla e la nonna avevano trascorso mesi felici insieme arrivando a conoscersi prima che l’anziana signora morisse. dice-va che da allora era stata una donna diversa e che a volte le ricor-dava la sua bella Jude. Quando la proprietà fu venduta, edward e layla decisero di lasciare la città e di trasferirsi in montagna vicino al padre, dove l’aria era più pulita. aveva conosciuto una donna circa un anno prima e layla adesso aveva una sorellina in arrivo.

la mia risposta conteneva i miei migliori auguri per tutti loro. ero contenta anche di condividere con lui le cose che ricordavo di Jude: il suo sorriso, la pazienza nei confronti della malattia, l’accettazione e la determinazione con cui voleva esprimere i pro-pri sentimenti. il senso di colpa è nocivo. per avere una vita felice è necessario esprimere le emozioni.

ricordo ancora quando sedevo accanto al suo letto, con la luna piena che splendeva sull’acqua, e lei determinata a farsi sen-tire finché la voce gliel’avrebbe permesso.

aveva detto ciò che riteneva importante e adesso conosco la gioia di comunicare i miei sentimenti, con la stessa sincerità con cui quel delfino aveva mostrato la sua gioia saltando fuori dall’acqua.

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doni nascosti

in occasione di alcuni turni temporanei nelle case di cura, avevo lavorato con clienti che soffrivano di alzheimer. nanci però era la mia prima cliente a domicilio con questa malattia. era

stata una donna cortese, madre di tre figli e nonna di dieci nipoti. il marito era ancora in vita, ma entrava raramente nella sua stanza. in effetti sarebbe stato facile dimenticarsi della sua esistenza in casa.

le tre sorelle e i due fratelli di nanci venivano a farle visita a turno, e all’inizio anche qualche amico, sebbene notassi che que-ste visite si diradavano nel tempo. Badare a nanci era un compito duro e faticoso. era inquieta e molto difficile da monitorare, dal momento che non voleva restare in un posto per più di un minu-to e spesso era preda della disperazione. per lei i momenti di pace erano pochi e distanti tra loro, e lo stesso valeva per me.

alla fine la sua angoscia divenne un problema per tutti, so-prattutto per la famiglia, e il dosaggio dei farmaci fu aumentato. così dormiva per buona parte del giorno. Quando era sveglia, le parole e le frasi che pronunciava non avevano senso, come succe-de spesso a chi è affetto da alzheimer. parti di una parola veniva-no combinate a quelle di altre. alle volte poteva sembrare quasi un dialetto riconoscibile, ma non aveva nulla di strutturato, for-male, coerente. comunque, trattavo nanci come facevo con tutti i miei clienti, con amore e gentilezza, parlandole mentre svolgevo il mio lavoro. c’erano momenti in cui si rendeva conto che ero nella stanza, altri invece in cui era a chilometri di distanza e avrei potuto avere dieci teste senza che se ne accorgesse.

di tanto in tanto le facevo la doccia, quando arrivavo alle otto di mattina, ma di solito era compito della badante che faceva il turno di notte. lavarla spettava a me se la notte era stata partico-larmente problematica e nanci dormiva al mio arrivo, cosa che andava benissimo. il più delle volte però, la doccia era in corso

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proprio quando sopraggiungevo alle otto. Qualche volta mi sorri-deva dalla sedia della doccia, mentre la badante di notte la lavava. Una di queste assistenti in particolare aveva metodi molto diversi dal resto di noi e insisteva nel dire che quello era il modo in cui si facevano le cose dalle sue parti.

il primo incidente avvenne in una gelida mattina d’inverno. appena arrivata, andai nella stanza di nanci e la trovai sul letto nuda, tremante di freddo e completamente scoperta. era stata appena lavata e mentre era in doccia l’intestino si era rilassato, lasciando andare una grossa pigna di escrementi sotto il sedile della doccia. non era certo una novità. succede spesso ai clienti quando restano sospesi nell’apertura del sedile, dal momento che il loro intestino lo scambia per un w.c. Questi sedili infatti veni-vano posizionati anche sopra i w.c., se i clienti avevano bisogno di una seduta più alta. Quindi non c’era affatto da sorprendersi se ciò accadeva durante la doccia.

nanci era una donna pudica e proveniva da una famiglia al-trettanto pudica. giacere lì nuda senza qualcosa per coprirsi era già abbastanza traumatico per lei, senza contare che stava treman-do di freddo e che aveva l’aspetto di una piccola, fragile bimba. nell’istante in cui entrai nella stanza e la vidi in quello stato, finii subito di asciugarla e la coprii con una calda coperta. trovai l’altra badante in bagno, intenta a pulire il disastro. non riuscii a tratte-nermi dal commentare l’accaduto, ma lo feci in modo diploma-tico, dicendo che avrei potuto pulire io dopo. la priorità doveva essere il comfort della cliente piuttosto che il pavimento del bagno lindo. la badante di notte rispose solo con una scrollata di spalle.

l’altro incidente si verificò qualche settimana dopo, quando mi capitò di arrivare in anticipo sovrapponendo il mio turno al suo. di solito non mi piace portare l’orologio ed evito di dipen-dere dagli orari se posso. Ma per non causarmi lo stress di fare tutto di corsa, se devo lavorare secondo una tabella di marcia rigorosa, tendo a prendermi del tempo in eccesso per arrivare sul posto. ciò mi permette di gustarmi maggiormente il tragitto,

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sia esso lungo o corto, e di essere più presente lungo la strada. in quella mattina in particolare però, il traffico era decisamente scorrevole e arrivai a casa di nanci prima del previsto.

in seguito all’incidente precedente, la badante di notte aveva preso l’abitudine di lavare nanci prima che arrivassi. Quindi non avevo occasione di vedere come si svolgesse la cosa. in verità an-davamo abbastanza d’accordo. era stato così anche in passato, dal momento che avevamo condiviso alcuni altri clienti e spesso ci eravamo incrociate ai cambi turno. la mancanza di empatia che avevo scorto in lei nei confronti di nanci e dei clienti precedenti però, rendeva difficile continuare a considerarla una professioni-sta dell’assistenza. Questa convinzione si rafforzò quando entrai in bagno per dare il buon giorno e trovai la povera piccola nanci sul sedile della doccia, tremante di freddo, completamente con-gelata e coi denti che battevano.

chiesi all’altra badante che cosa stesse succedendo e lei mi spiegò che dalle sue parti è così che fanno la doccia alle perso-ne. acqua gelata su tutto il corpo per un paio di minuti, seguita da un altro paio di minuti di piacevole acqua calda, poi ancora fredda e di nuovo calda, per finire sempre con un getto di acqua fredda. diceva che favoriva la circolazione del sangue, e forse era anche vero. non lo sapevo e non m’importava, sebbene ricono-scessi che nuotare nell’acqua fredda spesso mi aveva rinvigorita.

il problema era che ci trovavamo in pieno inverno. il vento fuori ululava, le finestre tremavano e anche in casa era necessa-rio portare qualche strato di vestiti. Questa esile signora era così malata che stava per morire. non le serviva a molto rinvigorirsi per correre attorno all’isolato. nanci era troppo fragile per fare qualsiasi cosa e aveva bisogno solo di stare comoda e al caldo. il nostro lavoro consisteva nell’assistere al suo benessere, che com-prendeva anche la comodità, e che non significava certo tenerla seduta al freddo nella doccia, con lo sguardo terrorizzato e i denti che battevano. secondo il mio parere, quella povera creatura ave-va bisogno solo di essere accudita e curata con amore.

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non sono mai stata un tipo aggressivo, ma posso tirare fuori la grinta se necessario. ciò che innesca la mia aggressività è l’in-giustizia o la crudeltà. parlai con gentilezza ma in modo schietto all’altra badante, che capì l’antifona e acconsentì a usare solo ac-qua calda per il resto della doccia.

i giorni si susseguivano l’uno all’altro in una serie di routine. la badante di notte partì per le vacanze e non sarebbe tornata per un po’. in passato avevo incontrato spesso l’assistente che la so-stituiva, linda. era sempre rigenerante venire dopo un suo turno perché era una persona piacevole con cui chiacchierare e aveva un grande etica del lavoro. sollevata per la nostra cliente, inviai all’universo una preghiera di ringraziamento.

nanci continuava a parlare in modo incoerente come sempre. Quando stava fuori dal letto, era inquieta e agitata la maggior parte del tempo. tuttavia per via dell’aumento del dosaggio dei farmaci, questi momenti non duravano a lungo. le spondine del letto avrebbero dovuto essere sempre alzate, ma se la situazione era tranquilla, le abbassavo per eliminare la barriera che ci sepa-rava. a volte, reagiva bene ad alcune coccole, come quando le spalmavo la crema sulle gambe. anche nei momenti più calmi, se parlava, il suo linguaggio era quello che solo i malati di alzhei-mer possono comprendere. non c’era una struttura ravvisabile in quello che diceva, solo sillabe mormorate prive di significato. comunicava così già da mesi quando iniziai a lavorare con lei.

dopo averla aiutata ad andare al bagno un giorno, tornò stra-scicando verso il letto tenendomi per mano. avevo il tubetto di non so cosa nell’altra e mi scivolò a terra; risi mentre mi piega-vo per raccoglierlo. trattavo sempre nanci come avrei fatto con qualsiasi altro cliente, anche se con la testa era a chilometri di distanza. così mi tirai su, continuando a parlarle e a ridere. poi, chiaro come il sole, guardandomi dritto negli occhi, mi disse: “sei proprio adorabile.”

sul viso mi si stampò un enorme sorriso e restammo a sor-riderci per qualche secondo. avevo davanti una donna comple-

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tamente sana e presente. in quell’istante sapeva benissimo cosa stesse accadendo. così risposi di cuore: “anche tu, nanci.” il suo sorriso si allargò ancora di più e ci abbracciammo, dopodiché ci sorridemmo nuovamente. fu bellissimo.

il suo equilibrio non era granché, così continuammo a strasci-care verso il letto tenendoci per mano. Mentre la facevo sdraiare sul fianco e mi piegavo per sollevarle le gambe, se ne uscì fuori con una frase confusa nella lingua dell’alzheimer, una cosa che non c’era speranza di poter intendere. se n’era andata di nuovo, ma era stata lì con me per un po’, lucida come non mai.

nessuno potrà convincermi del contrario. i malati di alzhei-mer possono anche non sapere cosa succede per la maggior parte del tempo, ma il fatto che non riescano a esprimere chiaramente i loro pensieri e spesso siano molto confusi non significa che non assorbano qualcosa di ciò che accade. esserne stata testimone ha cambiato il mio modo di considerare la malattia e gli altri.

Qualche settimana dopo raccontai il fatto a linda, l’altra ba-dante, che fu d’accordo nel dire che si era trattato di una cosa spe-ciale. poco tempo dopo, anche lei assistette a un altro momento di lucidità da parte di nanci, anche se forse non così toccante. faceva parte dei compiti del suo turno di notte girarla ogni quattro ore per evitare la formazione delle piaghe da decubito. spesso nanci era profondamente addormentata ma doveva essere fatto comunque, ordine del medico. tuttavia, quella notte in particolare, quando linda fece per cambiarle posizione alle quattro di mattina, nanci le disse distintamente e con fermezza: “non osare muovermi.”

“non preoccuparti” aveva risposto linda sorpresa. “sogni d’oro.” stupita, era tornata a dormire.

i familiari sopraggiungevano a darmi il cambio per una mezz’ora ogni giorno. i turni erano lunghi ed estenuanti, e io accoglievo con gioia la pausa. la casa di nanci si trovava in un sobborgo marittimo, così me ne andavo dritta giù per la collina e stavo su una piattaforma naturale a guardare il mare. gli scogli erano parzialmente coperti di cirripedi e pozzanghere di acqua marina, ma c’era spazio a sufficienza

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per camminare, e riuscivo a raggiungere il bordo della piattaforma in sicurezza. Mi riempivo i polmoni dell’aria dell’oceano, godendo della fresca brezza e della vastità della distesa d’acqua. di tanto in tanto c’era anche un’altra persona lontano tra le rocce. suonava il sassofo-no. era magico osservare e sentire le note perfette fluire insieme al ritmo dell’oceano. restavo lì incantata, assorbendole il più possibile prima di incamminarmi riluttante su per la collina. Quella musica non mancava mai di sostenermi per il resto del turno.

ovviamente lo raccontavo a nanci, anche se era del tutto per-sa in un altro mondo. non mi dava fastidio. il mio intento era quello di tenere insieme il suo universo e di stimolarlo se potevo, conversando di ciò che avveniva fuori. il suo mondo infatti si limitava alla camera da letto, al bagno e al soggiorno.

per un paio di mesi le parlai del sassofonista, senza che lei esprimesse alcun segno di interesse. poi un giorno, quando tor-nai estasiata cercando di descriverle la melodia che aveva suonato (come se si potesse descrivere la musica con le parole!), nanci mi guardò negli occhi e sorrise. Mentre riponevo alcune cose lavate, qualche minuto dopo, la sentii canticchiare un motivetto. di so-lito questo era il momento della giornata in cui era più inquieta, ma invece andò avanti a canticchiare per un sacco di tempo. tut-tavia, smise con la stessa velocità con cui aveva cominciato, e fu di nuovo lontana anni luce, pronunciando parole incomprensibili.

Questi sprazzi di lucidità erano la ricompensa per aver conti-nuato a parlarle, a prescindere dal fatto che non ricevessi le rispo-ste che mi sarebbero piaciute. non devi pentirti di aver cercato di esprimerti solo perché qualcuno non ti risponde come vorresti.

la reazione degli altri dipende da loro, così come della nostra non possiamo ritenere responsabili gli altri. Mentre i muri attor-no a me venivano erosi mattone per mattone, avevo sempre più il bisogno di comunicare. farlo divenne sempre più importante, o meno, per certi versi, perché cominciavo a dare meno peso a come venivo considerata. alla fine, suppongo che tutto dipendes-se da come mi percepivo io. da quel momento in avanti volevo

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essere coraggiosa e sincera, a prescindere. imparare ad aprirmi aveva significato anche iniziare a stare bene, molto bene.

tuttavia sapevo anche che tutti quei cambiamenti positivi non avrebbero portato automaticamente le altre persone della mia vita ad accogliere favorevolmente la cosa. sorsero nuovi schemi che mi affrancarono dal passato, donandomi nuova forza. non sempre gli altri accettavano positivamente tutto questo, ma io dovevo essere ciò che ero diventata e non quello che la gente si aspettava da me. dentro di me era nata una persona diversa che voleva uscire allo scoperto e condividere la sua nuova identità.

con un’amica in particolare stavo vivendo un momento di forte squilibrio e la cosa durava già da qualche anno. ovviamente rappresentava una lezione sui confini per me, e stavo imparando il suo significato. poi, grazie a tutti i cambiamenti che erano avve-nuti dentro di me, compresa la soddisfazione di poter esprimermi con sincerità, arrivai al punto in cui manifestai il bisogno di dire cosa provavo. così spiegai con franchezza cosa pensavo, nella spe-ranza che la mia amica avrebbe capito. non era un attacco contro di lei, volevo soltanto condividere quello che sentivo, facendole notare che si aspettava che fossi io a fare tutti gli sforzi per veder-ci: di qui nasceva lo squilibrio che avvertivo tra noi.

eravamo amiche da tantissimo tempo e sentivo che la sincerità ci avrebbe fatto superare quel momento. in verità la sua reazione servì a mostrarmi come a tenerci ancora unite fosse solo la nostra storia con-divisa e l’abitudine. la mia amica mi si scagliò contro con una rabbia che non sapevo avesse. erano la paura e il dolore ad aver innescato quella reazione in lei. lo capivo, ma il livello di rabbia che mi investì fu devastante. Mi resi conto di non conoscere affatto quella persona. c’era della cattiveria in lei che non avevo mai scorto né sospettato. così quando in seguito recise completamente il nostro legame accet-tai la sua decisione serenamente. era tempo di andare avanti.

a ogni modo, continuavo a pensare alla nostra amicizia come a un bel dono per gli anni in cui aveva resistito ed è ancora così. alla fine, restano solo i ricordi felici, ma lasciare andare quel rapporto

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fu piuttosto indolore, perché non aveva senso mantenere un le-game che non si basava sulla sincerità e sull’equilibrio. nessuno è perfetto, me compresa. anche io ho contribuito al fallimento della nostra amicizia, consapevolmente o meno, ma una relazione in cui non esprimi te stesso per mantenere il quieto vivere è un rapporto dominato da una sola persona, e non sarà mai equilibrato o sano.

d’altro canto invece, la sincerità rafforzò un’altra amicizia anni dopo. la mia vita stava cambiando parecchio. così di tanto in tan-to chiamavo qualcuno che mi conosceva bene per confrontarmi, ma questa amica raramente era disponibile, a meno che non fosse lei ad avere bisogno di me. tutto questo raggiunse il culmine un giorno quando ormai stanca della situazione, le espressi con grande franchezza quanto avessi bisogno di appoggiarmi su di lei per un po’. Quel momento di sincerità ci fece avvicinare dieci volte tanto e tra noi sbocciò una bellissima conversazione. anche lei mi aprì il suo cuore e la nostra amicizia beneficiò del rispetto reciproco e della maturità emotiva che avevamo raggiunto. alla fine non era il tipo di persona su cui si potesse fare affidamento al cento per cento e siamo giunte entrambe a riconoscerlo e ad accettarlo.

giunsi a contare di più sulle mie forze e ad appoggiarmi sugli amici di vecchia data. sebbene ciò mi avesse affrancata dal bisogno di quel rapporto, la mia amica dovette anche adattarsi al fatto che non fossi sempre disponibile per lei. non potevo essere sempre abbastanza forte, né sentivo il bisogno di interpretare quel ruo-lo. l’accettazione delle reciproche debolezze e il coraggio di essere sincere l’una con l’altra ci fece avvicinare ancora di più su molti livelli. oggi la nostra amicizia è priva di pressioni da entrambe le parti. È un rapporto maturo, sincero e sempre divertente.

non ci frequentiamo spesso come prima e le nostre vite non sono più intrecciate come un tempo. tutte le relazioni passano attraverso dei cambiamenti, anche le amicizie. siamo sincere e ac-cettiamo vicendevolmente ciò che siamo, non quello che vogliamo che l’altra sia. Quando riusciamo a vederci, assaporiamo entrambe il dono del tempo e della comprensione che ci è stato concesso.

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Quindi, malgrado comunicare i sentimenti possa comportare un prezzo da pagare, come accadde con la prima amicizia, so che tutte le relazioni rimaste nella mia vita sono maturate dal punto di vista dell’onestà e della qualità. oggi esprimere chi sono è una delle mie forze motrici fondamentali. essere sinceri e aprirsi di-venta sempre più facile con il tempo. ci vuole un po’ per arrivare a questo punto, ma è immensamente liberatorio. inoltre mi per-mette di riconoscere la fatica che ci mettono gli altri per cercare di ottenere lo stesso risultato. Quando vedo le ricompense che derivano dall’esprimersi sinceramente, posso solo sperare che an-che gli altri, un giorno, trovino questa dimensione dentro di loro.

la breve risposta di nanci, nel bel mezzo del linguaggio scon-clusionato che la contraddistingueva, è stato uno dei momenti più belli vissuti con lei. se non mi fossi aperta per prima, senza aspet-tarmi una reazione, non avrei mai ricevuto una simile ricompensa.

dare per scontato che gli altri sappiano come ti senti o che ti staranno sempre accanto comporta un rischio molto alto, perché in verità potrebbero non esserci più l’indomani. e lo stesso vale per ciascuno di noi. Quando si danno le persone per scontate si paga un caro prezzo. non tutti i giorni sono felici. ognuno di noi cresce e si evolve e capita di vivere giornate negative, ma ci sono anche bei pensieri da condividere. ecco perché è importantissimo esprimere i propri sentimenti in modo sincero e ascoltare gli altri. È fin troppo facile essere irretiti dal proprio piccolo mondo e dimenticarsene.

c’è una canzone di un famoso e amato cantautore australiano, Mick Thomas, che esprime alla perfezione questo concetto. parla di un ragazzo che resta intrappolato nella vita al punto da non ac-corgersi neppure che la sua donna ha cambiato colore dei capelli o altre caratteristiche. il messaggio e il verso chiave della canzone è questo: “si è dimenticato che era bella.”

sebbene la canzone racconti di un uomo che dà la sua donna per scontata, può essere applicata a chiunque nella nostra vita. anche le donne fanno lo stesso con i loro uomini, quando smet-tono di vedere la bellezza interiore o esteriore. spesso dimentica-

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no che un uomo mostra il suo amore in modi diversi, per esem-pio attraverso le azioni. i figli danno per scontati i loro genitori e i genitori a volte fanno lo stesso con i figli. amici, cugini, fratelli, sorelle, colleghi, nonni e membri della comunità vengono dati tutti per scontati.

È facile focalizzarci su ciò che non ci piace di una persona, ma ciò non è altro che un riflesso parziale di noi stessi. spesso però non riconosciamo apertamente neanche le cose che amiamo degli altri. È vero, ci vuole coraggio a volte per parlare sinceramente e non possiamo controllare la reazione di coloro con cui ci apriamo. dobbiamo essere sensibili anche nei confronti delle loro esigenze.

Ho scoperto che la sincerità viene sempre premiata, magari non nel modo che potremmo aspettarci. la ricompensa potrebbe mani-festarsi sotto forma di rispetto di sé, della mancanza di senso di col-pa dopo che una persona cara ci ha lasciati, di relazioni più ricche, dell’affrancamento da relazioni malsane e così via. il punto focale è che avendo il coraggio di esprimere i tuoi sentimenti, doni qualcosa a te stesso e agli altri. Quanto più a lungo posticipi la manifestazione di ciò che hai dentro, tanto più a lungo ne porterai il peso.

nanci non disse più nulla di comprensibile, ma poco impor-tava. la felicità che avevo ricevuto quel giorno fu una ricompensa più che sufficiente. anche il nipote notò in lei un momento di lucidità mentre le stava cantando una canzone, un pomeriggio. nanci non parlò, ma lo guardò negli occhi e gli sorrise affettuo-samente, non nel modo tipico dei malati di alzaheimer, ma come una nonna che sorride piena di orgoglio a suo nipote, in pace per aver scelto di esprimersi attraverso il canto.

non conosciamo i doni che ci arriveranno finché non li abbia-mo davanti, ma di una cosa sono sicura. il coraggio e la sincerità vengono sempre ricompensati.

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riMpianto 4:

Vorrei essere riMasto in contatto

con i Miei aMici

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di tanto in tanto, tra un cliente privato e l’altro, facevo anche dei turni nelle case di cura. per fortuna non capitava spesso perché trovavo questi posti terribili.

spesso si trattava di persone che avevano semplicemente bisogno d’aiuto, non di malati terminali, e a volte venivo chiamata come membro aggiuntivo di uno staff preesistente, piuttosto che per badare a un cliente in particolare.

se uno vuole vivere negando lo stato in cui si trova la nostra società, eviti di andare nelle case di cura. se invece ti senti forte abbastanza da guardare la vita con onestà, passaci del tempo: ci sono un sacco di persone sole là dentro, tantissime. ognuno di noi potrebbe diventare uno di quei pazienti prima o poi.

i contatti con il personale in queste occasioni sono stati sia devastanti che stimolanti. alcune delle persone con cui mi è ca-pitato di lavorare nel corso degli anni sono state meravigliose e di gran cuore, professionisti che con ogni evidenza lavoravano nell’ambito giusto. i loro spiriti erano luminosi, i loro cuori buo-ni. Una fortuna per i loro pazienti! Ma dal momento che spesso le case di cura erano a corto di personale, erano costantemente sotto pressione nel diffondere il loro buon umore.

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d’altro canto c’erano quelli che si erano stufati del lavoro, che si erano lasciati abbattere, o che non avevano mai provato entu-siasmo nel farlo. l’empatia può fare molto nella vita, ma mancava del tutto nella squadra con la quale mi ritrovai a lavorare la notte che conobbi doris.

i pazienti si strascicavano fin nella sala da pranzo comune sui loro bastoni da passeggio o appoggiati ai deambulatori. erano persone relativamente benestanti, dal momento che si trattava di una casa di cura privata, cosiddetta “di lusso”. l’arredamento era gradevole, i giardini ben curati, le aree comuni pulite. Ma i pasti erano terribili. era tutto cibo precotto e riscaldato al microonde, senza sapore né profumo invitante. non c’era niente di nutriente né di fresco nelle pietanze che servivano là dentro. i pazienti face-vano le loro ordinazioni alla fine della settimana precedente e di solito veniva fatto scivolare di fronte a loro un piatto di qualcosa, senza una parola né gesto di cortesia da parte del personale.

Quando vedevano il mio viso sorridente, mi tenevano la mano per farmi restare seduta al tavolo a chiacchierare. erano persone normali, dalla mente lucida e amavano le interazioni sociali. i loro corpi stavano invecchiando e indebolendosi, ma niente di più. Un anno o due prima queste stesse persone amabili e affasci-nanti avevano vissuto in modo indipendente. Quando tornavo in cucina per prendere un altro vassoio di piatti, mi toccava sempre qualche rimprovero da parte del personale. non avevo fatto altro che scambiare due parole e ridere con qualcuno degli ospiti men-tre facevo il giro, ma la cosa era vista con disapprovazione. anche quella volta feci finta di niente.

riportando un piatto di agnello, dissi alla responsabile del perso-nale in modo amichevole: “Bernie ha ordinato pollo, non agnello.”

lei rise tra i denti e rispose: “Veda di mangiarsi quel cavolo che c’è senza fare storie!”.

“avanti” dissi, senza lasciarmi intimidire dall’assurdità di quel che stava dicendo. “sono certa che possiamo dargli un piatto di pollo.”

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“o si mangia l’agnello o muore di fame” seguitò acida. la guardai con compassione per la sua evidente infelicità, ma senza alcun rispetto per il modo in cui gestiva il suo ruolo.

Un membro dello staff, una donna affettuosa, mi accompagnò mentre tornavo da Bernie con l’agnello. “non preoccuparti di lei, Bronnie. È sempre così” disse rebecca.

sorrisi, lieta del suo cuore sincero. “non mi preoccupa affatto. Ma mi stanno a cuore gli ospiti, che devono vivere con questo trattamento giorno dopo giorno.”

rebecca concordò: “all’inizio, quando ho cominciato a lavorare qui, mi condizionava parecchio. Ma adesso faccio quel che posso per dare loro il trattamento più cortese possibile, entro i miei limiti.”

“Brava” risposi con un sorriso.Mi diede una pacca sulla spalla e si allontanò. “ce ne sono

alcuni di noi a cui importa, non è abbastanza, ma qualcuno c’è.”dopo che i pasti venivano serviti e consumati, e la cucina era

stata pulita, alcuni membri dello staff uscivano a fumare. altri re-stavano dentro e chiacchieravano con i pazienti, e io ero tra loro. era piacevole perché una decina di persone si radunava insieme a noi per farsi due risate in compagnia. i loro spiriti arguti e allegri erano una vera sorpresa, e mi stupivo della flessibilità di queste persone che si erano adatte così bene alla nuova condizione.

ciascun ospite aveva la propria camera con bagno privato. Quando facevo il giro notturno per aiutarli a prepararsi per an-dare a letto, ogni stanza rivelava un po’ della personalità del suo occupante. foto dei parenti sorridenti, quadri, centrini all’unci-netto e tazze da tè preferite punteggiavano ogni stanza. c’erano anche balconi con delle piante.

doris indossava già la sua camicia da notte rosa quando entrai allegramente presentandomi. Ma lei sorrise e basta, voltando lo sguardo altrove. Mi chiesi se fosse tutto ok e fui travolta da un mare di lacrime. Mi sedetti immediatamente sul letto accanto a lei e la strinsi tra le braccia. non disse niente tra i singhiozzi, ma si aggrappava a me disperatamente. pregai di avere la forza e aspettai.

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il flusso di lacrime si interruppe repentinamente così come era cominciato e lei tirò fuori il suo fazzoletto. “oh che sciocca che sono” disse asciugandosi gli occhi. “perdonami, tesoro. sono solo una stupida vecchia.”

“cosa c’è che non va?” le chiesi cortesemente.doris sospirò e poi mi confidò che si trovava lì da quattro mesi

e raramente aveva visto una faccia allegra. disse che il mio sorriso le aveva cavato fuori le lacrime che aveva dentro, cosa che per poco non fece venire voglia di piangere anche me. la sua unica figlia viveva in giappone e sebbene si sentissero spesso, non erano più molto vicine.

“Quando diventi mamma e allatti il tuo bambino, non pensi mai che qualcosa un giorno potrà privarti di quella vicinanza. Ma invece è così. È la vita a farlo. non con una lite, bada. solo con i suoi intrecci” raccontò. “adesso lei ha la sua vita, e negli anni ho imparato che bisogna lasciare andare. l’ho messa al mondo, ma non possediamo i nostri figli. abbiamo la fortuna di guidarli finché non sono in grado di volare da soli ed è proprio quello che sta facendo ora.”

Mi affezionai subito a questa cara signora e le promisi di ri-tornare nel giro di mezz’ora per una chiacchierata più lunga, se fosse riuscita a stare sveglia intanto che finivo il turno. disse che le sarebbe piaciuto infinitamente.

così più tardi, doris sedeva nel letto chiacchierando e io l’ascoltavo sulla sedia accanto a lei. per tutto il tempo mi tenne la mano, giochicchiando di tanto in tanto con le dita o con l’anello che portavo, senza accorgersi di farlo. “sono morta di solitudine qui dentro, cara. avevo sentito che poteva succedere, e infatti è stato così. la solitudine può veramente ucciderti. a volte sono af-famata di un contatto umano” disse tristemente. il mio abbraccio era stato il primo in quattro mesi.

non voleva opprimermi con la sua storia, ma io insistetti. ero sinceramente interessata a conoscerla, così proseguì. “la cosa che mi manca più di tutte sono le mie amicizie. alcuni sono morti.

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altri sono in situazioni come la mia. con altri ancora ho perso i contatti. Vorrei non averlo fatto. pensi che gli amici ci saranno sempre. Ma la vita va avanti e improvvisamente ti ritrovi senza più nessuno al mondo che ti capisca o che sappia qualcosa della tua storia.” Mi offrii di aiutarla a rintracciare alcuni di loro. scos-se la testa dicendo: “non saprei da dove cominciare.”

“posso aiutarti” proposi mentre continuai spiegandole di internet. era arabo per lei ma fino a un certo punto mi seguì. all’inizio declinò la mia offerta, preoccupata di farmi perdere tempo. alla fine però la convinsi che mi avrebbe fatto piacere darle una mano. adoravo mettere a frutto le mie doti investigati-ve. durante gli anni in cui avevo lavorato in banca, per un breve periodo mi ero occupata di frodi e falsificazioni e mi era piaciuto tantissimo. rise del paragone. “ti prego, dimmi di sì” le chiesi. così acconsentì con un sorriso malinconico carico di speranza.

Volevo aiutarla per alcune ragioni. Mi era piaciuta subito fin dal primo momento e potevo farlo. avevo le capacità per cercare di ritrovare le sue amiche, e mi sarebbe piaciuto riuscirci perché sapevo come si sentiva. avevo provato anch’io il dolore strisciante della solitudine e il desiderio di comprensione.

in precedenza, il dolore del passato mi aveva esaurito a tal punto che mi ero rinchiusa parecchio in me stessa. È una delle convinzioni fallaci che tante persone alimentano, ovvero che te-nendo fuori gli altri, eviti di soffrire. eviti di essere ferito ancor di più. se nessuno può avvicinarti, allora nessuno può farti del male. ovviamente, l’unico vero modo per guarire è lasciare che l’amore fluisca dentro di te, non bloccarlo fuori, ma arrivare a questo punto può richiedere un bel po’ di tempo.

in superficie ero una persona amichevole con chi incontravo, ma la sofferenza che mi portavo dentro a causa del passato mi sof-focava. a quel punto provavo compassione per chi aveva gettato la propria negatività sul mio cammino. non era quello il proble-ma. erano i pensieri che facevo su di me che col tempo dovevano essere trasformati. stavo smantellando decenni di pensiero nega-

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tivo e a volte il dolore era insopportabile. sebbene a livello razio-nale sapessi che valevo più di quanto fossi stata indotta a credere, a livello emotivo la guarigione era ancora lontana.

“sunday morning coming down” divenne la mia canzone ma-nifesto. avevo sempre amato la musica di Kris Kristofferson ed ero stata influenzata da lui nella scrittura dei miei pezzi. trovavo che quella canzone esprimesse benissimo la mia solitudine. le domeniche erano sempre le giornate peggiori. anche lucinda Williams ha scritto un bel pezzo su questo argomento, che dice “mi sembra di non potercela fare a superare le domeniche”.

tuttavia non si trattava solo delle domeniche. la solitudine ti lascia nel cuore un tale vuoto capace di ucciderti fisicamente. il dolore è insopportabile e quanto più è duratura, maggiore è la disperazione. in quegli anni avevo percorso migliaia di chilometri per le strade delle città, in campagna, ovunque. la solitudine non è la mancanza di compagnia, ma di comprensione e accettazione. Un numero enorme di persone nel mondo ha conosciuto la so-litudine in stanze affollate. infatti, sentirsi soli in luoghi pieni di gente spesso enfatizza ed esacerba la solitudine.

non importa quante persone ci siano attorno a te. se nessu-no è disposto a capirti o ad accettarti per come sei, la solitudine può mostrare molto in fretta la sua essenza dolorosa. È molto diverso essere per conto proprio, come mi è piacevolmente ac-caduto spesso in passato. starsene da solo può significare che ti senti abbandonato o che sei felice. la solitudine esprime il desi-derio di avere accanto qualcuno che ti capisca. a volte starsene per conto proprio e sentirsi soli sono collegati, ma molto spesso non è così.

a volte ho pensato al suicidio quando la solitudine diventava insopportabile e il dolore nel mio cuore così costante. ovviamen-te non volevo affatto morire. desideravo vivere. Ma comprendere il mio stesso valore, non quello che gli altri mi attribuivano, e liberarmi dal dolore, a volte richiedeva una forza incredibile. per-mettere all’amore e alla felicità di scorrere ancora nella mia vita,

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persino accettare di meritarli, era così difficile che la possibilità del suicidio sembrava molto più allettante.

proprio quando il dolore e la solitudine si fecero troppo gran-di da sopportare, quando raggiunsi il limite estremo della sof-ferenza, le mie preghiere furono ascoltate attraverso un atto di bontà e comprensione. Un amico mi chiamò con un tempismo perfetto. sapeva che stavo affrontando un momento difficile ma non aveva idea che proprio in quell’istante, tra lacrime lente e strazianti, stessi scrivendo la mia lettera di addio. ero pronta ad andarmene. non ce la facevo più a vivere con quella costante sofferenza nel cuore.

