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UNA VITA PER IL FUMETTO

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UNA VITA PER IL FUMETTO

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UNA VITA PER IL FUMETTOLA BIOGRAFIA UFFICIALE DEL PADRE DEL ROMANZO A FUMETTI

BOB ANDELMAN

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Bob AndelmanWill Eisner: una vita per il fumetto

Titolo originale: A Spirited LifeCopyright © 2005, 2013 by Bob AndelmanAll rights reserved.Published by arrangement with Symmaceo Communications, Milan (Italy – EU)

© 2013 DOUbLe SHOtdivisione comics della Bakufu Enterteiment srl unipersonalevia Pescarina 33, 65010 Spoltore (PE)www.doubleshot.it / www.bakufu.it

Informazioni: [email protected] Stampa: [email protected]

Tutti i diritti riservati

Progetto editoriale: Symmaceo CommunicationsEdizione a cura di Andrea Plazzi, Mattia Di BernardoTraduzione: Andrea PlazziProgetto grafico e impaginazione: Alessio D’UvaFoto di copertina: Alberto MussoUn ringraziamento particolare a Giovanni Mattioli

ISBN 9788896064375

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A Mimi e Rachel

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ringraziamenti 5

nota dell'autore 7

Nota alla seconda edizione USA (e-book) 9

nota all'edizione italiana 29

Introduzione 47di Michael Chabon

Elogio di Will Eisner 47di Neal Adams

Introduzione 47di Michael Chabon

Introduzione 47di Michael Chabon

Introduzione 47di Michael Chabon

Introduzione 47di Michael Chabon

Introduzione 47di Michael Chabon

Introduzione 47di Michael Chabon

Introduzione 47di Michael Chabon

Introduzione 47di Michael Chabon

Introduzione 47di Michael Chabon

sommario

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RINGRAZIAMENTILa stesura della biografia di un uomo la cui carriera ha attraversato più di set-tant’anni è un’impresa formidabile che richiede l’aiuto, la cooperazione e i sug-gerimenti di numerose persone. Nelle ricerche per questo volume ho intervistato più di settantacinque persone, più molte altre che mi hanno instradato nella giu-sta direzione quando si trattava di recuperare o confermare dettagli.In realtà, questo progetto era iniziato nel 2002 sotto forma di un’autobiografia di Will Eisner, che io avrei aiutato nel raccogliere e organizzare materiali e ricordi. Ma dopo aver letto la prima stesura, Will alzò le mani al cielo, scoppiando in una risata: “È troppo lavoro! Perché non lo scrivi tu e io mi limito ad autorizzarlo?”Ed è esattamente quello che abbiamo fatto. Le prime persone che vorrei ringra-ziare sono Will e Ann Eisner, che per più di due anni mi hanno accolto e ospitato nelle loro vite quasi ogni settimana, raccontandomi cose mai rivelate in nessun’al-tra intervista, confidando non tanto nel fatto che mantenessi il segreto ma che raccontassi la loro storia nel modo migliore. Spero di esserci riuscito.La morte di Will in seguito a un intervento cardiaco, il 3 gennaio 2005, è avve-nuta quando questo libro era pressoché terminato e in produzione. Per molti di noi fu un autentico shock. Personalmente, persi un amico, un maestro e, sotto molti punti di vista, un protettore sempre attento ai miei interessi e disposto a sostenerli con veemenza quando pensava che fosse necessario. Will mi manca per molti motivi, sia personali che professionali, ma quello è il principale.Vorrei anche ringraziare Pete Eisner, il fratello di Will, per l’aiuto e l’amicizia. Per molti anni Pete è stato il guardiano ufficiale di ogni cosa riguardasse Will e avere a che fare con lui è sempre stato un piacere. La sua scomparsa nel dicembre 2003 mi rattristò molto.Questo libro è stato pensato nel corso della mia primissima conversazione con Judy Hansen, l’agente letterario di Will. Cominciammo a parlare alle 17.00, pre-sentati dal comune amico Kevin Land, e più di due ore dopo avevano visto la luce l’idea di questo libro e una nuova amicizia.Denis Kitchen, socio di Judy nell’agenzia Kitchen & Hansen Literary Agency, nonché uno dei padri dell’editoria a fumetti underground e alternativa, è stato al mio fianco durante ogni fase del viaggio, con consigli, informazioni, aneddoti, la sua sterminata rubrica personale, nonché la sua stessa casa (grazie anche a Stacey Kitchen per l’assistenza tecnica e i deliziosi pranzetti!).Diana Schutz, la mia prima editor presso M Press/Dark Horse è sempre così calma. Come fa?Victoria Blake ha ripulito e sgommato il manoscritto nelle prime fasi di revisio-ne, con osservazioni su contenuto e stile. Grazie anche ad Amy Arendts e Debra

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Bailey per alcuni elementi eisneriani del progetto grafico. E a Randall W. Scott, bibliotecario presso Michigan State University Libraries, per il prezioso indice del volume.Nel corso degli anni Settanta, Catherine “Cat” Yronwode svolse ricerche fonda-mentali sulla vita e la carriera di Eisner in qualità di sua assistente ed editor di The Art of Will Eisner e The Spirit Checklist. Le sono grato non solo per le basi dispo-nibili grazie a lei ma anche per la disponibilità con cui ha ricostruito il periodo trascorso in compagnia della famiglia Eisner.Alcuni degli elementi grazie ai quali spero che questa biografia si distingua da lavori precedenti sono le interviste. Quando la gente sentiva che si trattava di un libro su Will, magicamente tutte le porte si aprivano. Così, devo tutti i miei ringraziamenti alle seguenti persone per avere condiviso con me esperienze ed opinioni: Murphy Anderson, Paul Arrow, Tom Armstrong, Florian Bachleda, John Benson, Karen Berger, Ray Billingsley, Chris Browne, Charles Brownstein, Nick Cardy, Mike Carlin, Gary Chalonier, Bob Chapman, Mark Chiarello, John Coates, Jon B. Cooke, Jerry Craft, Dale Crain, Howard Cruse, Jack Davis, Jim Davis, Steven E. de Souza, Jackie Estrada, Mark Evanier, Jules Feiffer, Al Feldstein, Neil Gaiman, Lorraine Gardland, Steve Geppi, Dave Gibbons, Mike Gold, Jerry Grandenetti, Bob “R. C”. Harvey, Irwin Hasen, Stuart Henderson, Benjamin Herzberg, John Holmstrom, Arthur Iger, Robert Iger, Carmine Infan-tino, Jack Jackson, Jim Keefe, Joe Kubert, Adele Kurtzman, Batton Lash, Stan Lee, Paul Levitz, Bob Lubbers, Jay Linch, Scott McCloud, Patrick McDonnell, Jim McLauchlin, Legs McNeil, Angie Meyer, Bill Mohalley, Alan Moore, Geoff Notkin, Denny O’Neil, Robert Overstreet, Mike Ploog, Byron Preiss, Joe Que-sada, Seymour Reitman, Jerry Robinson, Diana Schutz, Julius Schwartz, Garb Shamus, Jim Shooter, Dave Sim, Joe Simon, Ralph Smith, David Steiling, Roy Thomas, Kim Thompson, Maggie Thompson, Rick e Karen Trepp, Rick Veitch, Frank von Zerneck, Mort Walker, Jim Warren e Marv Wolfman.Marc Svensson ha messo a disposizione la ripresa video dell’incontro su Blackhawk tra Will Eisner e il disegnatore Chuck Cuidera, al Comic-Con International di San Diego nel 1999, e di quello del 2002 sulle “chiacchiere di bottega”. Un ringra-ziamento particolare va poi a Marisa Furtado de Oliveira per il suo documentario Will Eisner – Profession: Cartoonist e per la traduzione dei dialoghi in portoghese.Tra le tante risorse online che mi sono state incredibilmente utili, ricordo: Abe-Books.de; WildwoodCemetery.com; Eisner-L, la mailing list di Will Eisner su Yahoo! Groups (http://groups.yahoo.com/group/eisner-l); “The Annotated Drea-mer” di Jerry Stratton (http://www.hoboes.com/Comics/dreamer/; “Rare Eisner: Making of a Genius” di Ken Quattro (http://www.comicartville.com/rareeisner.htm) Lambiek Comiclopedia (http://www.lambiek.net); e l’indice dei siti relativi

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a Will Eisner di Tom Spurgeon (http://www.comicsreporter.com/index.php/brie-fings/commentary/674/).Lucy Shelton Caswell, curatrice, e Dennis Toth, bibliotecario, non hanno lesi-nato tempo e risorse durante la mia permanenza presso l’Ohio State University Cartoon Research Library.Sono inoltre in debito di riconoscenza per cronologia elaborata da N. C. Christo-pher Couch and Stephen Weiner per il loro volume The Will Eisner Companion, e la loro disponibilità nel mettere a disposizione le informazioni. Il loro Companion è un “must” per qualsiasi appassionato di Will Eisner.Un “grazie” colossale a Michael Chabon e a Neal Adams per avere arricchito que-sto libro con i loro pensieri e le loro opinioni, sotto forma di un’introduzione e un ricordo personale, rispettivamente.Un mio personale gruppo di sostenitori mi ha aiutato nel corso degli anni. Grazie quindi a Bruce Kessler, Allen Solomon, Steve Goldin, Jim Doten, Tony Doris, Steve Bonett, Bob Pinaha, Jeff Chabon, Sean Wood, Michael Bourret, Wayne Garcia e Dean Hendrix.Infine, la mia famiglia ha sempre sopportato le mie lunghe ore - se non giorni - di assenza nel corso delle ricerche e della stesura del libro. Un ringraziamento specia-le va quindi ai miei nipoti Chris e Tony White, che mi hanno ospitato e nutrito durante le mie ricerche presso l’Ohio State University; a mia moglie, Mimi, che - giustamente - non mi crede mai quando dico che il libro sarà finito, al massimo, la settimana prossima; e a mia figlia, Rachel, che durante il mio primo incontro con Will ruppe il ghiaccio disegnando per lui un pupazzo di neve... durante una tempesta di neve.

Nota dell’AutoreQuesto libro è il risultato di oltre due anni di interviste con Will Eisner e con decine di altri uomini e donne che hanno incrociato la sua vita personale e pro-fessionale nel corso dei suoi 87 anni. Una vita che racconto attraverso quelli che, spero, sono episodi freschi e inediti tratti dalla sue esperienze, numerose e colori-te, raccontatemi da Will e da suoi amici. Quello che non troverete è un approccio alle opere di Will Eisner da critico dell’arte, quale io non sono.Questo libro non è un’analisi critica della sua pennellata o della sua perizia narra-tiva; è la storia della vita di Will Eisner e di come lui l’ha vissuta.

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Nota alla seconda edizione USA (e-book)Ho conosciuto Andrea Plazzi alla commemorazione pubblica di Will Eisner che si tenne a New York nell'aprile del 2005. È un editor scrupoloso e brillante, specia-lizzato in traduzioni di fumetti americani, graphic novel e altre edizioni di questo tipo. Così, a un certo punto è diventato anche il traduttore e l’editor dell'edizione italiana di questo libro. Andrea ha suggerito molti interventi interessanti che sono stati apportati al testo e desidero ricordare il suo entusiasmo per il progetto – e il suo amore per Eisner – che ho apprezzato molto.La mia riconoscenza va anche a George Cornelius, Michael Piotrowski, all'inge-gnere Joshua Agnew dei Tampa Digital Studios, a Jessica Kaye e George Hodgkins del Big Happy Family, per il contributo all'edizione audiobook in lingua inglese di questo libro.

Bob Andelman– St. Petersburg, Florida

marzo 2012

L’audiobook Will Eisner: A Spirited Life – UNABRIDGED di Bob Andelman (voce narrante: Bob Andelman; durata: 9 ore e 34 minuti; lingua inglese) è disponibile su Audible.com, Amazon.com.

Nota all’edizione italianaAncora non ci credo ma sono passati otto anni da quella mattina, quando Ann Eisner mi telefonò per dirmi che il marito Will era spirato nel corso della notte.Non passa una settimana senza che ripensi ai quasi tre anni trascorsi entrando e uscendo dalle loro vite, imparando a conoscerli insieme alle loro incredibili storie di vita, con una disponibilità e una trasparenza da parte loro che pochi biografi riuscirebbero anche solo a immaginare. Frequentavo la loro casa, condividevo i pasti con loro, visionavo album di famiglia, leggevo in totale libertà archivi e documenti, parlavo a volte anche per ore, consolidando un rapporto che vedevo proiettato per anni a venire.Ma è quella che segue la storia che lascia sempre senza fiato gli appassionati di fumetti.Una sera ero seduto al tavolo della cucina degli Eisner. Erano circa le 21 e Ann era già andata a letto. Ce ne stavamo lì, a parlare, e io chiedevo a Will di tutte le immagini attaccate al frigorifero. C’erano dei disegni fatti per Ann per San Valen-tino e anniversari di matrimonio, dolcissimi. E poi delle foto. Riconoscevo Neil Gaiman, Art Spiegelman, Scott McCloud. Poi una persona che non conoscevo.

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Era la foto del figlio John.“Oh”, feci subito. Gli agenti di Will, Denis Kitchen e Judy Hansen, mi avevano spiegato: nessuna domanda sulla famiglia, nessuna domanda sui figli. Era l’unica condizione che avevo dovuto accettare iniziando a lavorare alla biografia. Se avessi saputo che era suo figlio, non avrei chiesto nulla ma, non sapendolo, la mia do-manda era in buona fede.Fu allora che Will mi disse: “So che hai bisogno di sapere tutte queste cose, e sei stato molto paziente”. Gli risposi: “So che non ne vuoi parlare”. E lui “No, credo che sia il momento di farlo”.Quella sera capii che il libro sarebbe decollato, e che sarebbe stato qualcosa di interessante non soltanto per i cultori del fumetto. Quella sera Will si sedette di fianco a me e mi parlò di quando aveva perso sua figlia. Mi disse della malattia di Alice, di tutte le visite dei medici, e dei ricoveri in ospedale, e della frustrazione per l’impossibilità di fare alcunché. Si trattava di leucemia e Will si sentiva scon-volto e furibondo. Reagì lavorando. Lavorando e lavorando ancora. Non ne aveva mai parlato con nessuno in precedenza, non con la stampa. C’erano persino amici e famigliari che non sapevano che aveva avuto dei figli. Una cosa straziante. Così quella sera feci due più due e gli chiesi se c’era questo all’origine di Contratto con Dio (la storia più importante della seminale raccolta a fumetti del 1978, in cui la morte di una bambina sprofonda il padre nel dolore). Ed era così. Tutto diventava chiaro e quella sera me ne andai a letto senza dormire.

Questa edizione italiana della mia biografia di Will Eisner è diversa da tutte le altre e comprende una serie di interviste condotte dopo la pubblicazione del libro.Alcune – in particolare con i disegnatori Howard Chaykin e Drew Friedman – avevano lo scopo di chiarire alcuni punti rimasti in sospeso. Altre – come quelle con gli autori Darwyn Cooke, Pete Poplaski, Gary Chaloner e con Andrew D. Cooke, autore di un documentario su Eisner – hanno contribuito ad approfondi-re la nostra conoscenza del corpus eisneriano.

Spero che vi piaccia.