Mi chiese di non dire una parola, ma di ascoltarlo. così, sfi-nita dal pianto, accettai riluttante. al telefono, iniziò a cantare “starry, starry night” il ritornello della canzone di don Mclean, “Vincent”, sostituendo il nome di Vincent con il mio, Bronnie. le lacrime ripresero a cadere copiose perché mi ritrovavo per-fettamente in quel brano, nella tragedia e nel dolore, nella dol-ce melodia che raccontava le sofferenze di Vincent Van gogh. Quando finì continuai a singhiozzare. non c’era nient’altro che potessi fare. restò pazientemente in silenzio, poi lo ringraziai e riagganciai tra le lacrime. non riuscii a dire altro.

Quella notte mi addormentai completamente prosciugata ed emotivamente esausta. però sapevo che attraverso la comprensio-ne e le belle intenzioni del mio amico, si era riaccesa in me una fioca luce di speranza. la sera successiva un amico dall’inghilterra mi chiamò improvvisamente. parlammo a lungo e con franchez-za, e iniziai lentamente a recuperare le forze.

poco tempo dopo, durante quegli anni solitari, in un’altra oc-casione molto difficile, mi ritrovai a supplicare e a pregare per un aiuto, cercando di essere forte. stavo guidando per la città quan-do colpii un uccello. era di discrete dimensioni perciò il rumore sul parabrezza fu tale da risvegliarmi. ovviamente, amando gli animali, l’incidente mi fece stare malissimo, ma fu un ottimo campanello d’allarme. la vita può finire in un attimo, proprio

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come era accaduto a quell’uccello, e io volevo davvero che la mia fosse così?

ringraziai quell’esserino per il ruolo che aveva giocato nella mia evoluzione e continuai a guidare con maggior consapevolez-za. proprio allora trasmisero un classico alla radio, sollevandomi in una dimensione meravigliosa. la musica dolce alleviò il mio dolore, cancellando con tenerezza il male al cuore. Mi fu dona-to un bellissimo momento denso di ispirazione mentre la musica si diffondeva attorno a me. così decisi che la vita doveva essere composta di tanti momenti di purezza. nient’altro. Momenti me-ravigliosi. e volevo viverli, provarli e riconoscerne ancora di più.

avendo sperimentato personalmente questo livello di tristezza e solitudine, sapevo che il dolore di doris era reale e concreto per lei. aveva compagnia solo ai pasti e qui e là durante la giornata. Ma le mancava la comprensione e l’accettazione, aveva nostalgia delle sue amiche, perché erano le persone che la capivano davvero. se potevo aiutarla ad alleviare il suo dolore, perché non avrei dovuto farlo?

la settimana seguente entrai da lei e trovai una lista di nomi ad attendermi sul grazioso scrittoio della sua camera. doris mi disse tutto quello che poteva delle quattro amiche che voleva rin-tracciare e dove vivevano quando le aveva sentite l’ultima volta. Bevemmo del tè insieme mentre mi raccontava le loro storie.

fu facile rintracciare una delle donne, ma aveva avuto un ictus e non poteva più parlare. alla notizia, doris dettò un breve mes-saggio che il figlio dell’amica avrebbe potuto leggerle. sebbene fosse triste di sentire che era malata, la rasserenava sapere che per lo meno avrebbe potuto riceverlo.

Cara Elsie, mi spiace sapere che non stai bene . Sono passati tanti anni . Alison vive ancora in Giappone . Ho venduto la casa e mi sono trasferita in una casa di riposo . Una signorina sta scrivendo per me . Ti voglio bene, Elsie .

Con affetto, Doris

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era semplice, ma diceva tutto quello che voleva comunicarle. telefonai al figlio di elsie quella sera e gli trasmisi il messaggio. Mi richiamò più tardi per dirmi di come sua madre avesse sorriso trasognata. lo raccontai a doris e un sorriso di soddisfazione le si stampò sul viso.

nel corso delle settimane successive, riuscii a scoprire qualcosa di altre sue due amiche, ma purtroppo erano decedute entrambe. doris annuì accettando la cosa. sospirando disse: “Be’, dovevo aspettarmelo cara.”

la pressione di rintracciare l’ultima amica mi fece diventare mol-to determinata. setacciai internet e feci tantissime telefonate, ma le cose non sembravano mettersi per il meglio. le persone erano cor-tesi e disponibili quando chiamavo ma “Mi spiace il nome è giusto ma non sono la persona che cerca” divenne un ritornello familiare.

allo stesso tempo, andavo a trovare doris due volte la setti-mana. Mi teneva sempre per mano quando mi sedevo, per tut-ta la durata della nostra conversazione. a volte, adducendo che avevo senz’altro di meglio da fare, cercava di spingermi fuori o di convincermi a non tornare. Quando la rassicuravo che mi faceva piacere stare con lei, che poi era la verità, il suo viso si distendeva sollevato e non vedeva l’ora della prossima visita. le persone an-ziane hanno molte cose da insegnarci, portano con sé tantissima storia. come avrei potuto non godere delle nostre piacevoli con-versazioni? erano appassionanti.

finalmente ci fu una svolta nelle ricerche dell’ultima amica di doris. ricevetti una telefonata da parte di un anziano signore che diceva di essere stato vicino di casa di lorraine. Mi spiegò in quale sobborgo si fosse trasferita la famiglia e riuscii a rintrac-ciarla. fu proprio lei a rispondere al telefono, con la sua voce di donna anziana ma amichevole. Mi presentai e le spiegai il perché di quella telefonata, ansimò di gioia e accettò di cuore di dare a doris il suo numero.

ovviamente corsi a dirglielo. abbracciandola mentre sogghi-gnavo, le passai il pezzo di carta con su scritto il nome di lorraine

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e il suo numero di telefono. Mi afferrò di nuovo e mi strinse a sé piena di eccitazione. fu un bel momento. Mi indicò di prenderle il telefono e di sbrigarmi! prima che componesse il numero, le dissi che l’avrei lasciata alla sua telefonata. protestò timidamente e capii che non le dispiaceva se restavo. era troppo eccitata. così mi fermai. ci scambiammo un caldo e affettuoso abbraccio pri-ma che componessi il numero di lorraine per lei. il mio cuore batteva rapido per l’eccitazione.

Mentre teneva il ricevitore, il viso di doris si accese di gio-ia al suono della voce della sua amica. sebbene anche la voce di doris fosse anziana, e per quanto sapessi che anche quella di lorraine lo era, lo spirito della telefonata fu come quello di due giovani donne. si misero subito a ridere e a chiacchierare senza sosta. riordinai un po’ la stanza, lavoricchiando qui e lì, incapace di allontanarmi da questa grande felicità. alla fine però me ne andai. dalla porta, la salutai con la mano. doris era raggiante. smise di parlare per un attimo, chiedendo a lorraine di aspettare e mi disse: “grazie, cara. grazie.” annuii sorridendo così tanto che mi faceva male la faccia. Mentre percorrevo il corridoio verso l’uscita, riuscii a cogliere ancora le risa di doris finché la porta non si chiuse completamente. continuai a sorridere per tutto il tragitto di casa.

era stata una giornata grandiosa e mi meritavo una nuotata. l’eccitazione mi accompagnò mentre mi godevo il fluire dell’ac-qua attorno a me, immergendomi e nuotando per un paio d’ore. a casa, appena dopo il tramonto, ricevetti una chiamata di re-becca, la dolce operatrice dello staff che avevo conosciuto la notte che avevo lavorato lì quando avevo visto doris per la prima volta.

la cara doris era spirata più tardi quel pomeriggio, nel sonno. lacrime di tristezza solcarono il mio viso, ma c’era anche gioia. dopo tutto era morta felice, cara signora.

È sorprendente come possa bastare poco tempo per cambiare la vita di una persona. se confronto la donna sola che conobbi quella prima notte con quella che ho abbracciato per salutarla il

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suo ultimo giorno, penso che la soddisfazione provata allora non potrebbe essere sostituita con nessuna somma di denaro.

ci sono migliaia di persone meravigliose e sole nelle case di riposo sparse per il mondo. ci sono anche tanti giovani che oggi vivono confinati in questi centri. a prescindere dalla loro età, un paio d’ore alla settimana con un nuovo amico può fare la differenza per loro e per il capitolo finale della loro esistenza. ov-viamente sarebbe meglio evitare di tenere le persone nelle case di cura, ma purtroppo ciò non è sempre possibile. Molte di loro in verità non dovrebbero trovarsi lì, e vi vengono confinate da chi vuole sbarazzarsene, in un certo senso.

È terribile esserne testimoni. regalare un po’ di tempo a que-ste persone però può cambiare immensamente le loro vite.

credo che il tempismo della dipartita di doris sia stato perfet-to. semplicemente, era il suo momento di andare ed era riuscita a conquistare un attimo di felicità prima di farlo. abbiamo gio-cato entrambe il ruolo che ci spettava nella vita dell’altra e sarò per sempre grata di questo. era una cara donna. lorraine e io ci siamo conosciute poco dopo. in occasione del nostro incontro mi ha raccontato che la loro telefonata era durata qualche ora e che si erano salutate con grande felicità. restammo sedute sotto le piante in una caffetteria chiacchierando gioiosamente di doris e della vita in generale, finché non fu il momento di riaccompa-gnarla a casa. È stato bello avere avuto la possibilità di conoscere la sua amica. ovviamente è stato bello conoscere doris.

spero che sia riuscita a ricongiungersi con le altre sue amiche una volta arrivata dall’altra parte.

z

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Veri aMici

la vita frenetica di sydney mi stava stancando. non c’erano case a cui badare all’orizzonte che mi tenessero lì, perciò mi spostai a sud per vivere un altro capitolo a Melbourne.

erano passati parecchi anni da quando me n’ero andata, perciò fu piacevole tornare a godere dei piaceri di una città così creativa e rivedere i vecchi amici. la mia fama di house-sitter mi precedette e la mia agenda si riempì in men che non si dica.

il primo posto in cui mi stabilii fu la casa di vacanze di Marie, la mia responsabile al centro prenatale di sydney. si trovava a circa un’ora a sud di Melbourne, sulla splendida Mornington pe-ninsula, ed era piena della sua energia, tanto che mi sentii subito a casa. era autunno quando arrivai, e passai le prime due settima-ne vagabondando lungo le scogliere frastagliate con l’acqua che sciabordava sotto di me. percorrere lunghe distanze coperta da un ampio cappotto e da un cappello, con i freddi venti oceanici che soffiavano le loro raffiche, mi faceva sentire molto viva. Mi piace tantissimo camminare così e lo facevo sempre quando potevo. poi mi rintanavo in casa, mi sedevo accanto al fuoco e passavo le serate in intimità, scrivendo e suonando la chitarra.

sarei potuta andare avanti così per sempre, ma avevo bisogno di soldi, e fu proprio questa esigenza a farmi prendere cura di eli-zabeth. in un certo senso la sua situazione era straziante per me, ma stavo imparando ad accettare che tutti noi abbiamo diverse lezioni da apprendere. Quelle che possono sembrare situazioni tragiche viste dal di fuori, sono anche grandi opportunità di cre-scita e apprendimento per chi ne è coinvolto.

lavorare su di me mi stava insegnando a trovare i tesori rac-chiusi in ogni lezione e stavo riuscendo a individuarne parecchi nel mio passato. scoprii tante belle cose, doni che non avrei po-tuto ricevere se fossi cresciuta in una situazione familiare perfetta,

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se poi esiste davvero una condizione simile. le circostanze in cui mi sono trovata mi hanno offerto forza, perdono, compassione, gentilezza e molti altri insegnamenti di cui ero riconoscente e che stavano facendo di me una persona migliore.

dovevo mettere una certa distanza tra i clienti e me e accettare di non sapere quale lezione toccasse loro imparare. Qualsiasi fosse la ragione per cui avevano attratto l’esistenza che si trovavano a vivere, non spettava a me salvarli. io ero lì per dare amorevoli cure, amicizia, accettazione e gentilezza nelle loro ultime settima-ne. se questo li aiutava a trovare la pace, come accadeva a volte, allora ciò rendeva il mio lavoro ancor più soddisfacente. come si dice, “è donando che riceviamo” e io stavo decisamente accumu-lando tantissima gioia in questo ambito.

lavorare con i malati terminali fu anche un onore per me. grazie ai loro ricordi e alle loro storie, la mia vita è cambiata. a una certa età, assistere alle rivelazioni che scoprivano riguardo a loro stessi fu un dono incredibile. stavo già mettendo in pratica molte delle lezioni apprese tramite i miei clienti, per evitare di trovarmi sul letto di morte e pentirmi delle stesse cose. Quando entravo nella casa di un nuovo cliente, penetravo in un mondo da scoprire ricco di insegnamenti. ogni casa era come una classe diversa, con nuove lezioni da imparare o prospettive differenti da cui guardare le situazioni. in entrambi i casi assorbivo parecchio.

elizabeth non era anziana, aveva solo cinquantacinque anni. era stata un’alcolizzata negli ultimi quindici anni e ora si stava spegnendo a causa di una patologia correlata alla sua dipendenza. la mattina in cui arrivai stava ancora riposando, e il figlio mi fece fare il giro della casa e mi spiegò il quadro della sua situazione. Mi avvisò anche che la famiglia aveva deciso di non dire a elizabeth che stava per morire. “oddio” pensai. “ci risiamo.”

forte del mio desiderio di migliorarmi e di trovare la pace in-teriore, ho sempre cercato di vivere nel presente, per quanto pos-sibile. nel caso di elizabeth, capii che non avrei avuto altra scelta. se mi avesse chiesto se stava per morire, avrei gestito la cosa al

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momento, invece che stare a chiedermi come le avrei risposto, accettando il fatto che avrebbe anche potuto non chiedermelo mai. tuttavia non avevo intenzione di mentirle.

elizabeth era circondata dalla confusione e dalla disperazione. i suoi familiari avevano eliminato tutto l’alcol che c’era in casa e lo avevano chiuso in un armadio in garage, da cui si servivano liberamente. dal momento che era malata e morente, decisero di inibirle del tutto l’accesso all’alcol. Questo fu uno degli aspetti che reputai più strazianti. Visto che stava morendo, a che pro infliggerle la sofferenza dell’astinenza, oltre a tutto il resto? Ma ancora una volta, non era la mia vita, né spettava a me decidere.

Mi era già capitato di avere a che fare con l’alcolismo da gio-vane. lavorando nel settore ospedaliero, sull’isola e in giro, ero entrata maggiormente in contatto con questa piaga. l’alcol non tira fuori il meglio dalle persone e rovina non solo la bellezza di chi ne è dipendente, ma anche le famiglie, le amicizie, le carriere e l’innocenza dei bambini che ne sono testimoni. lo stesso acca-de quando si è vittime dalla droga. l’unica cosa che tira fuori il meglio dalle persone è l’amore.

tuttavia l’alcolismo è anche una malattia. e sebbene possa es-sere curato, chi ne soffre necessita di un sostegno amorevole e co-stante per rompere gli schemi, e cominciare a credere in se stesso e nel proprio potenziale per una vita migliore. costringere un alcolizzato a uscire dalla dipendenza senza un sostegno amorevole né alcuna spiegazione, mi sembrava una cosa mostruosa.

tutto quello che elizabeth sapeva era di essere malata. non aveva più energie. necessitava di assistenza quasi per ogni cosa e il suo appetito si stava affievolendo. inoltre, sentiva disperatamente la mancanza dell’alcol. la sua famiglia le aveva detto soltanto che il dottore le aveva prescritto una “temporanea” astinenza. Mi ci volle parecchia forza per non giudicarli, soprattutto quando li vedevo bere di nascosto e con regolarità, per poi proibirlo a una donna morente. Ma chi ero io per dire quali fossero le sue lezioni nella vita?

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elizabeth era fisicamente molto debole e non sarebbe più po-tuta uscire di casa. i parenti avevano proibito anche le visite da parte di alcuni suoi amici bevitori. non c’era da sorprendersi che elizabeth fosse disperata e confusa, dal momento che era stata privata di tutti i suoi piaceri.

accettò l’allontanamento degli amici bevitori con quieta ras-segnazione, ma con essi fu privata di qualcosa di più grande.

elizabeth era stata nel consiglio di amministrazione di un paio di istituti di beneficenza, prima di ammalarsi gravemente. Queste persone rappresentavano il suo collegamento con il mondo ester-no e con la vita precedente.

dopo le prime sei o sette settimane insieme, le sue forze si ridussero ulteriormente, mentre il bisogno di riposo aumenta-va. elizabeth era una donna piuttosto divertente, in un modo discreto e pacato. nei momenti più inaspettati saltava fuori con il suo umorismo asciutto. a volte uno dei suoi commenti mi tornava in mente a casa dopo un turno e mi ritrovavo a sorridere ripensando a lei. eravamo arrivate a piacerci e avevamo stabilito routine funzionali entro i limiti della malattia. Una di queste consisteva in una tazza di tè ogni mattina, nella veranda. era di gran lunga la stanza migliore di tutta la casa e in quel periodo dell’anno, il sole che risplendeva attraverso le vetrate era mae-stoso. fu proprio in veranda, una mattina, che le cose tra noi passarono a un nuovo livello.

“Bronnie, secondo te perché non sto migliorando? Ho smes-so di bere ma mi sento sempre più debole. cosa ne pensi?” mi chiese.

la guardai dritta negli occhi, affettuosamente, e risposi con un paio di domande: “e tu quale pensi che sia la ragione? sono sicura che ci hai riflettuto in questi giorni!”, fui molto delicata con lei, ma prima di tutto avevo bisogno di sapere quale fosse la sua linea di pensiero.

“non oso dire quello che penso” sospirò. “È una cosa troppo grande da gestire. eppure dentro di me so la risposta.”

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restammo in silenzio per un po’, guardando gli uccelli fuori dalla finestra, mentre il sole ci scaldava entrambe. “se te lo chie-do, me lo dici? Ho davvero bisogno di un po’ di sincerità” ammi-se. annuii amorevolmente.

“È quello che penso?” chiese, lasciando la domanda quasi in-compiuta. aspettai per vedere se intendesse continuare, invian-dole tutto il mio amore. “oddio, è così” disse rispondendosi da sola con un sospiro. “sto morendo, vero? sto tirando le prover-biali cuoia. sto per volare con gli angeli. trapassando, o spirando o comunque si dica. sto morendo! Morendo. È così, vero?”. con il cuore stretto nella morsa della sua consapevolezza dolceamara, annuii lentamente.

continuammo a osservare il volo degli uccelli in silenzio, finché elizabeth non riprese a parlare. ci volle un po’ perché succedesse, ma avevo imparato ad abituarmi al confortevole si-lenzio dei miei clienti. Hanno così tante cose a cui pensare e da assorbire che a volte la conversazione rappresenta un ostacolo. non c’era bisogno di riempire il silenzio in un momento simile. avrebbero parlato quando sarebbero stati pronti. e dopo un po’, elizabeth continuò.

disse che lo aveva sospettato per un po’ e di come l’avesse frustrata la mancanza di onestà da parte dei suoi parenti. privarla degli amici e della sua vita sociale era stato crudele, e in un certo senso la vedevo come lei. si rendeva conto di non essere forte ab-bastanza da poter uscire di casa, ma diceva che le sarebbe piaciuto poter vedere i suoi amici di tanto in tanto. c’erano dei conoscenti che venivano a farle visita saltuariamente, persone che la fami-glia approvava e che sapeva non avrebbero portato alcolici. erano persone gradevoli, diceva, ma non c’era intimità.

Una volta raggiunto questo livello di sincerità, le nostre con-versazioni fluirono senza ostacoli. non c’era tempo per trattener-si. così ci trovammo a godere della reciproca compagnia ogni giorno di più. dopo anni di negazione, spesso mi sorprendevo della facilità con cui invece riuscivo a esprimere i miei pensie-

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ri personali. con la morte sulla soglia, anche elizabeth godeva dell’apertura dei nostri scambi costanti. la reazione iniziale nei confronti della famiglia che le aveva nascosto la verità fu di rab-bia. infine però si trasformò in accettazione. riteneva che l’atteg-giamento di controllo dei suoi parenti fosse basato sulla paura. per questo era in grado di perdonarli.

tuttavia non riusciva a fingere di non conoscere le sue con-dizioni e affrontò la cosa con i familiari in uno dei miei giorni liberi. ciò li fece avvicinare ulteriormente, ed erano sollevati dal fatto che non fosse toccato a nessuno di loro darle la notizia. fui lieta di saperlo e anche di non averli fatti arrabbiare a causa della mia sincerità, ma su un punto rimasero inamovibili: i suoi amici bevitori potevano contattarla solo al telefono.

tuttavia elizabeth stava crescendo spiritualmente e giunse ad accettarlo, ora senza rassegnazione. con me ammise che proba-bilmente era stato solo il bere a tenere insieme quel circolo di amicizie, ma non lo avrebbe mai confessato ai suoi parenti. at-tingendo alla mia stessa esperienza, raccontai a elizabeth di come parecchi anni prima le mie amicizie fossero cambiate, quando avevo iniziato a uscire dal mondo dei fumatori di marijuana. compresi chi erano veramente i miei amici e chi soltanto dei compagni di fumate. c’erano persone che ritenevo essere buoni amici che invece non si trovavano a loro agio con me quando non ero stonata come loro. ciò non li rendeva delle cattive persone, ma quando smisi di muovermi in quel mondo, capii che era stato solo il fumo a legarci. senza quello, era venuto mancare il comu-ne denominatore che tenesse insieme la nostra amicizia. così ci eravamo allontanati in modo spontaneo, verso direzioni opposte.

“Vorrei essere rimasta in contatto con i miei amici, quelli veri” disse, e in quelle parole ritrovai le stesse di altre persone prima di lei. “Bere ci ha fatto allontanare quindici anni fa, e ora c’è ben poco che mi leghi a loro. comunque si sono trasferiti tutti.”

Mentre parlavamo delle conoscenze che avevano il permesso di farle visita, elizabeth disse che non li considerava come degli

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“amici”. discutemmo di quanto sia abusata questa parola a volte, e di quanti livelli diversi di amicizia esistano in realtà. Ultima-mente avevo iniziato a considerare alcuni dei miei “amici” più come care conoscenze. non significava che pensavo meno a loro. erano sempre un grande dono nella mia vita, ma l’aver vissu-to alcuni momenti bui mi aveva fatto capire cosa fosse un vero amico. È facile avere tante conoscenze, e amavo profondamente quelle persone per il bel ruolo che avevamo avuto l’uno nella vita dell’altro, ma quando si arriva alla resa dei conti, non sono in molti a riuscire a stare vicino a qualcuno che soffre da cani. sono questi i veri amici.

“suppongo si tratti di avere gli amici giusti per la giusta oc-casione” soppesò elizabeth. “semplicemente non ne ho di adatti a questa circostanza, alla mia uscita di scena. sai cosa intendo?”.

concordai e le raccontai che, sebbene la situazione non fosse grave come la sua, era rimasto indelebile nella mia memoria il ricordo di una occasione simile, in cui mi era mancato l’amico giusto. Quindi ero perfettamente d’accordo con lei che ci fossero diversi livelli di amicizia e di conoscenza, e a volte quello che ci manca è una caratteristica specifica di quel rapporto, non tanto una persona in particolare.

dopo gli anni passati sull’isola, lavorai per un breve periodo in una stamperia in europa. i colleghi erano simpatici e apprez-zai l’opportunità di aprire ulteriormente il mio mondo. Ma la comunità isolana era stata come una famiglia. tutte le volte che uno di noi se ne andava, per una vacanza sulla terraferma per esempio, al ritorno diceva quanto era bello tornare a casa dalla propria famiglia.

in europa mi feci nuovi amici, anche se ora, col senno di poi, li definirei più piacevoli conoscenze. tramite queste persone, in-trapresi un viaggio attraverso due paesi, fino alle alpi italiane, con tre viaggiatori che avevano all’incirca la mia età. avevamo affitta-to una baita in alta montagna, senza elettricità né acqua corrente. era un posto meraviglioso e diverso da qualsiasi territorio della

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mia amata australia, che ha il suo splendore, ma in un modo tutto particolare. trovai le alpi straordinariamente belle.

ci lavavamo in un corso d’acqua che scendeva giù dalla mon-tagna. Malgrado fosse estate, l’acqua era gelida. si trattava pro-prio di neve sciolta che confluiva in un torrente. Mentre l’acqua scendeva impetuosa attorno a me, io sedevo nella corrente, anna-spando. nel frattempo però, mi godevo la magnificenza del pae-saggio e mi sentivo rinvigorita. Ma l’acqua era davvero ghiacciata, e mi mordeva la carne colpendomi nella sua corsa verso valle.

tutte le volte che avevo trovato il coraggio di nuotare in un fiume gelido o nell’oceano, mi ero sempre sentita più incline al gioco dopo, un po’ come un cane che dopo aver fatto il bagno, corre tutt’attorno come un pazzo, pieno di energia, a prescindere che abbia gradito il bagno o meno. immergermi in quelle acque di montagna esercitava lo stesso effetto su di me. Mi fece sentire ridicolmente sciocca.

Mi asciugai, mi vestii e tornai alla baita eccitata e piena di voglia di scherzare. ero di buon umore e mi stavo divertendo un mondo raccontando stupidi aneddoti agli amici, ma mi resi conto che le mie storielle non venivano capite per niente. scambiandosi sorrisi preoccupati da un capo all’altro del tavolo si chiedevano che cosa mi fosse preso, e me lo fecero capire in un secondo. Ma le espressioni interrogative che avevano assunto i miei compagni di viaggio mi fecero scoppiare a ridere ancor di più. alla fine io mi stavo godendo lo stesso le mie storielle. erano persone felici e amabili. il fatto era che il senso dell’umorismo delle nostre cul-ture era diverso. in un attimo, sentii dolorosamente la mancanza dei miei vecchi amici. non solo avrebbero colto il lato divertente di quello che dicevo ma sarebbero scoppiati a ridere con me, con-tinuando a scherzare, facendo aumentare le nostre risate.

la sera seguente, dopo una camminata impegnativa fin sulla cima di un monte, ci sedemmo tutti alla luce delle lanterne a mangiare chiacchierando un po’. era piacevole. tuttavia, poco dopo tutti si ritirarono per la notte, tranne me. la camminata era

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stata fenomenale ed ero ancora in uno stato d’animo di giubilo. davvero, quello che avrei voluto fare era restare con gli amici e ridere per concludere una giornata fantastica. di sicuro non vo-levo andare a letto.

la baita era immersa nel silenzio mentre i miei amici dormi-vano. portai una lanterna nella mia piccola stanzetta, la misi sul tavolo e trascorsi le due ore successive a scrivere. sentivo in lonta-nanza il tintinnio dei campanacci delle mucche che si muovevano nella notte. sorrisi di gioia per essere lassù, in una meravigliosa baita, a scrivere a lume di lanterna in cima alle alpi, in ascolto del suono lontano dei campanacci. era tutto un altro mondo rispetto al mio, e sebbene fossi sopraffatta dalla pace del momento, senti-vo la mancanza dei miei vecchi amici.

fu una notte perfetta, ma con le persone sbagliate. gli amici di quel viaggio mi piacevano per un sacco di ragioni, ma stavo vivendo un momento molto speciale dentro di me e avrei voluto condividerlo con le persone giuste, quelle che mi conoscevano davvero. ovviamente non poteva succedere. così assaporai la fe-licità di quel momento da sola.

perciò capivo cosa intendeva elizabeth quando diceva che avrebbe voluto avere accanto gli amici giusti. solo certe perso-ne speciali ci capiscono davvero, a prescindere da tutto, e sono i vecchi amici. fu così per me quella notte sulle alpi ed era così adesso per elizabeth mentre iniziava ad accettare che la sua vita stava giungendo al termine.

Quando il dottore venne a visitarla, gli chiesi in privato se avesse fatto differenza per la sua condizione continuare a bere. scosse la testa: “no, ormai è in dirittura d’arrivo. Ho detto alla famiglia che se vuole un po’ di brandy, la sera, possono conceder-glielo. non lo stanno facendo?” mi chiese. scossi la testa. ripeté che a quel punto non avrebbe fatto alcuna differenza.

più tardi parlai serenamente con la sua famiglia della faccenda. Ma ancora una volta, era stata una decisione di famiglia e no, non le avrebbero assolutamente permesso di bere. continuarono

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spiegandomi il perché: la elizabeth con cui stavo trascorrendo il tempo e la elizabeth che conoscevano loro quando beveva erano due persone completamente diverse. non riuscivano a credere che fosse tornata a essere la donna piacevole di un tempo, perché non vedevano quel lato da almeno quindici anni.

nel corso delle due settimane successive, quando capitò l’ar-gomento, le chiesi della sua abitudine di bere. elizabeth mi disse che nonostante lo desiderasse ancora tanto, in un certo senso era contenta di riuscire a ricordare chi era prima che l’alcol prendesse il controllo sulla sua vita. era cominciato tutto piuttosto facil-mente. aveva sempre bevuto qualche bicchiere di vino con la fa-miglia a cena e aveva continuato a farlo per anni senza problemi.

poi divenne socialmente attiva come parte del consiglio di am-ministrazione di diversi enti benefici. ammise che molte delle persone conosciute in queste occasioni non bevevano eccessiva-mente, ma lei era stata attratta da chi invece aveva questa abitu-dine. a casa non si sentiva più presa in considerazione. sentiva invece che la sua presenza contava per questi suoi nuovi amici. adesso che era più lucida, capiva che erano tutte persone biso-gnose come lei che cercavano conferme all’interno della cerchia di amici e nel bere.

elizabeth disse che l’alcol le dava sicurezza di sé, o che almeno quando era ubriaca pensava fosse così, ma la faceva diventare an-che fastidiosamente diretta, rumorosa e alla fine sarcastica e catti-va con gli altri. fu questo a farle perdere la cerchia originaria dei suoi vecchi amici. avevano cercato di raggiungerla con l’amore e il supporto per aiutarla a vedere il declino a cui assistevano con angoscia, ma lei aveva reagito con arroganza e alla fine li aveva allontanati tutti, uno dopo l’altro.

ciò non fece altro che confermare alla sua mente obnubilata dall’alcol quanto invece le fossero fedeli i suoi nuovi amici, che non la giudicavano per la sua abitudine di bere. ovviamente ciò dipendeva dal fatto che bevevano anche loro. Un’altra giustifica-zione era rappresentata dal rinnovato interesse che ora la famiglia

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le dedicava. Malgrado fosse suscitato dalla sua tendenza a bere pe-santemente, almeno non si sentiva più ignorata come una volta. la perdita di controllo li costrinse ad accorgersi di lei.

più le capacità di elizabeth calavano a causa dell’alcolismo, più i parenti dovevano aiutarla, e peggio lei iniziava a sentirsi. al principio, si era goduta le loro attenzioni. Ma alla fine, non era più in grado di far nulla da sola e questa mancanza di controllo la faceva sentire ancora più insicura e pessimista riguardo a ciò che era diventata. così, sebbene all’inizio fosse ferita dall’indifferenza della sua famiglia che non dava importanza alla sua presenza o alle sue opinioni, alla fine ne divenne totalmente dipendente e si odiava per questo. non fece altro che perpetuare ancor di più il circolo vizioso di scarsa autostima.

“Vedi Bronnie, non tutti vogliono stare bene. e per lungo tem-po è stato così anche per me. il ruolo della persona malata mi ha dato una identità. ovviamente così impedivo a me stessa di essere una persona migliore. Ma stavo ottenendo l’attenzione che desideravo e cercare di mettermi in ridicolo mi rendeva più felice che essere coraggiosa e in salute.” Questa ammissione da parte sua era il senno di poi di una donna che ora percorreva la corsia prefe-renziale verso la saggezza. tre mesi di astensione dal bere e il fatto che fosse in punto di morte la stavano cambiando enormemente.

conoscere per intero la vera storia di elizabeth sulla sua di-pendenza mi aiutò anche a comprendere meglio sia lei che la sua famiglia. in fin dei conti, la loro severità l’aveva aiutata a tornare a essere una persona migliore. sebbene forse non mi sarei compor-tata con la stessa segretezza facendo di tutto un mistero, giunsi a rispettare il fatto che stessero cercando davvero di aiutare sia lei sia loro stessi. e ci stavano riuscendo. parte del successo però dipendeva dalla stessa elizabeth. affrontare la morte l’aveva spin-ta ad assumere una prospettiva diversa sulla vita e aveva accolto coraggiosamente la sua lezione.

nelle sue ultime due settimane, osservai una guarigione stra-ordinaria avvenire nel rapporto tra elizabeth e la sua famiglia.

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Una delle cose più belle che stavo imparando assistendo i malati terminali era che non bisognava mai sottovalutare la capacità del-le persone di imparare le proprie lezioni. Vidi elizabeth trovare la pace e mi era capitato di essere testimone della stessa cosa anche con altri clienti prima. fu molto gratificante.

circa una settimana prima che morisse, parlai con suo marito e con uno dei figli del rimpianto di elizabeth per aver perso i suoi vecchi amici e mi chiedevo se fosse ormai troppo tardi per contattare qualcuno di loro, anche solo per parlare al telefono. a quel punto nessuno si preoccupava più che gli amici potessero darle dell’alcol di nascosto. era l’ultimo dei pensieri. ora ciò che contava di più era la sua serenità e dal momento che la famiglia si era ripresa perfettamente, colsero l’idea al volo.

Un paio di giorni dopo, due belle signore in salute entrarono nella stanza di elizabeth subito dopo che l’avevo messa seduta comoda, mentre le offrivo una tazza di tè. Una di loro viveva sulle montagne fuori città, a circa un’ora di viaggio. l’altra era volata a Melbourne dalla sunshine coast nel Queensland non appena aveva sentito la notizia. adesso sedevano attorno al letto di eliza-beth, parlando con lei, tenendosi per mano e sorridendo.

lasciandole alla loro intimità e concedendomi una muta lacri-ma di gioia, uscii dalla stanza. sulla porta però, sentii elizabeth scusarsi con entrambe e colsi il loro subitaneo perdono. era pas-sato. non importava, dissero. sedetti in cucina con roger, suo marito, entrambi commossi ma felici.

le amiche si trattennero per un paio d’ore e alla fine elizabeth era euforica ma sfinita. si addormentò subito profondamente e non ebbi occasione di chiacchierare con lei prima di andare a casa. Quando ripresi il turno, due giorni dopo, la trovai molto debole, ma aveva voglia di parlare.

“non è stato stupendo? oh rivedere di nuovo le loro facce!” sorrise di gioia. adesso non riusciva più a sollevare la testa dal cuscino, ma mi cercò con lo sguardo, dall’altro lato del letto.

“È stato bello” le dissi.

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“non perdere il contatto con gli amici a cui tieni di più, Bron-nie. Quelli che ti accettano così come sei, e che ti conoscono bene, valgono più di ogni altra cosa al mondo. parlo per esperienza” in-sistette gaia, sorridendo attraverso la malattia. “non permettere alla vita di mettersi in mezzo. devi sapere sempre dove trovarli e far sapere loro quanto sono importanti per te. non avere paura di mostrarti vulnerabile. Ho perso tempo perché non sono stata capace di dire loro che disastro ero diventata.” elizabeth era giun-ta a perdonarsi e riuscì a liberarsi del suo stesso giudizio. aveva ritrovato la pace e le sue amiche.

la sua ultima mattina, le stavo mettendo dell’emolliente sulle labbra. la sua bocca non produceva più la quantità necessaria di saliva e lei faceva fatica a parlare, anche se non aveva nemmeno le energie per farlo. Quando finii, mi guardò con un sorriso e mosse le labbra dicendo “grazie”. ricambiai lo sguardo ed espressi la mia stessa gratitudine con un sorriso. poi la baciai sulla fronte e le diedi la mano, che lei strinse.

la stanza era piena di gente che le voleva bene. c’era la fami-glia al completo e anche le due belle signore che avevo conosciuto qualche giorno prima. Mi allontanai lasciando che venisse cir-condata dalle persone che aveva amato di più.

elizabeth aveva fatto appena in tempo a recuperare l’affetto e ad apprezzare il valore della sua famiglia e delle sue vere amicizie. lasciò questo mondo avvolta dall’amore, sapendo di essere stata una presenza molto importante nella vita degli altri e con la con-sapevolezza che le sue amiche sapevano quanto bene volesse loro.

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concediti il teMpo di stare con gli aMici

tra tutti i clienti che avevo avuto fino ad allora, Harry fu quello più facile e prendermi cura di lui non fu per niente pesante. non solo era un uomo meraviglioso, ma la sua

famiglia voleva occuparsi di ogni cosa. tre dei suoi cinque figli vivevano nello stesso sobborgo e gli portavano il pasto la maggior parte dei giorni, e uno di essi voleva prendersi cura del padre personalmente. Mi chiedevo che bisogno avessero di me, ma mi assicurarono che volevano che ci fossi anch’io.

ciò significava che passavo gran parte del tempo a leggere e a scrivere. non c’è molto da fare in una casa pulita e ordinata, con il suo unico abitante costretto a letto. devo dire però che nella sua cucina ho inventato un paio di ricette per zuppe deliziose.

Harry aveva sopracciglia folte, orecchie pelose, un viso rosso e una risata sincera. ci siamo piaciuti subito. nel giro di un mi-nuto, durante il nostro primo incontro, avevamo già fatto una battuta l’uno all’altro. Quindi la nostra fu un’intesa facile e spon-tanea fin dall’inizio.

Ma suo figlio Brian era tutta un’altra storia. era molto ner-voso. il rapporto tra i due si era incrinato anni prima e sebbene avessero mantenuto i contatti, il loro legame non era più stato lo stesso. il resto della famiglia attribuiva la colpa del distacco a Brian. non essendoci stata, non potevo sapere com’erano andate le cose né potevo mettermi nei loro panni. comunque non aveva importanza per me. Ma era evidente che Brian ora stesse cercan-do di recuperare il tempo perduto insistendo nel volersi prendere cura del padre e nell’essere il suo sostegno principale.

interrompeva sempre ogni mio tentativo di aiutare Harry. or-mai ero diventata molto brava nel trovare la posizione giusta per mettere comodo il cliente. seguivo l’intuito nel farlo e in molti

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lo avevano notato. Ma spesso la famiglia sistema i cuscini e dà il suo aiuto mossa dalla gentilezza, senza comprendere quanto sia sensibile il corpo del malato e come il minimo movimento metta a repentaglio quel poco di sollievo che riesce a provare.

ogni giorno, quando il figlio, riluttante, andava al lavoro, per poche ore, la prima cosa che facevo era rimettere il padre in una posizione comoda. se c’era anche solo un breve istante nell’arco della giornata in cui potevo occuparmi di lui senza essere letteral-mente braccata dal figlio, la prima cosa che Harry mi chiedeva era di risistemargli velocemente i cuscini.

tutti i pomeriggi, comunque, passavamo quelle poche ore in-sieme prima che la famiglia arrivasse in massa per cena, sebbene lui ormai mangiasse a stento. erano ore meravigliose, ed Harry le definiva affettuosamente “ore di pace”. Mentre badavo ai suoi bisogni fisici, chiacchieravamo e ridevamo. di solito poi ci pren-devamo una tazza di tè e parlavamo ancora un po’.

Harry aveva perso sua moglie vent’anni prima, ma era riuscito ad andare avanti. aveva amato il suo lavoro, ma divenne ancora più impegnato quando andò in pensione, perché si iscrisse a un paio di circoli sportivi e sociali. sebbene la sua fosse una malattia terminale, in passato aveva goduto sempre di una salute di ferro.

“Ho rispettato il dono della salute che mi era stato dato re-stando attivo” mi disse Harry. “la gente diventa vecchia prima del tempo, sai.” sebbene stesse morendo, Harry era l’uomo di ottant’anni più sano che avessi mai visto. senz’altro la malattia stava cominciando a logorarlo, ma i segni della sua perfetta forma fisica del passato erano ancora evidenti. Massaggiandogli le gam-be, per esempio, era ben visibile il tono muscolare conquistato con lunghe e frequenti camminate.

“Quando vai in pensione e i tuoi figli sono indaffarati nell’al-levare i loro stessi figli, avere degli amici è ancora più importante” disse. “così quando mia moglie è morta, che riposi in pace, mi sono iscritto a un circolo canottieri e poi a uno che organizzava camminate nel bush.”

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Harry credeva molto nel valore della famiglia allargata, nel fat-to che i nonni siano parte integrante nella vita dei bambini e che dovrebbero avere tante occasioni di stare con loro. era evidente nel suo rapporto con i nipoti che gli facevano visita ogni giorno, quan-to Harry avesse influito positivamente e con amore su tutti loro.

“la mia famiglia viene prima di tutto, ma hai anche bisogno di avere attorno gente della tua età. se non fosse stato per gli amici che mi sono fatto ai circoli, sarei stato un uomo molto solo. non mi sarebbe mancata la compagnia, perché ho figli e nipoti, ma sarei stato solo perché non avrei avuto la vicinanza di gente della mia stessa età che la pensasse come me.”

passavamo tanto tempo chiacchierando nella sua stanza, finché il sole del tardo pomeriggio non ci avvertiva che le ore di pace sta-vano giungendo al termine. la famiglia sarebbe presto discesa nuo-vamente su di noi, ma Harry andava avanti a parlare finché poteva. diceva di non capire come mai le persone ci mettessero così tanto a rendersi conto di quanto fossero importanti gli amici. inoltre, seb-bene fosse bello che una persona anziana riuscisse ancora ad avere una posizione di amore e rispetto in seno alla propria famiglia, lo frustrava il fatto che così tanti di loro non avevano dedicato del tempo per coltivare anche le amicizie, lungo il cammino.

“lo capiscono quando ormai è troppo tardi” insistette. “Ma non parlo solo della mia generazione. guardo anche i più giova-ni, che sono indaffarati e pieni di impegni e non si prendono mai del tempo per se stessi, per fare cose che li rendano felici a livello personale. si perdono completamente quel che sono davvero. i momenti trascorsi con gli amici ti fanno ricordare chi sei quando non interpreti il ruolo della mamma, del papà, della nonna o del nonno. capisci cosa intendo?”.

gli dissi che la pensavo come lui e che avevo visto un sacco di persone scegliere quella strada, ma aggiunsi anche che ne avevo conosciute molte altre che erano riuscite a tenersi un po’ di tempo per sé ed erano felici. rappresentavano anche una compagnia migliore.

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“esatto!” rise, dando una pacca sul letto in segno di assenso. “le amicizie buone ci stimolano. il bello degli amici è che ci prendono per come siamo, per le cose che abbiamo in comu-ne. l’amicizia consiste nell’essere accettato così come sei, non come gli altri vogliono che tu sia, come capita con il partner o i familiari. dobbiamo mantenere i nostri rapporti di amicizia, mia cara ragazza.”

Visto il flusso di visitatori che venivano a trovarlo regolarmen-te, era evidente che sapesse il fatto suo. erano tutte persone felici e gioviali, che portavo una ventata di allegria. tuttavia erano ri-spettosi della sua malattia e accettavano le volte in cui riposava e non poteva essere disturbato.

Un pomeriggio, Harry mi chiese delle mie amicizie. così lo aggiornai sui miei amici più intimi e gli spiegai come alcuni dei legami che avevo in passato fossero cambiati di recente, di pari passo con me.

“Be’ anche questo è naturale” disse. “gli amici vanno e ven-gono nel corso della vita. È per questo che dobbiamo dare loro il giusto valore quando ci sono. a volte ti limiti a imparare o a con-dividere ciò a cui siete stati reciprocamente destinati. altri invece staranno con te per sempre, e le esperienze comuni e la loro com-prensione sono un vero conforto quando sei alla fine della corsa.”

durante le nostre chiacchierate concordammo sul fatto che l’approccio all’amicizia da parte delle donne fosse molto diverso da quello degli uomini. dal punto di vista emotivo, le donne danno molta più importanza all’amicizia, vale a dire che il rap-porto si fa più stretto quanto più si parla di cose legate alle emo-zioni. anche gli uomini hanno bisogno dell’amicizia per parlare. Ma riescono a esprimersi meglio se fanno attività insieme, come giocare a tennis, andare in bicicletta. ne godono quando possono risolvere dei problemi, siano essi materiali o emotivi, e questo spesso succede quando sono attivi.

“come costruire insieme una recinzione attorno a un cam-po” suggerii. Harry scoppiò a ridere. “oh mia cara! puoi portar

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via una ragazza dalla campagna, ma non puoi tirargliela via dal cuore. esatto, Bronnie. Un esempio molto rurale, ma perfetto. costruire un recinto o fare qualcosa di manuale insieme unisce molto gli uomini.”

continuò a ridere e mi confidò che se mai avessi voluto legar-mi a un uomo di bell’aspetto, tutto quello che avrei dovuto fare sarebbe stato aiutarlo a costruire un recinto. gli dissi che lo avrei tenuto a mente in futuro.

raccontandomi le sue storie preferite sul cameratismo e l’ami-cizia, Harry rafforzò la gioia che gli davano i rapporti ancora esistenti. ogni giorno amici simpatici venivano a fargli visita. adesso si erano organizzati in turni per non stancarlo troppo. in questo modo, tutti avevano l’occasione di stare un po’ con lui. era bello e leale da parte loro.

ammettemmo che grazie a queste ore di pace, potevamo as-saporare una nuova amicizia nelle nostre vite, quella nata tra noi. lo frustrava, disse, sapere che io me ne stavo in un’altra parte della casa a leggere o a scrivere quando invece avrei potuto essere nella sua stanza a chiacchierare. ero perfettamente d’accordo con lui e risi. Ma capiva, e anche io, il bisogno di Brian di fare am-menda e il suo desiderio di assisterlo. Harry non voleva che Brian si sentisse in colpa, ma purtroppo era sicuro che fosse così. Quin-di era felice di accontentarlo e di fargli sentire che aveva bisogno di lui nelle loro ultime settimane insieme. “anche se non è capace di sistemare bene i cuscini” sospirò.

Harry aveva preso la sua malattia e quel che sarebbe seguito con filosofia. aveva vissuto la sua vita appieno, diceva, ed era pronto a vedere cosa c’era al di là. sebbene effettivamente par-lassimo anche dell’approssimarsi della sua dipartita, continuava a direzionare molte delle nostre conversazioni sul tema degli amici: i ricordi, quanto siano importanti e la necessità della loro presen-za per sentirsi felici e accettati. Mi spronava anche a condividere con lui alcune delle mie esperienze in merito. “comincia con uno della tua infanzia. sentiamo un po’ da dove vieni” esclamò,

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poi rise di gusto quando la mia storia ebbe inizio in uno scenario rurale, un campo di grano.

Quando avevo dodici anni, ci eravamo trasferiti da una fatto-ria di allevamento del bestiame e di coltivazione dell’alfalfa, a una di ovini e grano. era lontana chilometri e chilometri dalla città, sotto un cielo azzurro immenso e maestoso. circa un anno dopo, il mio primo cane, una femmina, sparì improvvisamente quando aveva sette anni. pensammo che fosse stata morsa da un serpente perché non la ritrovammo più. la fattoria era enorme e non c’era nulla di cui sorprendersi. tuttavia l’episodio per me fu devastan-te. Qualche mese dopo i miei mi comprarono un nuovo cane. era un cucciolo di terrier Maltese, e ignorava assolutamente il fatto che dovesse comportarsi da cane domestico. passava le giornate inseguendo i cani da pastore, border colly e kelpie, per i campi vicini e lontani.

la mia più cara amica per tutti gli anni delle superiori e per parecchio tempo dopo fu fiona. sebbene vivesse in città, il più delle volte stavamo alla fattoria. anche io mi fermavo da lei qual-che volta, soprattutto quando fummo un po’ più grandicelle e c’erano i ragazzi da baciare. Una delle cose che ci ha unite negli anni, però, è stato camminare. non riesco a pensare a quanti chilometri abbiamo macinato insieme nel corso dei decenni del-la nostra amicizia: spiagge, foreste pluviali, strade di città, paesi stranieri, sentieri nel bush, ovunque. tutto è cominciato proprio passeggiando in quei campi di grano.

di solito, il mio cane e un paio di altri venivano con noi. non era affatto strano guardarsi attorno e scoprire che ci stava seguen-do anche un gatto o due. Mentre noi ragazze stavamo sul sentiero che portava ai campi più lontani, i cani correvano nel grano. non c’era niente di male fintanto che il grano era basso, perché una volta cresciuto il mio cagnolino diventava invisibile. Quel giorno fiona e io assistemmo a una scena comica meravigliosa.

dietro ai cani grandi, che riuscivamo a vedere distintamente sopra le porzioni più alte di raccolto, si notava un movimento nel

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grano perché il mio cagnolino correva alla cieca dietro agli altri. di tanto in tanto saltava fuori e si guardava attorno come il tele-scopio di un sottomarino che emerge dall’acqua, finché non li av-vistava. dopodiché spariva nuovamente nel grano, smuovendolo da sotto nella nuova direzione. poi il movimento si interrompeva ancora, la testolina bianca spuntava fuori, avvistava l’obiettivo, spariva sotto e via di corsa. andò avanti così per ore e alla fine, ogni volta che lo vedevamo spuntare per guardarsi attorno, fiona e io scoppiavamo in una risatina isterica da ragazzine. ci facevano male le guance dal tanto ridere e mentre le lacrime scendevano lungo i nostri visi, ci piegavamo l’una verso l’altro, sostenendoci a vicenda prima di avvistare di nuovo il cane tra il grano e piegarci ancora di più in due dalle risate. alla fine, non riuscivamo più a stare in piedi.

condividere questo ricordo semplice ma prezioso mi fece ri-conquistare in un istante il valore dell’amicizia. Harry e io ridem-mo insieme, mentre avevo nostalgia dell’innocenza della gioventù e delle risate spensierate e senza freni che mi facevo con fiona. “dov’è adesso?” mi chiese Harry. gli spiegai che si era trasferi-ta in un altro paese e che avevamo interrotto i contatti. la vita era andata avanti e adesso c’erano nuove persone con cui avevo un rapporto più intimo. anche altri fattori avevano influito sulla nostra amicizia, altri individui, ma anche altri gusti e differenze graduali nello stile di vita. Harry fu d’accordo nel dire che non si può più tornare indietro, ma che magari la vita ci avrebbe fatto incontrare di nuovo. ero stata testimone del succedersi di mol-ti cicli nell’esistenza, perciò riconobbi che era possibile. eppure non aveva importanza. apprezzavo i ricordi e auguravo a fiona ogni bene; la ringraziai silenziosamente per le cose che avevamo imparato insieme e per l’amicizia condivisa in passato.

i ricordi migliori delle mie amicizie erano legati a camminate, chiacchierate e risate. nel corso delle settimane successive, con-divisi con Harry altre storie di amicizia. anche lui era stato un camminatore appassionato e mi raccontò a sua volta degli aned-

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doti sui posti in cui era stato e sugli amici con cui aveva con-diviso quelle esperienze. potevo immaginare il gruppo con cui camminava illuminarsi al suono della sua risata. al solo pensiero sorrisi e quando Harry mi chiese come mai, fui felice di dirglielo. Mi confermò che effettivamente si erano sempre fatti della grasse risate mentre passeggiavano.

la settimana successiva, comunque, avevo in programma di lasciare Harry per andare a fare una camminata. Quando avevo organizzato l’escursione, non ero sicura che sarebbe stato ancora vivo. così, nonostante non vedessi l’ora di uscire dalla città, ero anche rattristata all’idea di lasciarlo, perché non sapevo se ci sa-rebbe stato ancora al mio ritorno. Quando gli raccontai quello che stavo per fare, approvò appieno e con entusiasmo e disse che sarebbe stato con me con lo spirito, sia che fosse vivo oppure no.

la camminata si teneva ogni anno in una zona remota e ter-minava sempre sulle rive dello stesso lago. ogni volta, però, ve-niva seguito un affluente diverso. Quell’anno in particolare si partiva da una fattoria presso cui si trovava la sorgente del fiume. avremmo seguito quel corso d’acqua, per lo più asciutto in quel periodo, e saremmo giunti al lago.

l’idea della camminata era di dare ai partecipanti l’occasione di guarire tramite il contatto con la terra, perché avremmo per-corso i sentieri battuti dalle antiche civiltà. all’epoca, i fiumi era-no come autostrade, o per lo meno come strade maestre e le tribù vivevano e si muovevano lungo le loro rive, spostandosi da un posto all’altro. Un anziano aborigeno ci diede la sua benedizione mentre prendevamo parte a un rito di purificazione con il fumo, poi partimmo e camminammo per sei giorni.

ognuno seguiva il proprio ritmo. eravamo circa una dozzina. alcuni procedevano in gruppi e chiacchieravano lungo il percor-so. altri uscivano ed entravano dalla conversazione. c’era chi si fermava e fotografava tutto, e chi invece camminava più isolato. ogni notte, comparivano i due volontari con il rimorchio dell’at-trezzatura e ci accampavamo. poi, attorno a un pacifico fuoco

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da campo, preparavamo la cena comunitaria, mentre si creavano bellissime amicizie sotto una splendida cortina di stelle.

a ogni passo, aumentava la connessione con la terra. sebbene mi facesse piacere chiacchierare durante le soste, trovavo maggior soddisfazione nel procedere da sola e il passo che avevo me lo per-metteva. avendo camminato parecchio in passato, il mio ritmo naturale mi portò alla testa del gruppo. Un altro camminatore, l’anima saggia e amorevole che originariamente aveva dato avvio a queste escursioni, era sempre davanti a me, avanzando con il suo ritmo.

il tempo trascorso da sola, mettendo un passo dopo l’altro, fu utilissimo per fare chiarezza dentro di me. Mi resi conto che non volevo più fare l’house-sitter. Qualcosa in me stava iniziando a desiderare una cucina tutta per sé. il movimento e gli spostamen-ti che un tempo avevo amato, stavano cominciando a stancarmi. Un nuovo seme era stato piantato e si trattava semplicemente di accettare che alcune cose erano cambiate. continuai a cammina-re in pace.

È raro oggi poter percorrere a piedi lunghe distanze dal mo-mento che la terra è separata dalla proprietà privata. fortuna-tamente il nostro percorso era stato concordato anzitempo così attraversammo una fattoria dopo l’altra senza problemi. presi dalla frenesia della vita moderna, è facile non accorgersi quasi della terra sotto ai piedi. sicuramente, molti di noi sentono una connessione con essa quando si fermano e assorbono la bellezza della natura. tuttavia, camminare sei giorni senza ostacoli, mi fece rendere conto di quanto mi mancasse quel legame, malgrado tutto il tempo trascorso in precedenza in gioiosa contemplazione del pianeta.

lungo la strada, scoprimmo graffiti di popolazioni antiche e ci stupimmo davanti ai magnifici alberi rossi della gomma, vec-chi centinaia di anni. c’erano incisioni intricate e solchi dove le canoe erano state intagliate direttamente nella corteccia. scoprire le tracce di popolazioni passate, le cui tribù erano scomparse da

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tempo, era toccante e stimolante allo stesso tempo. l’energia in certi posti era incredibilmente forte e capivo perfettamente per-ché la camminata fosse finalizzata alla guarigione. per di più, gran parte delle fattorie che incrociammo mi ricordavano dove ero cre-sciuta. persino l’odore di sterco di pecora scatenava il flusso di ricordi e fui felicissima di trovarmi di nuovo in quel clima secco e polveroso, anche se per poco. a ogni passo, la mia forma fisica migliorava e sognavo di fare ritorno a un mondo in cui cammina-re fosse il principale mezzo per spostarsi. aveva molto più senso per me rispetto alla fretta e all’affanno della vita moderna.

Un giorno, dopo aver perso il gruppo, trovai una pozza di ac-qua fresca dove farmi una nuotata e l’accolsi come un ristoro. Mi svestii e nuotai nell’acqua limpida e rinfrescante che mi rigenerò, purificando sia il corpo che lo spirito. ogni momento di quella settimana fu una gioia per lo spirito, perché la connessione con la natura cresceva sempre più forte.

il paesaggio cambiava costantemente mentre camminavamo dalla mattina alle otto fino a quasi le cinque del pomeriggio, poi ci accampavamo. altre tracce di una vita precedente punteggia-vano il nostro sentiero. Un vecchio carro che un tempo si era impantanato nel fiume adesso faceva parte dell’arido paesaggio e probabilmente era lì da più di cento anni. Un rifugio in pietra privo del tetto raccontava degli abitanti del fiume vissuti in altri tempi. però le migliori restavano le incisioni perché ci offrivano una lezione di storia unica, a conferma dell’esistenza di quei po-poli antichi di cui stavamo seguendo le orme.

dopo sei giorni pieni e circa ottanta chilometri di cammino, arrivammo stanchi ma esaltati. fu con grande tristezza che dissi addio agli altri partecipanti, col cuore ancor più greve perché la camminata si era conclusa. il giorno successivo vagabondai per altre cinque ore attorno al lago asciutto: non riuscivo a smettere di camminare. Qualche giorno dopo si tenne un festival musica-le, organizzato con lo stesso spirito dell’escursione. Mi trattenni per seguirlo e poi ripartii alla volta di Melbourne.

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grazie al cielo Harry era ancora vivo così mi fu possibile pas-sare ancora un po’ di tempo con lui. durante i dieci giorni che ero stata via però, la malattia aveva preso il sopravvento sul suo corpo e lo trovai piuttosto emaciato. la tonicità aveva abbando-nato le sue cosce, un tempo muscolose; il suo grande viso tondo si era smagrito e la pelle pendeva floscia. Ma dentro era sempre lo stesso, un uomo piacevole e bello.

la disperazione di Brian nel prendersi cura del padre era cre-sciuta in modo esponenziale. cercava di controllare tutto più di prima e lasciava la casa al massimo per un’ora ogni pomeriggio. ero grata che sia io sia Harry avessimo gustato quei momenti di pace prima della mia partenza, perché adesso erano un’occasione assai rara. in aggiunta al comportamento ossessivo di Brian, c’era anche il fatto che adesso Harry dormiva di più.

tuttavia, manco a farlo apposta, Brian fu richiamato fuori casa improvvisamente una mattina e dovette cedermi la cura del pa-dre, sebbene con riluttanza. per fortuna Harry si sentiva meglio, relativamente al suo grave stato di salute. era sveglio e in grado di parlare almeno un po’.

su sua richiesta, gli raccontai dell’escursione e delle rivelazioni che avevo avuto dentro di me mentre ero via. Mi chiese anche degli altri camminatori, se avessero assistito a eventuali cambia-menti positivi in loro o se li avessi notati io. c’era un sacco di cose da dire.

“cosa hai intenzione di fare questa settimana in relazione agli amici, Bronnie?” mi chiese con voce flebile. “Quale momento della settimana dedicherai a stare con dei buoni amici? È questo che voglio sapere.” risi della sua perseveranza e dissi che avrei avuto tempo a volontà per stare con altri amici dopo. adesso volevo godere del mio tempo con lui, Harry, che era un amico a tutti gli effetti.

“non è sufficiente, mia cara ragazza. stai facendo quello che fanno gli altri. di sicuro a quest’ora avrai imparato che devi pren-derti del tempo anche per te stessa. trova un punto di equilibrio

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e ritaglia del tempo per stare regolarmente con gli amici. fallo per te, più che per loro. ne abbiamo bisogno.” Harry mi guardò severamente, con uno sguardo di ammonimento. Ma sapevamo entrambi che la sua insistenza affondava le radici nell’amore.

aveva ragione. avevo bisogno di ritagliarmi del tempo per stare con gli amici regolarmente, invece che lavorare su turni di dodici ore e vedermi con loro solo dopo. per quanto amassi il mio lavoro e a volte condividessi con i clienti e i loro parenti momenti di gioia e allegria meravigliosi, era un mondo piuttosto serio in cui vivere. stare a contatto con i morenti e con la tristezza delle loro famiglie doveva essere bilanciato dalla leggerezza che solo gli amici possono dare. la mia vita era priva di gioia e fu solo in quel momento che riuscii a riconoscerlo sinceramente a me stessa.

“Hai ragione, Harry” ammisi. sorrise e alzò le mani per ab-bracciarmi. Mi piegai sul letto e lo strinsi a me, sorridendo.

“non si tratta solo di restare in contatto con i tuoi amici, mia cara ragazza. Ma anche di farti il dono della loro compagnia. lo capisci, vero?” chiese sia con le parole che con gli occhi.

annuendo con convinzione replicai: “sì Harry, capisco.” poco dopo, lasciandolo riposare, fui grata che avesse voluto puntualiz-zare la cosa e per la sua schiettezza.

Harry fu benedetto da una morte dolce. si spense nel sonno qualche sera dopo. sua figlia mi telefonò per informarmi e mi ringraziò di cuore. le dissi che anche Harry mi aveva dato tanto. era stato un piacere per me conoscerlo.

“concediti il tempo di stare con gli amici” riesco ancora a sentirlo. le parole di quel brav’uomo dalle sopracciglia folte, il viso rosso e il grande sorriso continuano a vivere.

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riMpianto 5:

Vorrei aVer perMesso a Me stessa di essere

più felice

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nel ruolo di dirigente di una multinazionale, rosemary era una donna all’avanguardia per il suo tempo. aveva scalato la piramide aziendale fino ai livelli più alti molto prima

che le donne occupassero questo tipo di posizione nel mondo del lavoro. Ma prima che ciò accadesse, aveva vissuto ottemperando le aspettative della società e si era sposata giovane. purtroppo per lei il matrimonio era sfociato in maltrattamenti sia fisici che psicologici. Quando un giorno fu quasi picchiata a morte, capì che era giunto il momento di fuggire per sempre da quella vita.

Malgrado ci fosse una valida ragione per porre fine al matri-monio, divorziare era ancora motivo di scandalo ai tempi. così, per mantenere integra la reputazione della famiglia in un paese dove il loro nome era molto conosciuto, rosemary si trasferì in città e ricominciò da zero.

la vita le aveva indurito il cuore e il modo di pensare. adesso cercava conferma del suo valore e l’approvazione della famiglia nel successo, in un mondo dominato dagli uomini. non prese mai più in considerazione l’idea di una nuova relazione senti-mentale. invece, attuò la sua scalata con feroce determinazione, avvalendosi del suo alto quoziente intellettivo e del duro lavoro

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di cui era capace, finché non diventò la prima donna nello stato a detenere una posizione di spicco nel management aziendale.

abituata a dire agli altri cosa fare, rosemary godeva del potere che i suoi modi intimidatori le procuravano. Questo atteggiamen-to si rispecchiava nel trattamento che riservava alle sue badanti. si erano succedute l’una all’altra perché non era mai contenta di loro, finché non ero arrivata io. le piacevo perché avevo lavorato in banca, cosa che ai suoi occhi mi salvava dall’essere considerata una stupida. il suo modo di pensare non faceva certo vibrare le mie corde, ma non dovevo dimostrare nulla, perciò decisi che avrebbe potuto giudicarmi nel modo che la rendeva più felice. dopo tutto, aveva ottant’anni e stava morendo. rosemary allora insistette affinché fossi io la sua badante principale.

le mattinate erano particolarmente difficili a causa dei suoi at-teggiamenti dispotici e cattivi. dal momento che all’epoca avevo già una forte consapevolezza di me, tolleravo il suo modo di fare fino a un certo punto ma sapevo che ci sarebbe stato un limite. Un giorno, quando il suo comportamento si fece particolarmen-te maligno e personale, le diedi il mio ultimatum. o diventava più gentile o me ne sarei andata. al che mi urlò di andarmene, di uscire dalla sua casa e arrivò a dire cose persino più cattive di prima, mentre sedevo sul bordo del letto.

Mentre mi urlava contro, non feci altro che restare seduta ac-canto a lei. “Vattene allora. esci di qui” continuava a gridare, in-dicando la porta. Me ne stavo seduta lì, guardandola, inviandole sentimenti buoni e amorevoli, e aspettavo che si placasse. seguì il silenzio. restammo sedute per un altro paio di minuti, senza parlare, ma abbastanza vicine da toccarci. “Hai finito?” chiesi, sorridendo in modo affabile.

“per ora” rispose stizzita. annuii, senza aggiungere altro. re-stammo di nuovo in silenzio. infine, l’abbracciai, le diedi un ba-cio sulla guancia e andai in cucina, tornando di lì a poco con un bricco di tè. rosemary era seduta nella stessa posizione, e sembra-va una bambina smarrita.

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l’aiutai ad alzarsi e attraversammo la stanza fino al divano. il tè aspettava sul tavolino lì di fianco. si sedette e mi guardò sorri-dendo mentre le mettevo una bella coperta sulle gambe, poi mi sedetti anch’io. “sono così spaventata e sola. ti prego, non te ne andare” disse. “Mi sento al sicuro con te.”

“non vado da nessuna parte. Va tutto bene. se mi tratti con rispetto mi prenderò cura di te” le dissi con franchezza.

rosemary sorrise come una bimba bisognosa d’amore. “allora resta per favore. Voglio che rimani.” annuii e la baciai ancora sulla guancia, cosa che le fece allargare il sorriso.

da allora in avanti le cose andarono meglio tra noi. Mi par-lò del suo passato permettendomi di capirla maggiormente e di come avesse sempre allontanato le persone. Quello schema com-portamentale mi era noto perché l’avevo assunto io stessa per lungo tempo, ma conoscevo anche i vantaggi di liberarsene, così le spiegai che non era troppo tardi per consentire alle persone di avvicinarsi. rosemary disse che non sapeva come fare, ma che voleva provare a essere più dolce.

la malattia avanzava lentamente ma c’erano chiari segni del suo diffondersi, soprattutto l’aumento della debolezza. all’inizio fu un cambiamento lento e sebbene riuscissi a coglierlo, rosema-ry talvolta sembrava volerlo negare. Mentre pianificava di farmi tenere i suoi libri contabili e di mettere ordine nei suoi investi-menti, parlava dettagliatamente di questo e di quello. io restavo in ascolto, sapendo che non sarebbe mai successo. Mi disse che avrebbe trascorso qualche ora con me per avviarmi al lavoro non appena ne avesse avuto le forze. Mi era già capitato di avere a che fare con clienti che continuavano a fare progetti per il futuro, mentre le loro energie si affievolivano sempre più.

si ostinava anche a farmi prendere gli appuntamenti in città, e voleva che telefonassi dalla sua camera da letto, dove poteva ascoltare ogni parola e interrompermi continuamente, gestendo l’intera conversazione. poi mi toccava spostarli tutti, non cancel-larli, uno alla volta. non si poteva negare che avesse una persona-

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lità dispotica. sebbene fossi felice di fare certe cose inutili per lei, mi rifiutavo categoricamente di sottostare ad altre sue richieste. per esempio non ero disposta a sprecare tempo ed energie nella ri-cerca di oggetti che avevamo già cercato in ogni angolo della casa.

ogni giorno, le sue barriere emotive si abbassavano sempre più e il nostro rapporto diventava più stretto. i suoi parenti vivevano lontano, ma telefonavano regolarmente. c’erano alcuni amici, ex partner in affari, che venivano a trovarla spesso. per lo più però era una casa tranquilla con un bel giardino di cui godevamo insieme.

Un pomeriggio mi stava guardando dalla sedia a rotelle lì vi-cino, mentre ripiegavo alcune lenzuola, quando mi ingiunse di smettere di canticchiare. “non sopporto che tu sia sempre felice e che canti continuamente” dichiarò tristemente. finii quello che stavo facendo, chiusi l’armadio delle lenzuola, mi voltai e la os-servai divertita. “Be’, è così. canticchi sempre e sei felice. Vorrei che a volte fossi triste anche tu.”

era tipico di rosemary pensarla così e non ne fui affatto sor-presa. non ero sempre felice, ma quando lo ero se ne lamentava. non le risposi a parole ma mi limitai a guardarla, poi feci una giravolta, le mostrai la lingua e uscii dalla stanza ridendo. la cosa le piacque molto, perché quando rientrai poco dopo, sorrideva maliziosamente e con accettazione. da allora non condannò più il mio umore positivo.