Bob Andelman– St. Petersburg, Florida

marzo 2013

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Introduzionedi Michael Chabon

All’epoca in cui stavo cominciando ad amare i fumetti, Will Eisner era Dio. Non Dio nel senso di Eric Clapton: un dio di fronte a cui inchinarsi, fronte a terra, in un’orgia di nebbia da ghiaccio secco e laser. Gustave Flaubert ha scritto che “Nel suo libro un autore dev’essere come Dio nell’universo, ovunque presente e da nessuna parte visibile”. Nel 1975, per me Will Eisner era Dio in questo senso. Alcuni dei disegnatori e degli sceneggiatori di quel periodo che mi piacevano di più – Neal Adams, Jim Steranko, Steve Gerber, Steve Ditko – erano stati in-fluenzati direttamente da Eisner ma io non lo sapevo. Tutto quello che sapevo di Will Eisner lo avevo letto in The Great Comic Book Heroes di Jules Feiffer, già protegé di Eisner. In questo libro fondamentale sulla storia del fumetto, Feiffer spiegava appassionatamente come Will Eisner fosse un genio e un pioniere, colui da cui avevano rubato tutti gli altri; e così via. E io gli credevo, anche se dove-vo sostanzialmente credergli sulla fiducia. La storia di Spirit di otto pagine che Feiffer ristampava nel volume – Il gioiello mortale – restò a lungo l’unico esempio compiuto del lavoro di Eisner che avessi mai visto. Eisner era fuori catalogo, fuo-ri dal fumetto. Come editore, consulente editoriale, talent scout, imprenditore, disegnatore e sceneggiatore, Will Eisner aveva creato il mondo del fumetto come io lo conoscevo, ma finché non mi capitarono per le mani alcune delle successive ristampe della Warren (o forse erano della Kitchen Sink) non avevo idea di chi fosse o di che cosa aveva fatto.Quando nel 1996 mi accingevo a intervistare Will ero un po’ più informato e ave-vo appena cominciato a scrivere il romanzo che sarebbe diventato Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay. Una parte fondamentale del lavoro di preparazione era stato procurarmi tutto quanto ero riuscito a trovare di Eisner – The Spirit, i ro-manzi a fumetti, i libri di teoria del fumetto – ed era diventato ovvio come Feiffer avesse ragione. Eisner aveva introdotto innovazioni radicali nella pagina a fumetti – alcune adattate dal cinema, altre dal teatro, altre ancora dalla tradizione figu-rativa delle belle arti – e anche solo questo costituiva un contributo importante. Ma la cosa stupefacente del suo lavoro con Spirit – tutte le sue trovate e la perizia tecnica, le inquadrature ardite e l’uso radicale dell’illuminazione – era quanto an-cora apparisse nuovo e fresco, dopo cinquant’anni di costante imitazione da parte di autori grandi, meno grandi e dei loro eredi. Da questo punto di vista era come Quarto potere. E in un certo senso Will Eisner e Orson Welles si stagliano come personalità parallele nei rispettivi linguaggi. Entrambi erano prodigiosamente do-tati e già in gioventù riuscirono a mettere le mani su uno strumento – uno studio

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hollywoodiano, un syndicate editoriale – che avrebbe permesso loro di mettere in luce quei doni in maniera spettacolare. Entrambi avevano un occhio incredibil-mente acuto per il talento altrui e il bernoccolo necessario per metterlo al servizio dei propri obiettivi e delle proprie ambizioni. Entrambi furono d’ispirazione sia nascosta che palese, come pietre miliari e termini di confronto, per le generazioni di registi e autori di fumetti che li seguirono.Ma Will Eisner aveva – era – qualcosa che Orson Welles non riuscì mai, non si permise mai o non ebbe mai la costanza di essere: Will Eisner era un uomo d’affari nato. Era sia Welles che David O. Selznick, Brian Wilson e Clive Davis. Era operaio e dirigente. Era il talento e la persona incaricata di licenziarlo. A volte firmava le buste paga e altre era tra quelli che dovevano tirare la cinghia fin-ché non fosse arrivata la successiva. Apriva società, discuteva contratti, acquisiva diritti, confezionava e vendeva progetti editoriali per terzi. E mentre praticava questo capitalismo da manuale, sognava, scriveva e disegnava. Ha rivoluzionato un linguaggio artistico, sviscerandolo, teorizzandolo e facendone uno strumento superbo per i suoi ricordi, le sue emozioni, il suo modo di guardare al mondo. Ha conosciuto il fallimento, come artista e come imprenditore, perché come artista e come imprenditore correva dei rischi.A volte è difficile produrre arte sapendo che venderà senza avere l’impressione di svendersi. E a volte è difficile vendere arte prodotta con onestà e senza preoccu-parsi di chi l’avrebbe mai voluta, oppure no. Speriamo di trascorrere la vita facen-do ciò che amiamo – che dobbiamo – fare e per cui siamo stati adeguatamente dotati dalla natura, da Dio o dal nostro corredo genetico: scrivere, disegnare, raccontare storie. Ma dobbiamo anche sopravvivere e Will lo sapeva. Sapeva cosa voleva dire avere fame, grattare il fondo del barile. Sapeva quale fortuna voleva dire essere nato con un talento per cui altri erano disposti a pagare. Ma non gli mancava neppure la volontà (e quando era fortunato, l’abilità) di indurre gli altri a pagare un po’ di più, ad alzare il prezzo ancora un po’, a strappare un accordo migliore o ad abbassare il costo dei suoi fornitori.Will Eisner era un grande artista e un abile imprenditore; entrambe le cose, indis-solubilmente. Ed era una cosa di lui che amavo molto. Più di cinquant’anni dopo l’uscita in edicola dei primi numeri di Blackhawk e Doll Man e delle altre serie che aveva prodotto per la Quality Comics insieme al socio Jerry Iger, ricordava ancora i dati di vendita, i nomi dei distributori, i minuti dettagli dei successi e dei flop. E capivo come per lui tutto ciò fosse assolutamente interessante e importante quanto i dettagli di un tratto a china, o la quantità di informazione che si pote-va comprimere e poi vedere esplodere da tre vignette una dietro l’altra. A volte possono esserci molte strade per la felicità di un uomo; altre volte, assai meno. Ma grazie al suo spessore artistico e al suo acume, al modo in cui si ritrovava e si

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muoveva nel mondo, come un artista che lavorava per denaro e come un impren-ditore che lavorava per l’arte, credo che fosse giunto vicinissimo a trovare una di quelle strade. Sì, fu realmente così fortunato.

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Elogio di Will Eisnerdi Neal Adams

Sono nato nel 1941 e negli anni Cinquanta, a Brooklyn, ero un adolescente. A New York non vidi mai il supplemento a fumetti The Spirit, in nessuno dei quat-tro maggiori quotidiani. A Brooklyn Will Eisner non esisteva.Poi, nel 1953 la mia famiglia si trasferì in Germania per due anni, al seguito delle forze d’occupazione. Al nostro ritorno, capii che durante la mia assenza era successo qualcosa. I fumetti erano cambiati. Frederic Wertham e il suo Seduction of the Innocent, ecco cos’era successo. Gli EC Comics non esistevano più. Non ci potevo credere: Capitan Marvel non c’era più! Joe Kubert non faceva più Tor. E Will Eisner – anche se ancora non rientrava nel mio orizzonte – era sostanzial-mente scomparso dal mondo del fumetto. Sostanzialmente, quello che restava erano dei terribili fumetti della DC. Ed era nata la Comics Code Authority, e comandava lei.Come avrei potuto imbattermi in Will Eisner? Non si occupava di fumetti nel 1959, quando cominciai a lavorare per la Archie Comics, ed era ancora del tutto invisibile rispetto a questo settore nel 1968, quando approdai alla DC dopo avere lavorato su Creepy ed Eerie della Warren Publishing.Improvvisamente, nei corridoi della DC e vicino alla colonnina dell’acqua, il nome di Will cominciava a sentirsi di tanto in tanto nelle conversazioni. “Ha in-ventato tutto lui!” diceva qualcuno. Ormai, sapevo che aveva fatto The Spirit, un tipo mascherato, ma non capivo la reverenza con cui pronunciavano il suo nome. Col tempo, qua e là, imparai a conoscere frammenti del suo lavoro. E guardavo e ascoltavo.Dopo un po’, mentre la mia carriera nel fumetto procedeva, l’influenza del la-voro di Will cominciò lentamente a entrare nella mia testa dura. Era come una comunità: la gente portava cose di Will e discuteva del come e del perché era importante. Ci si ritrovava nella mensa della DC a scambiarsi notizie e informa-zioni su quello che succedeva in giro. Sempre più gente parlava dei lavori di Will e noi cominciavamo, in un certo senso, a risvegliarci: “Dov’è Will Eisner? Se n’è andato? In Europa, magari?”. Poi un giorno qualcuno arriva e butta sul tavolo un numero di PS Magazine. “È questo che fa adesso?”. E io: “Merda!”.Poi cominciarono a imitare lo stile di Eisner. Il primo fu Mike Ploog. Certo, aveva lavorato per lui, ma all’epoca non lo sapevo. Quando conobbi Ploog mi parlò di Will e, per la prima volta, diventò una figura reale.Il tempo passò e un giorno, a una qualche convention, mi presentarono “il Com-missario Dolan”. Mi strinse la mano, ed era Will Eisner! Spirit e il Commissario

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Dolan, insieme! Una cosa strepitosa. E poi, che gran tipo.Ormai, sapevo che il punto non era semplicemente che Will Eisner aveva fatto dei fumetti. Will Eisner aveva fatto cose rivoluzionarie.Anch’io, in quel periodo, stavo cominciando una rivoluzione, cercando di unire gli autori di fumetti e di convincerli a lottare per tariffe migliori e i diritti sulle ristampe. Fui anche alla testa di uno scontro molto pubblicizzato perché venissero pagate royalties ai creatori di Superman, Jerry Siegel e Joe Shuster. Avevo deciso che se avessi continuato a lavorare in quell’ambiente, dovevo cambiarlo in modo che andasse bene a me, perché com’era faceva schifo. Uno come allora ero io non poteva che sentirsi attratto da Will Eisner in maniera naturale, per i cambiamenti che aveva apportato al suo angolo di editoria a fumetti, come nessun altro prima di lui.Quando tutti facevano supereroi, l’unica concessione che fece al mercato fu di mettere una mascherina al suo personaggio. Ma Spirit non era uno di quei supe-reroi, che a Will non piacquero mai. Poi portò il fumetto in un territorio nuovo, PS Magazine, un modo per lavorare per il proprio paese continuando a fare fu-metti.E lo fece bene perché aveva un cervello, e lo usava e continuò a usarlo sempre. Una cosa che non si vede spesso tra gli autori di fumetti. Non è un insulto; è che tendono a non esporsi, a non fare cose nuove.Così, eccoci qua, con Neal Adams che nel 1977 cerca di cambiare il mondo, e Will Eisner, che lo aveva già fatto.Potevo parlargli per esempio di un’idea o di qualsiasi altra cosa nuova e lui non rispondeva “Non si può”, ma “Perché no?”. Ora, quello che lui stava insegnando a una nuova generazione di autori era di non cominciare mai una frase con ‘no’ ma con ‘sì’, e poi cercare di capire che cosa si può fare, quello dovevo essere io.Sono stato nel consiglio dell’Academy of Comic Book Arts e ho insistito a lungo, e duramente, perché esigessero la restituzione degli originali da parte degli editori. “Dovremmo almeno dire che secondo noi andrebbe fatto”. insistevo. E da quegli stessi autori che per primi avrebbero beneficiato della cosa mi sentivo rispondere “Oh, Neal! Ci farai licenziare tutti! Perché mai dovrebbero ridarceli? Apparten-gono a loro”.Ma sapevo che se avessi detto a Will che secondo me gli autori avevano diritto a vedersi restituire le loro tavole, quell’uomo che per più di 60 anni avrebbe conser-vato tutti i suoi lavori mi avrebbe risposto “Come pensi di riuscirci?”.Quello che trovavo in Will Eisner era una mente affine. Era completamente di-verso da me ma dal punto di vista della mentalità, del guardare avanti e della di-sponibilità a correre dei rischi, eravamo totalmente in sintonia. Se ero alla ricerca di un’idea o mi serviva qualcuno con cui confrontarmi, scambiare idee, l’uomo

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giusto era Will.Diversi anni dopo, la mia società, Continuity Studios, ricevette una richiesta di fornitura di illustrazioni e storie a fumetti per PS Magazine. Ci pensai su, poi ebbi un’idea migliore. Joe Kubert gestiva una sua scuola, The Joe Kubert School of Cartoon and Graphic Art a Dover, nel New Jersey, ed era pieno di studenti entusiasti e di talento, alla ricerca di un’esperienza concreta di lavoro. Mi sembrò che fare curare a loro dei progetti per l’Esercito degli USA sotto la supervisione di Joe sarebbe stata un’ottima accoppiata.Chiamai Will abbozzandogli l’idea e lui rispose subito: “Mi piace, vale la pena di provarci. Qualsiasi cosa ti serva sapere, Neal, devi solo dirmelo. Dì a Joe di chia-marmi, ci parlo io”. Fu come chiamare un fratello.Portate tutti questi esempi ai primi tempi di Spirit e moltiplicateli per le migliaia di persone con cui è entrato in contatto nel corso di una carriera lunga e vigorosa, e capirete perché la gente ama Will Eisner. Intendiamoci, Will non è Michelan-gelo. Ha un suo stile, che chiamerei ‘semi-cartoonesco’, o grottesco. Ma, cazzo, come racconta lui una storia...! Per questo tutti sono attirati da Will Eisner.Quando mi chiedono “Chi ti piace tra gli autori di fumetti?”, le due persone che nomino sono Will Eisner e Joe Kubert. Tutti gli altri sono bravi artigiani. Ma come esseri umani, ci sono Will Eisner e Joe Kubert, e non è facile andare oltre.

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Will Eisner e Al Hirschfeld(per gentile concessione di Will e Ann Eisner)

Al Hirschfeld (99 anni):“Lavori ancora?”

Will Eisner (85 anni):“Sicuro. Tu?”

Hirschfeld:“Come no”.

Eisner:“Quante ore lavori?”

Hirschfeld:“Stacco alle 19. Tu?”

Eisner: “Io alle cinque. Mia moglie mi proibisce di lavorare di più”.

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UNA VITA PER IL FUMETTO

COLORI

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UNOLo Studio Eisner & Iger

Sam Eisner restò molto colpito quando, nel 1933, vide per la prima volta la firma del figlio Billy di sedici anni (“di William Eisner”) sotto una striscia a

fumetti su The Clintonian, il giornale del suo liceo, il DeWitt Clinton.“Ci tenevi proprio, uh?” commentò.Billy sorrise.Poi Sam disse al figlio di un suo cugino che gestiva una grossa palestra di boxe a New York, la Stillman’s. Era il posto ‘in’ dove si allenavano i pugili più famosi. Sam Chiamò Lou Stillman, gli spiegò che il figlio maggiore voleva fare il cartoo-nist e gli chiese se ne conosceva altri.“Sì” rispose Stillman. “Ne conosco uno che si vede spesso in palestra e che fa una striscia su un pugile. Prendo un appuntamento, chissà che non trovi da lavorare a Billy”.Il cartoonist era Ham Fisher, il creatore di Joe Palooka.Un giorno Billy si ritrovò a trascinare la sua cartellona nera su per le scale del Tu-dor, un palazzo vecchio ma prestigioso. Salì in ascensore, bussò alla porta in quer-cia massiccia e si vide aprire da James Montgomery Flagg. I primi lavori di Flagg erano apparsi in Judge, Life, Scribner’s e Harper’s Weekly ed era l’autore di quella che con ogni probabilità è la singola illustrazione di propaganda americana più famosa del XX Secolo, il poster della I Guerra Mondiale in cui lo Zio Sam punta il dito sopra lo slogan “I Want YOU For U.S. Army”, Eisner l’avrebbe ricono-sciuto dappertutto: era uguale al suo famoso personaggio. Inoltre, era sconvolto: tutto quello che riuscì a dire al leggendario illustratore fu “Uh, che pennino usa?”.“Un Gillette 290” rispose Flagg.“Corsi subito a comprare dei Gillette 290” ricordò in seguito Eisner. “Ma non riuscivo ugualmente a disegnare come lui”. Sconvolto dall’avere conosciuto in quel modo uno dei suoi idoli, Eisner ripetè molte volte la scena mentalmente. Sessant’anni dopo, raccontando l’episodio a degli studenti, commentò: “Ho sem-

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pre desiderato potere ripetere quella scena”.Ham Fisher – il cui nome completo era Hammond Edmon Fisher e che all’epoca dell’incontro con Eisner scriveva e disegnava Joe Palooka da quattro anni – ap-parve alcuni secondi dopo e Flagg gli presentò il giovane ospite. Ma Fisher non guardò nemmeno i lavori di Eisner, cominciando subito a inveire contro qualcu-no che Will non conosceva. Il “maledetto, schifoso assistente che mi ha fregato rubando i miei personaggi”, stando a Fisher. Un tale Alfred Gerald Caplin, che alcuni anni dopo diventerà noto come Al Capp, l’autore di Li’l Abner, una delle strisce a fumetti più amate di tutti i tempi (Capp aveva lasciato Fisher nel 1933 per motivi economici, portando presumibilmente con sé i personaggi più rustici, per cui aveva un’idea o due. Tra i due fu scontro aperto per tutti gli anni Trenta e Quaranta e all’inizio degli anni Cinquanta Fisher denunciò Capp davanti alla National Cartoonists Society, nel tentativo di farlo espellere. Alla fine, fu Fisher a essere espulso per la falsificazione di prove contro Capp).“Quel figlio di una vacca è un bandito!” scattò Fisher. “Ne ho piene le scatole degli assistenti!”.