“perché sei felice?” mi chiese un mattino, qualche tempo dopo. “Voglio dire, non solo oggi, ma in generale. perché sei felice?”. la domanda mi strappò un sorriso, perché pensai a quanta strada avevo percorso dentro di me per riuscire ad arrivare al punto in cui mi veniva fatta una simile domanda. considerato quello che avevo dovuto passare nella mia vita mentre mi prendevo cura di rosemary, era una domanda alquanto commovente.

“perché la felicità è una scelta, e cerco di farla tutti i giorni. ci sono momenti in cui non riesco. proprio come te, anche io ho avuto una vita difficile, in modi diversi, ma comunque difficile. però, invece di rimuginare su cosa è andato storto e su quanta

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fatica ho fatto, cerco il più possibile di trovare la gioia in ogni gior-nata e di apprezzare il presente” dissi sinceramente. “siamo liberi di scegliere su cosa concentrarci. io cerco di scegliere cose positive, come conoscerti, fare un lavoro che mi piace, non essere sotto pressione perché devo raggiungere un certo fatturato, e sono grata della mia salute e di ogni giorno che mi viene dato.” rosemary sorrise e mi guardò intensamente, mentre assorbiva le mie parole.

Quello che non sapeva però, era che mentre mi prendevo cura di lei, mi ero ritrovata a dover affrontare personalmente la malat-tia. Qualche tempo prima, avevo subito un piccolo intervento. Quando lo specialista mi chiamò con i risultati, mi disse che sa-rebbe stato necessario intervenire nuovamente con una operazio-ne più invasiva. gli risposi che ci avrei pensato su.

“non c’è niente su cui pensare,” aveva affermato senza mezzi termini, “devi fare questa operazione o potresti morire nel giro di un anno.” gli ripetei che ci avrei pensato. avevo già fatto grandi scoperte attraverso il mio corpo, e non c’è da sorpren-dersi visto che racchiude il nostro passato. il dolore e la gioia si manifestano nel fisico in un modo o nell’altro. essendo riuscita a liberarmi da sintomi minori in precedenza, risanando diver-se emozioni dolorose, decisi che in quel momento mi veniva offerto un enorme dono di guarigione. così avrei affrontato la malattia da quella prospettiva.

avevo una dose sufficiente di paura da gestire però, e fui in grado di confidarmi solo con una o due persone. sarebbe servita tutta la mia forza per superare la cosa e per restare focalizzata su ciò che volevo, ossia la guarigione. Quindi non potevo rischiare di farmi carico delle opinioni o delle ansie degli altri. potevano anche essere a fin di bene, ma non c’era un centimetro di spazio per la paura degli altri in questo viaggio di guarigione. avere il co-raggio di esprimermi emotivamente, di lasciare andare le cose da livelli molto profondi, divenne ancora più importante e di certo la situazione volse al peggio per un po’. Un sacco di fantasmi del passato tornarono a galla.

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a un certo punto, fu talmente difficile e doloroso che finii con accogliere il pensiero della morte, e supplicai la malattia di por-tarmi con sé. Quando dovetti riflettere seriamente su tutta la mia vita e accettare che malgrado i miei sforzi, avrei potuto davvero soccombere alla malattia e non riuscire a vivere fino in tarda età, raggiunsi un punto in cui provai una pace straordinaria. render-mi conto che avevo già vissuto una vita incredibile e che avevo avuto il coraggio di rispettare il mio cuore e la mia vocazione, mi permise di guardare in faccia la morte e di accettare entrambi i risultati. la pace che ne seguì fu meravigliosa.

Mentre continuavo a praticare la meditazione, lavoravo anche con diversi libri sulla guarigione e sulle tecniche di visualizzazio-ne, oltre a rilasciare le emozioni che emergevano di volta in volta. iniziarono ad avvenire numerosi cambiamenti dentro di me. fi-nalmente poi, raggiunsi uno stadio in cui sentii che il peggio era passato, e che mi trovavo sulla strada verso il benessere.

Mi fu proposto un piacevole incarico di house-sitter in un piccolo cottage selvaggio, coperto di rampicanti e nascosto da una grande cancellata. si trovava in un sobborgo piuttosto ric-co, ma era quasi invisibile e me ne innamorai a prima vista. affondare in una vasca da bagno era sempre stato una sorta di salvavita per me e questa casa ne aveva una enorme. trovando-mi in un ambiente così congeniale, decisi di fare un digiuno a base di succhi, come già avevo fatto molte volte prima, e un paio di giorni di silenzio e meditazione.

il mio corpo era un ottimo indicatore dello stato emotivo in cui mi trovavo. se si presentava un sintomo minore, capivo subito dove erano stati i miei pensieri o le mie attività nei giorni o nelle settimane precedenti al suo manifestarsi. di conseguenza, nel tem-po ero giunta a gioire del canale di comunicazione chiaro e sincero rappresentato dal mio corpo, ascoltavo sempre quello che aveva da dirmi e facevo del mio meglio per adottare metodi di migliora-mento. spesso, clienti o amici ammettevano di aver capito che c’era qualcosa che non andava dal punto di vista fisico molto tempo

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prima che si fossero decisi a fare qualcosa a riguardo. Ma essendo stata diretta testimone di come la vita perda di qualità quando vie-ne a mancare la salute, avevo imparato ad agire nel modo migliore possibile al primo segnale di pericolo inviato dal corpo. la salute ti dà una libertà incredibile e quando se ne va, spesso è per sempre.

Una delle meditazioni che seguii mentre stavo nel cottage consisteva in un percorso guidato che avevo trovato in un libro acquistato di recente. Bisognava superare diverse fasi preliminari per arrivare al punto finale e avevo già fatto gran parte del lavoro. nello specifico questo testo parlava dell’intelligenza delle nostre cellule, di come collaborino tra loro e ci aiutino a sradicare il male dal corpo. si trattava di guarigione a livello cellulare. così a metà mattina mi sedetti sul mio cuscino per la meditazione e scivolai in uno stato di profonda pace interiore. eseguii le visualizzazioni e chiesi alle cellule di liberarmi dagli ultimi strascichi della malat-tia, se a quel punto ne rimanevano ancora dentro di me.

poi mi ritrovai a correre verso il bagno per vomitare. il conato saliva dai recessi del mio corpo e continuai a vomitare per quelli che sembrarono anni, finché non mi sentii completamente svuotata. Mi sedetti sul pavimento del tutto prosciugata e mi appoggiai alla vasca da bagno. aspettai in una specie di stordimento, nel caso in cui avessi dovuto rimettere di nuovo. ed ecco arrivare un altro conato, e poi ancora, finché non cessarono definitivamente. Mi alzai facen-do leva sulla vasca da bagno, visto che per lo sforzo non avevo più energia. Mi faceva male lo stomaco per i conati ripetuti. tornai len-tamente nella stanza della meditazione sentendomi molto cambiata; mi sdraiai sul morbido tappeto, tirai su di me una grande coperta, mi raggomitolai in posizione fetale e dormii per sei ore filate.

la luce del tardo pomeriggio splendeva nella stanza e gli albori del freddo notturno mi risvegliarono delicatamente. sdraiata al calduccio sotto la coperta, in contemplazione della bella luce che brillava all’interno, ebbi l’impressione di trovarmi in una nuova vita. Mandai una preghiera di gratitudine per la guida e il corag-gio che mi avevano portata fino a questo stadio di guarigione e

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sorrisi tra me e me. il mio corpo era ancora debole per gli eventi della giornata. Ma mentre mi rimettevo in movimento, alzando-mi ed entrando in sintonia con la sera, fui invasa da una sensazio-ne di euforia. Mi preparai un pasto leggero dopo il digiuno e mi doleva il viso per la felicità. era finita.

il mio corpo era guarito e da allora non si sono più manifestati i segni della malattia. sebbene sia molto rispettosa delle scelte che ciascuno fa per la propria salute, sia che si tratti di operazioni chirurgiche, terapie naturali, tradizioni orientali o prodotti far-maceutici occidentali, io avevo scelto il metodo giusto per me. Mi ci era voluto tutto quello che avevo imparato fino ad allora per riuscire a superare quel momento, ma ce l’avevo fatta.

non mi è mai sembrato opportuno condividere questa storia con i miei clienti, perché la strada che avevo scelto richiedeva una preparazione di quasi quarant’anni attraverso le mie esperienze di vita, e molti mesi di guarigione. non sarebbe stato corretto offrire loro false speranze. Ho conosciuto tutte queste persone quando erano già troppo vicine alla fine della malattia e della loro esistenza.

grazie a questa esperienza, apprezzai ancor di più il dono della mia vita e scoprii che essere felici è una scelta quotidiana, una nuova abitudine da integrare nel modo di pensare. c’erano gior-ni in cui non riuscivo a essere felice, ma penso che accettare la cosa porti lo stesso a una esistenza più serena. farlo ti permette di accettare i giorni più duri, nella consapevolezza che racchiu-dono anch’essi dei doni e che passeranno, perché la gioia ti aspet-ta dall’altra parte. comunque, scegliere in modo consapevole di focalizzarmi sulla felicità e sulle cose belle quando potevo stava creando senz’altro dentro di me dei cambiamenti positivi.

così, quando rosemary mi chiese perché canticchiassi in conti-nuazione e fossi sempre allegra, la ragione era che avevo appena vis-suto un miracolo autoindotto e mi sentivo molto forte e fortunata.

più tardi, quel giorno, rosemary mi confessò che voleva essere felice ma non sapeva come fare. “Be’, fai finta di esserlo, per una mezz’ora. forse ti piacerà al punto da diventarlo veramente. a ogni

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modo, l’atto fisico di sorridere cambia le tue emozioni. Quindi ti sfido a non corrucciarti, a non lamentarti e a non dire cose negative per mezz’ora. invece, pronuncia parole carine, focalizzati sul giardi-no se devi, ma ricordati di sorridere” la istruii. le ricordai che non l’avevo conosciuta in passato, perciò poteva essere ciò che voleva adesso. a volte la felicità necessita di uno sforzo consapevole.

“credo di non aver mai pensato di meritarmi la felicità, sai. la fine del mio matrimonio ha macchiato il buon nome della famiglia. come faccio a essere serena?” chiese con una sincerità tale da spezzarmi il cuore.

“permettiti di esserlo. sei una bella donna e meriti di conosce-re la felicità. permetti a te stessa di farlo e scegli di essere felice.” gli ostacoli di rosemary erano gli stessi che avevo conosciuto molto bene in passato. così le ricordai che l’opinione della fa-miglia o la sua reputazione potevano privarla della gioia solo se glielo avesse permesso, e le risollevai l’umore con qualche battuta, mentre l’aiutavo a liberare la sua felicità.

sebbene all’inizio avesse esitato, rosemary iniziò a darsi il per-messo di essere serena, abbassando la guardia ogni giorno di più, spesso condividendo un sorriso che di tanto in tanto si trasforma-va in una risata. ogni volta che il suo vecchio modo di fare tor-nava alla ribalta, quando per esempio mi ordinava sgarbatamente di fare qualcosa, mi limitavo a fare una risata e a dire: “non ci penso proprio!”. allora, anziché accentuare la sua scortesia, ri-deva anche lei e me lo chiedeva in modo più gentile, al che io acconsentivo senza fare storie.

tuttavia, a quel punto la sua salute si stava affievolendo ogni giorno di più e se ne rendeva conto anche lei. per quanto con-tinuasse a raccontare del momento in cui mi avrebbe mostrato come tenere i suoi libri contabili, non sembrava più tanto scon-volta se non partecipavo discorrendo della cosa con entusiasmo. anche il tempo che passava fuori dal letto era diminuito. dovette rassegnarsi a essere lavata lì, perché era troppo rischioso per la sua salute e per la mia schiena cercare di spostarla nella doccia.

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se mi trattenevo troppo a lungo nel resto della casa impegnata in qualche faccenda, mi chiamava per tenerle compagnia. il suo letto restava libero accanto a lei perché adesso giaceva in uno da ospedale. era necessario perché rosemary non era più in grado di collaborare per alzarsi. le pompe idrauliche del letto da ospedale le permetteva-no di stare seduta senza che mi rompessi la schiena per sollevarla, o che se la rompesse la badante del turno di notte. così quando non c’erano altri compiti da svolgere se non quello di tenerle compagnia, presi l’abitudine di sdraiarmi sul suo vecchio letto a chiacchierare. rosemary stava più comoda sdraiata sul fianco, così faceva meno fatica ed era una posizione piuttosto confortevole anche per me.

dopo poco prendemmo l’abitudine di farci un pisolino nel po-meriggio. la strada di casa sua era tranquilla a quell’ora del giorno e io sarei stata proprio lì accanto se avesse avuto bisogno di qualcosa. così dormivo bene anch’io, mettendomi al calduccio sotto le coper-te. Quando ci svegliavamo, ci raccontavamo i sogni fatti e restava-mo sdraiate a chiacchierare finché non dovevo alzarmi per sbrigare delle faccende. sono stati momenti teneri e speciali per entrambe.

Un pomeriggio, mentre eravamo sdraiate a chiacchierare, ro-semary mi chiese com’era la morte, come avveniva il trapasso. non era la prima persona a rivolgermi quella domanda. suppon-go che sia lo stesso che interrogare gli altri sulla loro esperienza in varie situazioni, come le donne gravide che chiedono come sia il parto. oppure chi viaggia cerca di sapere da altri viaggiatori come hanno trovato un certo paese. in questo caso, però, una persona che sta per morire non può interrogare chi è già morto, perché difficilmente riceverebbe una risposta. così spesso i clienti chiede-vano la mia opinione e s’informavano sulla mia esperienza. con franchezza, raccontavo sempre di come stella se ne fosse andata sorridendo. dicevo anche di come tutti i trapassi a cui avevo as-sistito fossero avvenuti in breve tempo. Quello di stella dava loro pace, proprio come era successo a me quando ero stata presente.

nella società moderna, si dà pochissima importanza al benes-sere spirituale ed emotivo nel trattamento dei malati terminali,

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o di chi è malato in generale. a meno che il paziente non abbia la fortuna di trovarsi in un centro che si occupi anche di questi aspetti della vita, di solito viene lasciato a rimuginare senza ri-sposte. e ciò lo spaventa terribilmente, oltre a isolarlo. c’è un enorme divario tra la cura della salute fisica e anche solo il ricono-scimento del legame con quella spirituale o emotiva, nella società moderna. Unificando queste esigenze e curando tutti gli aspetti del viaggio individuale, il morente sarebbe in grado di riconciliar-si con se stesso prima delle sue ultime settimane o giorni.

Questo ambito rappresenta un punto debole a causa della ten-denza a nascondere la morte agli occhi della società. chi sta per andarsene ha tantissime domande da fare, cose che avrebbe potuto chiedere molto prima se avesse pensato al fatto che un giorno non ci sarebbe più stato, come succederà a tutti noi. se questi inter-rogativi su argomenti tanto profondi fossero posti per tempo, gli uomini troverebbero molto prima le risposte e la pace personale. allora a nessuno capiterebbe di vivere negando l’avvicinarsi della morte per paura di affrontarla, come invece spesso accade.

Ma venne il giorno in cui rosemary non poté più negare la sua condizione. c’erano volte in cui voleva stare sola, “per riflet-tere”, diceva.

Una sera, sul presto, mentre rientravo nella sua stanza, di-chiarò: “Vorrei aver permesso a me stessa di essere più felice. che razza di persona infelice sono stata! pensavo di non meri-tare la felicità. Ma invece sì. adesso lo so. ridere con te stamat-tina mi ha fatto capire che non c’era affatto bisogno di sentirmi in colpa di essere contenta.” seduta sul bordo del letto l’ascolta-vo mentre proseguiva.

“si tratta proprio di una nostra scelta, vero? possiamo impe-dirci di esserlo perché pensiamo di non meritarlo, o perché per-mettiamo alle opinioni degli altri di diventare parte di ciò che siamo. Ma non è così, vero? possiamo essere tutto quello che ci autorizziamo a essere. Mio dio, perché non l’ho capito prima? che spreco!”.

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le sorrisi con amore: “Be’, rosemary, è successo anche a me. Ma essere gentili e compassionevoli è un modo più salutare di trattare se stessi. a ogni modo ci sei arrivata ora, e sei riuscita a far entrare nella tua vita un po’ di felicità. abbiamo passato momen-ti bellissimi insieme.” ricordando le cose di cui avevamo riso, rosemary concordò ridacchiando sommessamente e si ritrovò di nuovo in uno stato d’animo allegro.

“sta iniziando a piacermi chi sono diventata ultimamente, Bronnie, questa parte più leggera di me.” sorridendo, confermai che anche a me piaceva questo suo lato. “oh, ero una tiranna?” ridacchiò, ripensando alle nostre prime settimane insieme.

Ma tra di noi non ci furono solo risate. ci sono stati anche momenti di tristezza, per quanto dolci, in cui ci tenevamo per mano e piangevamo insieme, sapendo ciò che l’aspettava. alme-no negli ultimi mesi rosemary aveva goduto di un po’ di felicità. aveva un così bel sorriso. riesco ancora a vederlo.

il suo ultimo pomeriggio, la polmonite si acutizzò e le si ri-empì la gola di muco. nel frattempo era sopraggiunto qualche parente e anche un paio di sue care amiche. sebbene la sua dipar-tita non fu la più serena a cui abbia assistito, fu incredibilmente rapida. Quella cara donna se n’era andata altrove.

Quel pomeriggio era di turno l’infermiera, che arrivò con die-ci minuti di ritardo. Mentre i parenti di rosemary e le amiche erano in cucina a chiacchierare, noi la lavammo e le mettemmo addosso una camicia da notte pulita. l’infermiera non aveva mai conosciuto rosemary e mentre ci prendevamo cura del suo cor-po, mi chiese che tipo di persona era stata.

guardai il corpo della mia cara amica e il suo volto sereno per sempre addormentato e sorrisi. fui travolta dai ricordi dei nostri pomeriggi passati coricate nei letti gemelli. rividi anche le imma-gini di rosemary che rideva, o che mi porgeva la guancia.

“era felice” risposi sinceramente. “sì. era una donna felice.”

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la felicità È adesso

tra i miei clienti, cath era di gran lunga la più filosofa di tutti. aveva un’opinione su tutto, ma non in modo ottuso, bensì approfondito. siccome amava il sapere e la

filosofia, aveva assorbito una enorme quantità di conoscenze nel corso dei suoi cinquantuno anni di vita. inoltre viveva ancora nella casa in cui era nata. “Mia madre è nata e morta qui. anche io farò lo stesso” affermava con determinazione.

era amante dei bagni, quindi le conversazioni migliori che intessemmo durante i primi mesi insieme di solito avvenivano con lei nella vasca e io seduta su uno sgabello lì di fianco. dal momento che anche a me piaceva tantissimo stare a mollo, ero determinata ad aiutare cath a usare la sua vasca il più a lungo possibile. dopo poco però, s’indebolì al punto da non avere più le forze per entrarci e uscire, neanche con il mio aiuto. il rischio che cadesse era troppo alto.

Quando capì che probabilmente quello sarebbe stato il suo ul-timo bagno, iniziò a piangere e le sue lacrime cadevano nell’acqua che la circondava. “sto perdendo tutto. adesso tocca al bagno” pianse. “poi sarà camminare. poi non sarò più nemmeno capace di stare in piedi, e poi toccherà a me. sarà il mio turno di anda-re. la mia vita si sta spegnendo a poco a poco.” il suo pianto si trasformò in singhiozzi, profondi e irrefrenabili. per quanto mi dispiacesse per lei, e fossi lì lì per piangere anch’io, era un bene che riuscisse a tirare fuori le proprie emozioni con tanta onestà.

dai recessi dell’anima, cath pianse un fiume di lacrime. Quando sembrò che non fosse rimasto più niente da esprimere, restò seduta serenamente nella vasca, sfinita dai singhiozzi, fis-sando l’acqua o disegnando delle figure sulla sua superficie. poi ricominciò di nuovo, e ogni singhiozzo proveniva da un posto ancor più primitivo e profondo di prima. pianse per ogni ricordo

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triste che aveva albergato dentro di sé, per tutte le persone che aveva perso, per tutte quelle che avrebbe lasciato andandosene. Ma soprattutto, pianse per se stessa.

ogni volta che cercavo di lasciarla sola, per darle un po’ di pri-vacy, scuoteva la testa e mi chiedeva di restare. così sedevo sullo sgabello, inviandole amore, senza parlare, semplicemente restando lì mentre sospirava. era straziante ma salutare allo stesso tempo sapere che si stava liberando di cose sepolte tanto in profondità.

passò mezz’ora e l’acqua stava perdendo il suo calore, perciò mi offrii di rabboccare la vasca con dell’altra più calda. cath scos-se la testa: “no, va bene così. È ora” e così dicendo tirò il tappo e mi guardò in cerca d’aiuto per alzarsi e uscire. più tardi la portai fuori al sole con la sedia a rotelle. indossava la sua vestaglia azzur-ro chiaro e le ciabatte rosso fiammante, e sembrava in pace.

“ascolta questo uccello” sorrise. sedemmo entrambe in silenzio, deliziate dal suo canto, sorridendo ancor di più quando udimmo il suo compagno rispondergli da un albero più su, lungo la strada. “ogni giorno è un dono adesso, sai. È sempre stato così, ma solo ora ho rallentato il ritmo abbastanza da riuscire a scorgere l’enorme bellezza che ogni giorno ci offre. possiamo dare così tante cose per scontate. ascolta.” diversi canti squillarono da alcuni alberi lì vicino.

cath spiegò come fosse giunta a capire che forza incredibile fosse la gratitudine. “È troppo facile volere sempre di più dalla vita” diceva, “e va bene fino a un certo punto, perché espandere ciò che siamo fa parte del processo di evoluzione e di creazione. Ma siccome non avremo mai tutto quello che vogliamo, e dal momento che il processo di crescita non si ferma mai, apprezzare ciò che abbiamo già ottenuto lungo il cammino è la cosa più importante. la vita va veloce” affermava, “sia che duri vent’anni, che quaranta o ottanta.” aveva ragione. ogni giorno di per sé è un dono e una benedizione. e comunque è tutto quello che abbiamo: il momento in cui ci troviamo.

negli scorsi vent’anni avevo tenuto un diario della gratitudi-ne, dove alla fine della giornata annotavo alcune cose di cui ero

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grata. spesso c’erano tante cose per cui provare gratitudine. Ma di tanto in tanto, nei momenti più cupi, facevo fatica a trovarne anche solo una. la stanchezza emotiva mi aveva logorata al punto che anche trovare motivi di gioia era una fatica. eppure ho sem-pre insistito. persino allora riuscivo a trovare cose di cui essere ri-conoscente, come l’acqua limpida, un posto dove dormire, il cibo nello stomaco, un sorriso da un estraneo, o il canto di un uccello.

Ma, come spiegai a cath, sebbene apprezzassi le cose alla fine della giornata, quando le annotavo sul diario, mi ci era voluta un po’ di pratica per abituarmi ad apprezzarle mentre si verificava-no, soprattutto quelle più complesse. riuscii però a introdurre la consuetudine di pronunciare una muta preghiera di ringrazia-mento ogni volta che mi veniva offerto un dono.

la natura aveva sempre ricevuto subito il suo ringraziamento. per esempio, se una brezza leggera mi accarezzava il viso, ero grata per il fatto di essere abbastanza in salute da trovarmi all’aperto per sentirla. Ma volevo imparare a essere riconoscente anche di altre cose lungo il cammino. sebbene scrivere sul diario mi avesse fatto aprire a un livello maggiore di gratitudine, riuscire finalmente a vivere nel presente mi permise di infonderla in ogni istante della vita quotidiana. c’è una ragione per dire grazie a ogni ora, decisi, e fu così che si è creata in me questa nuova abitudine.

“allora sono certa che ricevi tante cose belle se manifesti la gratitudine lungo il cammino!” mi disse cath.

“Quando lo permetto, cath, quando ricordo il mio stesso va-lore e lo lascio fluire, sì. Ho avuto decisamente tante cose belle nella vita. a volte devo solo togliermi di mezzo. proprio come per ognuno, la gioia arriva più facilmente quando mi trovo in uno stato di gratitudine e di flusso.”

cath rise alla mia teoria e si disse d’accordo. “sì, la felicità vuole fluire fino a noi. Ma senza riconoscenza, e se non ci conce-diamo di viverla, le impediamo di raggiungerci. la maggior parte della gente non si rende conto della fortuna che ha. nemmeno io l’ho fatto per lungo tempo, ma ho iniziato a capirlo prima che mi

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colpisse la malattia, così sono riuscita a vivere partendo da uno stato migliore dentro di me.”

dopo un po’ di tempo passato piacevolmente al sole, cath volle mangiare e fare un pisolino. il suo pranzo era composto da gelato e frutta bollita. era tutto quello che riusciva a mandare giù. Qualsiasi altra cosa le richiedeva troppa fatica per essere masti-cata, diceva, e non aveva sapore. dopodiché le sollevai le gambe fin sul letto e la sistemai in una posizione comoda, poi chiusi le tende. di recente i medici le avevano aumentato la dose di anal-gesici, cosa che le dava più agio ma allo stesso tempo la sfiniva. così si addormentò subito di un sonno profondo.

Quando fu sera, l’ex fidanzata di cath fece un salto per salu-tarla. non c’erano sentimenti spiacevoli tra loro. erano rimaste buone amiche dopo la rottura più di dieci anni prima. la loro era un’amicizia rispettosa e cortese. anche altre persone facevano visita regolarmente, come suo fratello maggiore con la moglie e i figli, e quello minore. di tanto in tanto compariva anche qualche vicino e i colleghi di lavoro venivano tutte le volte che potevano. era una donna molto amata.

dalle varie storie che sentii riferire dai suoi visitatori, cath era stata molto motivata al lavoro e aveva sempre dispensato energia positiva a tutti. ora, come tutte le persone che si avvicinano alla morte, le piaceva tantissimo essere aggiornata sulle loro esperienze e su cosa stesse accadendo nel mondo fuori dalle mura di casa sua. Quando chi sta per morire non può più vivere fuori casa, sembra assaporare ogni frammento di notizia proveniente dall’esterno. spesso amici e parenti non sapevano cosa dire. ascoltare le storie di ciò che accade fuori tiene le persone nel flusso delle cose e que-sto è positivo per loro, non negativo.

così era per cath, senza dubbio. Voleva farsi raccontare il più possibile cose belle. Ma per gli amici che le facevano visita era dura, perché spesso erano addolorati all’idea dell’imminente perdita. grazie al legame che si era creato tra noi, ero in gra-do di parlarle apertamente di tutto. così, su richiesta della sua

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amica sue, un giorno accennai alle emozioni che provavano i suoi ospiti.

sue si sforzava di essere positiva con la sua amica, quando inve-ce tutto quello che desiderava era piangere a dirotto ogni volta che andava a trovarla. Mi raccontò che prima di entrare restava fuori, seduta in macchina, concentrandosi per essere forte e mostrarsi felice prima di ogni visita. poi, dopo, se ne stava ancora seduta là fuori piangendo a dirotto. “credo di capire” ammise cath più tardi. “solo che non so se sono capace di gestire anche la tristezza di sue oltre alla mia. non posso farmi carico anche di quella.”

“Ma tu non devi fartene carico” dissi. “solo permettile di espri-mersi sinceramente senza cambiare argomento quando condivide i suoi sentimenti con te. Ha bisogno di comunicare certe cose e tut-to quello che devi fare è consentirglielo. non addossartene il peso. non te lo sta chiedendo. Ha solo bisogno di dirti quanto ti vuole bene, e non riesce a farlo senza piangere o se non glielo permetti.”

cath capiva dove volessi andare a parere e disse di sentirsi male per aver creato tanta tristezza negli altri. ne era quasi imbarazza-ta. “dio, cath, a questo punto della tua vita, conta ancora qual-cosa l’orgoglio?”, le chiesi a brucia pelo, ma con gentilezza. rise per tutta risposta. “esci allo scoperto e permetti agli altri di dirti quanto ti vogliono bene” la esortai.

sorrise e restò in silenzio per un attimo prima di rispondere. “Qualche tempo fa, quando mi stavo rendendo conto della gra-vità della mia malattia, ho imparato ad accettare le mie emozioni e a non respingerle. Vengono fuori e io adesso le lascio fare. ecco perché quel giorno nella vasca da bagno mi sono sentita libera di singhiozzare davanti a te. Ho imparato ad accogliere i miei senti-menti per quel che sono nell’istante in cui si manifestano, senza rimandarli indietro cercando di bloccarli. non sono altro che un sottoprodotto dei miei pensieri e della mia mente. so che è pos-sibile creare nuove emozioni focalizzandosi sugli aspetti positivi. i sentimenti dentro di me sono già una parte del mio io attuale, e vengono rilasciati al meglio, senza essere trattenuti come un

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fardello. eppure eccomi qui, irrispettosa di quelli degli altri, a impedire loro di esprimersi sinceramente.” cath scosse la testa e sospirò. poi dopo un momento di riflessione, mi guardò sor-ridendo e disse: “suppongo che sia giunta l’ora per me di essere coraggiosa e di lasciare che versino le loro lacrime.”

annuendo, suggerii che le cose avrebbero potuto mantenersi sempre su toni leggeri nelle occasioni successive. Ma il carico di emozioni che i suoi amici e i suoi cari si portavano dietro andava necessariamente condiviso. l’amavano e avevano bisogno di dirglie-lo e di dimostrarglielo, anche se ciò a volte li avrebbe fatti piangere.

subito dopo ci furono molte conversazioni dolorose tra cath e i suoi visitatori, ma l’amore che ne scaturì fu esaltante. i loro cuori si erano aperti e sebbene in un certo senso si stessero spez-zando, erano anche in fase di guarigione grazie all’espressione dell’amore che ora era libero di fluire.

Un giorno particolarmente intenso, la sua ultima amica era appena uscita ridendo tra lacrime di gioia e di tristezza per le battute che si erano scambiate. Quando se ne fu andata, cath mi guardò con amore: “sì, è importante tirare fuori i sentimenti, accettarli. e fa bene anche ai miei amici” disse. “avranno anche dei ricordi migliori, per loro. non resteranno bloccati dal peso di cose che non dovrebbero portare.”

felice della sua analisi, annuii comprendendola appieno. nei giorni più neri, finalmente ero riuscita a separare me stessa dai senti-menti che provavo, capendo che non si trattava altro che dell’espres-sione del mio dolore, o della gioia, e che non rappresentavano il mio vero io. proprio come ciascuno di noi, conservavo la saggezza della mia anima. Ma per conoscere il mio vero sé, la saggezza divina inte-riore, dovetti permettere ai sentimenti di emergere. altrimenti, mi avrebbero impedito di raggiungere il potenziale della persona che ero destinata a essere. così fui felicissima di sentire cath giungere alle mie stesse conclusioni, esprimendole con parole sue.

essendo di corporatura esile, ci volle poco perché iniziasse a sembrare malata, dal momento che continuava a calare di peso:

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“il tempo a mia disposizione sta scadendo. non posso ignorarne i segnali, questo è certo” dichiarò un mattino, mentre sedeva sulla comoda. tante delle conversazioni coi miei clienti erano avvenu-te mentre stavano seduti a fare i loro bisogni mattutini sul w.c. portatile, con me seduta lì vicino. il fatto che stessero avendo un movimento intestinale non ci fermava. faceva solo parte della routine e non c’era ragione di lasciare che un’incombenza simile intralciasse un buon racconto. Mentre aiutavo cath a tornare a letto, le confermai quanto sospettava.

Una volta tornata a letto, disse: “non mi dispiace di come ho vissuto, perché ho imparato dalla maggior parte delle cose che ho fatto. Ma se dovessi rifare qualcosa in modo diverso, se ne avessi la possibilità, permetterei a me stessa di essere più felice.” fui alquan-to sorpresa che proprio lei pronunciasse queste parole. le avevo già sentite dire da altri clienti, ma cath mi sembrava una persona feli-ce, certo, per quanto possa esserlo una persona che sta per morire e che sta fisicamente malissimo. così la interrogai a riguardo.

Mi spiegò di quanto avesse amato il suo lavoro e di quanto si fosse concentrata troppo sui risultati. aveva lavorato a proget-ti per giovani problematici e aveva sempre creduto che dare il proprio contributo fosse fondamentale per essere soddisfatti nella vita. “tutti noi abbiamo delle doti da condividere, nessuno esclu-so. non importa che lavoro fai. ciò che conta è cercare di dare un contributo consapevole, nella speranza di creare un mondo migliore” continuò cath. “l’unico modo in cui le cose possono migliorare è renderci conto che siamo tutti interconnessi. da soli non possiamo fare niente di buono. se solo riuscissimo a col-laborare per il bene comune, invece che l’uno contro l’altro in competizione e mossi dalla paura!”.

Malgrado fosse sfinita e trascorresse il tempo per lo più con-finata a letto, cath aveva ancora molte cose da dire. avevo il sospetto che la filosofa che c’era in lei sarebbe stata l’ultima ad andarsene, e ne ero più che felice. Mentre continuava, le spalmai la crema sulle braccia e sulle mani. “tutti abbiamo un contri-

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buto positivo da dare. io ho dato il mio. Ma mentre cercavo lo scopo della mia esistenza, mi sono dimenticata di gustarmi la vita. tutto dipendeva dal risultato della mia ricerca. poi, quando ho trovato il lavoro che amavo, un lavoro che potessi svolgere con l’intento sincero di dare il mio contributo, ho continuato a basarmi sui risultati.”

era una cosa che avevo visto di frequente. erano anche frasi tipiche da parte dei clienti. lavorando per obiettivi, troppo spes-so si trascura il presente. era questo ciò di cui parlava cath. la sua felicità era dipesa dal risultato finale e non si era goduta il processo che l’avrebbe portata fino a lì. commentai dicendo che nessuno era immune dal farlo a volte, me compresa.

lei continuò: “sì, ma in questo modo mi sono privata di una potenziale felicità. È questo che intendo quando dico che avrei voluto agire diversamente. È importante, certo, lavorare per tro-vare il proprio scopo e contribuire al mondo, con ogni capacità. Ma permettere che la propria felicità dipenda dal risultato fina-le non è il modo giusto per farlo. provare gratitudine per ogni giorno che ci viene donato è la chiave per riconoscere la felicità nel presente e gioirne. non solo quando ottieni i risultati sperati o quando vai in pensione, o quando succede questo o quello.” cath sospirò, sfinita dal suo sfogo ma mossa dall’urgenza di essere ascoltata, come accadeva spesso.

dopo averla ascoltata e averle detto che capivo benissimo i suoi pensieri, le sistemai le coperte e andai in cucina a preparare del tè. Mentre raccoglievo qualche foglia di lemongrass in giar-dino ripensai alle parole di cath. Mi tornarono in mente anche quelle molto simili pronunciate da altri clienti. Un uccello can-tava e il profumo della lemongrass, ora nella teiera, si spandeva per tutta la cucina; in quel momento non fu difficile sentirmi presente e riconoscente.

poi cath volle rilassarsi e ascoltare, così mi chiese di raccontar-le dove vivessi. risi un pochino e spiegai che quella era la prima domanda che mi facevano sempre gli amici quando mi chiama-

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vano. “dove sei adesso?” erano parole ben note alle mie orecchie. così le raccontai tutto, dei miei primi anni alla deriva, seguiti da un più recente periodo come house-sitter e di come mi fossi resa conto da poco che non avevo più l’energia di una volta, e desideravo avere una vita meno nomade. Badare alle case d’altri a Melbourne non era un’attività costante e disponibile come era stato a sydney. non sapere dove avrei vissuto di lì a una settimana stava iniziando a stancarmi, così come tutto il processo di sposta-mento che comportava vivere a quel modo. ciò che un tempo mi piaceva tanto e mi aveva fatto felice ora iniziava a esaurirmi.

dopo essere stata da qualche amica tra un periodo e l’altro come house-sitter, avevo preso in affitto la stanza libera in una casa di proprietà di una donna che conoscevo poco. sebbene le fossi grata della sua generosità e di non dovermi spostare ogni poche set-timane, era pur sempre il suo territorio. così non mi sembrò mai casa mia e non era certo la soluzione ideale per un lungo periodo.

Ma le cose dovevano proprio andare così, perché quella situa-zione mi servì da stimolo e intensificò il desiderio di uno spazio tutto mio. erano passati quasi dieci anni ormai da quando ave-vo avuto una cucina e una casa mie. ii desiderio di tornare ad averle cresceva di giorno in giorno. cath diceva che non riusciva nemmeno a immaginare una vita simile alla mia, essendo rimasta nella stessa casa per cinquantuno anni. ribattei che nemmeno io riuscivo a immaginarmi la sua vita e che, nonostante stessi iniziando a desiderare di avere uno spazio tutto mio, una parte di me avrebbe sempre amato vagabondare. adesso però, preferivo avere una base fissa e viaggiare partendo da lì, piuttosto che spo-starmi di casa in casa come se mi prudessero i piedi.

gli anni di vagabondaggio, che avevano fatto parte di me nella mia vita da adulta, rappresentavano molto di ciò che ero stata un tempo. Ma stavano avvenendo dei cambiamenti dentro di me e non avevo più né il desiderio né l’energia per mantenere quello stile di vita. tutto quello che volevo davvero era avere ancora una cucina e l’intimità di un posto solo mio.

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d’accordo sul fatto che i mutamenti fossero parte naturale della vita, cath rise e disse che ero l’eccezione che confermava la regola avendo fatto così tanti cambiamenti nella mia esistenza. risposi che la gente come me doveva bilanciare le persone come lei che avevano vissuto per mezzo secolo nella stessa casa, e finim-mo col ridacchiare entrambe. le nostre esistenze erano molto di-verse eppure, grazie all’amore che condividevamo per la filosofia, avevamo instaurato un legame fortissimo.

cath volle sapere come mai fossi finita a lavorare come ba-dante e rimase sorpresa quando le raccontai di tutti quegli anni passati nel settore bancario. “oh, non riesco proprio a immagi-narmelo” disse sorpresa.

“nemmeno io, grazie a dio” risi. Mi lasciava di stucco ripen-sare a quel periodo, a quante cose possono starci in una vita e a quanto fosse difficile anche solo rivedermi in quel mondo, per non parlare di tutto il tempo che ci avevo passato. “collant, tac-chi alti e divisa aziendale non mi sono mai andati a genio, cath, tanto meno una realtà così strutturata.”

“non mi sorprende, visto e considerato la vita che hai scelto da allora” ridacchiò, prima di tornare seria e chiedermi da quanto tem-po facessi quel lavoro e se non avessi altre ambizioni professionali. non c’era ragione di trattenersi. avevo già imparato l’importanza della sincerità e mi faceva sentire benissimo poter parlar liberamente di questo argomento. in quel periodo mi erano venute in mente tante cose a riguardo e parlare con cath mi aiutò a fare chiarezza.

da un po’ di tempo a quella parte, negli ultimi dodici mesi, mi era balenata l’idea di tenere delle lezioni in carcere su come scrivere e comporre canzoni. non conoscevo affatto il sistema carcerario, eppure quell’idea non mi abbandonava. nel tempo, il seme aveva continuato a crescere lentamente. di recente avevo contattato una donna meravigliosa che mi aveva preso sotto la sua ala, aiutandomi a capire come trovare delle sovvenzioni.

“sì, torna a vivere Bronnie. È bello quello che fai qui e ov-viamente fa parte del tuo scopo in questa esistenza. Ma a volte

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deve essere deprimente.” Quando le dissi che facevo quel lavoro da otto anni ormai, sentii qualcosa smuoversi dentro di me, la consapevolezza che mi trovavo vicino a uno stallo se avessi conti-nuato così. stavo iniziando a esaurirmi.

Vedere le persone trovare la pace ed essere testimone della loro evoluzione al tramonto della vita è stato un onore incredibile. sono stata ripagata enormemente in quanto a soddisfazione e re-alizzazione. non potevo negare di aver amato quella professione e ancora la amavo. Ma volevo anche lavorare dove potesse esserci un po’ più di speranza, accanto a persone che avessero un’occa-sione di crescere e cambiare sensibilmente la loro vita prima di morire. anche il desiderio di operare solo in ambito creativo era cresciuto dentro di me, così come la speranza di lavorare di più da casa, una volta che avessi trovato uno spazio che fosse tutto mio.

ascoltarmi mentre raccontavo a cath tutti questi pensieri infuse nel processo una energia palpabile. senza che me ne rendessi conto, l’idea di insegnare in una prigione occupò sempre più la mia mente. il mio tempo nel settore dell’assistenza domiciliare stava volgendo al termine. doveva essere così. avevo dato tutto quello che potevo.

poco prima di andarsene, cath ebbe una seconda risalita e sembrò migliorare per un paio di giorni. avevo già assistito a cambiamenti simili in passato e telefonai a tutti i suoi visitatori regolari per avvisarli di venire, e stare un po’ di tempo con lei perché stava arrivando alla fine. alcuni di loro misero in dubbio quello che avevo detto perché cath sembrava in forma e le sue energie erano migliorate. È come se dopo aver assistito alla lunga malattia di qualcuno, ci venisse data la grazia. ci aiuta a ricordare quelle persone con la scintilla vitale che avevano quando ancora la malattia non aveva preso il sopravvento. la sua stanza risuonò di risate per due giorni mentre lei faceva battute argute e godeva di meravigliosi momenti di lucidità con amici e parenti.

il giorno successivo però, mi ritrovai davanti una donna mo-rente, capace a stento persino di rispondermi a parole. non aveva più forze e rimase in questo stato per altri tre giorni. per lo più

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dormiva, ma quando era sveglia mi sorrideva mentre le cambiavo il pannolone e la lavavo. anche urinare sulla comoda ormai era un lusso del passato.

gli amici venivano e se ne andavano con fare solenne, consape-voli di aver appena detto addio alla loro cara cath. alla fine del terzo giorno era evidente che non avrebbe superato la notte. così quando finii il turno, restai lì con il fratello e la cognata. la badante di notte non aveva mai visto un cadavere ed era molto sollevata che io restassi. ripensando a quando mi ero ritrovata in quella posizione, anni pri-ma, capii quanto fossi arrivata lontano. allora non avevo la minima idea di tutte le belle persone che avrei conosciuto così intimamente, né la gioia imprevedibile delle lezioni che avrei imparato.

gli antidolorifici le vennero somministrati per vena negli ul-timi giorni, perché non riusciva più a ingoiare compresse solide. l’infermiera che l’assisteva venne nel pomeriggio per iniettargliene ancora un po’. cath non era più cosciente né lucida. “Questo è l’ultimo” disse al fratello e a me. “non supererà la notte, a ogni modo.” la ringraziammo affettuosamente e io l’accompagnai fuo-ri. “se ne andrà nel giro di un’ora” mi disse l’infermiera mentre la salutavo al cancello. c’era così tanta gioia e tristezza in questo ruolo: tristezza nel dire addio e nel lasciare andare. felicità per la fine delle loro sofferenze e per l’amore condiviso. era una sensa-zione agrodolce e lentamente qualche lacrima mi scivolò sul viso.

cath non aspettò un’altra ora. trapassò mentre rientravo nel-la stanza. il suo respiro aveva rallentato e poi si era fermato. la guardai giacere sul letto, il suo spirito luminoso ora era altrove, e sorrisi tra le lacrime, risentendo la sua voce nella testa: “non stare accanto a chi muore per sempre, lascia entrare un po’ di gioia” mi aveva detto in un flebile sussurro la mattina precedente.

scoppiai in lacrime e non mi trattenni, mentre stavo vicino al suo letto. “Buon viaggio amica mia” dissi in silenzio, con il cuore. suo fratello e la cognata si avvicinarono al letto, abbracciandomi con amore, anche loro in lacrime. poi ci furono le solite formalità da espletare, ma volle occuparsene la famiglia. così guardai per

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l’ultima volta quel corpo che avevo lavato e massaggiato tante vol-te. Ma lei non era più lì. il suo spirito se n’era andato, anche se lei sarebbe rimasta per sempre nel mio cuore. sorridendo dolcemen-te, dissi il mio ultimo addio a lei e alla sua famiglia. anche l’altra badante diede la buona notte prima andarsene. poi, uscendo da casa di cath per l’ultima volta, con i lampioni che illuminavano la via del quartiere tranquillo, chiusi il cancello dietro di me.

il mondo mi sembrava sempre surreale dopo aver assistito a un trapasso. i sensi si acutizzavano e mi sembrava di vedere le cose da un’altra prospettiva. salendo i gradini del tram, a stento mi resi conto della presenza degli altri attorno a me. il mondo fuori continuava a girare mentre io pensavo a cath e ai meravi-gliosi momenti condivisi.

Quando il tram si fermò a un semaforo rosso, osservai un gruppetto di persone sorridenti entrare in un ristorante. era una serata mite e tutti quelli che vedevo salire e scendere erano allegri. i miei occhi stanchi e pesanti sorrisero riconoscendo i segni di una tale felicità. allora captai alcuni suoni provenienti dall’in-terno del tram, che fino ad allora avevo isolato. si trattava di conversazioni spensierate. era proprio una di quelle notti in cui la felicità è nell’aria. sebbene la mia notte non fosse scevra di tri-stezza, provavo anche gioia per aver conosciuto cath.

i suoni delle risate degli altri risuonavano dentro di me, fa-cendo nascere una felicità tutta mia. Quando il tram riprese la sua corsa, guardai fuori dal finestrino e pensai ai cuori pieni di bontà delle persone in ogni parte del mondo e di quelli che avevo davanti agli occhi. Mi sentii avvolgere da una calda sensazione di gratitudine e non potei fare a meno di sorridere.

non stavo pensando al passato o al futuro. la felicità è adesso. ed era lì che mi trovavo.

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QUestione di pUnti di Vista

Uno degli ultimi clienti ad aver lasciato su di me una bella e duratura impressione è stato un caro signore ospite di una casa di cura. accettavo questi turni sempre con una

certa riluttanza. Mi deprimevano non appena varcavo la soglia, e mi sentivo male nel vedere le condizioni di queste persone. così fu solo quando non c’erano assolutamente alternative all’orizzonte con i clienti privati che accettavo l’incarico. in questo caso però, sono stata felice di averlo fatto.

lenny si stava già avvicinando alla fine quando ci siamo cono-sciuti. sua figlia mi aveva assunto come badante extra, sapendo che il personale regolare alla clinica era sempre troppo occupato per dargli le cure che desiderava per lui. dormì per gran par-te della giornata, accettando qualche tazza di tè, ma rifiutando il cibo. Quando si svegliava, dava dei colpetti sul lato del letto facendomi segno di avvicinarmi, perché non aveva l’energia di parlare ad alta voce. “Ho avuto una vita felice” ripeteva. “sì, una vita felice.”

ovviamente era questione di punti di vista e rinforzò l’idea di come la felicità si basi sulle scelte più che sulle circostanze. infatti la vita di lenny non era stata per niente facile. entrambi i genitori morirono prima che compisse quattordici anni, anche i suoi fratelli e sorelle morirono o si dispersero negli anni seguenti finché non perse contatto con tutti loro. conobbe rita, l’amore della sua vita, quando aveva ventidue anni e la sposò “in un tur-bine”, come diceva.

dal matrimonio nacquero quattro figli. il maggiore perse la vita nella guerra del Vietnam, cosa che gli faceva ancora scuote-re il capo. lenny parlava con veemenza della guerra e della sua follia. diceva che non poteva assolutamente capire come la gente potesse pensare che le armi alla fine avrebbero portato la pace.

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condividevo i suoi pensieri sulla pazzia e la miseria della situazio-ne mondiale attuale. riconobbi subito il valore dell’intelligenza e della filosofia di questo caro signore.

Qualche membro del personale di tanto in tanto faceva capo-lino offrendo cibo, ma lenny lo rifiutava sempre con un sorriso scuotendo la testa, appoggiandosi al cuscino. l’attività concitata nelle sale comuni sembrò smorzarsi dopo un po’, come se fossimo in una dimensione tutta nostra, isolati dal rumore circostante.

la loro figlia maggiore aveva sposato un canadese e si erano tra-sferiti là. Morì dopo sei mesi durante una tempesta di neve perché aveva perso il controllo della macchina. “È sempre stata di grande ispirazione per tutti” diceva di lei. “e adesso lo sarà per sempre.”

lavorando in questo ambito avevo rinunciato da tempo a sforzarmi di trattenere le lacrime. più mi evolvevo, più esprimevo spontaneamente le mie emozioni, senza pensarci. nella società ci si sforza così tanto di salvare le apparenze, ma a quale prezzo!

la sincerità con cui esprimevo le mie emozioni era d’aiuto alle famiglie perché dava loro il permesso di piangere. ci sono perso-ne che non si sono concesse di piangere per tutta la vita da adulte. ero diventata sempre più fautrice della sincerità. così quando lenny mi raccontò la sua storia fu l’occasione per versare una lacrima. c’era qualcosa nella bellezza di quell’uomo e nel modo in cui parlava che mi commosse, credo.

il figlio minore di lenny era stato troppo sensibile per il mon-do ed era precipitato nella spirale della malattia mentale. all’epo-ca, il sistema previdenziale non era pronto per questo genere di malattie e se la famiglia non riusciva ad affrontare la cosa da sola, i pazienti venivano internati nei manicomi. lenny e rita volevano tenere alistair a casa con loro, in un ambiente amorevole, ma i medici non glielo permisero. alistair passò il resto dei suoi giorni in uno stato di annebbiamento dovuto ai farmaci e lenny non lo vide mai più sorridere.

la figlia che gli restava viveva a dubai, dove il marito aveva una impresa di costruzioni. telefonò in clinica mentre ero lì e

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parlò con me. a parlarci sembrava una persona cordiale, ma non poteva tornare a casa da suo padre.

rita, il suo amore, era morta dopo i quarant’anni, solo pochi anni dopo aver perso alistair nel manicomio. dalla diagnosi alla morte fu questione di settimane. eppure ecco che quest’uomo mi diceva che aveva avuto una vita felice. tra le lacrime, gli chiesi come mai la considerasse tale. “Ho conosciuto l’amore, un amore che non è mai diminuito negli anni” spiegò.

alla fine del turno non volevo andare casa, ma lenny aveva bisogno di riposare. ogni giorno, quando ritornavo alla casa di cura, pregavo che fosse ancora lì. Ma in un certo senso ero com-battuta perché sapevo che voleva andare, ricongiungersi con rita e con i figli che aveva perso. per questo motivo, gli auguravo una morte rapida. Ma per la mia crescita personale e per il legame che avevamo instaurato, volevo che resistesse il più a lungo possibile.

disse che aveva lavorato duramente, troppo duramente. all’ini-zio gli era servito per soffocare il dolore; non aveva trovato modo migliore per gestire i suoi lutti. in anni più recenti, su consiglio di rose, la figlia di dubai, aveva cercato aiuto nella psicoterapia e aveva imparato a parlarne. raccontare delle sue perdite lo aveva guarito, e adesso era in grado di condividere liberamente i suoi pensieri sulla sua vita. gli dissi che ero grata che riuscisse a farlo.

Volle sapere della mia vita e trovò affascinante che una giovane donna avesse venduto tutti i suoi beni, caricato la macchina e fosse partita verso una nuova vita, senza avere la minima idea di dove sarebbe finita. e che lo avesse fatto piuttosto spesso.

gli spiegai quanta influenza avesse avuto su di me la mia pri-ma relazione seria. allora c’erano parti di me nascoste e ancora da scoprire (e ci sarebbero sempre state). la repressione subita a quei tempi sembrò innescare la tensione verso un modo di vivere sco-nosciuto, e quando finalmente la storia ebbe termine, provai una sensazione di libertà che non avevo mai sentito. avevo conosciuto il mio compagno quando ero molto giovane, quindi non avevo mai veramente sperimentato la libertà della vita adulta. Quando

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la relazione finì avevo ventitré anni e iniziai a fare quello che tutte le ragazze di quell’età dovrebbero fare: divertirsi.

Qualche mese dopo, alla guida della mia macchina lungo un tragitto di sei ore per partecipare al matrimonio di un’amica, sco-prii un lato di me che mi fece sentire a casa. semplicemente, una parte di me apparteneva alla strada e sarebbe sempre stato così. era la cosa più naturale del mondo per me percorrere lunghe distanze guidando. da allora, la libertà è diventata una delle mie forze motrici più grandi. prendevo le decisioni in base a quanto avrebbero intaccato la mia indipendenza e plasmavo la mia vita di conseguenza. ovviamente si può essere liberi anche in una vita regolare. più che altro si tratta di uno stato mentale. la libertà di essere se stessi è la più grande di tutte, a prescindere dal paese o sobborgo in cui vivi.

lenny disse che spesso le persone che stanno insieme pensano di possedersi l’un l’altra. sebbene ci sia sicuramente il bisogno di un compromesso e di impegno in ogni relazione, soprattutto se ci sono dei figli, sta a ciascun individuo mantenere il senso del-la propria identità. Mi chiese qualcosa in più sulla mia vita con sincera curiosità, e restò ad ascoltare anche quando gli dissi che stavo meditando di lasciare il lavoro. “sì” disse. “la vita ti aspetta Bronnie, non c’è bisogno che tu trascorra tutto questo tempo vicino alla morte. torna tra i vivi.” era un caro signore e io sorrisi al suo augurio.

la casa di cura era gestita da un’associazione cristiana. Ma lenny aveva smesso di andare in chiesa dopo la morte di rita. non perché non credesse più, ma perché era troppo penoso per lui stare lì senza sentire la bella voce di sua moglie cantare nel banco accanto al suo. diceva che non gl’importava se la clinica era cristiana o gestita da qualche altra religione, o da nessuna. avrebbe cercato di tirare fuori il meglio da qualsiasi situazione. stava per tornare a casa da rita ed era questo l’importante. la casa di cura, comunque, era cristiana, e c’erano molti volontari, così come membri del personale.

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Uno di questi era un uomo di nome roy che tutti i giorni faceva il giro dei pazienti per leggere degli stralci della Bibbia. aveva offerto i suoi servigi anche a lenny mesi prima, ma lui ave-va declinato l’offerta. l’uomo aveva insistito, offrendosi ancora in un certo numero di occasioni, anche se ogni volta lenny rifiutava educatamente.

ora che lenny era alla fine dei suoi giorni, senza più forze per resistergli, roy aveva deciso di sana pianta di andare da lui tutti i pomeriggi a leggergli qualche passo della Bibbia. leggeva a lun-go. persino una persona sana, e devota allo studio della Bibbia, si sarebbe stancata della sua monotona lettura somministrata ogni giorno. per pura educazione, facevo del mio meglio per restare attenta quando roy leggeva. Ma a volte anche io mi appisolavo senza volerlo. come ho detto, leggeva a lungo, ma veramente a lungo, e senza espressività.

peggio ancora, voleva discutere poi il passo che aveva letto con lenny. in qualità di sua badante, la mia priorità era il benessere del mio cliente. Quindi gli spiegavo con gentilezza che lenny poteva parlare solo quando ne aveva la forza, il che era vero, e che non avrebbe dovuto essere forzato a farlo.

“lo so, Bronnie, che sei una signora a modo” lenny mi disse in un soffio un giorno, dopo che roy se n’era andato in un’altra stanza. “e so che ti piace pensare bene di tutti. Ma se quel coso torna ancora qui gli do una pedata nel sedere che lo manda a timbuktu.” ridemmo forte, sapendo benissimo che roy sarebbe tornato puntuale l’indomani.

“se a questo punto non andrò in paradiso, allora che senso ha che mi debba sorbire tutta questa roba religiosa?” ridacchiò. “tanto non riesco comunque a concentrarmi su quello che dice. non ne ho l’energia.”

“le sue intenzioni sono buone, lenny. Questo è l’importan-te” risposi. ridemmo bonariamente entrambi della situazione. roy era un uomo dolce, e malgrado fosse ovvio che avesse buone intenzioni, stava diventando un po’ ridicolo. ogni pomeriggio,

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quando faceva il suo ingresso, sapevamo entrambi cosa ci aspet-tava. non rendeva affatto giustizia alle sagge parole della Bibbia con la sua lettura monotona e spenta. “almeno puoi dormire” risi. lenny annuì, sorridendo.

i giorni passavano e mi fu offerto un altro lavoro ma rifiutai. Volevo assistere alla dipartita di quel caro signore, se possibile. Mi sentivo anche in dovere nei confronti di sua figlia rose. sa-rebbe stato terribile pensare che suo padre stava morendo in un altro paese e aveva a che fare con una persona nuova ogni gior-no. sapevo che presto mi sarebbero mancate le nostre pacifiche chiacchierate e non volevo rinunciarci prima del previsto. a ogni modo, quel momento arrivò fin troppo presto.

era un giovedì pomeriggio movimentato nel sobborgo traf-ficato. tutto era in fermento, le strade, i negozi e anche la casa di cura quando arrivai. i membri dello staff ronzavano per i cor-ridoi con i carrelli del pasto. i medici facevano i loro giri. le infermiere correvano di qua e di là oberate di lavoro. i pazienti venivano sospinti nelle loro grosse sedie a rotelle, alcuni sbavava-no agli angoli della bocca, fissando il vuoto con aria assente. le case di cura offrivano di queste scene tragicamente tristi e ancora oggi non sono cambiate.

Mentre passavo, sentii le impiegate lamentarsi di un’altra col-lega. Mi chiedevo come potessero essere circondate dalla morte e riuscire a mettere la loro energia nel lagnarsi di cose di poco conto. Ma a quel punto, avevo già avuto la fortuna di imparare dai miei meravigliosi clienti e dalla mia stessa vita. le cose a cui la maggior parte della gente dedica le proprie forze sono irrilevanti nel lungo periodo.

come al solito, entrare nella stanza di lenny fu come pene-trare in un mondo diverso. non appena entravi, avvertivi la pace che avvolgeva la stanza in penombra. era stato così fin dall’inizio e lo dissi subito a lenny, il primo giorno. aveva sorriso: “oh sì, è uno spazio pieno di pace. Ma ci vuole la persona giusta per ren-dersene conto. gran parte del personale entra con il suo daffare e

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si perde del tutto la sensazione di pace che la stanza può regalare.” lo notai anch’io in seguito. Ma alcuni suoi visitatori erano perso-ne serene, e la percepivano subito, ed era piacevole.

avvicinai la sedia al letto di lenny che giaceva addormentato e lessi per un po’. Ma la mia mente era con lui. dopo un poco si mosse e si accorse che ero lì. Batté la mano sul letto in cerca della mia; gliela porsi. sorridendo scivolò nuovamente nel sonno e passò qualche ora. di tanto in tanto si muoveva e allora gli davo un sorso d’acqua o solo un bacio sulla mano.

“È stata una vita felice” disse piano nel silenzio, quando si svegliò. “È stata una vita felice.” si assopì di nuovo mentre lo guardavo amorevolmente. Mi faceva male il cuore e qualche la-crima prese a scivolare lungo il mio viso. Mi domandai perché non avessi optato per un lavoro più semplice senza attaccamento emotivo. a volte era davvero troppo doloroso. eppure sapevo che un’altra attività non mi avrebbe offerto i doni che avevo ricevuto grazie ai miei clienti.

“Mhmm, una vita felice” ripeté, aprendo di nuovo gli occhi stanchi e sorridendomi. Vide le mie lacrime e mi strinse la mano. “non preoccuparti ragazza mia, sono pronto.” la sua voce non era che un sospiro. “promettimi una cosa.”

Volevo singhiozzare, ma mi limitai a sorridergli attraverso le lacrime. non era un vero e proprio sorriso, solo il tentativo di una persona che cerca di farsi coraggio senza riuscirci. “certo, len.”

“non dare peso alle cose meschine. non contano niente. solo l’amore conta. se ti ricorderai che l’amore è sempre presente, al-lora avrai una vita felice.” il suo respiro si stava alterando ed era sempre più difficile per lui parlare.

“grazie di tutto, len” riuscii a dire tra le lacrime. “sono con-tentissima che ci siamo conosciuti.” sembravano parole così in-fantili in un certo senso, perché c’era tanto altro che avrei potuto e voluto dire. Ma alla fine, esprimevano i miei sentimenti nel modo più semplice. Mi chinai su di lui baciandogli la fronte e mi accorsi che si era assopito di nuovo.

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rimasi seduta a piangere senza frenarmi. a volte basta solo togliere il tappo alle lacrime per scoprire che ce n’è un’intera col-lezione lì pronta a venir fuori. non sai nemmeno per cosa sono. avevo tolto il tappo e mi sciolsi in pianto. lenny continuò a dormire nelle ore successive. poteva darsi che non si sarebbe più svegliato. Quando non ci furono più lacrime, restai seduta in si-lenzio, guardandolo con tenerezza. poi ovviamente arrivò roy.

Mi venne voglia di ridere, sapendo che lenny avrebbe colto l’ironia della situazione se fosse stato sveglio. Ma dormiva e il mio sorriso cortese, con gli occhi rossi e stanchi per i litri di lacrime versati, diedero a roy il quadro completo della situazione. lenny poteva non svegliarsi più.

cadde ancora qualche lacrime d’amore. Ma non era più il fiu-me di dolore di prima, e il pianto si placò rapidamente. penso che sia stato vedere il viso dolce di roy e sapere le sue buone intenzio-ni a commuovermi, anche se una parte di me sapeva che lenny non lo voleva assolutamente lì con lui.

roy si sedette dall’altro lato del letto. aprì la Bibbia per ini-ziare la lettura, ma mi guardò per avere la mia approvazione. feci una faccia come a dire: “Be’, sta a te, ma penso che preferirebbe il silenzio.” annuì. la Bibbia rimase aperta tra le sue mani, ma non lesse. provai un moto d’affetto per lui perché rispettava la solen-nità del momento. non che la lettura della Bibbia fosse mossa da intenzioni meno nobili. Ma non era necessario vista la sacralità insita in quel momento.

lenny cercò la mia mano con gli occhi ancora chiusi. Mi alzai e gliela porsi. il suo respiro era affannoso e irregolare. avvertii un odore che ormai era diventato fin troppo familiare per me, ma che è impossibile descrivere. era l’odore della morte.

poi aprendo gli occhi, mi guardò dritto in faccia e sorrise. Ma non era il mio amico lenny, bensì il pieno splendore della sua anima. non c’era traccia della malattia nel suo sorriso. Quello era il sorriso di un’anima finalmente affrancata dall’ego e dalla personalità.

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era puro amore, completamente libero da tutto il resto, rag-giante, splendente e gioioso.

ricambiai, mentre il mio cuore si apriva di colpo. sorridem-mo entrambi di gioia, sapendo che alla fine c’è solo amore. non avevo mai visto un sorriso così assolutamente disinibito. non c’era alcun ostacolo. era pura gioia. Mentre ci guardavamo rag-gianti, il tempo si cristallizzò.

dopo poco, lenny chiuse gli occhi con un sorriso di pace sulle labbra. continuava ad aleggiare anche sulle mie labbra, perché il mio cuore era troppo aperto per smettere di farlo.

Un paio di minuti dopo lenny si spense.dall’altro lato del letto, roy fu testimone della scena e la sua

vita ne fu toccata. chiuse la Bibbia e disse piano che adesso sape-va quale aspetto avesse l’amore di dio, e che sentiva di aver assi-stito a un miracolo vedendo la pace di lenny prima del trapasso. ammisi che dio agisce in modi misteriosi.

roy e io restammo seduti in silenzio ancora un po’. sapevo che quel momento sarebbe finito non appena avessi avvisato il personale, cosa che avrei comunque dovuto fare di lì a poco. Quando ci salutammo, roy strinse la mia mano a lungo, incerto su cosa dire o su come descrivere quello che era successo. sem-brava esitasse a lasciarmi andare, come se il suo palloncino fosse potuto scoppiare se non fossi restata a condividere il racconto.

“siamo stati fortunati, roy. È tutto quello che dobbiamo sape-re” gli dissi con gentilezza. Mi prese e mi strinse a sé, come un bam-bino spaventato che non vuole restare solo. “andrà tutto bene.”

“come posso spiegarlo agli altri?” mi chiese quasi supplican-domi.

“forse non devi farlo” sorrisi. “o forse sì. in ogni caso, la stes-sa forza che ci ha reso testimoni di questo miracolo, sarà ancora con te per aiutarti a dire le parole giuste, se hai bisogno di con-dividerle.”

scosse la testa, ma con un sorriso di gioia disse: “la mia vita non sarà mai più la stessa.” gli sorrisi con affetto e ci abbracciamo ancora.

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dopo aver espletato la procedura burocratica, lasciai la casa di cura. adesso attorno al corpo di lenny fremeva fin troppa attività e noi avevamo avuto il nostro momento. l’ora di punta del traffico era passata e la luce del tardo pomeriggio splendeva in modo spettacolare sul viale alberato lungo cui m’incamminai. il mio cuore era aperto e ridente. provavo amore per tutto e tutti.

sì, il lavoro aveva avuto i suoi alti e bassi, ma nessuna pia-nificazione o promozione avrebbe mai potuto darmi i doni che questo ruolo mi aveva offerto nel corso degli anni.

ancora euforica per l’amore che mi era stato donato, piansi di gioia e di gratitudine mentre camminavo con un largo sorriso sul viso.

lenny aveva ragione: la vita è gioia.