• • •L’incontro con Ham Fisher non fu la grande occasione immaginata e una volta terminato il liceo Billy cominciò a cercare lavoro presso le agenzie di pubblicità. Il College era fuori discussione: i suoi genitori, perennemente in difficoltà, avevano bisogno di qualsiasi cosa fosse riuscito a portare a casa. Fece i giri del caso con la sua grande cartella nera e venne sistematicamente rifiutato da tutti. A New York, questo significa davvero molti no: allora come oggi, esistevano più agenzie pub-blicitarie a Manhattan che in qualsiasi altra città del mondo.Infine, fu assunto per quattro soldi dall’’ufficio pubblicità del quotidiano New York American. Gli venne assegnato il turno di notte e Billy lavorava dalle 9 di sera alle cinque del mattino, facendo illustrazioni per piccoli annunci detti “pimple ads”. Una serata tipica cominciava nella redazione del giornale al quarto piano, dove gli venivano assegnati gli incarichi. Dopo la cena, a mezzanotte, Billy scen-deva al reparto grafico al terzo piano e lavorava alle illustrazioni commissionate.Questo lavoro durò solo un paio di mesi, perché Billy aveva incontrato il suo amico del liceo Bob Kahn, che si era cambiato nome in Bob Kane, pseudonimo con cui, anni dopo, insieme a Bill Finger e Jerry Robinson, creò il personaggio di Batman. Kane era più alto e più asciutto di Billy; si vantava di assomigliare molto agli affascinanti crooner dell’epoca, i cantanti sentimentali che impazzavano nei programmi radiofonici facendo sospirare le ragazze. Non giocava mai a nessuno sport e spesso lamentava interminabili strascichi di raffreddori, ma secondo i suoi amici era ipocondriaco.

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Billy Eisner abitava insieme alla famiglia a un isolato di distanza dalla Concourse, la strada principale che attraversava il Bronx; Kane, il cui padre era un agente assicurativo di un certo successo, abitava un po’ più in là, lungo la stessa strada.Eisner e Kane, che al DeWitt Clinton si ritrovavano spesso alle lezioni di arte, si frequentavano sostanzialmente per via dell’invidia di Eisner per il successo di Kane con le ragazze, e dell’ammirazione di Kane per il talento di Eisner. I disegni di Kane non erano tra i migliori ma il loro autore era brillante, ambizioso e con un vivo senso dell’umorismo. “Molto francamente” dichiarò anni dopo Eisner, “come disegnatore era scarso. Ma era un tipo molto aggressivo e riusciva sempre a ottenere due cose. All’epoca, come disegnatore e come cartoonist ero molto meglio di Bob ma era lui a trovare i lavori e le ragazze, così gli andavo dietro”.Eisner era talmente assorbito dalla necessità di fare il cartoo-nist da non trovare mai il tem-po per una vita sociale che gli permettesse di conoscere delle ragazze, ma ci pensava Kane a chiamarlo e a dirgli: “Ho un’u-scita per te”. Così, quasi tutti i sabato sera uscivano insieme. I loro doppi appuntamenti di solito prevedevano una serata danzante in posti come il vec-chio Glen Island Casino, in fondo a Pelham Parkway.Era il 1935, il periodo d’oro di grandi band come i Dorsey Brothers e Benny Goodman, e ai due giovani disegnatori piaceva andare a ballare al Glen Island con delle ragazze. “Con Bob” ricorda Eisner, “il problema era che le ragazze che trovava erano sempre carine ma assolutamente stupide. Ma proprio stupide, del tipo che Al Capp chiamava ‘una stupida Bellezza Americana’”.Il comportamento “da nightclub” di Kane era dei più classici: spesso finiva i soldi e toccava a Billy pagare il conto. Un altro dei loro numeri tipici era vantarsi con le ragazze della loro abilità di disegnatori. Qualsiasi cosa disegnasse Kane, Eisner la di-segnava meglio. Era una tipica competizione tra disegnatori, di cui alle ragazze non poteva importare di meno: a loro piaceva la musica e volevano ballare, punto e basta.Al ritorno, una certa sera, Kane chiese a Eisner “Allora, com’è andata?”.“Be’” rispose Eisner, “Sono andato al sodo”.Niente male per un giovane liceale diplomando, secondo gli standard dell’epoca. Anzi, troppo bene. Kane, sempre competitivo ai massimi livelli, non uscì più con Eisner.

Will Eisner adolescente(senza data).

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• • •Kane possedeva diversi lati bizzarri, sia come uomo sia come artista. Uno di questi era la vanità: sosteneva di essere più giovane di Eisner di quattro anni, nonostante fossero stati compagni di classe al liceo.“Bob si vantava moltissimo del fatto che al liceo, come disegnatore, si era fatto notare più di Eisner” spiega Mark Evanier, sceneggiatore e storico del fumetto. “Ed era convinto che Will fosse un genio. Bob mi raccontava sempre di essere diventato disegnatore per due motivi, ed entrambi erano le ragazze: quando si metteva a disegnare, intorno a lui si accalcava un nugolo di ragazze. L’altro moti-vo era che in certi corsi si disegnavano donne nude dal vero. E a quell’età in quale altro posto potevi vedere una donna nuda?”.Evanier conosceva Kane, che gli stava anche simpatico, ma ha dichiarato che qualsiasi cosa Eisner ne raccontasse, probabilmente era vera.“In Bob c’era sempre un che di squallido” spiega nuovamente Evanier. “Era un pre-potente, uno che cercava sempre di guadagnarci qualcosa. Inoltre, lavorava sempre il meno possibile. Qualsiasi cosa si possa dire che sia stato nella vita, soprattutto Bob era il tipo di persona che cerca il modo di guadagnarci. I suoi modelli erano gli autori delle strisce quotidiane, gente che andava in solluchero all’idea di vende-re una striscia, avere successo e pagare altri per portarla avanti mentre loro stavano a dondolarsi su un’amaca. Ham Fisher non disegnò mai Joe Palooka.Bob riuscì a vendere Batman e una volta ritrovatosi in mano una ‘property’ che funzionava lasciò lavorare altri (soprattutto lo sceneggiatore Bill Finger e il dise-gnatore Jerry Robinson). Trovava stupefacente il fatto che Will continuasse a dise-gnare: ha disegnato più pagine Will dopo gli 80 anni che Bob in tutta la sua vita”.Qualsiasi cosa Kane pensasse di Eisner, non lo disse ai lettori della sua biografia Batman and Me (1989). Kane e Tom Andrae, il co-autore del libro, citarono Eisner solo due volte, piuttosto nebulosamente (in fondo, erano stati rivali sulle pagine del giornale del liceo) e cavandosela in entrambi i casi con una singola frase. Una delle quali, del tutto sbagliata: Kane attribuiva a Eisner la creazione del Wow! What a Magazine!, mentre Eisner ha sempre dichiarato che era stato Kane a dirgli della rivista, presso cui avrebbe poi conosciuto il suo futuro socio Jerry Iger.Lo stesso anno del libro uscì il primo film di Batman dell’era moderna e Kane partecipò al Comic-Con International di San Diego, promuovendo delle sue stampe firmate e numerate. Denis Kitchen, editore della Kitchen Sink Press, ri-corda che “Will stava incontrando il pubblico al mio stand proprio mentre nello spazio a fianco Bob promuoveva le sue stampe. Erano entrambi assediati dai fan e durante un attimo di pausa Kane si sporse attraverso il divisorio insistendo per andare a bere qualcosa con Will alla chiusura della convention, cioè alle 17.00.

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Will fece di sì con la testa e alle 17.00, prima di allontanarsi con Bob, mi sussurrò: ‘Riceverò una telefonata molto importante alle 17.15’.E un quarto d’ora dopo, puntualmente, li raggiunsi al bar, dove mi profusi in mille scuse per l’interruzione e dissi a Will che era arrivata una telefonata urgente, e che doveva assolutamente rientrare all’hotel. Will strinse la mano a Bob e ce ne andammo.‘Quindici minuti con quell’uomo è il massimo che posso reggere’ mi spiegò una volta fuori”.

• • •Un anno e mezzo dopo la fine del liceo, Eisner e Kane si incontrarono per caso per strada a Manhattan. Dopo i saluti del caso, passarono subito a parlare di affari e di lavoro.“Cosa fai ultimamente?” chiese Eisner.“Vendo storie a Wow! What a Magazine!” rispose Kane.“Pensi che possa vendere qualcosa anch’io?”.“Bill, stanno comprando da tutti” rispose Kane. “Facci un salto”.La redazione di Wow! Era nella parte anteriore di un loft sulla Quarta Strada. Il proprietario era John Henle, la cui vera attività era la confezione di camicie sul re-tro. Henle aveva ambizioni letterarie, voleva fare l’editore e la rivista riprendeva il formato della riviste britanniche per ragazzi, che offrivano sia vere e proprie storie che strisce e vignette. Una specie di precursore dell’albo a fumetti.Eisner stava mostrando il suo lavoro a Sam “Jerry” Iger, il caporedattore di Wow!, quando quest’ultimo ricevette una telefonata e, bruscamente, tagliò corto: “Devo andare, non posso guardare il tuo portfolio. Ho un’emergenza in tipografia”.“Posso venire con lei?” chiese Eisner con tono disperato. “Le farò vedere le mie cose mentre camminiamo”.Sapeva che tornando un altro giorno rischiava di perdere l’occasione, così accom-pagnò Iger mostrandogli i disegni lungo la strada. Anche per gli standard di New York, doveva essere un discreto spettacolo. Iger finse attenzione per alcune illustra-zioni e fece distrattamente un paio di domande. Arrivati alla tipografia, il problema era di quelli seri: per qualche motivo, le lastre da stampa venivano sfondate.“Qui non riusciamo a riprodurre come si deve” spiegò l’incisore.Così, intorno a un tavolo, diversi uomini si tenevano il mento perplessi, scuo-tendo frustrati la testa. Eisner, intanto, restava in silenzio. Per loro fortuna, a suo tempo si era occupato della grafica e della produzione dell’album annuale e della rivista letteraria del liceo, e si intendeva di strumenti per la stampa e la lucidatura delle lastre per avere anche lavorato dopo la scuola in una tipografia, pulendo le macchine da stampa per 3 dollari alla settimana, una delle sue esperienze più preziose. All’epoca, spettava a ciascun addetto occuparsi della riparazione e del-

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la manutenzione della propria attrezzatura e chi non ci riusciva non riusciva a conservare il lavoro. Perciò, Eisner conosceva un trucchetto o due in materia di stampa e cominciò schiarendosi la voce.“Avete mica qualcosa per lucidare?” chiese.“Certo, come no” rispose l’incisore con accondiscendenza. “Ecco qua”.Eisner cominciò a spazzolare e a sfregare i bordi irregolari sulle lastre. Quando i tipografi incidono le lastre, a volte l’acido lascia delle irregolarità ai bordi dell’im-magine da incidere. Eisner spazzolò via queste irregolarità. Problema risolto.Gli incisori si voltarono verso Iger: “Chi è questo qua?”.Senza battere ciglio, Iger rispose: “Il mio nuovo responsabile di produzione”.Eisner sorrise.Iger era il tipo che riusciva sempre a trovare il modo di ricavare qualcosa da una situazione. Così, rientrati all’ufficio di Wow! Iger prese il portfolio di Eisner per una seconda e più onesta valutazione e, con franchezza, gli chiese: “Cos’hai da vendermi?”. Alla fine, acquistò la prima storia d’avventura di Eisner, Capt. Scott Dalton, una variazione sul tema delle popolari storie pulp di Doc Savage. L’illu-strazione di Dalton di Eisner finì sulla copertina dell’agosto 1936 del secondo numero di Wow!. Era la sua prima copertina e due mesi dopo la rivista chiuse dopo soli quattro numeri.Brutta fine per Wow!, ottimo tempismo per Eisner.Il fenomeno degli albi a fumetti, i comic books – un formato nuovo, che allora veniva chiamato comic magazine, “rivista a fumetti” – era nato col primo numero di Famous Funnies del maggio 1934. La pubblicazione fece furore in tutto il pa-ese con le ristampe a colori di strisce domenicali come Toonerville Folks, Mutt & Jeff, Tailspin Tommy e altre ancora. Famous Funnies era una rivista di 64 pagine pubblicata dalla Eastern Color Press di Waterbury, nel Connecticut. L’Eastern Color produceva i supplementi a fumetti a colori per molti quotidiani in tutto il paese, stampandoli nel classico formato poster, piegandoli poi a metà per ridurli al formato rivista.In un periodo in cui al cinema e alla radio l’umorismo costituiva una nuova e fiorente industria americana, nelle edicole Famous Funnies vendeva come il pane. Presto gli editori cominciarono a ristampare strisce quotidiane come il Dick Tracy di Chester Gould, proponendo un’intera nuova avventura ogni sei settimane e tutte le strisce d’avventura venivano ristampate più o meno secondo queste modalità.Ma un successo improvviso implica nuova sfide: ben presto gli editori finirono le scorte di strisce giornaliere e di pagine domenicali disponibili per la ristampa in rivista. All’epoca, le strisce esistenti in tutto il paese erano solo un certo numero, e di queste solo 10-20 erano d’avventura, ristampabili a puntate (in ogni caso, si ristampavano anche le strisce umoristiche non seriali).

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Nello stesso periodo, le tirature delle un tempo incrollabili riviste pulp stavano calando. Ma mentre i pulp vacillavano, il loro sistema distributivo conservava un grande valore. Le edicole americane erano dominate dall’American News Com-pany e dalla Union News ed entrambe erano alla ricerca di qualcosa per sostituire i pulp. I fumetti erano l’ideale.Dove gli editori dei pulp vedevano un’ascia calare su di loro, l’inesperto Eisner, allora diciannovenne, vide un’occasione d’oro. In quel periodo abitava nel Bronx insieme ai genitori, disoccupato dopo la chiusura di Wow! e meditava sulla situa-zione. Anche se il suo istintivo ottimismo un giorno sarebbe divenuto il tratto di-stintivo di un’intera carriera, nel 1937 Eisner era spinto unicamente dal desiderio bruciante di affermarsi e di mettere alla prova il suo talento. Facendosi coraggio, chiamò Jerry Iger: ci voleva fegato, da parte di una persona che due mesi prima era solo un cartoonist novellino che supplicava Iger di concedergli la possibilità di pubblicare professionalmente.“Possiamo vederci a Manhattan, Jerry? Ho una proposta da farti”.Dopo la chiusura di Wow! Anche Iger era senza lavoro e accettò di incontrarsi con Eisner in un ristorantino sulla 43esima, di fronte alla tipografia del New York Daily. Tutto quello che Eisner possedeva erano 1,95 dollari.“Jerry” cominciò, “voglio aprire una società e ti vorrei come socio”.Per qualche motivo – disperazione, probabilmente – Iger non rise in faccia a quel ragazzino (Eisner gli aveva detto di avere 25 anni).“I nuovi editori di riviste a fumetti avranno bisogno di materiale originale” disse Eisner concitato. “Produciamo per loro nuove storie complete, apriamo uno stu-dio di fumetti”.“Ragazzo mio” rispose Iger, “ci vorranno dei soldi”.Iger aveva appena concordato il suo secondo divorzio, si era in piena Grande Depressione, era sostanzialmente senza un soldo, già in debito dei futuri alimenti e probabilmente fu per questo che non tappò subito la bocca a Eisner: quali altre possibilità aveva? “Non ho soldi, forse un paio di centoni, e la mia ex moglie se ne prenderà la metà”.“Metterò io i soldi” disse Eisner.Iger sapeva quanto poco Eisner avesse guadagnato con Wow! ma accettò di conti-nuare a parlare. “Okay, se i soldi ce li metti tu io ci sto”.Eisner si era rivolto a lui perché aveva 13 anni più di lui e possedeva quell’espe-rienza col mondo degli affari che a lui mancava. Inoltre, Iger era un buon ven-ditore, determinato e aggressivo, tratti non entusiasmanti negli esseri umani ma ottimi per i responsabili commerciali. Non aveva problemi a contattare potenziali clienti che non lo conoscevano, e ricevere un rifiuto non gli impediva di tornare alla carica, una prima e una seconda volta. E una terza.