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teMpo di caMBiaMenti

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prendermi cura di così tanti malati terminali mi aveva lasciata sia in uno stato di gioia che di prostrazione. da allora erano avvenuti infiniti cambiamenti positivi nella mia vita, ma ero

pronta per una svolta sostanziale e accarezzavo l’idea di insegnare a comporre musica e canzoni nel sistema carcerario femminile.

c’erano molte pratiche burocratiche e tante cose da sapere sul settore della filantropia privata: quali fondazioni finanziava-no progetti simili al mio e come fare la richiesta. Un po’ d’aiuto venne da un gruppo di donne che da molti anni tenevano labo-ratori teatrali in carcere. scoprii che eravamo state vicine di casa durante il mio primo capitolo a Melbourne, dieci anni prima. Ma allora non avevo nemmeno scritto la mia prima canzone. Quindi non sarei stata nella condizione di creare un corso per cantautori; tuttavia fu stranamente piacevole camminare ancora lungo quella via fino alla loro sede, misurando i cambiamenti avvenuti nella mia vita e dentro di me da quando ero stata lì l’ultima volta.

i miei sforzi iniziali non ebbero successo in nessuna delle carceri nello stato di Victoria, così decisi di provare con il new south Wales. avevo anche una relazione a distanza con un uomo di lì. non credevo che la nostra storia avrebbe funzionato, ma ci sarebbe stata una possibilità in più se fossimo stati vicini invece che distanti migliaia di chilometri. nella zona che avevo scelto abitava anche una mia cara cugina che si offrì di ospitarmi fintan-to che non avessi trovato un posto dove vivere.

liz, che mi aveva preso sotto la sua ala mesi prima, mi fu di grande aiuto durante tutta la fase di costituzione del corso per le carceri. era convinta che avvalendosi di una rete di conoscenze e

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agganciandosi a quelle giuste si potesse fare qualunque cosa, e il suo ottimismo mi incoraggiò. Mi ricordavo anche delle parole dei miei clienti, quando mi dicevano che da soli non si riesce a fare niente di buono. abbiamo bisogno di collaborare. liz mi spiegò anche la ne-cessità di trovare un patronato per il finanziamento. Molte fonda-zioni filantropiche avevano bisogno di un ente di beneficenza che ricevesse i fondi al mio posto, così da poter usufruire delle agevo-lazioni fiscali di cui godevano le donazioni a istituzioni benefiche. Quindi avrei dovuto versare in beneficenza l’intera somma e poi attingervi come salario, proprio come se fossi una persona assunta dall’ente. all’inizio, trovare un’organizzazione disposta a veicolare questi fondi fu piuttosto difficile. Ma mi ricordai nuovamente dei cicli della vita e di come spesso ne compiamo uno completo.

la mia famiglia, prima di trasferirsi nel paese di campagna dove ero cresciuta, aveva vissuto nella periferia di sydney. all’epo-ca, erano gli anni settanta, la zona era ancora un’area rurale. feci il mio primo anno di scuola proprio là. finalmente, dopo numerose telefonate e e-mail, la porta del patronato si aprì grazie all’interme-diazione della chiesa collegata ai miei primissimi giorni di scuola. erano passati trentacinque anni ed eccomi lì, seduta nell’ufficio che dava sul cortile dove giocavo da bambina. Quella situazione infuse un piacevole sentimentalismo al mio progetto per le carceri.

anche l’entusiasmo della responsabile del settore istruzione per gli adulti nella prigione femminile che scelsi mi aiutò a non desistere quando le procedure per la richiesta di finanziamento si complicarono ulteriormente. era una donna progressista ed en-tusiasta e presentò la mia proposta alla direzione regionale con piena fiducia nella mia visione. avevo contattato due carceri fem-minili, ma le differenze nel tipo di supporto offerto erano enor-mi. in uno mi fu detto che non mi avrebbero fornito nemmeno le penne e i fogli per gli appunti. avrei dovuto pensare a tutto io. nell’altro, non solo mi offrirono la cancelleria, ma anche le chitarre e qualsiasi altro tipo di aiuto potesse servirmi. Mentre mi facevo sempre più assorbire dal progetto, fu chiaro che avere

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a che fare con una prigione e con un corso sarebbe stato più che sufficiente. Quale carcere scegliere era altrettanto palese.

sembrarono passare dei secoli senza che nulla si muovesse, poi finalmente quando tutto si sistemò, le cose procedettero in un lampo e mi ritrovai sulla strada verso nord nel giro di un paio di giorni. Vissi per un mese circa con mia cugina e la sua grande fa-miglia. fu strano e bello insieme trovarmi ancora a contatto con così tante persone, dopo la tranquillità del mio lavoro e i posti dove ero stata in precedenza. Quella casa era pazzesca, vi convive-vano tre generazioni, sette gatti e tre cani, ma non potevo igno-rare l’ardente desiderio di avere una cucina tutta mia e malgrado avessi sentito che prendere una casa in affitto fosse un’impresa ardua, trovai un cottage il giorno dopo aver deciso che era giunto il momento di farlo. si trovava ai piedi delle Blue Mountains, con un torrente e un bush al di là della strada ed era carinissimo.

non avevo nulla con cui vivere, ma la cosa non mi turbava. il posto andava bene e lo avevo trovato con una tale facilità che la mia fiducia ne uscì rinforzata. tutto quello di cui avevo bisogno sarebbe arrivato a momento debito, e infatti fu così. anzi, ne fui travolta. i proprietari di un deposito mi offrirono alcuni oggetti di cui dovevano disfarsi: i mobili per il soggiorno e della biancheria per la casa. Mia cugina viveva in quella zona da anni e aveva una folta cerchia di amicizie grazie alle quali mi procurai una lavatrice, un frigorifero, una libreria, utensili da cucina, tende e una scriva-nia d’antiquariato. fu coinvolta una enorme rete di persone che cercò di darmi quanto poteva con entusiasmo, affascinate dalla mia situazione e mosse dal loro buon cuore. fu meraviglioso.

non appena arrivai nel new south Wales comprai un furgon-cino. sebbene volessi sistemarmi, mi capitava anche di partecipare a qualche festival folk e sentivo la mancanza di un letto su quattro ruote. era più nel mio stile, invece che piantare una tenda ai festi-val. inoltre, sapere che sarei potuta andare dove volevo mi permise di mantenere intatto il mio senso di libertà. anche il tempismo con cui comprai il furgoncino e traslocai nel cottage fu perfetto. Mi

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trasferii nel mese in cui avveniva la pulizia annuale nel quartiere.i mobili di cui la gente voleva sbarazzarsi venivano deposita-

ti sui marciapiedi, per essere ritirati dalla nettezza urbana o da chi voleva prenderseli. la gente mi faceva gesti di saluto dalle verande mentre raccoglievo qualche piccolo oggetto dai mucchi che avevano depositato all’esterno, sorridendomi e incoraggian-domi a prendere tutto quello che volevo: un cesto di vimini per la biancheria, una piccola credenza per la dispensa, un tavolo da giardino. presi anche qualche pezzo di mobilio classico. i vecchi proprietari mi aiutarono addirittura a caricarli sul furgone, com-preso un vecchio ma ampio divano per la mia veranda.

partecipai anche a un sacco di svendite private, nei garage delle case, e mi divertii un mondo. l’unica cosa che intendevo comprare nuova era un materasso. ne volevo uno buono per la schiena e in cui nessuno ci avesse dormito, così che si impregnasse solo della mia energia. Una bella signora, che avevo conosciuto da poco, mi fece un regalo per inaugurare la casa, eccitata all’idea che mi sta-bilissi in un posto dopo così tanto tempo. il dono corrispondeva esattamente alla somma che mi serviva per il materasso. così, nel giro di tre settimane, passai dall’avere sei scatole di roba che en-travano perfettamente in una utilitaria di piccole dimensioni, al possedere un cottage di due locali ammobiliato di tutto punto, e sembrava che ci avessi vissuto per anni. fu un momento fantastico.

la prima notte mi sdraiai al centro del soggiorno con le braccia aperte e un grosso sorriso stampato sul viso. la mia casa! alla fine, avevo di nuovo uno spazio tutto mio. il sollievo, la gratitudine e la gioia mi travolsero al punto che quasi non mi feci vedere in giro per un mese. non sopportavo l’idea di lasciare la casa se non per lavorare. Quando rientravo, contemplavo il mio spazio e sorridevo di nuovo.

sebbene non riuscii a ottenere tutto il fondo che avevo richie-sto, fui in grado di avviare il corso per le carceri con quello che avevo ricevuto, e pensai di richiedere una sovvenzione ulteriore in un momento successivo, appoggiandomi ad altri enti. comunque anche solo ricevere quella somma fu un risultato entusiasmante,

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perché mi permetteva di trasformare la mia idea in realtà. dal momento che il finanziamento proveniva dal settore della filan-tropia privata e che il sistema carcerario non doveva pagarmi, ai loro occhi io ero una volontaria. il programma del corso venne approvato. spiegai ciò che speravo di trasmettere e di raggiungere. siccome non si trattava di un corso accreditato, non era necessario che fossi abilitata all’insegnamento. il personale al dipartimento dell’istruzione credeva nelle mie idee e capacità proprio come me, e riuscirono a ottenere l’approvazione forti di questo, il che, a con-ti fatti era una cosa fantastica! a quel tempo però, non lo avevo considerato un evento insolito perché non facevo altro che proce-dere passo per passo in base a come si mettevano le cose, finché non mi sono ritrovata davanti a una classe piena di prigioniere criminali a insegnare come scrivere e comporre musica!

non avevo mai insegnato in una classe e trovarmi lì in piedi con decine di occhi puntati su di me, molti dei quali poco amichevoli, fu un’esperienza non priva di fascino. avrei potuto esserne intimi-dita, se mi fossi fermata a pensarci, ma non lo feci. andai semplice-mente avanti con il mio lavoro. finché non cominciai a cooperare con il dipartimento, non ero neanche mai stata in una prigione. così con la lezione numero uno pronta e un bel po’ di fegato, ini-ziai il corso. all’inizio mi ci volle un pizzico di acre umorismo per suscitare qualche reazione e per creare un clima rilassato, perché le detenute se ne stavano lì sedute con il volto impassibile, squadran-domi dalla testa ai piedi. Ma dopo un po’ capirono che ero ok.

stavamo facendo alcuni esercizi sulla rima e al posto di usare gli esempi che avevo preparato per la lezione, iniziai a improvvi-sare e a creare rime più divertenti legate alla situazione, ridendo mentre le dicevo.

“Me ne sto seduta sperando in un po’ di musica,e questa tizia qui mi va a parlar di ritmica?Voglio imparare a suonare la chitarra ed essere come Emmylouallora le do retta un attimo, cos’altro posso fare più?”

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alcune donne iniziarono a ridere e diedero il loro contributo aggiungendo qualche battuta, cosa che permise alle altre compa-gne di distendersi e di dire la loro.

“Allora avanti Miss, continua pure e insegnaci cosa fare .Perché di certo non ci vogliamo annoiare .”

le risate ruppero definitivamente il ghiaccio. poi, una volta trovato un tema comune, in questo caso la musica di emmylou Harris, andammo avanti belle spedite.

“Ok, Ok, vi ho sentite, ma ci sono cose che dovete imparare .Allora assecondatemi, fate queste rime e avrete una chitarra da suonare,presto suonerete le vostre canzoni con il cuoree avrete anche qualche ammiratore .”

e la risposta fu:

“Ok Miss, se proprio dobbiamo, scriveremo questa stupida rima,ma non ti soffermare troppo su sta roba, voglio una chitarra quanto prima .”

lo scherzo continuò sulla scia di altre rime e alla fine del pri-mo giorno di lezione, ridevano tutte liberamente. la maggior parte delle donne dava il proprio contributo. si rivelò una cosa molto divertente.

al dipartimento di istruzione erano tutte brave persone e fu piacevole lavorare di nuovo in un ambiente di collaborazione, dopo l’attività a tu per tu che avevo svolto con i clienti nelle loro case. Mi avevano avvisato però di non entrare troppo in confi-denza con le carcerate e capivo che c’entravano ragioni di sicu-rezza e di privacy. Ma non potevo evitare di essere me stessa né di considerare quelle donne come allieve che volevano imparare a scrivere canzoni e a suonare la chitarra, non come carcerate. ero

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abbastanza navigata da ricordare che mi trovavo in una prigione, ma vivevo anche in modo schietto e sincero, perciò non potevo che essere me stessa.

come conseguenza della mia sincerità e della mia fiducia in loro, nel tempo le barriere tra noi caddero mentre si consolidava un rapporto di fiducia. chiacchieravamo tra donne e il mio inco-raggiamento a mostrare il loro lato più dolce, attraverso i brani che scrivevano, permise loro di rimuovere gradualmente i muri emotivi che avevano innalzato per proteggersi. il corso divenne uno spazio di guarigione molto personale per le allieve. e fu proprio nell’ottica della guarigione che continuai a stilare il programma delle lezioni.

Usando diversi esercizi di scrittura, le donne impararono a ri-lasciare le emozioni e alla fine a scrivere con speranza. compo-nevano canzoni che esprimevano rabbia e sofferenza, certo. Ma c’erano anche testi che parlavano di sogni e aspirazioni. Quando fu chiesto loro che cosa avrebbero scelto di fare se avessero potuto permettersi qualsiasi cosa, senza alcuna limitazione di sorta, né economica, né geografica, né legata alle capacità personali, inizia-rono a sognare e a prestare ascolto al loro cuore per la prima volta dopo anni. Una disse che voleva essere libera di vivere con i suoi figli senza rendere conto al governo; un’altra che voleva parteci-pare a un video musicale; un’altra ancora che si sarebbe fatta fare la liposuzione alla pancia; un’altra voleva provare cosa significava vivere senza subire violenze tra le mura di casa (perché era sempre stata maltrattata); un’altra voleva liberarsi dalla dipendenza della droga; e un’altra voleva fare un salto in paradiso per dire a sua madre che le voleva bene.

la sincerità era una costante ed erano poche le lezioni che si svolgevano senza versare qualche lacrima. Ma avevamo fatto il patto che quello sarebbe stato un ambiente di supporto, a pre-scindere. così le persone che un tempo non andavano d’accordo divennero tolleranti e alla fine furono di supporto l’una all’altra. ce n’era una in particolare che non partecipava nemmeno alle sessioni a causa della presenza di un’altra allieva. poi però si fece

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vedere e nel giro di qualche lezione quelle due finirono col darsi un genuino incoraggiamento per le rispettive canzoni, e andavano piuttosto d’accordo anche fuori. Questa era l’essenza del corso. il coraggio necessario per esprimersi in modo schietto e sincero face-va guadagnare il rispetto delle altre, perché entravano in empatia e seguivano con genuino interesse l’evoluzione di ogni canzone.

fu anche molto difficile per loro imparare a esibirsi davanti alla classe. Ma si incoraggiavano reciprocamente, perché avverti-vano il dolore racchiuso nel messaggio della canzone. Un’allieva, sandy, scrisse di quanto fosse stato duro essere per metà aborige-na e per metà bianca, perché non andava bene per nessuna delle due parti del paese in cui viveva. altre nella classe avevano prova-to la stessa sensazione e la sostennero, rinforzando la necessità di esprimere questi pensieri.

Un’altra, daisy, era entrata e uscita di prigione così tante vol-te, soprattutto per accuse di violenza, che non sapeva nemmeno quanto sarebbe stata dentro questa volta. diceva che quando si trovava in tribunale le si spegneva il cervello e viaggiava con la testa, perché la cosa la sopraffaceva. (subito dopo però scoprì la durata della pena da scontare.) così scrisse esprimendo questi sentimenti e quanto detestasse il fatto che la sua vita adesso fa-cesse parte del sistema, e le sembrava che non le appartenesse più. Un’altra allieva, lisa, scrisse una canzone per il figlio in cui gli diceva quanto fosse fiera di lui. faceva fatica a trattenere le emozioni quando suonava, ma era molto orgogliosa anche di sé.

eseguire i pezzi in classe era catartico, perché dava alle allieve la possibilità di esprimersi appieno, non solo per iscritto, malgra-do questo mettesse sotto pressione i loro nervi. Ma essendoci pas-sata anch’io anni prima, timida e tesa allo stesso modo, le inco-raggiavo dolcemente, e piano piano i muri emotivi della paura si sbriciolarono. Qualche mese dopo, quando una delle mie allieve, che all’inizio era stata molto timida, suonò una delle sue nuove canzoni inedite di fronte a più di cento persone, tra compagne e visitatori, fui io a piangere di gioia.

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le allieve non erano tantissime, ma andava benissimo così. alle prime lezioni avevano partecipato tantissime donne, ma era-no troppe perché si potesse lavorare bene. tuttavia dopo un po’ le allieve regolari si ridussero a circa una decina. c’era chi frequenta-va il corso saltuariamente, ma smise di partecipare quando si rese conto che non avrebbe imparato a suonare la chitarra come eric clapton nel giro di una lezione o giù di lì, e che il corso richiedeva di lavorare con sincerità. era meglio che la classe fosse composta da poche persone. c’erano donne che avevano bisogno di molta attenzione e in questo modo ero in grado di dedicarmi a ciascuna in modo individuale. le canzoni e le storie che emergevano erano stimolanti, risanatrici e belle. l’amore che fluiva tra noi ci arric-chiva, e non solo. sotto la dura corazza c’erano persone come me e te che amavano i loro figli, desideravano ricevere amore e rispetto, volevano sentirsi utili e vivere nel rispetto di se stesse.

erano pochissime le prigioniere che non provavano un senso di colpa per quel che avevano fatto. la maggior parte voleva es-sere migliore. Quando però giunsi a conoscere ciascuno dei loro racconti personali, mi resi conto che erano tutte storie tragiche segnate da una scarsa autostima e da un ciclo che non riuscivano a interrompere. si trovavano lì per crimini diversi, come aver la-vorato illegalmente come prostitute. Va detto che alcune di loro sfruttavano il sistema a loro vantaggio. conoscevano la durata della pena per molti crimini minori così ne commettevano uno all’anno, in modo da togliersi dal freddo delle strade per i tre mesi invernali, e stare in prigione dove avrebbero avuto un letto caldo e pasti regolari. altre invece erano dentro per uso o posses-so di stupefacenti, violenza, truffa, taccheggio (un’abitudine che magari avevano iniziato per sfamare la famiglia e che poi si era trasformata in dipendenza) e guida recidiva in stato di ebbrezza.

a prescindere dal tipo di reato però, il sistema carcerario curava il crimine, l’effetto, e non le ferite e i traumi sottostanti che aveva-no scatenato quelle azioni. sebbene venisse chiamato “istituto cor-rettivo”, l’aiuto offerto dal carcere per chi voleva seriamente cam-

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biare modo di pensare e uscire dagli schemi del passato era molto limitato. era questo il livello in cui serviva di più la guarigione per rompere il ciclo di scarsa autostima, abuso di droga, violenza do-mestica e la vita criminale che ne era scaturita. forse alcune crimi-nali avrebbero commesso lo stesso dei reati. Ma quelle che giunsi a conoscere avrebbero certamente cambiato le loro abitudini se avessero avuto un sostegno costante dentro e fuori la prigione.

nel sistema lavoravano anche alcune persone brave e volen-terose, ma spesso dovevano scontrarsi con le pastoie della buro-crazia. c’erano volontari provenienti da gruppi ecclesiastici che riuscivano a raggiungere singolarmente qualche individuo, aiu-tandolo a cambiare vita. la verità è che venivano investiti molti più soldi nella sicurezza e nella burocrazia, che sui metodi di risa-namento e sostegno. in una prigione con circa trecento detenute c’erano solo due psicologhe e spesso non erano disponibili per mancanza di tempo e perché erano troppo impegnate. se entravi in carcere con ancora un briciolo di autostima, di sicuro ne uscivi che ne eri completamente sprovvisto.

avevo visto un documentario informativo sul successo della me-ditazione nelle prigioni come metodo per cambiare la vita delle per-sone, e ne parlai con qualcuno del personale per capire come potevo metterli in contatto con le persone giuste. il percorso di medita-zione che seguivo era stato insegnato con successo ad altri carcerati di diversi paesi, ma mi fu detto “Buona fortuna” con una risata di totale sconforto. grazie al corso invece, ebbi l’occasione di aiutare le allieve a iniziare a credere nella loro bellezza e bontà. ci riuscii insegnando loro a scrivere, a comporre musica e a esprimere se stesse con canzoni originali che appartenessero a loro, e da eseguire e con-dividere con gli altri. Molte non avevano mai ricevuto un compli-mento nella loro vita ed erano come spugne che assorbivano i miei commenti positivi, tutti sinceri. suggerivo possibili miglioramenti da apportare ai loro brani sempre con un apprezzamento gentile.

Mano a mano che la loro fiducia in me aumentava, c’erano anche momenti divertenti in cui mi istruivano sulla vita dietro le

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sbarre. Un giorno, una delle donne stava raccontando a voce alta a un’altra di come fosse riuscita ad aggiudicarsi un altro paio di scarpe da corsa. Quando si accorse che l’avevo sentita, si ammu-tolì del tutto. spronata da me e da altre allieve, mi spiegò come funzionava la cosa. commentai dicendo che solo a sentirla rac-contare, sembrava un’idea molto furba. “Be’, siamo delinquenti Miss. ricordati dove ti trovi” al che scoppiai a ridere. a quel punto avevo conquistato la loro fiducia e non ero più intimidita, perciò trovai quell’affermazione piuttosto divertente.

Un’altra volta un’allieva si presentò in classe su di giri ed esau-sta allo stesso tempo. Quando le chiesi se fosse tutto ok, lei rispo-se: “sì, sto bene Miss. Ho passato una mattinata terribile. Quella stronza mi dava il tormento da una vita, così le ho ficcato la testa dentro l’asciugatrice. adesso è tutto a posto.” annuii leggermente attonita come per dire “ah, capisco.” “comunque Miss, va tutto bene. sono qui ed è il momento di fare musica. Queste cose non contano più quando sono qui. se non avessi questo corso penso che avrei anche potuto ucciderla. Ma allora non sarei più potuta venire e questo avrebbe ucciso me .” detto questo, si risedette e continuò a lavorare sul pezzo della settimana precedente. era una brillante cantautrice e aveva una bellissima voce. avrei voluto che ci fossimo conosciute in altre circostanze, perché mi sarebbe pia-ciuto molto condividere con lei le canzoni attorno a un fuoco da campo. Ma non sarebbe mai successo.

col passare delle settimane, si verificarono sempre più trasfor-mazioni positive. era appagante e bello insieme. anche lo staff del dipartimento dell’istruzione era contento del successo e dei cambiamenti positivi in molte allieve che seguivano il corso. pre-sto le lezioni di musica divennero il fulcro della loro settimana, e anche della mia.

ormai avevo messo fine alla mia relazione a distanza, malgra-do adesso vivessimo più vicini. non ero mai riuscita a muovermi in direzione del mio cuore stando con quell’uomo. i nostri valori erano troppo diversi. sebbene lasciarsi comportò pianti e ci fece

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necessariamente crescere, ero arrivata troppo in profondità den-tro di me per iniziare a vivere sacrificando ciò che contava di più.

la vita domestica era bella ed ero felice di giocare al ruolo del-la padrona di casa per gli amici che mi venivano a trovare di tanto in tanto, invece di essere io a stare da loro come negli ultimi dieci o vent’anni. dopo così tanto vagabondare, non era del tutto stra-no ritrovarmi a essere una vera e propria pantofolaia. raramente sentivo il desiderio di uscire e decisi che nel lungo periodo mi sarei data da fare per lavorare di più da casa.

così nel tempo libero misi a punto un corso online di compo-sizione musicale, basato sulle lezioni che tenevo alle donne in car-cere. anche la mia scrittura stava prendendo slancio: ero riuscita a pubblicare diversi articoli su alcune riviste e tenevo un blog. Que-sto iniziò ad avere un certo seguito, cosa che rafforzò il mio amore per la connessione con persone simili a me attraverso il mio lavo-ro. Mi ritrovai anche a mettere in discussione il desiderio di fare la dura vita del palcoscenico. Mentre insegnavo in carcere, avevo rallentato la scrittura dei miei pezzi anche se mi capitava ancora di fare qualche bel concerto. adoravo trovarmi in sintonia con il pubblico giusto e in quelle occasioni mi perdevo nella musica, ma scrivere e lavorare da casa iniziava a darmi più soddisfazione.

sebbene il cottage e il lavoro in prigione fossero meravigliosi, non c’era molto che mi tenesse legata a quella zona. gli amici si era-no trasferiti e la vita era cambiata dall’ultima volta che avevo vissuto nei pressi di sydney. c’era anche una parte di me che sapeva che prima o poi sarei tornata a vivere in campagna. in più di vent’anni di vagabondaggio, non avevo mai perso il desiderio degli spazi che offre una fattoria. non mi ero fatta molte amicizie nel posto nuovo, perché ero diventata più solitaria e mi piaceva stare in casa.

così senza che me ne rendessi del tutto conto, gli allievi del corso online divennero i miei amici del posto. nel tempo, i muri tra insegnante e allievi, o tra insegnante e detenute, si abbassa-rono sensibilmente. la classe si trasformò in un luogo dove un gruppo di donne faceva musica. a volte sentivo che non c’era

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molto che ci separava e che avrei potuto essere una di loro. o almeno è così che mi sembrava. certo, c’erano momenti in cui pensavo il contrario. non mi trovavo a stretto contatto con loro perché avevo commesso un crimine, ma tra di noi si era instau-rato un legame molto intimo, probabilmente grazie alla sincerità con cui ci esprimevamo. la mia stessa fragilità e il dolore del passato mi stavano ancora formando, anche se non come prima. credo che sia stato proprio questo a rafforzare il nostro legame, perché anche il loro passato era pregno di dolore, di abusi e della mancanza di autostima che ne era conseguita.

Quando arrivai al carcere la prima volta, mi fu spiegato come deviare le domande sulla mia vita personale. sebbene non avessi mai detto loro dove abitavo, quando me lo chiedevano rispon-devo semplicemente che non potevo dirglielo, piuttosto che in-ventarmi un indirizzo falso o mentire. le donne rispettavano la mia risposta, perché adesso c’era fiducia. rispondevo però alle domande a cui potevo. grazie a tutte le conversazioni sincere che avevo avuto in passato con i miei clienti malati, ora godevo della mia stessa schiettezza quando parlavo con gli altri. i muri emotivi della privacy non fanno che tenere fuori la bontà. la verità invece avvicina le persone. le detenute mi facevano domande sul mio passato e io rispondevo con franchezza, spiegando quello che per troppo tempo avevo stupidamente creduto e tollerato dagli altri.

la gentilezza da parte di queste donne come gruppo e a li-vello individuale risvegliò qualcosa dentro di me che era rimasto a lungo assopito. non sapevo come accogliere la bontà. sapevo come trasmetterla, ma non come riceverla. così, quando sentii che mi volevano bene, e che capivano davvero il mio dolore, ne fui sopraffatta. erano donne meravigliose e gentili. avevano tutte sofferto e molte di loro sentivano la mancanza dei figli e della famiglia. eppure i loro cuori erano incredibilmente buoni. cer-tamente avevano combinato guai e commesso errori, finendo poi in prigione, ma solo poche non avevano rimpianti e tutte avevano un cuore buono e amorevole.

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il finanziamento era agli sgoccioli e dopo quasi un anno di la-voro nella prigione, mi resi conto che non era stato solo il lavoro con i malati terminali a esaurirmi, ma la vita stessa. c’era troppa tristezza attorno a me. Quando a una coppia di miei cari amici successe un evento tragico e io cercai di stargli vicino, la vita si fece ancora più dura. Viste le difficoltà incontrate nel trovare il primo finanziamento, mi chiedevo se avessi le energie per ripetere di nuovo tutta la trafila. Quella notte, mentre mi addormentavo con le grida dei miei nuovi vicini che litigavano tra loro, presi una decisione. era giunto il momento di tornare in campagna. a quel punto avevo fatto tutto quello di cui ero capace.

la maggior parte dei miei allievi aveva ultimato il corso o era in dirittura finale, così avevo molto tempo libero. non ero più abbastanza lucida da insegnare a nuovi studenti. adesso dovevo prendermi cura di me stessa. così diedi il preavviso alla prigione e alla padrona di casa e iniziai a fare nuovi progetti.

i miei genitori stavano invecchiando. Mia madre e io avevamo sempre avuto un rapporto di amicizia molto bello e intimo, e mi stavo avvicinando anche a mio padre, intessendo con lui un legame affettuoso. così volevo star loro più vicino ed essere più accessibile, almeno nel giro di poche ore di macchina. secondo la percezione delle distanze di un australiano non è tanto. Volevo vivere anche in un posto più vicino alla costa.

scelsi la zona adatta e iniziai a setacciare le pagine internet in cerca di una casa in affitto. decisi tra quali due paesi volevo vivere e quale sarebbe stato il tetto massimo si spesa. non avendo tro-vato nulla che facesse al caso mio nel giro di due settimane, misi un annuncio sul giornale locale, spiegando chiaramente quello che cercavo. Mi furono offerte un paio di opzioni, ma non erano quello che volevo; tuttavia strinsi nuovi contatti e venni a sape-re della disponibilità di un piccolo cottage grazioso. era proprio quello che volevo, esattamente alla cifra che potevo permettermi e prima che me ne rendessi conto, vivevo in una fattoria di quasi mille ettari.

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oscUrità e alBa

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Un rapido torrente passava davanti al cottage e trasmetteva un senso cangiante di selvatichezza e splendore. alberi enormi e magnifici punteggiavano il paesaggio. gli uccelli

cantavano tutto il giorno, di notte invece si sentiva il gracidare delle rane. Milioni di stelle, e non di lampioni, brillavano fulgide in cielo ogni sera. ero assolutamente felice, soprattutto quando suonavo la chitarra contemplando il tramonto da una veranda perfetta, o quando la pioggia scrosciava sul tetto di lamiera. ero in paradiso e dicevo tante, tantissime preghiere di ringraziamento.

la vita di campagna ovviamente richiedeva molti sacrifici quando si trattava di accedere agli intrattenimenti live e all’arte, ma tutto sommato avevo raggiunto un buon compromesso e stavo bene. il mio stile di vita mi avrebbe sempre portato a viaggiare da qualche parte, occasionalmente. non importava. Mi muovevo di nuovo all’unisono con la natura e finalmente vivevo la vita che ave-va più senso per me. cinque case, compresa quella del contadino, punteggiavano le colline e le vallate su questo vasto territorio. in quanto affittuaria, io non dovevo fare altro che godermi il posto.

le cose mi sembrarono subito più facili e leggere. Vivere di nuovo in campagna era un po’ come tornare a casa. le mie forze erano a terra dopo essermi presa cura di così tanti malati termi-nali e dopo il lavoro in prigione, così ero felice di fare una pau-sa e di vivere dei risparmi che avevo. allo stesso tempo, facevo qualche ricerca nella mia nuova zona e pensavo a quale direzione intraprendere quando mi fossi sentita pronta, seguendo i passi così come si presentavano al momento. ogni giorno che passava mi sentivo meglio, ringiovanita. energie e pensieri positivi scor-

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revano di nuovo. passeggiando per le colline e i campi, estasiata dalla semplicità e dalla complessità della natura, iniziai a guarire e a riprendermi.

i precedenti anni di crescita, seduta al capezzale di così tan-te persone sagge e meravigliose, avevano determinato moltissimi cambiamenti positivi. sorridevo al ricordo, e spesso mi tornavano in mente le belle conversazioni e i momenti di tenerezza con i clien-ti. sebbene quella vita mi sembrasse lontana anni luce, soprattutto mentre camminavo per le colline e le valli, mi aveva plasmato enor-memente e continuavo a sentirmi grata per ciò che avevo ricevuto.

oltre al bisogno di passare del tempo a casa e di continuare il mio percorso creativo, feci nuovamente un atto di fede, confidan-do che i passi che avrei dovuto compiere si sarebbero senz’altro ri-velati al momento opportuno. dopotutto era già successo prima. con una natura così ricca di fascino attorno a me, la scrittura e la musica presero a scorrere in un flusso meraviglioso. il fulgore del-la vita selvatica nei dintorni del cottage e il torrente mi aiutarono subito a adattarmi a uno stile di vita molto frugale.

tuttavia, al di sotto della mia coscienza, persistevano gli sche-mi distruttivi della scarsa autostima. a livello conscio, il mio modo di pensare era cambiato molto nel corso degli ultimi dieci anni e la vita mi sembrava più facile rispetto al passato. in effetti, mi trovavo in uno stato di pace e gratitudine e mi stavo ristabi-lendo ogni giorno di più. emotivamente tutto scorreva liscio. o almeno così credevo.

poi tutto d’un tratto, le cose presero una piega inaspettata. non me la passavo per niente male, perciò fui colta alla sprovvista quando improvvisamente precipitai nei meandri più oscuri del mio processo di guarigione. si trattava di qualcosa che proveniva da molto più in profondità di prima. l’energia che mi restava (e che pensavo mi stesse rigenerando) svanì nel nulla nel giro di una notte, come se qualcuno mi avesse staccato la corrente e crollai a terra come un sacco vuoto. tutto sembrò succedere all’improvvi-so e restai senza più nemmeno un briciolo di energia.

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l’idea di trovare un impiego qualsiasi per stabilire un contatto con la gente del posto volò fuori dalla finestra. il solo pensiero di affrontare gli estranei mi sembrava impossibile. l’idea di lavorare anche solo per un breve periodo era fuori questione. semplice-mente non ne ero capace. fui costretta a penetrare al centro del mio essere per affrontare questi cambiamenti, e fu una vera fatica. Ma non avevo scelta. che mi piacesse o no, erano cose che stava-no venendo a galla e una volta iniziato a piangere, non ci fu modo di fermarmi. avevo bisogno di guarire, in modo da diventare la persona che ero destinata a essere e di liberarmi completamente del passato. furono i mesi più duri della mia vita e precipitai a capofitto in un profondo baratro di depressione suicida.

chi mi conosceva bene non riusciva a capacitarsi che quel-la persona fossi proprio io. se non si fosse trattato di me, avrei dubitato anch’io. ero stata testimone della depressione degli al-tri e non avrei mai immaginato di poterci cadere io stessa. Ma funziona proprio così ed è questo che la rende difficile da gestire all’inizio: lo shock di esserci caduti.

alcuni amici si rifiutarono categoricamente di crederci. come poteva la Bronnie che sollevava sempre il morale agli altri essersi trasformata in quella persona sconfitta e abbattuta? non sapeva-no come gestire la cosa e non riuscivano proprio a vedermi in uno stato di così evidente vulnerabilità. i consigli da parte degli amici che mi telefonavano, persone che credevo mi conoscessero bene, erano così lontani da ciò che potevo fare che mi lasciarono addos-so una sensazione di incomprensione ancora maggiore. se fosse stato possibile, mi avrebbero resa ancora più triste. Ma non lo era, perciò non fu così. l’ultima delle mie preoccupazioni erano gli al-tri. riuscivo solo a badare a me stessa, e a volte nemmeno quello.

tuttavia continuavo a ricevere consigli da tutte le parti su come cambiare la mia situazione. Ma la cosa di cui hanno più bisogno le persone depresse è l’accettazione. la depressione è una malattia ma può diventare il più grande catalizzatore di trasfor-mazioni positive, se chi ne soffre riesce ad affrontarla col proprio

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ritmo. “depressione” è il nome che le viene dato nella società moderna. Ma in effetti rappresenta una opportunità ed è un grande momento di metamorfosi personale e di risveglio. può portare all’esaurimento, ma anche alla trasformazione, se viene affrontata con determinazione, con la volontà di arrendersi e la fede. ovviamente tutto questo non la rende meno spiacevole.

Mi svegliavo tra i singhiozzi prima ancora di fare il primo pen-siero della giornata, e tutto quello di cui avevo bisogno era la compassione e la pazienza da parte di chi mi conosceva. a volte i miei pensieri del risveglio non erano nemmeno consapevoli: sem-plicemente aprivo gli occhi e piangevo. altre volte, era la tristezza per me stessa e per la mia situazione a far scendere le lacrime, per quella vita che sembrava incredibilmente dura e che lo era stata per anni. anche riconoscere di non avere le energie per rico-minciare da capo, eppure sapere di doverlo fare, mi sopraffaceva. non riuscivo nemmeno a immaginare di avere la forza per farlo, figuriamoci poi di riuscire a trovarla. Ma nessuno sarebbe venuto a bussare alla mia porta offrendomi il lavoro perfetto, soprattutto perché non conoscevo anima viva in quella zona.

nessuno tra le persone della mia stretta cerchia di amici sa-peva in effetti come gestire la mia profonda tristezza e mancanza di forza, così continuavano a chiamarmi dispensando consigli su come uscirne e rimettermi in pista, per farmi tornare a vivere, col risultato che mi sentivo ancor più sottopressione perché non ero per niente pronta ad ascoltarli. già solo passare l’aspirapolve-re in casa, attività che mi richiedeva davvero tantissima energia, rappresentava un grande traguardo per me tanto che dicevo a me stessa: “sei stata brava oggi, Bronnie, sei riuscita a fare qual-cosa.” in passato, avrei potuto passare l’aspirapolvere in cinque case diverse, uscire a pranzo, camminare per qualche chilometro e nuotare per un’ora. Ma la depressione è così quando ti colpisce: all’inizio prende il sopravvento.

la cosa migliore che possono fare gli amici e i partner è accet-tare lo stato in cui si trova quella persona. può uscirne o meno.