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Eisner aveva solo diciannove anni, e un atteggiamento da artista. Non era capace di andare in giro a vendere le sue cose e non riusciva a reggere gli inevitabili rifiu-ti. Disse a Iger di un palazzo all’incrocio tra la 43esima e Madison Avenue dove affittavano stanze per soli 15 dollari al mese, senza deposito cauzionale, principal-mente ad allibratori. Per quel prezzo, si poteva avere una stanza di circa 3 metri per 3: abbastanza, ragionava Eisner, per una scrivania e un tavolo da disegno.Aveva appena fatto un’illustrazione per una tipografia in Varick Street: una pub-blicità per Gre-Solvent, un sapone per le mani, che gli era stata pagata 15 dollari. Era il primo fumetto pubblicitario realizzato e venduto da Eisner, che l’aveva in-titolato Sketched from Life. Poteva poi ottenere 15 dollari dal padre per il secondo mese e questo garantiva due mesi d’affitto.Iger e Eisner chiusero l’accordo con una stretta di mano e siccome era Eisner a fi-nanziare la società, Iger gli concesse di pagare il pranzo. Il conto fu di 1,90 dollari, il che lasciò Eisner con una singola monetina, con cui pagare la metropolitana per tornare nel Bronx. Naturalmente Iger non lo sapeva e, uscendo dal ristorante, lo rimproverò per essere stato taccagno e non avere lasciato la mancia alla cameriera.“Non hai lasciato la mancia”.“Oh, davvero? Mi sono dimenticato”.

• • •Lo studio Eisner & Iger – il nome di Eisner era il primo perché era lui a finanziare il tutto – produceva fumetti d’avventura, fantascienza e ambientati nella giungla. All’inizio i due giovani non lo sapevano, ma avevano aperto uno studio che oggi chiameremmo “di servizi editoriali”: il loro lavoro consisteva nell’individuare idee insieme a sceneggiatori e disegnatori, per poi vendere il prodotto finito agli edi-tori invece di pubblicarlo da soli. Uno dei loro primi clienti, la Fiction House, li incaricò di produrre adattamenti dei racconti d’avventura di metà dell’Ottocento del romanziere irlandese Charles Lever. La Fiction House pubblicava anche una linea di riviste pulp tra cui Planet Stories e Jungle Stories e Eisner creò Sheena, Queen of the Jungle, un personaggio simil-Tarzan per la loro testata Jungle Comics.All’inizio, quando a lavorare erano solo in due, Eisner scrisse e disegnò tutte e cinque le prime storie dello studio con cinque nomi diversi: Willis B. Rensie (Eisner scritto al contrario), W. Morgan Thomas, Erwin Willis, Wm. Erwin e Will Eisner. Quando Iger non era in giro a vendere i loro progetti agli editori di fumetti, faceva lui il lettering per la maggior parte degli albi, scrivendo i dialoghi nelle nuvolette vicino ai personaggi o il testo nelle didascalie.Col rapido aumento del lavoro – lo studio Eisner & Iger fondò lo Universal Pho-enix Feature Syndicate per distribuire le loro produzioni in tutto il mondo – si ritrovarono ad assumere altri autori, distribuendo gli incarichi tra una squadra di

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disegnatori giovani ma estremamente in gamba (e veloci). Lo studio produceva le storie nello stile deciso da Eisner e non va dimenticato che all’epoca gli studi funzionavano più o meno come navi da galera: l’Eisner & Iger ingaggiò circa quindici persone e ben presto, tutti insieme, remarono verso uffici più spaziosi.Una delle prime persone chiamate da Eisner fu il suo amicone di liceo nonché procacciatore di appuntamenti Bob Kane. “Devo confessare che mi fece piacere” ricordò in seguito Eisner. “Lavorò per me per un po’ prima di creare Batman per Detective Comics”. Il primo lavoro originale di Kane per Eisner & Iger fu Peter Pupp, un’intenzionale imitazione degli animali antropomorfi umoristici creati ne-gli ultimi anni da un animatore di nome Walt Disney.Nel 1938 Eisner assunse Jacob Kurtzberg, che ribattezzò subito Jack Curtiss. In seguito, Kurtzberg cambiò nuovamente nome in Jack Kirby. Kirby – che in se-guito conquistò l’appellativo di “Re” dei comics – aveva lavorato in precedenza per gli studi di animazione di Mac Fleischer, il produttore delle serie animate

Il primo lavoro di Will Eisner da professionista.Il compenso fu impiegato per l’affitto dello studio Eisner & Iger.

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Ko-Ko, Betty Boop e Popeye. La sua produzione di maggior rilievo per Eisner fu la riduzione a fumetti di classici come Il Conte di Montecristo.C’erano poi George Tuska, Bob Powell (Stanley Pawlowski) e Lou Fine che, fre-sco del Pratt Institute, era già noto come illustratore. Erano tutti ottime persone e illustratori di punta, che in seguito verranno riconosciuti come i padri fondatori dell’intero settore. Dello studio fecero in seguito parte anche i disegnatori Ber-nard Bailey (che in seguito fu il co-creatore di The Spectre, insieme a Jerry Siegel) e Mort Meskin (disegnatore di Sheena per conto di Eisner e in seguito tra gli autori di Vigilante, Starman, Wildcat e Johnny Quick).Capitava spesso che lo studio mettesse annunci alla ricerca di disegnatori/illu-stratori. All’epoca il settore era nuovo e in giro non c’erano molti disegnatori specificamente di fumetti; una delle conseguenze era che i collaboratori proveni-vano da settori ‘affini’, come le riviste pulp o riviste e libri illustrati. Oppure dalla pittura, come il disegnatore Alex Blum (Spy Fighter, Shark Brodie, Kayo Kirby) e il letterista Martin DeMuth.Lo studio cominciò vendendo fumetti agli editori a 5 dollari per pagina, per arri-vare fino a 20 dollari. All’epoca gli albi erano di 64 pagine, il doppio della tipica lunghezza di oggi e Eisner & Iger li produceva con la caratteristica tecnica della catena di montaggio, proprio come Henry Ford aveva rivoluzionato e standar-dizzato la produzione automobilistica. Eisner aveva una propensione istintiva a ideare tecniche efficienti: assumeva gli autori a paga fissa perché era più pratico e conservava con scrupolo i migliori, il che gli consentiva un mi-glior controllo sulla qualità, rispetto agli autori pagati un tanto a pagina.Inoltre, in questo modo Eisner aveva un colpo d’occhio e un’idea complessi-va sull’andamento delle storie. Al con-trario dei salariati, i disegnatori free-lance lavoravano a casa, consegnavano le pagine una volta terminate e rara-mente tornavano sul loro lavoro. Inol-tre, in quei giorni della tarda Grande Depressione era molto più difficile – e auspicabile – trovare uno stipendio, piuttosto che lavoro a cottimo. Anche se gli stipendi che portavano a casa erano inferiori al valore complessivo del loro lavoro sul mercato assai più rischioso e

Invito a un party disegnato da Eisner per Thurman Scott, proprietario della casa editrice Fiction House.

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precario dei freelance, i disegnatori di Eisner & Iger erano pagati abbastanza da garantire loro vitto, alloggio e da motivarli a continuare.Durante questo periodo, Eisner creò tutta una serie di notevoli serie di contorno, come Yarko the Great (precursore di Mr. Mystic) e il fumetto di pirati Hawks of the Seas, ispirata dalle storie di Rafael Sabatini. Hawks fu in realtà la seconda in-carnazione della serie, apparsa per la prima volta per quattro episodi di Wow! col titolo di The Flame.

• • •Una delle storie più memorabili della redazione dell’Eisner & Iger è stata la pas-sione non corrisposta di George Tuska per Toni Blum, sceneggiatrice dello studio e figlia di Alex Blum. Tuska era il tipico uomo con cui ogni donna avrebbe deside-rato finire a letto: forte, muscoloso ma delicato. Sarebbe stato più che ragionevole vederlo impegnato come bagnino invece che a disegnare fumetti. Parlando della figlia di Blum, una volta Bob Powell disse a Will – davanti all’intero studio: “Me la scopo quando mi pare”. Esasperato, Tuska ripulì lentamente il pennello, lo ri-pose sulla scrivania, e stese Powell con un pugno. Poi tonò al tavolo e ricominciò tranquillamente a lavorare.Il racconto che Eisner fa dell’episodio nel suo libro del 1986 Il sognatore non riporta numerosi dettagli, tra cui una cotta mai espressa per Toni Blum dello stesso Eisner.

• • •Un giorno Eisner ricevette una lettera e una pagina disegnata da due ragazzi di Cleveland, Jerry Siegel e Joe Shuster. Proponevano due serie a fumetti: una si chiamava Spy, l’altra Superman. Eisner rispose dicendo che non erano ancora pronti e suggerì loro di continuare a perfezionarsi per un altro anno presso il Cleveland Art Institute.“Il punto è che vedendo le loro cose pensai che nessuno dei nostri clienti le avreb-be comprate, e avevo ragione” dichiarò in seguito Eisner. “Mandarono i loro lavori un po’ a tutti a New York e nessun editore li comprò, finché Harry Do-nenfeld della National Comics (oggi DC Comics) non li prese come parte di un pacchetto per la sua nuova serie Action Comics da Maxwell Charles M. C. Gaines (l’editore di Famous Funnies, il primo albo a fumetti)”.Siegel e Shuster, naturalmente, diventarono famosi, se non ricchi, Superman una delle icone culturali più famose del mondo e Eisner minimizzò l’occasione mancata perché praticamente l’avevano mancata anche tutti gli altri professionisti del settore.

• • •Victor Fox, un contabile della National Comics, giocò un ruolo sgradevole nella

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prima parte della carriera fumettistica di Eisner. Occupandosi dell’amministrazione della National, Fox si rese conto di quanti soldi la società stesse facendo con le serie di Superman e Action. Così, smise di lavorare per Donenfeld e aprì una sua casa editrice, assoldando lo studio Eisner & Iger per produrre albi a 7 dollari a pagina.A una riunione con Eisner, Fox dichiarò: “Quello che voglio è un personaggio con un costume blu attillato e un mantello rosso”. Rientrando allo studio, Eisner nutriva non pochi dubbi sul nuovo incarico per lo studio.

“Ehi, Jerry, questa cosa a me sembra Superman” disse a Iger.“Non dirlo a me” rispose Iger. “Fallo e basta. Ci paga bene”.Eisner cercò di discutere con Iger, ma inutilmente. Per Iger, un cliente solvi-bile con le tasche piene era come un sovrano fresco di incoronamento e il suo primo istinto era inchinarsi, ingi-nocchiarsi e avviarsi verso l’uscita in-cassando il dovuto.“Fallo e basta” ribadì a Eisner.E Eisner lo fece. Il personaggio si chiamava Wonder Man e di lì a poco apparve sul primo numero di Wonder Comics, pubblicato dal Fox Features Syndicate, prontamente denunciato da Donenfeld. Venne pubblicato un solo numero, anche se Eisner aveva prodotto una seconda storia rimasta

inedita del personaggio, che nella ‘vita reale’ era il comune mortale Fred Carson, un “timido ingegnere delle comunicazioni e inventore”. Carson otteneva i suoi poteri da un anello magico donatogli in Tibet da uno yogi.Eisner venne ascoltato in qualità di inventore di Wonder Man e si trovò davanti a un difficile dilemma. Iger, al contrario, non ci vedeva nessun problema e non riusciva a capire l’ansia del giovane socio. “È molto semplice: vai in tribunale, dici che l’idea è tua e la cosa finisce lì” era l’opinione di Iger. “Non possono citare te perché hai lavorato su commissione”.“Non posso farlo” rispondeva Eisner. “Non è vero. Victor mi ha descritto il per-sonaggio esattamente come lo voleva per iscritto. Ed è chiaro che è un’imitazione al 100% di Superman”.“Will, quel tipo ci deve 3.000 dollari e quei soldi ci servono”.

Il primo numero diWonder Comics.

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E Fox non era da meno, anzi. “Era una specie di Edward G. Robinson, solo in piccolo” ricordò in seguito Eisner. “Mi fissava negli occhi dicendo ‘Ragazzo, ades-so tu vai in tribunale e gli dici che l’idea è stata tua. Fai qualsiasi altra cosa e non vedrete mai i vostri soldi’”.Intanto, Iger insisteva: “Senza quei soldi siamo stesi”. Lo studio stava crescendo e prosperando grazie alla sua reputazione di affidabilità nella produzione di storie e disegni di qualità e Fox era uno dei principali artefici di quel successo, almeno sulla carta. Il denaro che doveva loro costituiva la differenza tra un buon guada-gno e restare a galla con fatica.Eisner era dilaniato dai dubbi su quello che avrebbe dovuto dire al processo e in-fine decise di non poter commettere una falsa testimonianza e, chiamato al banco dei testimoni, dichiarò che Fox aveva spiegato passo per passo allo studio Eisner & Iger come copiare Superman. Non servì altro: la National vinse la causa e que-sto episodio chiave sancì la sua supremazia nel mercato (gli effetti della sentenza non si esaurirono qui: The Moth, il plagio di Batman fatto da Fox fu eliminato da Mystery Men Comics, per poi approdare alla celebre e longeva linea di fumetti di Capitan Marvel della Fawcett Publications).Fox era furioso con Eisner e anche Iger ne aveva abbastanza: “Comportandoci in que-sto modo non andremo da nessuna parte, Will! Non siamo al liceo, lo vuoi capire?”.Inutile dire che lo studio non ricevette mai i 3.000 dollari di Fox e i due soci ar-rancarono per un po’ per riuscire a sopperire alla mancanza di una simile cifra. Il processo ebbe anche altre conseguenze e costò allo studio la collaborazione di Jack Kirby, il futuro Re dei comics: senza le commesse di Fox, lo studio non poteva permettersi di tenere Kirby, che in seguito avrebbe creato o co-creato Capitan America, Boy Commandos, i Fantastici Quattro, Hulk, gli X-Men, Thor e Silver Surfer, e che in quell’occasione passò a lavorare direttamente per Fox.Da più di un punto di vista, lo studio Eisner & Iger costituì un modello e un esempio per Jack Kirby. Secondo Mark Evanier “Jack parlò sempre di Will in termini semplicemente entusiasti. Per lui Will era oltre ogni possibile critica”.Prima di entrare nello studio, Kirby aveva lavorato per una serie di syndicate che vendevano striscie a quotidiani minori, disegnandone diverse sotto pseudonimo e si trovava in una fase della carriera in cui avrebbe dovuto imparare sul campo, ma non c’era nessun altro da cui imparare. Così, quando Kirby andò a lavo-rare per Eisner, per la prima volta si ritrovò circondato da persone di talento. Finalmente poteva vedere come lavoravano e miglioravano dei veri cartoonist. Fu un’esperienza formativa professionalmente oltre che artisticamente. Sempre secondo Evanier, “Jack considerava questa periodo insieme a Will come uno dei momenti più importanti della sua carriera”. Kirby vide come lavorava Eisner e cominciò a desiderare anche lui uno studio e dei propri dipendenti. Per dei poveri

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ragazzini ebrei, avere un lavoro e darne ad altri erano un chiaro segno di status sociale e quello che Eisner stava facendo non sembrava a Kirby così impossibile da raggiungere.La sua carriera dimostra che Kirby non coltivò mai l’accortezza commerciale di Eisner. Il che vale per la maggior parte dei professionisti del settore, quando si trattava di contrattare tariffe e contratti e di discutere con contabili e amministra-tori. Anche se nel 1940 Kirby e Joe Simon formarono uno dei sodalizi più solidi e duraturi della storia del fumetto, e a un certo punto gestirono persino un loro studio, fu subito chiaro che l’amministrazione e la gestione commerciale non era il loro forte (Simon raggiunse un accordo con la Marvel Comics sui diritti di Ca-pitan America, personaggio da lui creato nel 1941, solo nel 2003, molto tempo dopo gli accordi di Bob Kane con la DC per Batman, e la transazione che Siegel e Shuster avevano ottenuto con l’aiuto di Neal Adams, a titolo di riconoscimento per la creazione di Superman).Il protagonista di una delle storie più famose dello studio Eisner & Iger non è Eisner ma Kirby. La “storia degli asciugamani”, raccontata più volte da Eisner e Kirby in occasione di incontri e conferenze, e da Eisner nel suo Il sognatore, ri-guardava effettivamente asciugamani, e non la macchinetta del caffè, come pensa-vano molti (questo perché a sessant’anni di distanza, chi penserebbe a un servizio di sostituzione degli asciugamani in uno studio o in un ufficio?). All’epoca, inve-ce, la redazione di Eisner & Iger impiegava quindici disegnatori e stava cercando un servizio più economico per asciugamani e biancheria pulita per il bagno. La biancheria pulita veniva portata al mattino e la sera si ritirava quella sporca, più o meno come una volta ogni mattina sotto i portichetti d’America veniva conse-gnato il latte fresco e si ritiravano le bottiglie vuote.Eisner chiamò il fornitore, anticipando che ne avrebbero cercato uno più econo-mico. Il lunedì mattina successivo, un balordo uscito dritto dritto da un provino per un film di gangster – naso rotto, cappello e camicia neri, cravatta bianca – si presentò sulla porta dello studio.“Siamo quelli degli asciugamani” chiarì subito. “E ci chiedevamo perché non siete contenti. Vedete di non procurare guai”.“Be’, possiamo rivolgerci ad altri” rispose Eisner.“No, si sbaglia. Questo palazzo lo serviamo noi”.Mentre Eisner continuava a parlare, Iger cominciò a smaniare e la conversazione si surriscaldò. Dal retro dello studio entrò Jack Kirby, che si diresse dritto verso il balordo.“Fila via di qui!” gli urlò Kirby nel suo Brooklynese più minaccioso. “Non vo-gliamo lavorare con voi. Non ne vogliamo sapere delle vostre stronzate. Fuori!”.Uscendo, il tipo si voltò e disse: “Vedete di fare i bravi. Niente guai”.Una volta uscito, Eisner chiamò un altro servizio di biancheria per chiedere loro

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un preventivo e quando disse loro l’indirizzo dello studio, risposero, come preve-dibile, “Non possiamo servirvi”.“Ho sentito la storia raccontata sia da Will che da Jack e sostanzialmente corri-spondono” ha dichiarato Evanier. “Jack proveniva da un quartiere difficile ed era un tipo piccolo ma tosto. In uno scontro con uno più alto di 30 cm, avrei scom-messo su Jack. Jack non aveva mai paura di vedersela con qualcuno. E si vede nei suoi disegni: disegnava come un vero duro. Quando i suoi personaggi tiravano un pugno, penso che fosse lui il primo a sentirlo”.Eisner invidiava molto le tirature dei lavori di Kirby, specialmente di Young Ro-mance, che all’apice vendeva più di un milione di copie al mese, ma riuscì a costruirsi una carriera senza ritrovarsi costretto ad andare “col cappello in mano” a chiedere lavoro a Martin Goodman, il fondatore della Timely/Marvel Comics.“Jack trovava che ci fosse un sacco di gente col talento di Will, che tra gli autori di fumetti ci fossero un sacco di geni in grado di fare quello che la gente voleva leg-gere” riferisce Evanier. “Ma Will fu l’unico che riuscì a capitalizzare il suo lavoro. Non subì mai quella sorta di riduzione all’obbedienza a cui furono costretti Jack e altri come lui. Tutti gli altri sceneggiatori e disegnatori restarono prigionieri di uomini mediocri che gestivano l’editoria a fumetti. C’era questa specie di muro contro cui si andava a sbattere, alla Marvel e alla DC, per cui non importa quanto le tue serie vendessero bene, il massimo che riuscivi a portare a casa era un aumen-to di due dollari per pagina. Will evitò questa trappola”.Per la maggior parte della sua carriera Kirby non fu ben pagato, nonostante fosse il creatore o il co-creatore di gran parte dei personaggi a fumetti di maggior suc-cesso. Persino durante il suo apice professionale, durante gli anni Sessanta, dopo la nascita dei Fantastici Quattro, Hulk e altri ancora, non riuscì a trasformare tutto ciò in qualcosa di veramente gratificante. “Dov’è che sbaglio, per non essere ricco?” si ripeteva in continuazione. Anche passando dalla Marvel alla DC e vice-versa, restò sempre come confinato in questa sorta di piccola scatola.

• • •Iger e Eisner andavano d’accordo, ma Iger era un tipo difficile. Quasi tutti i saba-to sera faceva il giro dei nightclub di New York e ogni tanto, il lunedì, una ragazza in calze a rete nere e con un vestito aderente entrava sinuosa in ufficio dicendo: “Sono la vostra nuova sceneggiatrice”.“Lei sarebbe la nostra nuova sceneggiatrice? E cosa scriverebbe? E chi l’avrebbe assunta?” chiedeva Eisner.“Mi ha assunta Jerry, sabato sera. Carino il tipino. Dice che disegna i giornaletti”.Naturalmente, Iger non era del tutto cattivo. Una volta, un venerdì, sentendosi particolarmente di buon umore, disse al suo giovane socio: “Non fai altro che la-

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vorare. Hai bisogno di una pausa, ti ho organizzato un appuntamento per stasera”.“Davvero?”, Eisner era stupefatto.“Su, dai” insistette Iger. “Ti farà bene”.I due andarono in un edificio di Hastings-on-Hudson che Iger conosceva bene, dove Eisner passò la notte con una ragazza presentatagli da Jerry. Fu una pausa assoluta-mente salutare per un ragazzo che restava in ufficio dall’alba a fin dopo il tramonto.Il lunedì mattina, Iger entrò nello studio: “Allora, ti sei divertito, venerdì sera?”.“Oh, certo. Grazie, Jerry!”“Quanto le hai lasciato?”“...niente” rispose Eisner. “Perché?”“Razza di fesso!” disse Iger. “Come credi che si guadagnino da vivere quelle ragazze?”“Vuoi dire che sono... erano... prostitute?”“Cosa ti credevi? Che un tipo come te possa avere una tale fortuna senza pagare? Criiiiisto, Will! Dovrò pagarla io”.“Aspetta, le spedirò io i soldi. Dimmi solo quanto”.“No” chiuse il discorso Iger, frustrato per l’assoluta ingenuità del socio. “Ci penso io”.

• • •All’inizio della loro attività insieme, Iger abitava in una stanzetta al George Wa-shington Hotel di Manhattan, sulle 23esima. Migliorando i suoi guadagni, si trasferì in un grande appartamento di Uptown, dove assunse un maggiordomo giapponese. Eisner, al contrario, continuò ad abitare a Riverside Drive insieme ai suoi, dando una mano in famiglia e risparmiando denaro ogni volta che poteva.Alcuni dei collaboratori e dei dipendenti semplicemente non riuscivano a lavora-re con Iger. Spesso Eisner mediava durante le discussioni e Iger gli diceva “Perché diavolo hai detto così? Stai cercando di fare il simpatico?”Un giorno, Iger fece passare a Eisner un bruttissimo quarto d’ora. Cominciò con: “So quello che hai detto al tipo della banca; hai detto ‘Il mio socio... deve capir-lo’”. Eisner non negò, e rispose: “Ho detto esattamente così”.“Will, tieni quel tuo dannato naso fuori dai miei affari. Non ho bisogno che te ne vada in giro a difendermi!”. Poi Iger continuò a strillare e a sgridarlo come si fa con un bambino.In ogni caso, Eisner imparò molto su come si conducono gli affari da Iger, che creando l’Universal Phoenix Syndicate cominciò ad attirare lavoro anche dall’e-stero, vendendo i diritti editoriali per edizioni australiane e britanniche del ta-bloid di fumetti Wags. All’inizio, naturalmente, il tipo “coi soldi” era stato Eisner e Iger si era imbarcato nell’avventura senza un grande entusiasmo – Eisner aveva la stessa età di tutti gli altri nello studio, con l’eccezione di Iger stesso – ma era lui ad avere i contatti e a sapere dove c’era la disponibilità ad acquistare fumet-

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ti, aspetti pratici che Eisner ancora non conosceva. Personalmente, Eisner non amava molto il socio ma ne rispettava la capacità di negoziare e ne assorbì tutto quanto gli riuscì. Quello che aveva imparato da Iger gli sarebbe venuto comodo per molti decenni a venire.

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DUEL’avvento di Spirit (e della Quality Comics)

Nell’autunno del 1939 Will Eisner ricevette una telefonata da Everett M. ‘Busy’ Arnold, editore della Quality Comics. Persone meno fortunate non

ricevono mai telefonate come quella, o la riconoscono per l’occasione che rappre-senta solo molti anni dopo.“Non voglio parlare col tuo socio” disse Arnold con fare abbastanza misterioso. “Voglio parlare con te”.Alla maggior parte dei clienti dello studio Jerry Iger non piaceva affatto, in parti-colare quando c’erano da discutere questioni creative, e non era raro che qualcuno chiedesse a Eisner un incontro privato.I due si incontrarono a pranzo, poi a un altro incontro riservato. Eisner era una persona che trascorreva la maggior parte della sua vita leggendo riviste pulp e facendo fumetti, e non c’era niente come un pizzico di mistero per solleticare la sua curiosità. Se non altro, avrebbe potuto ricavarne qualche idea per una storia.Al secondo incontro, Arnold presentò Eisner a Henry Martin, direttore com-merciale del Register & Tribune Syndicate. “Abbiamo un’idea” spiegò Arnold, “e vorremmo capire se ti interessa”.In tutto il paese, i quotidiani si stavano accorgendo della crescita esplosiva del mercato degli albi a fumetti e cominciavano a pensare che rischiavano di perdere una parte del loro pubblico in favore di questo nuovo settore editoriale. Per gli stessi motivi, pensavano che gli albi a fumetti, presentati e confezionati in manie-ra adeguata, avrebbero potuto attirare nuovi lettori. L’idea di Martin consisteva nel produrre un inserto di 16 pagine “chiavi in mano”, un allegato indipendente simile alle moderne riviste con i programmi televisivi distribuite insieme al gior-nale della domenica. Quello di cui il syndicate aveva bisogno per produrre l’inser-to era qualcuno come Eisner.Arnold era presente in qualità di editore della Quality Comics e di tipografo: avrebbe stampato lui il supplemento per conto del syndicate.

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“Perché io?” gli chiese Eisner. “Hai un sacco di gente che fa fumetti per te”. Eisner scoprì che il syndicate aveva già provato col migliore elemento dello staff Quality, ma non aveva funzionato. Si trattava di un mezzo di comunicazione ancora bambino e ancora non tutti lo capivano veramente bene. Non solo: quel particolare disegnatore beveva molto e c’era il timore che non avrebbe rispettato le scadenze. Nella produzione per i quotidiani non esistono margini per i ritardi: i giornali escono alla stessa ora ogni giorno, 365 giorni all’anno. Nessuno avrebbe mai fermato le rotative perché il disegnatore dei fumetti doveva smaltire la sbor-nia della sera prima e non era riuscito a finire la puntata. Eisner era affidabile e lavorava rispettando una struttura di scadenze ferrea. Con tanti saluti all’arte! Ma Eisner era anche astuto e abbastanza intelligente da rendersi conto che la propria affidabilità era la carta da giocare.Eisner accettò l’incarico consapevole che ciò avrebbe voluto dire lasciare lo studio Eisner & Iger. Il supplemento a fumetti per i quotidiani sarebbe stato un lavoro a tempo pieno: sette o otto pagine a settimana costituivano una spietata incomben-za giornaliera, per non parlare della supervisione e del coordinamento delle altre otto pagine. Inoltre, Arnold dichiarò subito che l’unica condizione che poneva era che Eisner producesse il tutto indipendentemente da Iger, con cui non voleva avere nulla a che fare. Anche questo obbligava Eisner a prendere una decisione.Lo studio era una società al 50% e alla sua costituzione, i soci avevano concordato che quello dei due che se ne fosse andato avrebbe offerto le sue quote all’altro. Questa clausola, estremamente comune, assicurava che in caso di separazione nessuno dei due avrebbe dovuto accollarsi un socio sconosciuto, o sgradito.Così, Eisner offrì a Iger la possibilità di acquistare le sue quote e Iger accettò, con l’ul-teriore condizione che non avrebbe portato via autori allo studio: Eisner non avrebbe potuto avvalersi di più di tre o quattro persone che lavoravano per Eisner & Iger.All’epoca, erano oltre una decina gli autori che lavoravano a tempo pieno per lo studio con uno stipendio fisso. Eisner chiese di avere Lou Fine, Bob Powell e Chuck Mazoujian, che fortunatamente erano felici di seguirlo, e Iger non ebbe niente da obiettare.Anche così, Iger non riuscì a trattenersi e disse a Eisner che era un pazzo ad an-darsene per il progetto dei quotidiani. Era il 1939 e la guerra stava arrivando: “Ti arruoleranno, sicuro come l’inferno, e tu cominci qualcosa di nuovo adesso? Sei un pazzo, Will! Cosa ne sai di come andrà a finire?”.All’epoca, Eisner era talmente ansioso di raggiungere il pubblico più vasto, va-riegato e rispettabile della stampa quotidiana da vendere le sue quote a Iger per 20.000 dollari. Probabilmente valevano molto di più, ma rispetto all’investimen-to di 15 dollari con cui aveva cominciato, e al fatto che nella famiglia Eisner nessuno aveva mai visto tanto denaro in vita sua – costituivano un ottimo rientro

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per un ragazzo di 22 anni.Vendendo la sua parte a Iger, Eisner rinunciò anche a ogni partecipazione econo-mica in qualsiasi personaggio che aveva creato da solo o insieme ad altri durante la sua permanenza nello studio, tra cui Sheena, Queen of the Jungle. Era però un’ottima decisione, anche dal punto di vista affaristico, che impediva a Iger di ostacolare i suoi progetti futuri. All’inizio, Eisner temeva che la nota litigiosità del socio riemergesse, spingendolo a reclamare diritti su idee eventualmente utilizzate per le nuove creazioni di Eisner.“Sicuramente, avevo imparato qualcosa da Jerry in fatto di auto-conservazione”, avrebbe scherzato anni dopo Eisner, divertito dal paradosso.

• • •Decenni dopo che Eisner gli aveva venduto la sua partecipazione nello studio, Iger cominciò ad attribuirsi una parte nella creazione di Sheena, in un periodo in cui ormai poche persone in grado di contraddirlo erano ancora in vita. Erano solo loro due, la parola di ciascuno contro quella dell’altro.La posizione di Eisner era: “Chiunque conoscesse la società avrebbe riso alle sue pretese perché Iger non creò mai niente. Lui si occupava delle questioni ammini-strative e i suoi contributi creativi si limitavano al lettering degli albi”.Iger cercava di sembrare convincente: nel 1985, dichiarò a una fanzine che il nome Sheena veniva da “Sheenie”, un termine anti-semita e pesantemente di-spregiativo per “ebreo”. Eisner dichiarò che nessuno dei tanti disegnatori ebrei che lavoravano per Eisner & Iger avrebbe mai accettato di collaborare a qualcosa di talmente ipocrita, offensivo e volgare.Stando a Eisner, la vera origine del nome del personaggio era She (“Lei”) di H. Rider Haggard, uno dei primi esempi di romanzo fantasy avventuroso. She rac-contava la storia di una donna eroica e Eisner ha ammesso senza problemi di averlo usato come spunto per il nome del suo personaggio della giungla.