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ci sono buone possibilità che la superi, soprattutto se vuole farlo. l’accettazione da parte dei propri cari è un buon presupposto perché ciò accada. la sollecitudine invece ostacola la guarigione. anche chi ne soffre deve accettare che la sua vita sia arrivata a quel punto, per non fare pressione su di sé ed esacerbare i sinto-mi. Mi ci volle un po’ per riuscire a riconoscerlo, perché all’inizio lottavo contro la mia incapacità di vivere una vita normale.

tornare in campagna aveva risvegliato qualcosa di profondo dentro di me, riportando alla luce la sofferenza della mia giovinez-za e della prima età adulta, quando avevo vissuto in uno scenario simile. fu come se rallentando e tornando alle mie radici, e non impegnando più tutte le mie energie nella cura degli altri, si fosse sollevato di prepotenza il coperchio che teneva chiuso da anni tut-to il mio dolore. esso era colato fuori gradualmente nel corso dei dieci anni precedenti, mentre avevo affrontato il processo di guari-gione e di affrancamento da ciò di cui ero consapevole. Ma adesso, la totale tristezza che affiorava, così cruda e dolorosa, proveniva da luoghi non solo consci ma anche inconsci. la sofferenza ac-cumulata in anni di critiche durante la giovinezza, per non essere stata accettata così com’ero, per i rimproveri e lo scherno a cui fui esposta… Venne a galla tutto il dolore che era stato immagazzina-to dentro di me senza che me ne rendessi conto. e piansi, piansi.

per riprendersi davvero, bisogna affrontare necessariamente quello che ti trovi davanti: l’angoscia, il riconoscimento della tua sofferenza, l’opportunità di crescita, il bisogno di guarigione e di trovare l’energia per farlo, diventando più forti del dolore. nes-suno può evitarci di imparare le lezioni che ci aspettano. nessuno può impararle al posto nostro. ovviamente l’amore degli altri ci aiuta, e quello da parte di mia madre e di un paio di vecchie amiche fu un grande supporto per me. Ma non potevo sfuggire a quel processo. era giunto il momento di affrontare me stessa e di lasciare andare le emozioni dai livelli più profondi.

la liberazione avvenne in molti modi diversi. ovviamente piansi. scrissi anche. per la prima volta nella mia vita urlai, senza

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imprecare, solo grida e urla. (in verità una volta mi era capitato di gridare, involontariamente, quando saltai giù da un aereo.) Ma queste erano urla primordiali. ero grata di abitare lontano da altre case e di godere dell’intimità, per affrontare questo tumulto nel modo stabilito da ogni nuovo giorno. Urlai tutte le cose che avrei voluto dire da giovane alle persone che mi avevano ferita. Urlai anche gemiti di dolore, senza parole. Urlai per la frustrazio-ne di trovarmi in quella situazione, per il livello di sofferenza che stavo vivendo. singhiozzavo in modo convulso. giacevo esausta, e poco per volta guarivo.

in periodi più romantici, spesso mi era piaciuto paragonarmi a una rosa. dispieghiamo strato per strato la nostra meravigliosa essenza e alla fine arriviamo al centro, al bocciolo di chi siamo. in quello stato di completa tristezza però, gettai dalla finestra questa teoria e decisi che crescere ed evolversi era più simile a sbucciare una grossa cipolla. a ogni strato rimosso la faccenda si fa sempre più dolorosa e piangiamo più di prima. era quello che mi stava succedendo. stavo sbucciando una cipolla alla massima potenza e pure bella grossa. ogni lacrima versata, ogni frase scritta, ogni pensiero condiviso, mi aiutava a rimuovere un nuovo strato.

non era alla felicità che aspiravo ogni giorno, ma solo alla forza di accettare dove mi trovavo. all’inizio avevo l’energia solo per piangere, e allora dalla veranda osservavo il mondo naturale dispiegarsi davanti a me. sfinita per le ondate di liberazione che continuavano quotidianamente, mi limitavo a vivere ogni giorno nel presente. a volte era semplicemente troppo difficile pensare al di là dell’istante in cui mi trovavo. anche solo sopravvivere all’in-tensità delle emozioni era sufficiente. ero stordita, emotivamente esaurita e molto, molto stanca della vita.

Mi ricordavo che la felicità è una scelta, e decidere di sfidare me stessa ad alzarmi dal letto o di cogliere un istante di bellezza tra le lacrime erano scelte consapevoli in quella direzione. successi insignificanti per gli altri, adesso erano traguardi enormi per me. cose che un tempo erano state facili, come decidere di alzarmi

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dal letto, ricambiare una telefonata, togliermi i nodi dai capelli, indossare qualcosa di carino e prepararmi un pasto sano quando mi sarei accontentata di nutrirmi di fagioli bolliti direttamente dal barattolo, adesso erano conquiste enormi.

non ero più ciò che ero stata e se dovevo diventare la persona che ero destinata a essere, dovevo accettare i miei sentimenti, non respingerli, lasciando che affiorassero in superficie così da liberar-mene per sempre. ognuno guarisce alla propria maniera. ingoia-re pillole per la felicità non faceva per me, sebbene non giudichi chi sceglie questa opzione, perciò non mi restava che affrontare la cosa a modo mio. ogni giorno era diverso dal precedente. alcuni erano saturi di oscurità, lacrime e straziante sofferenza. in altri invece mi davo da fare, seppure in uno stato di stanco torpore, ma con la determinazione di prepararmi un pasto sano e di con-gelarne una parte per i giorni neri. altri giorni ancora, se trovavo le energie, camminavo lungo i pendii e per i campi dietro casa, lontano dalla vista degli uomini, e assorbivo i suoni e le scene della vita selvatica.

la meditazione restò una costante della mia vita quotidiana. non riesco a immaginare cosa avrei potuto fare senza questa abi-lità. in precedenza mi aveva insegnato che il dolore è un prodotto della mente. grazie ad anni di pratica avevo imparato a lasciare andare enormi quantità di pensieri malsani. Quindi adesso faceva parte integrante del mio processo di guarigione. Mi domandavo come facessero le persone a combattere la depressione senza la meditazione. ti insegna a osservare i pensieri e a capire che non sono te. appartengono alla tua mente e sebbene essa faccia parte di te, non ti rappresenta nella tua interezza, né i tuoi pensieri sono del tutto tuoi. Molti vengono generati da quelli che gli altri proiettano su di te.

Questa consapevolezza mi aiutò tantissimo mentre sedevo a meditare almeno due volte al giorno, con l’intento di prendere possesso delle mie riflessioni e della mente. Mi ci volle una gran-de determinazione per focalizzarmi sulla pratica quando affiora-

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va tutto quel dolore a distrarmi. Ma per lo più, durante le ore di meditazione, ero padrona di me stessa. osservando i miei pensie-ri mentre meditavo, senza concentrarvi sopra la mia attenzione, recuperai uno stato di pace, di amore e sicurezza, nella consape-volezza che questo turbamento sarebbe passato un giorno, e che la parte serena di me esisteva ancora. solo che al momento facevo fatica ad accedervi, molta fatica. la meditazione era anche un im-pegno e mi faceva bene. significava che malgrado il mio umore fluttuante, ogni giorno avevo un compito da portare a termine, vale a dire che dovevo sfidarmi a mettermi seduta e a continuare i miei esercizi, a prescindere da quanto mi sentissi male. per alcuni è la sfida di andare al lavoro che li fa sopravvivere, o continuare qualche altra abitudine. per me erano gli esercizi di meditazione.

ovviamente piangevo anche, dal profondo della mia anima. cercando di non perdere di vista la vita meravigliosa che poten-zialmente mi stava aspettando, se fossi riuscita a superare quel livello di dolore e guarigione, mantenevo viva la speranza come potevo. Quando il presente è ostacolato dal dolore del passato, è solo la fiducia in un futuro diverso che a volte offre qualche pro-spettiva di felicità. Quindi la speranza giocò un ruolo importan-te nella mia guarigione. nei momenti di semi-serenità, sognavo di funzionare di nuovo, di usare i talenti di cui ero stata dotata (come tutti noi), di guadagnare bene facendo il lavoro che ama-vo, di ridere con gli amici, di possedere qualche ettaro di terreno vicino a un fiume di acqua dolce, di osare di amare ancora e di avere un figlio. Ma soprattutto, sognavo semplicemente di cono-scere ancora la felicità, di svegliarmi piena di gioia ed entusiasmo per il dono di essere viva. sognavo di essere serena e desideravo ricordare cosa si prova a esserlo per più di un istante rapido e fuggevole. sì, speravo nella felicità.

l’unica vera cosa che potevo fare però era restare il più pre-sente possibile, quando potevo, e continuare a gestire il qui e ora. Vivere in un posto così bello mi aiutò parecchio, perché nel mondo che mi circondava avvenivano tanti eventi intricati che

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mi assorbivano completamente in quei momenti; osservavo gli insetti e gli uccelli, ascoltavo la brezza tra gli alberi, guardavo il cielo e i suoi costanti mutamenti.

ricevetti anche un grande aiuto dall’assistente sociale a cui mi rivolsi. non solo praticava la mia stessa tecnica di meditazione, ma in un certo senso fu come se tenesse davanti a me uno spec-chio affinché io mi guardassi. grazie al suo sostegno, giunsi a ve-dermi da prospettive diverse, con maggior bontà, riconoscendo il mio bel cuore. capii anche quanta energia avevo messo nel curare gli altri e non me stessa, perché a livello profondo non credevo di meritarlo. in gran parte ciò dipendeva dalle opinioni che altri avevano avuto di me in passato e che ancora mi condizionava-no a livello subconscio, gente che non mi conosceva malgrado lo pensasse. Una parte della trasformazione in atto traeva forza dalla determinazione di liberarmi completamente di queste za-vorre. avevo assorbito anche troppo dolore da un’amica che stava affrontando un periodo difficile, pensando che aiutarla fosse mio dovere. Ma nuotando nella corrente per salvarla rischiai di an-negare io per prima. avevo bisogno di separare la compassione e l’empatia per gli altri, riservando un affetto più distaccato a quelli in cui mi identificavo.

ricordarmi che avevo bisogno io stessa della mia indulgenza fu importante e liberatorio. Questa brillante assistente sociale mi aiutò a vedere le cattive abitudini che avevo sviluppato in pre-cedenza nel giustificare il comportamento degli altri, prima per mantenere un quieto vivere superficiale e poi per compassione. il suo approccio franco e diretto era proprio quello che mi ci voleva; la sua sincerità funzionò soprattutto quando mi chiese se avessi intenzione di vincere la medaglia d’oro alle olimpiadi delle badanti.

troppo spesso avevo dimenticato di mostrare un po’ di com-prensione nei miei confronti, sia nei pensieri che con le azioni. Ma tutti gli anni precedenti di crescita e affrancamento dalle di-namiche del passato non erano andati sprecati, anche se a volte

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sembrava così. invece, avevo raggiunto il centro delle mie ferite, il momento critico da cui nascevano e fui in grado di lasciarle andare per sempre.

per riconoscere il mio stesso dolore, provocato da anni di cri-tiche e di giudizi da parte delle persone del cui amore avevo più bisogno, dovevo darmi il permesso di smettere di giustificare il comportamento scortese e di liberarmi di questi schemi per sem-pre. dovetti imparare a essere buona e gentile con me stessa, e anche a ricevere questa stessa gentilezza dagli altri. ero degna di ottenere bontà e gioia. anche se gli altri non ne erano convin-ti, non potevano dire di conoscere i sentieri che avevo percorso e comunque la cosa non aveva più nessuna importanza. Adesso sapevo di meritare che la bontà si manifestasse nella mia vita. fu proprio riconoscere questo aspetto fondamentale che mi permise di cominciare a essere compassionevole con me stessa. lo avevo già pensato su altri livelli, ma non alla profondità da cui ora agi-vo. così finalmente mi rifocalizzai sul piano che rappresentava davvero la mia forza motrice. era giunto il momento di permet-tere alla mia stessa bontà di entrare nella mia vita. dopo tutto, me lo meritavo.

i vecchi schemi di pensiero di scarsa autostima però non mol-lavano la presa, e c’erano giorni in cui mi ci voleva tutto quello che avevo per essere più forte del dolore mentale ed emotivo. a ogni strato conquistato, di tanto in tanto subentravano squarci fugaci di bellezza ed euforia che mi rigeneravano e mi davano ispirazione. cose semplici come i raggi di sole sulle foglie degli alberi vicini esprimevano una tale incredibile bellezza da suscitare in me inaspettati momenti di beatitudine. nuove parti del mio essere in incubazione per anni ora stavano diventando una mia componente naturale. alcuni cambiamenti permanenti erano av-venuti per davvero e alcuni degli schemi di pensiero del passato me li ero lasciati definitivamente alle spalle.

Mi resi conto che avevo gestito aspetti particolare della mia formazione mentale precedente e che effettivamente li avevo rila-

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sciati, così accettai tutto questo con gratitudine. anche la bellez-za del posto in cui vivevo continuava ad ancorarmi al presente. ovviamente anche la sofferenza che restava tendeva a farlo. Ma la vita selvatica che si dispiegava attorno al cottage mi arricchiva. a ogni strato di dolore che veniva rimosso, i miei sensi si accentua-vano ed erano sempre più in armonia con il mondo naturale. ciò mi incoraggiò tantissimo, anche se c’erano ancora momenti bui.

a volte ce l’avevo con me stessa perché non avevo superato la depressione rapidamente come avrei voluto. Ma la rabbia non è altro che la manifestazione di aspettative frustrate. così le la-sciavo andare e ritornavo al presente, focalizzandomi su qualcosa di bello fuori dalla finestra, mettendo della musica e cantando, o semplicemente riportando la mia consapevolezza sul respiro o sui suoni circostanti. allora riuscivo di nuovo ad accettare la mia situazione, sapendo che ci stavo lavorando con il ritmo giusto per la mia evoluzione.

Una mia vecchia amica mi mandava una fornitura costante di prodotti biologici divini per la cura del corpo. così mi pren-devo il tempo per spalmarmi con cura le creme, coccolandomi e nutrendomi, sia mentalmente che fisicamente, per bilanciare l’atteggiamento poco gentile che mi ero riservata in passato. farlo mi lasciava sempre una sensazione di benessere, per non parlare del profumo meraviglioso sulla pelle. prendermi cura del corpo in questo modo mi riportava alla mente come avevo accudito i miei clienti. stavo iniziando a darmi un po’ dell’amore che avevo offerto loro.

Ma essere più forte del dolore era molto difficile e sebbene dopo qualche mese ricominciai a vivere qualche giorno buono, la depressione e i pensieri negativi che l’accompagnavano sem-bravano lottare persino con maggior accanimento. certamente non era disposta ad andarsene con tanta facilità. dopo tutto, era alimentata da schemi negativi di autocondanna che a quel punto regnavano da più di quarant’anni e che avevo creato io stessa, permettendo a troppe opinioni e giudizi esterni di entrare nel

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mio sistema di convinzioni. la mia mente aveva il comando e non sembrava intenzionata a cedermelo.

Ma stavo diventando padrona di me stessa, rendendomi conto del mio valore e della mia bellezza, e sceglievo consapevolmen-te di direzionare la mente verso sistemi di convinzioni positive. iniziai a canticchiare motivetti divertenti sulla mia bontà mentre facevo qualche lavoretto per casa. anche salutare allo specchio il mio io pieno di bellezza ogni volta che ci passavo davanti divenne un’abitudine divertente e piacevole. e assicurarmi che il corpo fosse nutrito regolarmente con bagni e cibo sano mi riportò a momenti più felici. a poco a poco la felicità stava tornando. alla mia vecchia mente non piaceva per niente e la depressione affon-dava i suoi artigli feroci, rifiutandosi di lasciarmi andare del tutto. la ristrutturazione del mio modo di pensare era in corso ormai da anni. Ma ora, stava avvenendo un duello finale, dove solo uno dei due contendenti sarebbe sopravvissuto.

fu al culmine di questo momento, di questa lotta per dire addio una volta per tutte al mio vecchio io che alla fine mi arresi. era troppo difficile. nonostante i miglioramenti nella vita di ogni giorno e i crescenti momenti di felicità, ero emotivamente sfinita. Mi ci era voluta così tanta energia per arrivare fino a questo pun-to che improvvisamente le forze che mi restavano svanirono nel nulla, e l’unico conforto era il pensiero del suicidio. non avevo più un briciolo di ordine mentale né di speranza. avevo dato il meglio di me, ma ero troppo stanca di tutto. Volevo morire. Vole-vo che la mia vita finisse una volta per sempre.

Un amico di vecchia data, un vero angelo, mi chiamava rego-larmente. per fortuna aveva un modo tutto suo di affrontare la cosa: “alza il ricevitore. non sto scherzando, meglio per te se non ti stai ammazzando. alza il ricevitore. smettila di ignorarmi e alza questo *#@# di ricevitore” diceva alla segreteria telefonica, finché non potevo fare a meno di rispondere, ridendo tra le lacrime. per quanto l’approccio non sia ortodosso, il suo è uno dei cuori più grandi che conosco e il senso dell’umorismo ci ha già aiutati in

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passato a superare certe situazioni. il suo modo di fare ha funzio-nato. avevo bisogno di ridere e sapevo che mi voleva tanto bene, come io ne volevo a lui. ridere è uno strumento di guarigione poco apprezzato.

il giorno che non ha chiamato ho raggiunto in assoluto il pun-to più basso di tutta la mia vita. avevo scribacchiato un biglietto d’addio, non ero nemmeno capace di scrivere chiaramente, e ri-nunciai alla vita. era troppo difficile.

si dice che l’ora più oscura arriva sempre prima dell’alba. Quella fu l’ora più oscura della mia vita. non riuscivo più a vi-vere. non avrei mai potuto sentirmi peggio di così. Mi odiavo per la debolezza che mi aveva impedito di conquistare la mente malgrado tutti i miei sforzi. Mi odiavo per aver accettato così tan-ta merda dagli altri. Mi odiavo per aver deciso troppo spesso di vivere un’esistenza così dura. non sopportavo che ci volesse così tanto coraggio per creare la vita che volevo e meritavo. odiavo quasi tutto di me. era proprio l’ora più oscura.

nell’istante in cui finii di scribacchiare il mio biglietto di ad-dio e di scuse, pieno di tristezza, il telefono suonò. pensai di non rispondere, ma lo feci, con enorme riluttanza. non era il mio amico, come avevo creduto. non era nessuno che conoscessi. ciò che sentii fu la voce gioiosa di una donna che mi dava un felice buongiorno. poi continuò proponendomi un’assicurazione per l’ambulanza!

“grandioso” pensai. “non riesco nemmeno a suicidarmi come si deve. probabilmente avrò bisogno di una cavolo di ambulan-za.” avevo scelto un crepaccio nella zona in cui vivevo nel quale avrei fatto precipitare il furgoncino con me dentro, assicurando-mi di non sopravvivere. ci avevo pensato parecchio perché non volevo fare le cose a metà. avevo valutato tutti i dettagli.

l’offerta di un’assicurazione per l’ambulanza (che declinai nella confusione mentale in cui mi trovavo) mi fece pensare che avrei anche potuto non riuscire nel mio intento. ricordai tutti i cari soccorritori che avevo conosciuto negli anni e mi resi conto

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di quanto poco sensibile fossi stata, quanto fossi consumata dal mio stesso dolore tanto da non considerare affatto le conseguen-ze del mio gesto su chi mi avrebbe trovata e su chi mi voleva bene. sapevo anche che, se non fossi riuscita nel mio intento suicida, non avrei voluto convivere con la paralisi, soprattutto se autoindotta. Ma non fu solo il simbolo dell’ambulanza, sebbene non avrei potuto chiedere un campanello d’allarme migliore: fu proprio la telefonata a rompere l’incantesimo del torpore in cui ero precipitata.

Quel momento cruciale fu proprio la svolta, la grande svolta della mia vita. non volevo danneggiare il corpo che mi aveva dato così tanta libertà e mobilità, il corpo bello e sano che mi aveva fatto superare ogni ostacolo. non volevo nemmeno mo-rire. Mentre iniziavo ad apprezzare le mie gambe per tutti i chi-lometri lungo i quali mi avevano trasportata, iniziai anche ad amare tutta me stessa.

durante la breve telefonata, provai dolore nella zona del cuore. fu allora che mi resi conto che il mio povero cuore dolce e bello aveva sopportato abbastanza. non potevo accettare altra sofferen-za e disprezzo. avevo bisogno d’amore per guarire, e quell’amore, sopra ogni cosa, doveva arrivare da me prima di tutto.

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nessUn riMpianto

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la velocità con cui le cose cambiarono da quel momento fu fenomenale. la depressione scivolò via nella notte, portando via con sé la sua pesante nube di oscurità. aveva

aspettato che arrivasse l’amore e quando accadde, aveva capito che il suo compito era finito e se ne andò. passai i giorni seguenti rigenerandomi con la meditazione, esprimendo gratitudine e rispetto per il mio meraviglioso io. ciò nutriva il mio cuore, mentre stare a mollo nella vasca sostentava il mio corpo. feci lunghe passeggiate sui pendii, senza mettermi pressione, semplicemente camminando adagio mentre mi stupivo della vita con gli occhi di una persona rinata. fu come risvegliarsi in un mondo talmente bello che era difficile ricordarsi di quello prima.

per segnare l’inizio della mia nuova esistenza decisi di svolgere una cerimonia formale di addio e benvenuto. raccolsi un po’ di legna dai campi circostanti e accesi un bel fuoco. c’erano cose che avevano bisogno di un saluto adeguato, gli aspetti del mio vecchio io e le circostanze che erano derivate da esso. così scrissi queste cose e anche quelle a cui davo il benvenuto. poi al tramonto, mentre il sole calava e le prime stelle della sera spuntavano in cielo, restai accanto al caldo fuoco di guarigione, felice. dissi grazie e addio a vecchie parti di me mentre lasciavo cadere i pezzi di carta nel fuoco. celebrai anche ogni benvenuto. dopo, seduta fuori sotto il cielo della campagna, contemplando il fuoco, provai un amore immenso per me stessa e per la vita. sentii anche una incredibile gratitudine.

il fuoco continuò a bruciare vividamente. sorridendo, guardai l’immensa coperta di stelle sopra di me e riconobbi che dopo tut-to quello che era successo, alla fine era nato un essere nuovo. la

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persona verso la quale si erano direzionati tutti i miei sforzi per anni adesso ero io. finalmente le avevo dato il permesso di ma-nifestarsi. la donna che aveva trovato troppe giustificazioni per gli altri, che si era portata addosso anni e anni di sofferenza e che non aveva accettato di meritare la felicità non serviva più. aveva svolto il suo compito. la ringraziai per la parte che aveva avuto nella mia evoluzione e la lasciai andare.

ogni giorno continuava a rivelare il piacere a nuovi livelli. fu quasi come scoprire la vita per la prima volta. non mi ero mai sen-tita così libera. la felicità, come non l’avevo mai conosciuta prima, completamente priva di ostacoli, gioiosa e senza senso di colpa, divenne il mio stato naturale. nuovi uccelli venivano a posarsi sulla staccionata e cantavano per me. Quelli vecchi mi seguivano mentre passeggiavo per i campi in uno stato di grazia. i miei sensi si affi-narono, come se avessi appena concluso settimane di meditazione silenziosa, e restai in uno stato di maggior allerta. i suoni naturali erano più nitidi e i colori più luminosi e vividi. notai almeno tren-ta diverse sfumature di verde nella campagna circostante.

dentro di me c’erano spazio e chiarezza; avevo sempre creduto che ci fossero, ma non lo avevo mai appurato. la saggezza che avevo guadagnato lungo la strada faceva parte di me. anche il passato adesso aveva poca importanza. Mi era servito come stru-mento di apprendimento e nessuna delle lezioni era andata spre-cata. Ma la sofferenza sopraggiunta per formarmi aveva svolto il suo compito e adesso si era disintegrata. non c’era niente da dimostrare, niente da spiegare, niente da giustificare. Mi faceva male il viso per quanto sorridevo. Quasi da un giorno all’altro, la realtà si era spostata su un piano del tutto diverso. Vivere nel presente ora era diventato uno stile di vita, dopo anni di pratica.

le porte delle opportunità si spalancarono. tutti gli sforzi di focalizzazione, resistenza e sacrificio fatti in passato durante il mio viaggio creativo iniziarono a essere premiati. il mio lavoro ebbe uno slancio enorme e nuove opportunità di scrittura giunsero da fonti inimmaginabili. l’amore per me stessa aveva aperto le porte,

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permettendo a grandi cose di manifestarsi nella mia vita. erano state lì ad aspettare pazientemente per anni che fossi pronta.

Mentre il tempo scorreva, il flusso naturale di bontà continuò a crescere. attorno a me si erano eretti anche nuovi sistemi di supporto, sia a livello professionale che personale. ovviamente, c’erano sempre lezioni da imparare su di me, ma adesso non davo per scontata nemmeno la gioia più piccola.

negli anni precedenti avevo creato consapevolmente la vita che avevo immaginato, rilasciando ciò che mi tratteneva uno strato alla volta. capire con chiarezza com’era l’esistenza che vo-levo vivere e la persona che volevo essere fu una parte necessaria di questo processo. se adesso emergono dei blocchi, occasional-mente, sono paziente e amorevole con me stessa mentre cerco di elaborarli. la scoperta di sé è un processo gioioso e riesco a sorridere della mia umanità.

con tutto quello che successe, finii col sentirmi più vicina che mai a ciascuna delle care persone di cui mi ero presa cura. la nuova vita che si stava dipanando davanti a me era il genere di esistenza che ognuno di loro aveva intravisto come possibi-le, quando si erano guardati indietro e avevano parlato dei loro rimpianti. nelle ultime settimane e giorni, quando tutto il resto era svanito, erano riusciti a cogliere la gioia potenziale che la vita avrebbe offerto loro, se solo avessero vissuto in modo diverso.

non tutte le persone però parlavano di rimpianti. c’era chi diceva che avrebbe voluto fare le cose diversamente, ma non era logorato da un vero e proprio rimorso. alcuni erano meraviglio-samente soddisfatti della vita che avevano condotto. o almeno, l’accettavano. Molti altri però avevano dei rimpianti e desidera-vano ardentemente essere ascoltati, far conoscere i loro pensieri. il tempo che trascorsi con ciascun cliente probabilmente fu un catalizzatore della sincerità a cui giunse ogni rapporto. sarò sem-pre molto grata per quel tempo trascorso con loro.

i rimpianti che avevano condiviso con me mi lasciarono con la determinazione di non arrivare ad averli io stessa alla fine dei

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miei giorni. non potevo ricevere il dono di questa saggezza senza imparare la lezione che racchiudeva. avendo resistito alle prove più grandi, ora capivo quanto potessero essere difficili le sfide. Ma capivo anche quanta gioia derivasse dal superarle.

la possibilità di realizzarsi e di provare piacere che quelle care per-sone colsero fugacemente approssimandosi alla morte è ciò che viene offerto a ciascuno di noi, prima che giunga il momento di andarce-ne. il dispiegarsi di ogni nuovo giorno mi lascia ancora più incantata dal flusso naturale della bontà. essa vuole emergere e aiutarti e lo fa quando impari a permetterglielo, attraverso la fede e l’amore per sé. ce n’è per tutti. non devi fare altro che toglierti di mezzo ed è questo il vero compito: imparare a padroneggiare i tuoi stessi pensieri spaz-zando via i detriti che impediscono di far scorrere la bontà.

l’apprendimento continuerà per sempre. non arrivi mai a uno stadio di evoluzione in cui dici: “grandioso. adesso posso mettermi comodo, so tutto e posso vivere ogni giorno senza do-ver più imparare niente.” persino a stella, che aveva intrapreso un viaggio interiore così intenso, fu ricordata la necessità di lasciare andare la presa e arrendersi. così facendo, visse con maggior se-renità i giorni che le restavano, prima di andarsene con un sorriso radioso sul viso quando arrivò il suo momento.

Quindi, se le lezioni non finiscono mai, potremmo accoglierle invece che opporre resistenza. non passa giorno senza che impari qualcosa di nuovo su di me. Ma adesso riesco a farlo con affet-tuosa bontà, amando me stessa in modo incondizionato, senza giudicarmi. anche ridere teneramente e con amore permette al processo di crescita di essere più dolce.

Quando grace disse: “Vorrei aver avuto il coraggio di vivere fedele a me stessa e non come gli altri si aspettavano da me” pro-vava un’enorme tristezza per come era andata la sua esistenza.

È un peccato che richieda così tanta determinazione essere chi sei veramente. Ma è così. a volte ci vuole un coraggio enorme . ri-spettare la propria identità, qualunque sia, a volte non può nem-meno essere spiegato a se stessi, soprattutto all’inizio. tutto quello

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che sai è che c’è un desiderio dentro di te non ancora realizzato dalla vita che stai facendo. doverlo spiegare agli altri, che non hanno vissuto nei tuoi panni, può spingerti a metterti ancor più in discussione.

Ma come disse il saggio Budda più di due millenni fa: “la mente non conosce risposte. il cuore non conosce domande.” È il cuore a guidarci verso la gioia, non la mente. superare la mente e lasciare andare le aspettative degli altri ti permette di sentire il tuo cuore. avere il coraggio di seguirlo porta alla felicità. allo stesso tempo bisogna continuare a nutrirlo e padroneggiare la mente. se il cuore si evolve, la vita dispensa più gioia e pace lungo il cammi-no. la vita felice vuole te tanto quanto tu vuoi lei.

Quando anthony nella casa di cura ammise di non avere il coraggio di cercare una vita migliore, dimostrò le conseguenze di essere governato dalla paura. non significa che anche tu finirai in una casa di cura prima del tempo. Ma la mancanza di stimoli e di felicità che divenne parte della sua vita non è diversa da quella che caratterizza milioni di persone. ogni giorno per lui consiste-va di una routine soporifera, sicura e protetta, ma mai appagante.

ci vuole forza per fare grandi cambiamenti. tuttavia, quanto più a lungo stai nell’ambiente sbagliato e resti un suo prodotto, tanto più a lungo neghi a te stesso l’opportunità di conoscere la vera felicità e la soddisfazione. la vita è troppo breve per guardar-la passare, bloccati da una paura che può essere affrontata e vinta.

proprio come i rampicanti che intrappolavano i bei fiori nel giardino di florence, tutti noi siamo capaci di crearci le nostre catene. ovviamente molte non sono così facili da eliminare come le sue piante. ci sono catene che hanno la forza di anni e non vengono rimosse volentieri. ti resteranno addosso per tutta la vita soffocando la tua bellezza, se glielo permetti.

Ma così come c’è voluto del tempo per crearle, così pian piano possono anche essere distrutte. È un delicato processo che richie-de determinazione, forza e a volte la capacità di lasciare andare. comporta il coraggio di interrompere relazioni malsane e di dire:

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“ne ho abbastanza.” significa trattarsi con rispetto e gentilezza, entrambe cose che meriti. soprattutto però, vuol dire liberarsi dalle catene e diventare un osservatore dei tuoi stessi pensieri e abitudini. Questa consapevolezza permette di cogliere le soluzio-ni con maggior chiarezza.

la vita è tua e di nessun altro. se non riesci a trovare la felicità in ciò che hai creato e se non stai facendo niente per migliorarlo, allora il dono di ogni nuovo giorno viene sprecato. Un piccolo passo o una semplice decisione sono grandi punti di partenza, così come assumersi la responsabilità della propria felicità. si può avere una vita serena senza dover cambiare casa o compiere azioni drastiche nel mondo fisico. Basta modificare la prospetti-va ed essere abbastanza coraggiosi da rispettare alcuni desideri. nessuno può renderti appagato o meno, a meno che non sia tu a permetterglielo.

ebbene sì, avere il coraggio di essere se stessi, e non chi si aspettano gli altri, richiede tantissima forza e sincerità. Ma la ri-chiede anche giacere sul letto di morte e ammettere che vorresti aver agito in modo diverso. oltre a quelli che ho menzionato, ci sono stati tanti altri clienti con lo stesso rimpianto, desiderare di essere stati fedeli a se stessi.