• • •Iger spesso si vantava del fatto che la sua acquisizione della quota di Eisner per 20.000 dollari era stato un furto. A Eisner questo non è mai importato; quello che importava era la possibilità per lui di uscire dal ghetto degli albi a fumetti. Almeno, questo era quello che pensava. All’epoca, le sue ispirazioni letterarie pro-venivano dai pulp ed era un avido lettore di O. Henry, Ambrose Bierce e Guy De Maupassant, di cui divorava tutti i racconti.Alla fine, Eisner strinse un accordo con Busy Arnold e il Register & Tribune Syn-dicate. Quando si arrivò alla questione dei diritti sul personaggio, i suoi partner dichiararono subito di volerli per sé, com’era prassi all’epoca per tutti i syndicate.

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Ma su questo punto Eisner fu irremovibile, facendone una condicio sine qua non: due anni in società con Jerry Iger gli avevano insegnato il valore della proprietà dei diritti. Anche se nel 1940 l’editoria a fumetti era ancora giovane e la vendita dei diritti derivati per i prodotti più svariati – film, serie televisive, riduzioni ra-diofoniche, pigiami di Superman, mantelli di Batman – non era ancora diventata un’industria a parte, ed estremamente lucrosa, Eisner ne intravvide le possibilità abbastanza da voler conservare per sé la proprietà dei diritti.“Non possiamo accettarlo” rispose Arnold. “I giornali non accetteranno una stri-scia di cui il cartoonist ha conservato i diritti. Avranno paura che smetta di pro-durla da un giorno all’altro, lasciandoli nei guai. Se dovesse avere successo e tu te ne andassi, saremmo nei guai, guai grossi”.Così, Eisner propose una soluzione senza precedenti per l’epoca, che venne accettata.“Potrai registrare il personaggio a nome tuo” disse ad Arnold. “Ma, da contratto, la proprietà dei diritti tornerà a me alla cessazione dell’accordo”. La diretta con-seguenza di ciò, fu che i primi numeri dell’allegato di The Spirit per i quotidiani vennero pubblicati col copyright “Everett M. Arnold”.Per essere così giovane – Eisner doveva ancora compiere 23 anni – aveva strappato un contratto particolarmente duro, diventando uno dei primi cartoonist proprie-tari della propria creazione. L’amico di liceo di Eisner, Bob Kane, non fu mai pro-prietario di Batman (anche se in seguito raccontò a Eisner di avere ottenuto una congrua rendita annuale); Joe Shuster e Jerry Siegel rinunciarono letteralmente ai diritti su Superman, come all’epoca era prassi, senza riuscire a recuperarli neppure dopo anni e anni di contenziosi. Persino Stan Lee, il padre della Marvel Comics, non ha mai avanzato alcuna pretesa su X-Men, Uomo Ragno, Fantastici Quattro o Hulk. Per Eisner, la proprietà era fondamentale perché capiva che gli avrebbe garantito il controllo creativo.

• • •All’inizio della sua nuova impresa, Eisner affittò un appartamento di due stanze al quinto piano di Tudor City, un noto edificio di Manhattan, trasformandolo in uno studio, nonché ufficio per sé, Lou Fine, Bob Powell e Chuck Mazoujian. Accingendosi a lavorare al nuovo personaggio, la prima idea di Eisner fu quella di fare una storia settimanale nello stile di Ring Lardner, sotto forma di fumetto, senza un eroe fisso, uno spaccato di vita, un semplice racconto breve ogni settima-na. Era un’idea letteraria, sofisticata e sicuramente non commerciale. Così, Busy Arnold la rifiutò.“Ci serve un personaggio in costume” insisteva.“Che ne dici di un detective?” rispondeva Eisner.Mentre discutevano la faccenda al telefono, fuori dalla finestra di Eisner pioveva,

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una scena tipica della future storie di The Spirit (anni dopo, il cartoonist Harvey Kurtzman inventò un nome dal suono Yiddish per la pioggia che così spesso ri-gava le vignette di Eisner, e la chiamò Eisnershpritz). Arnold non era in ufficio e stava chiamando Eisner da un locale o da un bar: Eisner sentiva la musica prove-nire dal jukebox. Arnold aveva già bevuto diversi bicchierini e stava cominciando a farfugliare.“E com’è che sciarebbe queshhto detective?” chiedeva Arnold.“Alto, bell’aspetto, sofisticato... una specie di Cary Grant”.“Ma com’è il coshhtume?”“Costume?” disse Eisner innocente. Disegnare personaggi in costume non gli interessava minimamente.“Perché deve avercelo un coshhtume” sosteneva Arnold. “Come faccio a vendere quesshhta roba ai giornali senza un costume?! Vogliono un personaggio in costume”.“Ha una maschera” disse Eisner. “Come, uhm, Lone Ranger”. Eisner disegnava men-tre parlava e disegnò rapidamente una maschera che copriva gli occhi del detective.“Cosshhììì va bene” rispose Arnold.“Ha anche dei guanti!”.“Okay, fantasshhtico; vai avanti coshììì” concluse Arnold, e riagganciò soddisfatto. Ma Eisner non aveva in mente un detective mascherato. Tanto per cominciare, non aveva alcuna intenzione di creare un supereroe (parola che all’epoca non esi-steva ancora: nel settore questi personaggi venivano chiamati “tipi in costume”).Casualmente, il cappello di Spirit piacque particolarmente ad Arnold: assomiglia-va a quello che portava sempre lui. Una burletta di Eisner che il suo socio non colse mai.

• • •La base di Batman era una complessa caverna nei sotterranei della maestosa tenu-ta Wayne. Superman si cambiava d’abito nei vicoli e nelle cabine telefoniche e, in seguito, si isolava nella sua Fortezza della Solitudine, al Polo Nord.Per Spirit, Eisner creò una magione sotterranea sotto il cimitero di Wildwood, a Central City.“Non saprei dire se io, un ebreo, fossi consapevole del fatto che l’idea per le origi-ni di Spirit era “cristiana”, nel senso della resurrezione. Credo che si trattò di una soluzione trovata istintivamente: mi serviva un posto per mostrare dov’era anda-to dopo la sua ‘morte’. Ero rimasto affascinato dall’idea dell’animazione sospesa dopo avere letto un articolo su una persona creduta morta dopo un arresto cardia-co e tornata in vita poco dopo. Pensai: ‘Ehi, che idea grandiosa. La userò subito’. Così, dopo che tutti lo avevano creduto morto, feci tornare il detective Denny Colt nei panni di Spirit. Solo la sua spalla Ebony e il Commissario di polizia Do-

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lan sapevano la verità. Non volevo che la cosa avesse dei contorni sovrannaturali e non volevo che fosse un supereroe. Nel corso degli anni, ho cercato disperata-mente di sbarazzarmi della sua maschera: per un po’, ha indossato occhiali scuri e un volta è persino diventato cieco”.Eisner progettò il cimitero o almeno quello che secondo lui poteva esserlo: “L’i-dea naturalmente era del tutto assurda. Spirit scava sotto un cimitero e costruisce sottoterra un nascondiglio segreto. Con l’aria condizionata! Poi, all’inizio c’era l’autoplano, che veniva guidato da lui o dalla sua spalla, su strada o in aria. L’ab-bandonai quasi subito quando Bob Kane diede la Batmobile a Batman. Nelle storie che volevo raccontare non serviva”.

• • •Oltre a The Spirit, Eisner aveva bisogno di altre due serie per riempire le sedici pagine del supplemento domenicale. Così, aggiunse Lady Luck (creata da Klaus Nordling) e una sua creazione, Mr. Mystic (a sua volta una rielaborazione di Yarko the Great, un suo precedente personaggio), affidandone la realizzazione a Ma-zoujian e Powell, rispettivamente. In più, Powell era in grado di scrivere le proprie storie (quando Mazoujian passò a lavorare nella pubblicità, Nick Viscardi lo sosti-tuì su Lady Luck per essere sostituito a sua volta, in seguito, da Klaus Nordling).Quanto a Lou Fine, il terzo uomo della nuova redazione, aveva seguito Eisner perché voleva essere libero di lavorare a modo suo alle proprie creazioni: parte dell’accordo con Busy Arnold prevedeva che Eisner producesse diversi albi a fu-metti tradizionali per il mercato delle edicole. In effetti, Eisner aveva egli stesso ambizioni da editore.A differenza del ‘service puro’ di Eisner & Iger, Eisner si accordò con Arnold per co-editare due riviste in società, al 50%, oltre a The Spirit: Hit Comics e Police Co-mics. Per questi albi Eisner creò nuovi personaggi, tra cui Doll Man, Uncle Sam, Blackhawk, The Black Condor ed Espionage.Oltre ai tre disegnatori iniziali, Eisner assunse Philip “Tex” Blaisdell, Dave Berg e Al Jaffee. Quest’ultimo, anni dopo diventò famoso con la rivista Mad per il suo umo-rismo inconfondibile e i personaggi assurdi. I tre collaborarono regolarmente per lo studio come esterni, con Berg alle matite di Death Patrol, un precursore di Blackhawk.Ai tempi di Eisner & Iger, il suo compito era impostare la storia abbozzando le pagine e a questo scopo aveva sviluppato degli standard produttivi ormai sostan-zialmente accettati nel settore. Come lo studio di Walt Disney o in qualsiasi altro, quello di Eisner aveva una sua specifica filosofia creativa. Eisner insisteva sulla necessità di storie con un senso – anche nella realtà fittizia del fumetto – con un inizio, uno svolgimento e un finale. Credeva nella cosiddetta “continuity” dei personaggi e delle loro caratteristiche, oltre a conservare una sostanziale vero-

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simiglianza nei dialoghi e nei comportamenti. Il suo amore per l’avventura e la narrativa breve gli assicuravano una preparazione che ai suoi concorrenti meno colti mancava.

• • •The Spirit fece la sua prima apparizione il 2 giugno 1940, in cinque edizioni domenicali di quotidiani per una tiratura complessiva di un milione e mezzo di copie. Uno di questi, The Philadelphia Record, registrò un aumento del 10% della tiratura dopo l’apparizione di The Spirit e, all’apice del suo successo, alla metà degli anni Quaranta, la serie appariva su venti quotidiani e arrivava a cinque milioni di lettori.Agli adulti The Spirit piaceva per la capacità di Eisner di sviluppare e raccontare in sole sette pagine, ogni settimana, un B movie di taglio noir. E le sue splash page di apertura erano spettacolari e assolutamente innovative. A differenza di altri di-segnatori, Eisner non si affidava ogni volta a un logo prestabilito, qualcosa di mai visto nell’editoria a fumetti o periodica. Per avere un’idea di cosa significa, imma-ginatevi il New York Times che ogni giorno cambia la sua testata. Difficile da cre-dere, no? La Vecchia Signora dell’editoria americana è ben nota per la sua rigorosa, moribonda coerenza. Grazie alla vigorosa originalità di Eisner, The Spirit divenne universalmente noto per l’orgogliosa incoerenza del suo marchio di fabbrica.Nonostante l’istantanea popolarità del personaggio, Eisner si preoccupò sempre del fatto che altri potessero tentare di fargli concorrenza con un supplemento analogo. E in effetti l’Hearst Syndicate cercò di produrne uno, col personaggio di Red Barry, creato da Will Gould, che però non durò molto. Hearst abbandonò il prodotto dopo sei mesi e nessuno cercò mai più di sfidare Eisner.“D’altra parte” era l’opinione di Eisner, “non ci si può realmente preoccupare della concorrenza, perché serve ad aprire il mercato e fornisce una sorta di legit-timazione al tuo stesso prodotto. La cosa incredibile – davvero stupefacente – è che The Spirit fu il primo e l’ultimo nel suo genere. Stan Lee mi disse una volta che intorno al 1980 aveva cercato di lanciare qualcosa del genere con la Marvel Comics ma che non riuscì mai a farne nulla”.

• • •Il nuovo studio di Eisner al 5 di Tudor City consisteva di una grossa stanza, una camera da letto e una piccola cucina, che in realtà non era altro che una semplice parete (spesso i disegnatori prendevano in prestito le chiavi per i fine settimana per portarci le ragazze. Non c’era nessun letto ma il divano aveva un certo successo).Solo Bob Powell aveva una propria copia delle chiavi dello studio: in caso di as-senza, Eisner poteva contare su di lui per aprirlo la mattina e chiuderlo la sera.

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Stando a quanto dichiarato da lui stes-so – e confermato dai suoi conoscenti dell’epoca – Eisner conduceva una vita praticamente monastica. Mentre gente come Powell si comportava in maniera meravigliosamente estroversa, Will era il classico emarginato, impegnato a di-segnare le vite che secondo lui gli altri, intanto, stavano vivendo.Un venerdì sera, Will mangiò un boc-cone per cena, preparandosi a trascor-rere una tranquilla serata al tavolo da disegno. Ma quando aprì la porta del suo studio personale ci trovò Powell con due testerosse gemelle. Imbaraz-zato, richiuse rapidamente la porta aspettando nell’altra stanza che avesse-ro finito. Eisner disegnava donne me-ravigliose ma Powell – come Iger – se le portava a letto.

Un esempio celebre è il personaggio di Sheena, a cui Eisner diede il volto di una delle ragazze di Powell. Ma, a volte, quello che Eisner metteva sulla pagina, Po-well se lo portava via. In Mr. Mystic c’era un personaggio chiamato Shadowman of Death: ogni volta che Powell scaricava una ragazza, Shadowman se la portava via. In fatto di donne, Eisner era scandalizzato dalla disinvoltura di Powell, che era capacissimo di cominciare una conversazione con “Ho caricato due puttane e...”

• • •La stanza principale dello studio di Tudor City era la redazione, la bottega di produ-zione dove Powell, Fine, Blaisdell e Mazoujian lavoravano all’inserto di The Spirit e alle riviste a fumetti che Eisner aveva creato per la Quality Comics di Busy Arnold.Fine lavorava ai supereroi The Ray e The Flame; era un bravo disegnatore ma, se-condo Eisner, per portare avanti le sue idee aveva bisogno di sceneggiatori miglio-ri di lui. Così, assunse come sceneggiatore a tempo pieno Dick French, cognato di Blaisdell (a volte Fine dormiva sul divano dello studio; da piccolo aveva avuto la poliomelite, che lo aveva lasciato con una gamba più corta dell’altra).A differenza di Fine, Powell scriveva e disegnava da solo le sue storie e, come Ei-sner, scriveva sceneggiature anche per gli altri disegnatori. Per esempio, scriveva Death Patrol, una creazione di Eisner che in seguito diventò Blackhawk, e nel

Prima pagina della section di Spirit del 29 dicembre 1940, per il quotidiano The Star Ledger.