Quando John affermò che non avrebbe voluto lavorare così tanto, disse una cosa che avrei sentito spesso nel corso degli anni. nelle sue ultime settimane, seduto in terrazza a guardare la vita dispiegarsi nel porto, era carico di rimpianto. non c’è assoluta-mente niente di male nell’amare il proprio impiego. anzi è pro-prio così che dovrebbe essere. Ma il punto sta nel trovare l’equili-brio affinché il lavoro non diventi tutta la tua vita. riesco ancora a sentire i sospiri profondi di quel brav’uomo mentre si faceva una ragione delle scelte compiute.

poi ascoltando charlie insistere sui vantaggi di una vita sem-plice, dovetti concordare con la sua saggezza ed esperienza di vita. il vero valore non sta in ciò che possiedi ma in ciò che sei. chi si avvicina alla morte lo sa. le cose che hanno non contano nulla alla

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fine. Quello che gli altri pensano di loro, o i beni che hanno ac-cumulato, non entrano nemmeno nei loro pensieri a quel punto.

alla fine, ciò che conta per le persone è quanta felicità sono riuscite a dare a chi amano e quanto tempo hanno trascorso facendo ciò che dava loro piacere . per molti divenne fondamentale fare in modo che chi restava non finisse con il provare gli stessi rimpian-ti. non è mai successo che dal letto di morte i clienti, passando in rassegna la loro vita, rimpiangessero di non aver comprato o posseduto più beni. invece, il pensiero che più occupa la mente delle persone che si avvicinano alla morte riguarda come hanno vissuto, cosa hanno fatto e se sono riuscite a fare la differenza per quelli che lasciano, sia che si tratti della famiglia, della comunità o di chiunque altro.

le cose di cui pensi di aver bisogno a volte sono quelle che ti tengono legato a una vita insoddisfatta. la semplicità è la chiave per cambiare questa situazione: bisogna lasciare andare il deside-rio di conferma attraverso il possesso o le aspettative degli altri su di te. anche assumersi dei rischi richiede coraggio. Ma non puoi controllare tutto. restare in un ambiente apparentemente sicuro non ti garantisce che le lezioni della vita passeranno inos-servate. possono sempre emergere dal nulla, quando meno te le aspetti. lo stesso però vale per le ricompense destinate a coloro che hanno il coraggio di rispettare il proprio cuore. le lancette dell’orologio si muovono per tutti. sta a te scegliere come passare il resto dei tuoi giorni.

pearl aveva capito che gli eventi accadono quando ne hai biso-gno. credeva che la cosa più importante fosse lavorare per trovare il proprio scopo, per svolgere il proprio compito, qualunque esso fosse, con l’intenzione giusta, senza restare intrappolati in situa-zioni lavorative tristi per paura della mancanza. È questione di imparare a osare pensare senza limiti, senza cercare di controllare il modo in cui le situazioni si manifesteranno. la vita finisce in fretta, diceva. ed è vero. alcuni di noi vivranno a lungo, altri no. Ma se riesci a conoscere la felicità e l’appagamento in questo

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breve lasso di tempo, non c’è ragione di avere rimpianti quando arriverà la fine, com’è inevitabile che sia.

imparare a esprimere i propri sentimenti purtroppo è una dura prova per troppi adulti. È stato motivo di frustrazione e rimpianto per i malati terminali, compreso Jozsef. Voleva espri-mersi ma non sapeva come fare perché non ci aveva mai provato. lo struggimento che provava quel brav’uomo fu il suo più grande rimpianto, perché morì sentendo che la sua famiglia non lo aveva conosciuto veramente. altri clienti svilupparono malattie legate all’amarezza che avevano dentro, perché non avevano mai impa-rato a esprimersi.

si migliora facendo pratica ed è così per ogni cosa. Quindi cominciando con piccoli atti di coraggio nell’esprimerti, diventa più facile aprirti e inizi persino a godere della condivisione di una simile sincerità. non riuscirai mai a controllare le reazioni degli al-tri. tuttavia, sebbene le persone inizialmente possano reagire male quando parli con schiettezza, alla fine ciò porta la relazione su un piano più elevato, completamente diverso. oppure mette fine a quel rapporto sbagliato. in entrambi i casi per te è una vittoria.

non possiamo sapere quanto tempo vivremo né quando moriranno le persone che amiamo. Quindi invece di convivere con i rimpianti, assicurati che coloro a cui tieni sappiano quello che provi per loro. come diceva la cara Jude, il senso di colpa è un’emozione che intossica gli ultimi anni che ci restano. anche esprimere i propri sentimenti fa sentire bene una volta che ti sei abituato a farlo. È solo la paura di come verranno recepiti che ti trattiene. allora metti al tappeto i timori e osa rivelare agli altri il tuo io meraviglioso, prima che sia troppo tardi.

se ti senti già in colpa per cose non dette a qualcuno che se n’è andato, è il momento di perdonarti. non rispetti la tua vita por-tandoti dietro il rimorso. È tempo di essere buono con te stesso. eri così, ma non c’è ragione per cui tu debba continuare a esserlo ora. provare compassione per ciò che sei stato grazie a come sei adesso è il primo seme di bontà che porta al perdono di sé.

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se le persone che fanno parte della tua vita non sembrano corrispondere con altrettanta sincerità al tuo modo di esprimerti, non significa che non ti hanno ascoltato o che hai sbagliato a par-lare apertamente. nanci che soffriva di alzheimer ne è l’esempio perfetto. Ma anche altre relazioni nella mia vita sono state trasfor-mate dalla manifestazione di bontà e franchezza. per lungo tem-po mi è sembrato che le mie parole non venissero ascoltate. Ma quando gli altri furono pronti a esprimere i propri sentimenti, fu evidente che ogni messaggio era stato percepito lungo il cammi-no. tuttavia alla fine non avrebbe avuto alcuna importanza. ero in pace, sapendo di aver avuto il coraggio di esprimermi con sin-cerità. se uno di noi fosse mancato inaspettatamente, non avrei provato sensi di colpa. non c’era nessuno che dessi per scontato, nessuno che non sapesse che gli volevo bene, anche se non erano in grado di comunicarlo a loro volta con la stessa schiettezza. dì alle persone cosa provi. la vita è breve.

ritrovare l’amica di doris fu per me motivo di gioia e soddi-sfazione. Quando mi parlò del rimpianto di non aver mantenuto i contatti con le sue amiche, non avevo idea di quanto spesso avrei sentito ripetere questo rammarico dai clienti. ora, con tutto quello che ho superato e sapendo quanto sono stati importanti gli amici fidati e di lunga data per andare avanti, è meno difficile comprendere questo rimpianto. la maggior parte della gente è piena di amici, ma quando si arriva alla resa dei conti non sono molti quelli che restano nei momenti più difficili, per esempio quando si muore.

l’amicizia offre storia e comprensione. Quando i clienti ripen-savano alla loro vita, spesso si lasciavano andare ai ricordi degli amici di cui sentivano la mancanza. la quotidianità si riempie di impegni e i rapporti si allentano. nella vita ci sono persone che vanno e vengono, amici compresi. Ma quelli veramente impor-tanti, quelli che ami di più, valgono lo sforzo di mantenere vivo il contatto. sono quelli che ci saranno quando avrai più bisogno di loro, proprio come tu ci sarai per loro. a volte non è possibile

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essere presenti fisicamente, ma anche il contatto telefonico dà forza e conforto alle persone nei momenti difficili.

l’accettazione e il perdono da parte dei propri cari, soprattutto in punto di morte, aiutò elizabeth a trovare la pace dopo anni di alcolismo. alla fine è questione di amore e relazioni. Ma non tutti sono stati così fortunati da riuscire a rintracciare gli amici alla fine, malgrado lo desiderassero. ecco perché è importante non perdere i contatti. nessuno sa cosa ci riservi il futuro o quando arriverà il giorno in cui ti mancheranno i tuoi cari, intanto puoi godere del dono della loro presenza nella tua vita.

i turni che facevano gli amici di Harry per stargli vicino non fecero altro che enfatizzare ulteriormente l’importanza di questi rapporti. sebbene possa essere un periodo di sofferenza per gli altri, chi muore vuole godersi il tempo che resta il più possibile. gli ami-ci portano il buon umore nei momenti di tristezza e l’allegria dona felicità a chi muore. sia che ti trovi in punto di morte o meno, gli amici sono i soli capaci di farti ridere anche nei momenti peggiori.

seduta accanto a me sul suo letto dopo avermi gridato di an-darmene, rosemary ammise di non aver mai permesso a se stessa di essere felice e questo fu un esempio di grande onestà. le offrì anche l’occasione di migliorare notevolmente il tempo che le re-stava. non credeva di meritarsi la felicità perché non era stata ciò che la sua famiglia si aspettava da lei. Quando si rese conto che era solo questione di scegliere, imparò a lasciar entrare la gioia e riuscì a ritrovare quella parte di sé che era rimasta assopita per gran parte della sua vita da adulta. era bello il sorriso che ogni tanto le sfuggiva nelle ultime settimane.

apprezzare ogni passo lungo il cammino è uno dei segreti per la felicità. Mentre cath rifletteva sul tempo che le restava, diceva di aver perso molte occasioni felici perché si era focalizzata troppo sui risultati, invece che sul tempo vissuto per raggiungerli. È mol-to facile pensare che l’appagamento dipenda da ciò che si ottiene alla fine, ma in verità è proprio il contrario. si realizzano le cose quando si è raggiunta la felicità.

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sebbene non sia possibile essere soddisfatti tutti i giorni, si può imparare come spostare la mente in quella direzione. rico-noscere l’esistenza di qualcosa di bello al di fuori della tristezza ne è un esempio, ed è una cosa che mi ha aiutata a ritrovare la pace. la mente può causare molta sofferenza. Bisogna padroneggiarla e usarla adeguatamente, così può essere sfruttata per creare una vita bella e felice. ognuno di noi ha delle ragioni per dolersi. tutti abbiamo sofferto. Ma la vita non ci deve nulla. siamo noi a dover fare il possibile per trarre il meglio dall’esistenza e dal tempo che ci resta, e per vivere in uno stato di gratitudine.

ci saranno sempre lezioni da imparare, alcune di esse ci fa-ranno soffrire, mentre altre ci daranno la felicità; solo accettan-dole raggiungeremo uno stato di maggior serenità. da questo punto di vista, la felicità diventa una scelta consapevole e le onde smettono di travolgerci. Quelle che una volta ti hanno lasciato abbattuto e ferito adesso possono essere eliminate grazie all’espe-rienza e alla saggezza.

a volte va benissimo comportarsi da sciocchi e giocare. non devi fare altro che autorizzarti a farlo. È possibile divertirsi sen-za droghe o alcol. non esiste una regola secondo cui gli adul-ti debbano essere seri e non possano divertirsi con le frivolezze. prendere la vita in modo troppo critico o preoccuparsi di come ci vedono gli altri finisce col creare rimpianti con cui fare i conti in punto di morte, se permettiamo a pensieri simili di ostacolare l’appagamento nel presente.

naturalmente il modo di vedere le cose fa una enorme diffe-renza per la felicità, come ha dimostrato il caro lenny. Malgrado le perdite subite nella sua vita, si era concentrato sui doni che aveva ricevuto e riteneva di aver avuto un’esistenza soddisfacente. la stessa vista su cui ti affacci ogni mattina, la stessa vita, possono diventare qualcosa di completamente nuovo se ti concentri sui pregi invece che sugli aspetti negativi. sta a te scegliere come vede-re le cose e il modo migliore per cambiare prospettiva è attraverso la gratitudine, riconoscendo e apprezzando quel che c’è di buono.

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nonostante i molti rimpianti che i malati terminali condivise-ro con me, alla fine ognuno di loro ha trovato la pace. alcuni non sono riusciti a perdonarsi fino agli ultimi due giorni di vita, ma poi ce l’hanno fatta. Molti hanno provato una gamma di emozio-ni prima di arrivarci, compreso il rifiuto, la paura, la rabbia, il ri-morso e la condanna di sé, la peggiore. altrettanti hanno provato sentimenti positivi di amore e di gioia immensa grazie ai ricordi affiorati nel corso delle ultime settimane.

Ma prima della fine vera e propria, sono riusciti ad accettare serenamente che fosse arrivato il loro momento e si sono perdo-nati per i rimpianti provati, a prescindere da quanto fossero stati tormentati. per molti di questi clienti però era fondamentale che altri imparassero dai loro errori.

erano tutte persone che avevano avuto il tempo di riflettere sulla propria esistenza. chi se ne va all’improvviso non ha questo lusso e per molti di noi sarà così. È fondamentale quindi ragio-nare sulla vita che stai vivendo ora, perché potresti avere ancora poco tempo a disposizione prima di morire per trovare la pace o per pensare. altrimenti potresti andartene sapendo di aver passa-to tutta la vita cercando la felicità nei posti sbagliati, e per questo ti è sempre sfuggita, è stata al di fuori della tua portata ed è dipesa da eventi o situazioni che ti dovevano capitare. Morirai con la consapevolezza di aver perso l’occasione di cambiare direzione prima che fosse troppo tardi.

la pace che ciascuna di queste care persone ha trovato prima di spirare è disponibile anche ora, senza dover aspettare di giun-gere alla fine. sta a te scegliere di cambiare la tua vita, di essere coraggioso e di vivere fedele al tuo cuore, cosa che ti permetterà di non avere rimpianti.

la bontà e il perdono sono ottimi punti di partenza. non solo nei confronti degli altri, ma anche di te stesso. assolverti è una fase necessaria di questo processo, altrimenti, continuando a essere duro con te stesso, non farai altro che dare fertilizzante ai semi cattivi nella tua testa, come è successo anche a me una

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volta. Ma il perdono di sé e la bontà indeboliscono questi semi che vengono rimpiazzati da altri più sani. crescendo forti, un giorno supereranno quelli cattivi fino a che non ci sarà più niente ad alimentarli.

È più facile trovare il coraggio di cambiare la propria esistenza se si è buoni con se stessi. anche per gli aspetti positivi ci vuole tempo, perciò serve avere pazienza. ognuno di noi è un indivi-duo eccezionale il cui potenziale è limitato solo dai pensieri che facciamo. siamo tutti straordinari. tutti gli influssi ambientali e genetici che ti hanno formato, compresi i geni che provengono dal tuo corredo biologico unico, ti rendono una persona speciale. anche le esperienze di vita che hai avuto finora, sia buone che cattive, contribuiscono a renderti diverso da chiunque altro sul pianeta. sei già speciale. sei già unico.

È tempo di renderti conto del tuo valore e di quello degli altri. smettila di giudicare. sii buono con te stesso e con gli altri. dal momento che nessuno è mai stato nei panni dell’altro, né ha visto le cose con i suoi occhi, o sentito con il suo cuore, non è possibile sapere quanto abbia sofferto. con un po’ di empatia si può fare molto.

essere compassionevole con gli altri e buttare il giudizio fuori dalla finestra, significa anche essere gentile con te stesso perché pianti semi migliori. perdonati per aver incolpato gli altri della tua infelicità. impara a essere affabile con te stesso, accettando la tua umanità e fragilità. perdona anche gli altri che ti hanno in-colpato della loro sofferenza. siamo esseri umani. abbiamo tutti detto e fatto cose che avrebbero avuto bisogno di più buon cuore.

la vita finisce in fretta. È possibile arrivare in fondo senza rimpianti. ci vuole coraggio per vivere appieno, per rispettare l’esistenza che ti è stata donata, ma la scelta spetta a te. lo stesso vale per i premi che avrai in cambio. apprezza il tempo che ti resta riconoscendo il valore di tutti i doni che fanno parte della tua vita, e che comprendono soprattutto il tuo io straordinario.

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sorridi e stai sicUra

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se guardo la mia vita, ci sono momenti che mi lasciano esterrefatta. la vita che speravo è sempre più reale. la persona che avevo immaginato, adesso sono io. È nata dal

coraggio, dalla flessibilità, dalla disciplina e si è affermata dopo che ho imparato ad amare il mio stesso cuore. la vita può veramente essere facile e felice. infatti può scorrere liscia come l’olio. la cosa bella è che quanto più continuavo a sistemarmi e a crescere, ad accettare di meritare tutto quello che arrivava sul mio cammino, più facilmente le situazioni continuavano a manifestarsi.

Un breve mantra mi aiutò a mantenere la fiducia lungo il periodo oscuro finale: sorridi e stai sicura . in una giornata particolarmente dif-ficile, il mio vecchio modo di pensare si aggrappava disperatamente alla vita e mi diceva che non meritavo tutto quello che avevo sognato. la mia nuova forma mentis stava cercando di subentrare in maniera permanente, rassicurandomi che invece ne ero degna. così pregai per avere una indicazione chiara e semplice, qualcosa che non fosse dif-ficile da ricordare nel mio triste stato, per riuscire a superare i giorni duri. avevo bisogno di qualcosa che mi desse la forza e la speranza. fu allora che si affacciarono alla mente le parole sorridi e stai sicura .

le scrissi su dei foglietti di carta e li disseminai per la casa dove potessi vederli facilmente. tutte le volte che ci passavo davanti, ve-niva rispettato l’impegno con me stessa e sorridevo, sicura che que-sto periodo sarebbe passato, seguito da un altro più positivo. così il mio umore si risollevava automaticamente e mi sentivo rincuorata dal fatto che avrei trovato nuove ragioni per sorridere ancora. Ma non c’era ragione di leggere quelle parole senza sorridere, perché il sorriso stesso facilitava la comprensione. Quindi lo facevo.

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in seguito, aggiunsi sotto ringrazia e stai sicura, in modo da esprimere in anticipo preghiere di gratitudine, con la sicurezza e la fiducia che avrei ricevuto quanto desideravo. Sorridi e stai sicu-ra, ringrazia e stai sicura, divenne il mio mantra mentre andavo avanti giorno dopo giorno sorridendo sicura quando potevo. nel farlo, camminavo fiduciosa, cosa che mi spingeva spontaneamen-te a essere grata. le mie preghiere, speranza e intenzioni erano già state ascoltate. il mio unico compito era sorridere e stare sicura e ringraziare e stare sicura . ciò mi permetteva di sorridere ancor più di quanto avrei fatto altrimenti.

ovviamente c’erano periodi in cui non ero forte abbastanza da ricorrere a queste parole, compreso quell’ultimo giorno di totale tri-stezza e rassegnazione. Ma quel momento di resa fu il punto di svol-ta definitivo. era vero che non potevo più convivere con il dolore del passato e in un certo senso avevo ragione. ero giunta alla fine della mia vita, almeno per come la conoscevo. Ma non dovetti mo-rire fisicamente. solo quella vecchia parte di me se ne andò, spiri-tualmente. Quelle vecchie idee su di me non potevano sopravvivere alla luce splendente del mio amore. la nuova vita che si stava ma-nifestando silenziosamente da anni, alla fine fu in grado di sorgere.

Mentre sorridevo sicura, i miei sogni sembravano reali e di-vennero sempre più una parte di me. ecco perché le porte delle opportunità si spalancarono quando finalmente riuscii a ricono-scere il mio valore. i sogni erano già arrivati e stavano aspettando che io li lasciassi avverare. così fu con il cuore colmo di gioia che mi aprii, permettendo agli eventi di accadere. lo fecero in molti modi diversi, sia a livello personale che professionale.

Qualche tempo dopo fui piacevolmente colpita dalla proposta dei miei meravigliosi, cari genitori di celebrare un natale vegano e sorrisi di cuore perché mi avevano appena fatto il regalo di natale più bello del mondo. per più di vent’anni avevo sognato di festeg-giare un natale almeno vegetariano. Quando arrivò il giorno fati-dico, tutto si svolse in modo molto naturale e semplice e fummo d’accordo nel dire che era stato uno dei giorni migliori che avessimo

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mai vissuto. Mentre mia madre tagliava la verdura accanto a me, scambiando battute e risate, il mio papà metteva la musica. Melodie country anni cinquanta fluttuavano per la casa mentre ridevamo, chiacchieravamo e preparavamo una grande festa. fu una gioia.

il mio lavoro continuò a crescere e a prosperare, dandomi soddisfazione e piacere. sebbene sia possibile trovare l’impiego ideale alle dipendenze di altri, nel periodo in cui viviamo il modo migliore per me è lavorare in proprio. era quello che volevo e di cui avevo bisogno, vivere a modo mio, compresa la vita profes-sionale. Una grande motivazione e una sorprendente lucidità mi accompagnarono sul nuovo piano dell’esistenza, insieme alle cose migliori della mia vita passata, compresa l’autodisciplina.

strinsi qualche contatto in zona e organizzai incontri un po’ ovunque. traboccavo di ispirazione e idee. rientrando nel mon-do fui presa dall’entusiasmo e creai nuove opportunità favorevoli per me stessa. tramite un paio di associazioni, tenni qualche se-minario sulla composizione di musica e canzoni per fasce disa-giate della società. insegnare ancora, ed essere responsabile di me stessa, fu meraviglioso e la trasformazione di chi seguiva i corsi rappresentò per me un’enorme ricompensa.

dopo la serietà del passato, era tempo di provare più gioia anche nel lavoro. così allestii uno spettacolo per bambini e mi esibii davanti ai piccoli sotto i cinque anni. guardare questi gio-vani esseri umani disinibiti e deliziosi ballare e saltare di qua e di là al ritmo delle mie canzoni fu un vero piacere. si presentarono anche nuove opportunità di scrittura e di fare un album di can-zoni inedite. Mi sorprende ciò di cui siamo capaci a livello fisico e creativo quando lasciamo andare i blocchi che ci trattengono.

il mio blog ebbe un picco di visitatori e la cerchia dei miei contatti di lavoro si allargò. Ho creato anche una linea di magliet-te allegre e positive, di adesivi per la macchina e di borse ispiran-domi a versi tratti dalle mie canzoni e frasi dei miei articoli. Mi venivano un sacco di idee ed erano sempre seguite da azioni fatte con entusiasmo.

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Visto che ora passo le mie notti autunnali abbracciata al mio uomo, sorrido all’idea di quanto la vita possa cambiare. È una cara persona. ci sono state cose di cui entrambi ci siamo dovuti liberare prima di incontrarci, ma il tempismo è una cosa incredi-bile. ora la vita viene vissuta da nuovi punti di vista.

le mie esperienze mi hanno fatto tornare alla mente i cicli della vita. certamente mi è stata mostrata la morte attraverso gli altri. Ma ho conosciuto anche un tipo di decesso personale, osser-vando quella vecchia parte di me cessare finalmente di esistere. fu una morte spirituale, la dipartita di un lato della mia personalità che mi aveva controllato per anni. coincise anche con la nascita del nuovo spirito che sospettavo fosse lì da qualche parte, e che desideravo diventare. È stata una morte dolorosa, tuttavia mi ha liberato dal condizionamento del passato, dai pesi inutili, da tut-to quello che mi bloccava.

ora che la vera me stessa ha il permesso di vivere liberamente, continuo a evolvermi in ciò che sono davvero. È solo distaccan-domi da ciò che possiedo che sono in grado di sapere chi sono, e mi amo per questo. amo il coraggio della persona che sono diventata. amo il suo cuore. amo la sua creatività. amo la sua mente. amo il suo corpo. amo la sua bontà. amo tutto di lei.

la vita si muove in nuove direzioni. È un nuovo inizio, la ri-nascita di me stessa. Mi sono ricordata anche nel modo migliore possibile di altri nuovi inizi. adesso dentro di me cresce un bam-bino prezioso. sono stata benedetta dalla possibilità di diventare madre. Mentre il mio ventre si espande e il mio corpo si gonfia nello stato divino della maternità, sono estasiata e infinitamente grata di conoscere un’esperienza simile. sono lontana anni luce dalla vita che conoscevo un tempo, dall’isolamento, dalla tristez-za, dalla disperazione. eppure ancora una volta mi viene mostra-to come sia facile adattarsi alla propria esistenza. grazie a dio la mia vita non è finita quando pensavo. grazie a dio.

il legame tra madre e figlio cresce di giorno in giorno. per fortuna ho una salute di ferro e mi è stata risparmiata gran par-

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te dell’indisposizione delle donne incinte che soffrono di nausea mattutina. adoro essere incinta e presto guiderò un’altra anima lungo il suo cammino terreno finché non sarà grande abbastanza per spiccare il volo e seguire la sua strada. la vita ha senz’altro la sua dose di morte e interruzioni, ma offre anche nascita e nuovi inizi. sono grata di aver vissuto entrambe, sia letteralmente che in modo simbolico, in così tante occasioni.

tutte le volte che ho compiuto un atto di fede, le cose non si sono mai rivelate come avevo immaginato, ma sono state anche meglio nel lungo termine. la fede è una forza potente capace di creare gioie impensabili. lasciare andare i propri limiti e rinun-ciare al tentativo di controllare il modo in cui si manifestano gli eventi è un dono immenso che facciamo a noi stessi.

strano a dirsi, una delle cose più difficili per molti, e lo è stata anche per me, è imparare a ricevere, capire di meritarlo, e poi per-mettere alla bontà di manifestarsi. la maggior parte delle soluzio-ni miracolose che si sono materializzate nel corso della mia vita sono dipese da altre persone. siamo molto più connessi tra noi di quanto ci rendiamo conto, e giochiamo un ruolo più importante di quanto pensiamo l’uno nella vita dell’altro.

imparare a ricevere è una necessità se sei veramente intenzio-nato a vedere i tuoi sogni realizzarsi. come sa chi per natura è portato a donare, c’è un grande piacere nell’offrire. Ma se dai senza permetterti di ricevere, allora non solo blocchi il flusso na-turale delle cose verso di te creando squilibrio, ma privi anche gli altri del piacere di donare. Quindi permetti di farlo anche agli al-tri. È solo l’orgoglio o la mancanza di autostima che ti impedisce di ricevere e ciascuno di noi merita una tale benedizione.

se invece sei uno di quelli che non sa come dare, allora eserci-tati. provaci senza farti aspettative. È bello. dona semplicemente per il piacere di farlo. dare con un tornaconto non è donare, e non lo è neppure se poi lo rinfacci con rabbia in un secondo mo-mento. nemmeno aspettarsi che si manifesti qualcosa di buono in cambio significa donare nel vero senso della parola. Ma è dare

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con il solo intento di donare, con amore, gentilezza e sostegno, che ti fa stare bene. ebbene sì, chi dà con questa intenzione viene ricompensato, non sempre subito e non necessariamente come immaginava. però devi sapere anche come ricevere, permettendo al flusso di muoversi in entrambe le direzioni. ovviamente ciò comprende anche dare e ricevere da te stesso.

È possibile cambiare sia noi che il mondo. Migliorando la no-stra esistenza, e facendo in modo di non avere rimpianti, miglio-riamo anche le vite delle persone che ci circondano. È possibile contrastare l’isolamento e la disarmonia che abbiamo creato nella società. È possibile essere felici. È possibile arrivare alla morte senza rimpianti, ancora vitali e in salute.

ognuno è fragile a suo modo, come una sfera di vetro sottile. pensa alla vecchia lampadina con il vetro tondeggiante (non dà lo stesso effetto pensare alle moderne lampadine a risparmio ener-getico, sebbene vadano bene entrambe). Una parte di noi è come il vetro sottile delle lampadine. Una luce meravigliosa, capace di annientare l’oscurità, risplende da dentro. Quando nasciamo, ri-splendiamo e diffondiamo grande splendore e felicità a tutti. la gente si stupisce della nostra bellezza e della nostra luminosità.

poi nel tempo, ci viene gettato addosso del fango. Ma non dipende da noi. appartiene alle persone che ce lo tirano addos-so. tuttavia lo scagliano lo stesso. dopo un po’, non sono solo quelli che ci stanno vicino a farlo. sono i compagni di scuola, i colleghi, la società e molte delle persone che incrociamo lungo il cammino. ne siamo condizionati in modi diversi; c’è chi diventa vittima, chi prepotente, chi se lo tiene dentro per anni, chi invece sembra lasciarlo andare spontaneamente. a prescindere da come sembri influenzarci, il fango continua a offuscare la luce e bontà originarie e non permette loro di risplendere al meglio.

Visto che sono tante le persone che ci gettano del fango ad-dosso, pensiamo che abbiano ragione. così ci uniamo a loro e lanciamo il fango contro noi stessi. perché no? tutti gli altri non possono sbagliarsi alla fine dei conti. se mi butto del fango ad-

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dosso allora deve essere normale e giusto lanciarlo anche contro gli altri. sì, ne lancerò ancora un po’ e continuerò a permettere agli altri di fare lo stesso con me. alla fine, ti porti addosso uno strato così spesso che non solo ne sei appesantito, ma anche la tua luce ne risente perché non riesce più a farsi vedere. ogni centime-tro di te è ricoperto di fango: te l’hanno lanciato addosso gli altri e te lo sei tirato da solo quando ti sei unito a loro.

poi un giorno ti ricordi che una volta dentro di te splendeva una luce meravigliosa. Ma l’oscurità ormai dura da parecchio tempo e non ricordi più quella parte di te. a volte la senti ancora, quando sei calmo e da solo. Quel caldo bagliore ha continuato a splendere per tutto questo tempo, a prescindere dall’oscurità che regnava at-torno. ti rendi conto che vuoi brillare di nuovo. Vuoi ricordare chi sei quando non porti addosso il fango degli altri, o il tuo.

così inizi a dire che ne hai abbastanza. impedisci agli altri di sporcarti ancora, ma alla gente questo non piace. però sei deter-minato e ti allontani dalla portata dei lanciatori di fango. lenta-mente inizi a ripulirti togliendotene un po’ di dosso. Ma è una cosa che va fatta con estrema delicatezza, perché sotto sei incre-dibilmente fragile. se te lo togli di fretta o con forza, rischi di romperti e di non poter più ritrovare la tua luce.

così ti dai da fare con calma e pazienza. penetra un sottile raggio di luce e riesci a intravedere di nuovo la tua bellezza. ti fa sentire bene. poi però qualcuno ti tira dell’altro fango e devi rico-minciare a pulire. elimini quel pezzo e ne togli dell’altro. adesso però sei spaventato da ciò che vedi e ti butti del fango addosso da solo. non meriti di splendere così intensamente. eccone ancora. Ma la luce ha dato un’occhiata all’esterno e inizia a brillare ancor di più. Vuole essere vista.

a ogni sprazzo di luce che raggiunge l’esterno, tu ti senti me-glio. ti dà un assaggio di come sarebbe bello liberarsi dal peso che ti porti addosso. così capisci che anche gli altri portano il proprio fardello e provi compassione. decidi che d’ora in poi non tirerai più fango addosso a nessuno. dopo tutto, come facciamo

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a risplendere al meglio delle nostre potenzialità se continuiamo a tirarci fango addosso? torni a lavorare su te stesso e con mol-ta attenzione ne elimini un altro po’. ci vuole molta pazienza e delicatezza e devi lavorare su un pezzettino alla volta. Ma l’eccita-zione cresce a ogni nuovo raggio di luce che trapela all’esterno e riesci a intravedere nuovamente la tua bellezza e luminosità.

a volte sei tentato di tirare altro fango addosso a te o agli al-tri, perché hai avuto quest’abitudine per quasi tutta la vita. Ma adesso vedi come le piccole scintille di luce che brillano all’ester-no siano d’aiuto agli altri, che stanno diventando più coraggiosi e iniziano a ripulirsi anche loro di un po’ del fango che hanno addosso. devono essere altrettanto delicati perché sotto siamo tutti fragili e vulnerabili e possiamo romperci facilmente. Vorresti aiutare gli altri a ripulirsi. Ma devono farlo da soli, perché solo loro conoscono la propria fragilità.

puoi mostrare agli altri come hai fatto, e magari questo può aiutarli. Ma devono ripulirsi da soli, con i loro tempi e a modo loro. e ovviamente non tutti hanno il coraggio o la forza per farlo in una volta sola. Quindi sei paziente, compassionevole e rispet-toso perché adesso sai che a volte può essere un’esperienza molto dolorosa e addirittura terrificante.

ti senti bene con te stesso. È una sensazione nuova, ma ti piace un sacco. così smetti una volta per tutte di gettarti fango addosso, perché stai cominciando ad amare le bellezza che hai scoperto mentre la tua luce continua a risplendere. irradi luce a trecentosessanta gradi. parte del vecchio fango però è veramente difficile da eliminare. si è messo comodo nel corso degli anni, grazie tante. non vuole andarsene. Quanto più ti avvicini al ve-tro, maggiore è la delicatezza che devi avere nel grattare. Ma a questo livello il fango è ostinato e resistente.

È stata un’impresa titanica e adesso sei molto stanco. Hai fatto un altro miglioramento rispetto a ciò che eri. forse può bastare. forse puoi convivere con quest’ultimo strato di fango e brillare come stai facendo adesso. Ma anche la luce è forte e determina-

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ta. Vuole farti risplendere al massimo delle tue potenzialità. così t’infonde ancora più forza e vai avanti mentre elimini gli ultimi rimasugli di fango.

alla fine ce l’hai fatta e il tuo splendore stupisce tutti, soprat-tutto te stesso. non pensavi di essere così bello né di poter brillare con una tale intensità. adesso, quando esci con altre lampadine, anche loro vogliono risplendere perché riescono a vedere la tua bellezza e si ricordano di avere lo stesso potenziale dentro di loro. se lo sono solo dimenticato a causa di tutto il fango che si por-tano addosso.

ci sono lampadine che pensano sia troppo difficile mostra-re la propria luce, così restano insieme nell’oscurità, cercando di convincere se stesse e gli altri che sono felici così. che bisogno c’è di fare tutta quella fatica quando ormai ci siamo abituate al peso della melma che abbiamo addosso? perché? a me va bene così, dicono, e continuano a gettare fango, specialmente addosso a quelle belle luci che vedono risplendere felici e soddisfatte. come osano essere così contente?

così le lampadine scure si armano di tutto il fango che trovano e iniziano a lanciarlo. lavorano meglio in gruppo, perché l’unio-ne fa la forza e tutto il resto. però non riescono più a distinguere bene le cose perché grazie ai vari processi di eliminazione del ler-ciume in corso, c’è tantissima luce in giro. riescono comunque a individuare un paio di lampadine che splendono felici perché hanno quasi finito di togliersi di dosso tutto il fango. le lampadi-ne scure ne gettano a palate su quelle luminose. Ma il fango non ha presa. cosa sta succedendo? di solito restava attaccato.

Quello che non sanno è che sebbene la luce sia rimasta nasco-sta per tutti quegli anni, ha continuato a crescere dentro di loro. adesso risplende così intensamente che il fango non riesce più restare appiccicato. scivola via, senza lasciare nemmeno un segno o una traccia.

la tua luce è esattamente così. porti dentro di te una scintilla meravigliosa e potenzialmente luminosa. Ma devi essere paziente

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e gentile con te stesso per eliminare tutto il fango che ti porti addosso da anni. Mano a mano che viene rimosso, il tuo vero io risplende con maggior intensità.

per vincere ognuno dei rimpianti condivisi al capezzale di chi adesso non c’è più, ci vuole coraggio e amore. Ma la scelta spetta a te. come una luce che vuole risplendere allegramente, hai una guida interiore che può aiutarti a farlo, un passo alla volta.

diventa ciò che sei, trova l’equilibrio, parla sinceramente, ap-prezza chi ami e permettiti di essere felice. se lo fai, allora non solo rispetterai te stesso, ma anche tutti quelli che si sono dispe-rati nelle loro ultime settimane per non aver avuto il coraggio di farlo prima. la scelta è solo tua. la vita ti appartiene.

Quando ti trovi davanti a delle difficoltà e ti chiedi come farai a superarle, come troverai la pace in una certa relazione, quand’è che riceverai l’offerta di lavoro di cui hai bisogno, o come troverai i soldi per realizzare un progetto, ricordati che ciò che vuole il cuore, vuole te allo stesso modo. a volte non devi fare altro che toglierti di mezzo. fai quello che puoi e poi lascia andare. non esserti d’intralcio.

Quando ti trovi in questa posizione, stai bene dritto, tira in-dietro le spalle e fai un bel respiro profondo. cammina fiero di quel che già sei, confidando pienamente di meritarlo, fiducioso che le tue preghiere sono state ascoltate e si stanno per concretiz-zare nella tua vita. ricorda solo questa piccola frase: sorridi e stai sicuro. sorridi e stai sicuro, nient’altro.

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l’aUtrice

zBronnie Ware è australiana ed è scrittrice, cantautrice e insegnan-te di composizione musicale. per saperne di più su di lei e sul suo lavoro visita il sito ufficiale www.bronnieware.com.

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