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1952 fu adattato in una serie cinematografica di quindici episodi per complessivi 242 minuti dal titolo Blackhawk: Fearless Champion of Freedom, con protagonista Kirk Alyn (interprete anche delle serie al cinema di Superman).Tra le altre cose, Powell era noto per essere antisemita. Ogni tanto faceva allusioni offensive sugli ebrei, che solitamente Eisner lasciava correre, convinto che non valessero la pena di una discussione. Ma quando la guerra scoppiò e il mondo cominciò a rendersi conto che l’obiettivo della furia di Hitler erano gli ebrei, le osservazioni di Powell si fecero ancora più indecenti e arroganti.Busy Arnold propose a Powell un sostanzioso aumento per lasciare lo studio di Eisner ed entrare nello staff Quality, nel Connecticut. Powell riferì dell’offerta a Eisner, convinto di ricevere la sua benedizione di andarsene tranquillamente. Ei-sner invece si infuriò, chiamò Arnold e gliene disse quattro: “Vuoi proprio che ti faccia causa? Ma ti rendi conto? Siamo in società e tu mi porti via gli autori dallo studio! È una cosa gravissima!”.Arnold si fece immediatamente indietro, chiamò Powell e si scusò: “Mi dispiace, Bob, ma devo ritirare l’offerta, perché Will minaccia di farmi causa”.Per Powell, la mossa di Eisner era la conferma di tutto quello che aveva sempre pensato degli ebrei. Furibondo, fece irruzione nel suo ufficio: “Cos’è, uno di quei trucchi da ebreo? Vuoi danneggiare deliberatamente la mia carriera”.Nonostante l’ostilità verso il suo capo, anche dopo l’incidente Powell restò nello stu-dio. Quando più tardi Eisner ne affidò la gestione ad Arnold e fu arruolato nell’E-sercito, ricevette da Powell una lettera del tutto inaspettata che, in parte, diceva:

Caro Bill,... non voglio fare il sentimentale ma siccome probabilmente non ci vedremo prima che tu parta, volevo dirti che ti faccio tutti i miei au-guri. Non so cosa ne pensi, ma devi credermi. Non ho mai avuto niente contro di te personalmente, qualsiasi discussione possiamo avere avuto per questioni di lavoro, da parte mia almeno... potrei avere detto alcune brutte cose quella volta che abbiamo litigato – e che probabilmente Tex ti ha riferito – ma le ho dette perché ero furioso. Soprattutto, come ho capito solo ora, perché sono molto più adatto a lavorare da solo.... mi dispiace se sono stato affrettato. Sei un tipo a posto ed è un peccato che non potremo tornare a essere dei veri amici...Perciò, ti auguro di nuovo buona fortuna, fatti onore, fagli vedere l’in-ferno... e che Dio ti benedica...

Tuo Bob

• • •

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Secondo Eisner, chi teneva veramente le redini di Tudor City era Chuck Cuidera, un disegnatore che lui chiamava “l’assistente di volo”.Un giorno, Cuidera infilò la testa nella porta di Eisner.“Ehi, capo, devo parlarti di una cosa”.Quando Cuidera chiamava Eisner “capo” non era una forma di rispetto, ma un’accusa, spiegava Eisner ridendo.“Ci serve un bravo inchiostratore. Ne conosco uno...”“Bene” rispose Eisner. “Digli di passare lunedì”.“È già qui. Deve cominciare subito”.“Subito?”“Lavora per Harry A. Chesler [uno studio di fumetti concorrente]. Mettilo al mio tavolo e dagli qualcosa da fare immediatamente. Io torno subito”.Eisner entrò in redazione e trovò un giovane tremante. Non aveva idea di dove fosse andato Cuidera e perché volesse assumere questo ragazzino coi nervi a pezzi. “Come ti chiami?” gli chiese Eisner.“Alex Kotzky”.Cuidera aveva avuto fiuto: il ragazzo aveva talento e lasciò il segno sul decennio successivo, disegnando The Spirit, Plastic Man, Doll Man, Espionage, Kid Eternity, Manhunter e Blackhawk. Per inciso, quel giorno Cuidera era uscito dallo studio per portare via i pennelli e gli effetti personali di Kotzky dallo studio di Chesler prima che il concorrente si accorgesse che il ragazzo era sparito.Cuidera era di nuovo a portata di mano quando vide la luce un altro famoso perso-naggio del periodo, Blackhawk, la star di Military Comics, rivista prodotta da Eisner e pubblicata da Quality Comics. La paternità di questo veterano di guerra non fu mai messa in dubbio fino a tutti gli anni Sessanta. Ma negli anni Settanta, con la nascita del fandom e la ricerca spasmodica da parte degli appassionati di notizie e dettagli sugli autori e i loro personaggi, tra Cuidera e Eisner si aprì un baratro.“Chuck sosteneva di essere stato lui a creare Blackhawk” dichiara Mark Evanier. “Ed era furioso con Will, che sosteneva di essere stato lui. Will non ha mai rico-nosciuto a Chuck di essere il creatore di Blackhawk”.In anni recenti, per non irritare Cuidera, il cui unico titolo di celebrità nel fumetto era avere lavorato a Blackhawk all’inizio della carriera, Eisner smise di rivendicarne la paternità. Non negò mai di avere creato il personaggio, ma non ribadì più la cosa.Murphy Anderson lavorò insieme a Cuidera per la DC per tutti gli anni Sessanta, e per Will Eisner verso la fine del decennio. Trent’anni dopo, Anderson ebbe un ruolo chiave nell’invitare Cuidera a partecipare al Comic-Con di San Diego, dove gli fu tributato il giusto riconoscimento per il suo lavoro a Blackhawk, e dove partecipò a un incontro in compagnia di Will Eisner.Ricorda Anderson: “Chuck era convinto che il suo lavoro non fosse stato ricono-

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sciuto a sufficienza ma Will semplicemente scrollò le spalle e disse: ‘Cosa volete che vi dica?’ Chuck era molto affezionato a Will e credo che si sentisse leggermen-te in colpa nei suoi confronti. Ho sentito un sacco di storie sullo studio di Will a quei tempi ma erano quasi tutti aneddoti. E poi c’è sempre un sacco di gente che lavora per qualcuno, per chiunque, che ha qualcosa da ridire e secondo me la cosa era tutta qua, perché quello che ho sempre sentito dire da tutti è che Will era un tipo giusto”.Durante una conferenza al Comic-Con di San Diego del 1999, Eisner e Cuidera si incontrarono nuovamente per la prima volta dopo decenni. Il moderatore era Evanier e Eisner non perse tempo a mettere a mettere sul tavolo i suoi argomenti: “C’è una cosa che vorrei dire da molto tempo. Ci sono state un sacco di chiac-chiere su chi avrebbe creato cosa. Ma non è importante. Non è importante chi sia stato. Quello che importa è chi ha tenuto in piedi la baracca, e l’ha fatta funzio-nare! Che Chuck Cuidera abbia creato o sia stato convinto di creare Blackhawk è irrilevante. Quello che conta è che è stato Cuidera a farne ciò che poi è diventato ed è per questo che andrebbe ringraziato”.Secondo Evanier “Will fu estremamente attento a non disconoscere nulla di quanto fatto da Chuck, ma neanche a concedergli nulla di più. La mia teoria è che l’idea stessa di chi abbia creato Blackhawk è estremamente labile. Will può avere detto a Chuck ‘Facciamo un personaggio così e così’, poi Chuck disegnò la prima storia. Chuck ha dichiarato che la prima storia era stata scritta da Bob Powell, mentre Will dice di averla scritta lui. Secondo me, Will era convinto di essere stato lui a creare il personaggio, ma non c’era niente male nel lasciare che Chuck si prendesse un po’ del merito. Inoltre, non appena arrivò Reed Crandall tutti dimenticarono subito il lavoro di Chuck sulla serie”.Lo storico del fumetto R.C. “Bob” Harvey concorda con la valutazione di Evanier sull’incontro dei due: “Will gestì la conferenza con la classe di sempre, afferman-do che non importava chi avesse creato Blackhawk ma chi l’aveva portato avanti. Chuck aveva creato l’ambientazione della serie e se qualcuno doveva prendersene il merito, disse Will, questi era lui. E riconobbe i meriti di un uomo per cui questo riconoscimento era importante. Fu una manovra di grande diplomazia”.Dopo la pubblicazione del suo romanzo storico sulla nascita dell’editoria a fumet-ti, Le straordinarie avventure di Kavalier e Clay, anche Michael Chabon si ritrovò coinvolto nella polemica su chi avesse creato Blackhawk. In un’intervista, senza pensarci troppo Chabon aveva attribuito la cosa a Eisner, versando inavvertita-mente sale su una ferita aperta.A una convention Eisner lo prese da parte e gli disse: “Non sono stato io a crearlo, ma Chuck Cuidera”. Non era irritato per la dichiarazione di Chabon ma voleva essere certo che in futuro, se l’argomento fosse tornato fuori, Chabon non citasse

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lui come creatore.Chabon l’interpretò come una forma di cavalleria di Eisner nei confronti di Cui-dera, che veniva identificato con quella serie. “All’inizio del primo volume di Vivere per raccontarla di Gabriel García Márquez c’è questa epigrafe meravigliosa: ‘La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla’”.

• • •Un giorno del 1939, Tex Blaisdell entrò nello studio in compagnia di un ragaz-zino. Ricorda Eisner che “L’idea era che il ragazzo pulisse per terra e già che c’era avesse la possibilità di dare un’occhiata alle tavole disegnate. Per un bambino di 12 anni, era un’esperienza mica da poco”.Il ragazzo si chiamava Joe Kubert e, ricorda Eisner, “nel nostro studio persino un ragazzo di 12 anni che spazzava il pavimento aveva del talento”. Anni dopo, Kubert disegnerà Tor, Hawkman, Sgt. Rock e Tarzan. Divenne anche un nome di riferimento per tutto il settore fondando la Joe Kubert School of Cartoon and Graphic Art di Dover, nel New Jersey e, come autore di romanzi a fumetti, per Fax da Sarajevo e Yossel: 19 aprile 1943.“Dovevo cominciare il liceo” ricorda Kubert. “E stavo facendo il giro dei pub, marinando la scuola col mio amico Norm. Alla fine, andammo all’High School of Music and Art di Manhattan, su a Uptown. Io abitavo a Brooklyn e per andare a scuola mi ci voleva un’ora e mezzo all’andata e altrettanto al ritorno. All’uscita da scuola, io e Norm andavamo a visitare gli editori di fumetti.Prima conobbi Jerry Iger, che mi disse: ‘Okay, piccolo, vai da Will, può darsi che abbia qualcosa da farti fare’”.Così, durante le vacanza estive, Eisner mise in mano a Kubert una scopa, dicen-dogli di tenere pulito. A Tudor City Eisner era il capo, fisicamente distante da quanto accadeva nella stanza di cinque metri per cinque della produzione, in cui lavoravano i disegnatori. Kubert entrò nell’ufficio del capo solo una volta o due: il fatto che fossero gli unici due ebrei non servì a sciogliere l’atmosfera, e ancora oggi Kubert ricorda quanto lo avesse colpito la figura elegante e fascinosa di Ei-sner: “Tanto per cominciare, aveva questa bella capigliatura di riccioli neri. Era un tipo di bell’aspetto, curato, snello. Mi ha sempre dato l’impressione di avere sotto controllo tutto quanto stava succedendo, senza fare pesare la sua presenza o dover dimostrare che il capo era lui. Ma lo sentivi. Anche da ragazzo, lo capivo chiaramente. Con gli altri parlavo senza problemi, ma non con Will. Era un tipo alla mano, ma era chiaro che era lui il capo. Aveva a che fare con gli adulti in settori in cui la maggior parte delle altre persone non avrebbero avuto il coraggio di avventurarsi. Una delle lezioni che appresi da lui era che per un disegnatore è

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importante sapere bene quello che fa, non solo artisticamente, ma anche com-mercialmente. Non siamo tenuti solo a disegnare e a raccontare storie, ma anche a sapere cosa succede alle nostra pagine quando lasciano il tavolo da disegno. Cosa succede quando arrivano al fotolitista? Nessuno avrebbe visto le tavole originali e i nostri lavori sarebbero stati giudicati solo una volta stampati. Ma se nel nostro lavoro mettiamo tutta la qualità di cui siamo capaci, chiunque entri successiva-mente in contatto con esso la percepirà e ci metterà altrettanta cura”.Nella stanza c’era una mezza dozzina di tavoli da disegno: Bob Powell, che Kubert ricorda come un tipo decisamente sopra le righe, lavorava vicino alla finestra, di fianco a Nick Viscardi (che in seguito cambiò nome in Nick Cardy). Fine lavo-rava sempre a Tudor City, ma ai piani superiori, separato dagli altri e Kubert lo incontrò solo molto più avanti. Il tavolo di Tex Blaisdell era vicino alla parete. Il posto di Kubert era da una parte, lontano dai disegnatori.

Ricorda Kubert: “Tex mi disse: ‘Metti-ti qui, ragazzo’, e lui era probabilmente quello con cui ero più in confidenza. Faceva il lettering e gestiva lo studio. Nella pausa pranzo giocavamo a palla-mano: dabbasso c’era il cortile di una scuola col campo e le porte”.Dopo un po’, gli incarichi di Kubert si fecero di responsabilità, arrivando alla cancellatura delle matite dalle tavole finite, e alle correzioni col bianchetto là dove non era possibile cancellare la matita. “La cosa migliore del punto in cui mi avevano messo era che da lì po-tevo vedere quello che facevano tutti gli

altri” ricorda. “Avere sotto le mani i loro lavori fu un’esperienza importantissima per me: capivo dove lavoravano, che tipo di strumento usassero. E poi capivo come funzionavano le cose nell’ambiente. Mi pagavano 12,50 dollari alla settimana e per me era una fortuna. Andò avanti per un po’ e io non potevo chiedere di meglio.Ricordo una copertina di Chuck Cuidera: un buon esempio di come si lavorava all’epoca. C’era Blackhawk che scendeva attaccato a una fune e dietro di lui il cerchio di un faro; era su un cartoncino di 13x18 pollici [circa 33x46 centimetri]. Comincio a sbiancare tutto e a un certo punto arrivo alla corda. Aggiungo degli intrecci e ne tolgo altri, le solite cose; insomma, alla fine Chuck lo guarda e fa ‘Ehi, tu devi solo cancellare e a ripulire. Non disegnare sopra la mia roba!’. Non era cattivo ma voleva che fosse chiaro che nessuno doveva cambiare o intervenire

Will Eisner al lavoro nel suo studio di Tudor City(c.ca 1941).

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sui suoi disegni, una volta che li aveva finiti”.Kubert ricorda di avere incontrato Dave Berg nello studio: “Faceva anche lui cose del genere, ma era più avanti di me. Non stava lì a tempo pieno, faceva qualche lavoretto, lo lasciava e se ne andava. Non ricordo che abbia lavorato su Spirit. Ricordo degli inserti di mezza pagina che faceva sul retro di The Spirit. A volte, servivano cose così, non collegate alla serie principale, niente di fisso: Will mi permetteva di farle e credo che anche Dave abbia avuto l’occasione, ogni tanto. Di scriverle oltre che di disegnarle”.Quando Eisner partì per il servizio militare, Kubert entrò ufficialmente nello staff della Quality Comics. Gli vengono attribuite le chine di diversi episodi di Spirit, dal novembre 1942 all’autunno 1943, e i disegni di altri episodi dall’agosto 1943 al dicembre 1943.

• • •

Dopo il liceo, nel 1939, Nick Cardy andò a lavorare per un’agenzia di pubbli-cità per presentarsi poco dopo all’Eisner & Iger (dopo l’abbandono di Eisner), alla ricerca di lavoro. Iger fece avere le illustrazioni di Cardy a Eisner, nei suoi nuovi uffici di Tudor City e solo dopo la sua approvazione assunse Cardy. Perché l’opinione di Eisner era così importante per Iger, dopo la fine della loro collabo-

Telegramma del 5 dicembre 1940 di Busy Arnold a Eisner: comunicando l’acquisizione di The Spirit da parte di altri due quotidiani si raccomanda per la qualità delle storie.

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razione? Perché solo col suo studio Eisner non riusciva a produrre tutti i fumetti per cui si era impegnato con la Quality. Ancora oggi, pochi sanno che Eisner subappaltava moltissimo lavoro a Iger. Era un matrimonio di convenienza, non una sua libera scelta, e come dimostra la corrispondenza conservata presso gli Ar-chivi Will Eisner dell’Ohio State University Cartoon Research Library, raramente i rapporti tra Eisner, Iger e Arnold risultavano tranquilli. E vale la pena di notare come tutte le lettere di Iger fossero scritte su carta intestata “Eisner & Iger, Ltd”, anche molto dopo l’uscita del socio.Ecco un esempio di quelle comunicazioni:

26 dicembre 1941Caro Jerry.... per chiudere, un’osservazione su una frase della tua lettera del 4 di-cembre, dove affermi “Sarò anche un imbecille, ma ho rifiutato affari niente male per potere lavorare al meglio per te e le tue pubblicazioni. E cosa ci ho guadagnato?” È una battuta o mi prendi per stupido? Non hai mai rifiutato nessun lavoro a causa mia, accettando sempre ogni possibile incarico da riviste come Pocket Comics, Champ Comics e Speed Comics. E non sei forse tu quello stesso Jerry Iger che ha lanciato Great Comics e Choice Comics con Fred Fiore anche se avresti dovuto pensare a produrre lavori di qualità extra per E. M. Arnold e Thurman Scott? Cerca di non farmi ridere, Jerry.E, per favore, non venirmi a raccontare per l’ennesima volta che sei stato tu a scoprire, personalmente, i professionisti migliori del settore, compre-so Bill Eisner. Come sai bene, il merito del successo di Eisner & Iger era in gran parte suo: Bill è sempre stato un disegnatore portato a scrivere belle storie e nessuno l’ha mai aiutato a sviluppare queste sue abilità, tranne Wm. E. Eisner, un sacco di talento naturale e di duro lavoro.Quanto ai 10.000 dollari che hai pagato a Bill per la sua partecipazio-ne nello studio, ti ricordo che non c’entro nulla in questa storia e che si è trattato di una questione interamente tra Wm. E. Eisner e S. M. Iger. Ti abbiamo pagato diverse migliaia di dollari come quota sui primi dieci numeri di Hit Comics e National Comics dopo che Bill aveva già venduto a te, e ne hai ricevuti un bel po’ di più da Scottie più o meno nello stesso periodo. Penso quindi che il tuo accordo con Bill sia stato niente male per entrambi...

Cordialmente,E. M. Arnold

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(Inviando in copia questa lettera a Eisner, Arnold aggiunse a mano in cima: “Fa-resti meglio a mandare a Jerry dei sali e un po’ di fiori. Il paragrafo 5 di pagina 3 è corretto o davvero è stato Jerry a creare W.E. Eisner?”.Per la cronaca, la cifra riportata da Arnold per la vendita a Iger della quota di Eisner è sbagliata: furono 20.000 dollari e non 10.000).

3 aprile 1942Caro Jerry,Mi ha fatto piacere rivederti a New York. Arrivando a Stamford, mi sono guardato bene X of the Underground. Francamente, è roba quasi altrettanto brutta di quanto già realizzato fino a questo momento per questa sventurata serie. Busy può forse essere un po’ più indulgente di me nell’acquistare materiale di serie B visto che in fondo, dopotutto, ha più albi di me...Ma vorrei ribadire che non sono l’ultimo arrivato, che so riconoscere la roba buona quando la vedo... e in X of the Underground non ne vedo affatto.

Cordialmente,Bill

4 aprile 1942Caro Bill,Non sono d’accordo con te su X of the Underground ma l’affiderò comunque a qualcun altro...Cosa diavolo ti ha preso? Tutte questa battute su “materiale di serie B” e non essere l’ultimo arrivato e “lavori industriali”. Per quanto riguarda questo studio, per noi tutti i lavori sono egualmente importanti.Se pensi che non sia in grado di gestire questa serie con tua soddisfazione allora sarà meglio che te la scordi.

Cordialmente,Jerry

6 aprile 1942Caro Jerry,Su, su, su Mr. Iger, da quando in qua devo cercare di controllarmi e genuflettermi per non ferire i suoi sensibilissimi sentimenti? Pensavo che almeno con TE potessi dire liberamente quello che penso (quando

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ancora ci riesco).Quanto alla qualità della serie, Busy concorda con me sul fatto che non è la cosa migliore che avrei dovuto ricevere per quello che è costata. Anzi, ho i miei dubbi che sia stata fatta dal disegnatore di Kid Patrol...Devi credermi, Jerry, per me è molto importante che Military Comics sia la serie meglio fatta entro le mie possibilità. Questo perché non ri-vendo pagine: i soldi li faccio se, quando e perché la gente compra la rivista. Perciò, ti prego di capirmi se su questa faccenda sono un po’ suscettibile.In riferimento alla tua ultima frase: PENSO che tu sia in grado di ge-stire la serie con mia soddisfazione e non ho intenzione di scordarmela.

Cordialmente,Bill

6 aprile 1942Caro Bill,questa è una lettera per tagliare corto con tutte le altre, tranne quelle cordiali! Affare fatto? Devo spedirti una dichiarazione giurata o magari un avvocato di Filadelfia per convincerti che X of the Underground è stato fatto dallo stesso disegnatore di Kid Patrol?Anche per me, per ovvie ragioni, è fondamentale che tutte le serie che escono dal mio studio producano lettori.

Cordiali saluti,Jerry

8 aprile 1942Caro Jerry,Mi ha fatto piacere rivederti nonostante la nostra corrispondenza “bol-lente” che, mi sembra, si sia ora raffreddata e in futuro sarà molto più tranquilla. Mi è piaciuto il disegnatore che hai proposto per X of the Underground e dopo avere parlato con Mr. Smith (che ovviamente è un giovane molto intelligente) sono certo che la serie ha ora davanti a sé un brillante futuro...Grazie per l’aiuto e la pazienza.

Come sempre,Bill

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• • •In assenza di Eisner, lo studio Eisner & Iger cominciò a lavorare con budget ancora più risicati, come testimonia il nuovo arrivato Nick Cardy: “Iger diceva: ‘Nick, i seggiolini dovrebbero tardare poco. Perché intanto non vai in quel negozio di ali-mentari sulla Terza a prenderti una cassa di arance?’. Quando cominciai a lavorare nello studio, era pieno di disegnatori seduti su casse di arance tutte schizzate di china. Erano lì da un bel pezzo, loro e le loro casse! E presto mi resi conto che i seg-giolini non sarebbero mai arrivati; le casse erano alte circa 50 centimetri, con una fodera di legno all’esterno e un divisorio all’interno, per la spedizione delle arance”.Iger pagava Cardy 18 dollari alla settimana e alcune settimane dopo, il capo lo chiamò sorridendo: “Pssst! Nick!” disse Iger agitando il dito. “Dai un’occhiata alla busta paga. Troverai una sorpresa”.Ed era vero: un aumento di 50 centesimi!Ricorda ancora Cardy: “Iger aveva sempre queste ragazze sexy e altissime che sfilavano su e giù per l’ufficio, mentre Jerry era alto 1,65 m, con labbro inferiore troppo grosso che gli impediva di parlare normalmente”.Un’altra cosa che Iger faceva regolarmente era dare spettacolo a beneficio dello studio: “Circa alle tre del pomeriggio, quando tutti tendevano ad addormentarsi, lasciava cadere un cestino di metallo sul pavimento, ridendo come un matto quan-do tutti sobbalzavano. Era come se fosse caduto un fulmine”. Per vendicarsi di Iger, uno dei disegnatori lasciò cadere un petardo nel cestino di Iger mentre questi dormiva in ufficio. “Dopo un po’, non ne potevo più di stare con gente così, per-ché basta che ci sia uno che fa lo spiritoso che non riesci più a combinare niente”.Intorno al 1940, dopo l’arruolamento di Chuck Mazoujian, Cardy si trasferì allo studio di Eisner di Tudor City, dove si occupò dei disegni di Lady Luck per il supplemento di Spirit.

• • •Gli appassionati di fumetti hanno spesso avvolto la redazione di Tudor City di un alone romantico. Chuck Mazoujian, Bob Powell e Tex Blaisdell erano già tutti lì all’arrivo di Cardy, anche se quest’ultimo non ricordava che Lou Fine o George Tuska lavorassero per Eisner in quello stesso periodo. Gli sceneggiatori esterni pas-savano periodicamente lasciando le storie, ma raramente restavano nello studio.“Mia madre lavorava in un laboratorio che faceva pantaloni” chiarisce Cardy. “Be’, noi facevamo fumetti”.Powell sedeva a un tavolo da disegno alle spalle di Cardy ed era il protettore del ragazzino ultimo arrivato, un po’ come Blaisdell aiutò sempre Kubert. “Se non sapevo cosa fare” ricorda Cardy, “Powell mi diceva ‘Si fa così’ o anche ‘Adesso

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andiamo a mangiare’”.Una volta, Powell inserì il nome di Cardy in una storia di Lady Luck in cui i per-sonaggi erano alla ricerca del “Diamante Viscardi”. Ma Cardy restò a Tudor City per poco: se ne andò nel 1942, poco prima che partisse lo stesso Eisner, arruolato nell’Esercito. Era abbastanza normale che molti passassero a lavorare da uno stu-dio all’altro, come dipendenti o da freelance, e viceversa, vista la differenza tra la tariffa per pagine che editori come la Quality di Arnold e la Fiction House di T. T. Scott pagavano agli studi e quello che alla fine arrivava agli autori. Cardy, per esempio, triplicò il suo reddito lasciando Eisner per un posto fisso alla Fiction House. E come se non bastasse, alla fine del 1942 ricevette un bonus natalizio di 400 dollari.

• • •Busy Arnold non fu mai particolarmente timido, o diplomatico, quando si trat-tava di dire cosa pensava del materiale che gli arrivava dallo studio di Eisner. Ecco alcuni estratti dalle sue tante lettere a Eisner:

11 luglio 1941Ecco un altro esempio del lavoro tremendo che fa il tuo staff: in una vignetta di Lady Luck, Lady Luck è su una barca a remi insieme a un uomo, mentre nella vignetta successiva gli uomini sono due.Che ne diresti di controllare con un po’ più d’attenzione?

15 luglio 1941Ed Cronin mi ha appena fatto notare che nel numero che ci hai fatto arrivare oggi le storie di Lady Luck e Mr. Mystic sono uguali. Riguar-dano entrambe un rapimento a bordo di uno yacht e, naturalmente, questa cosa non mi piace per niente.

17 luglio 1941Ti sto inviando le bozze del primo Uncle Sam Quarterly. Sono d’ac-cordo con te sul fatto che si tratta di un lavoro pessimo e temo che possa rivelarsi particolarmente imbarazzante per noi. Vedi di cominciare a lavorare subito sul secondo numero e di farne uscire qualcosa di meglio, sotto tutti i punti di vista...Non solo Uncle Sam Quarterly era imbarazzante ma di certo non è stato controllato per niente. In tutto l’albo c’erano almeno duecento errori di ortografia e lo stesso vale per The Doll Man Quarterly. In quest’ultimo, i tuoi ragazzi non hanno scritto una sola parola nello

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stesso modo per due volte di fila. A volte “Darrel Dane” veniva scritto “Darrel” e altre “Darrell”. A volte “The Doll Man” aveva “The” davan-ti al nome, altre volte no. A volte “Doll Man” era scritto in due parole, altre come una singola parola, “Dollman”.Prima di ricevere questi numeri di Uncle Sam Quarterly e The Doll Man Quarterly sia io che Ed Cronin pensavamo che Jerry Iger meri-tasse la palma per il peggior lavoro ma ormai abbiamo capito che tu e i tuoi siete molto più avanti di chiunque altro.

20 agosto 1941La puntata corrente di Blackhawk (Military Comics n. 5) non era af-fatto buona dal punto di vista del disegno ed era come se Cuidera non ci avesse lavorato abbastanza da solo. Anzi, direi proprio che al momento si tratta della puntata peggiore.L’episodio di Death Patrol era terrificante e il disegnatore è un cane di prima grandezza. Se non verranno corrette immediatamente, cose del genere non lasciano scampo a Military Comics. In futuro, tagliate anche le pagine umoristiche di Tex Blaisdell, sono tremende.

3 ottobre 1941Credo che la storia del 19 ottobre di The Spirit fosse la peggiore che tu abbia mai fatto e che non dovresti produrne più come questa. In parti-colare, questo episodio era troppo pesante e sofisticato, troppo filosofico, e non può interessare la maggior parte dei lettori.

Ma il più grande classico di tutti i tempi delle lamentele di Arnold a Eisner sulla qualità del lavoro dello studio è sicuramente questo P.S. scritto a mano in fondo alla lettera dattiloscritta del 13 gennaio 1942:

P.S. Negli ultimi due mesi Lady Luck è stato spaventoso, neppure all’al-tezza di un fumetto.

• • •Joe Simon, co-creatore di Capitan America e a lungo socio di Jack Kirby, è uno dei contemporanei di Eisner che ha visto la nascita dell’albo a fumetti. I due si conoscevano ma non lavorarono mai insieme.“Lo conobbi per il tramite di un incisore di nome Arthur Weiss” ricorda Simon. “Quando io stavo facendo Capitan America, Will aveva appena mollato Victor Fox e Arthur aveva sposato Libby, la segretaria di Will. Lei aveva un debole per

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Will e credo che lui lo sapesse. Il matrimonio durò solo due anni, o giù di lì.Will Eisner era idolatrato da chiunque lavorasse nel settore. Era decisamente il migliore, molto rispettato. Raccontava storie in modo diverso, più letterario e colto, rispetto a quasi tutti gli altri... e un sacco di gente cercò di copiarlo. Aveva solo 22 anni e tra i colleghi era già una leggenda”.

La lettera di Busy Arnold col “celebre” post scriptum di lamentela per la bassa qualità diLady Luck.

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trEJoe Dope salva l’Esercito (da se stesso)

L’incombente chiamata alle armi di Will Eisner era una specie di spada di Da-mocle sulla sua testa. Dal giorno in cui se n’era andato dallo studio Eisner &

Iger, non aveva mai spesso di ripetersi: “Sei pazzo! Verrai arruolato e tutto ti cadrà addosso come un castello di carte!”.

30 luglio 1941Caro Busy,Ho avuto il colloquio con la commissione la sera scorsa e ho l’impres-sione che lo spessore del mio curriculum li abbia impressionati favore-volmente. Ciò che vogliono è una dichiarazione da parte del Syndicate secondo cui senza di me tutto si fermerebbe, che questa nuova section è una forma di innovazione e, di conseguenza, in mia assenza incisori e tipografi resterebbero senza lavoro. Il Syndicate potrebbe anche di-chiarare che, gran parte del progetto essendo in larga misura espressione del mio stile letterario, grafico, della mia creatività e personalità, e in quanto tale unica, sono certi del fatto che i direttori dei giornali potreb-bero rifiutare possibili sostituti e anche disdire contratti già in essere, cosa di cui hanno la facoltà. Potresti anche aggiungere che è in gesta-zione una striscia giornaliera prevista in distribuzione per il prossimo autunno, il che conferirà alle mie creazioni una circolazione giornaliera ancora maggiore.Non sarebbe neppure male se tu, nella tua veste di editore, dichiarassi che dipendi da me per la gestione editoriale e la produzione di Military, e che le mie funzioni a quel riguardo sono uniche e non possono essere surrogate da altri. Inoltre, l’unico motivo per cui hai effettuato degli investimenti nella pubblicazione era la mia disponibilità personale. È sicuramente il caso di descrivere la mia posizione come quella di un

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punto di snodo da cui si diramano le varie cose, piuttosto che come un collo di bottiglia.

w

Busy Arnold cercò di fare esonerare Eisner in qualità di “giornalista” attraverso il Register & Tribune Syndicate, la cui influenza politica non era indifferente, ma il tentativo fallì. Lo fece non tanto per amicizia quanto per difesa dei propri in-teressi, perché anche senza Eisner Arnold era vincolato da contratto a continuare a produrre The Spirit.Non riuscendo a ottenere l’esonero, Arnold scrisse a Eisner di un’altra idea in questa lettera a mano, priva di data: “P.S. Ho avuto quest’idea di scrivere a Wood a Washington e vedere se riesce a usare la sua influenza per farti assegnare a un lavoro da poco, con un sacco di tempo libero”.

• • •Quando finalmente alla fine del 1941 arrivò la chiamata, all’inizio Eisner si sentì parecchio scoraggiato. Posso dire addio alla mia carriera, fu il primo pensiero. Ma, assorbito lo shock, la consapevolezza dell’arruolamento lo riempì di un senso di enorme sollievo.A 24 anni, Eisner aveva trascorso tutta la sua vita adulta a lavorare da solo in questo o in quello studio, giorno e notte. La sua amante era il lavoro e lo studio di Tudor City era la sua casa. Improvvisamente, si sentì come se lo Zio Sam gli avesse offerto l’occasione di vedere com’era fatto il mondo reale. Inoltre, come altri americani, era imbevuto di un forte senso di patriottismo. L’America era in guerra: “Quegli spaventosi nazisti stavano massacrando gli ebrei, la mia gente, e io avevo la possibilità di ucciderne alcuni per quello che stavano facendo loro.Sì, tutti questi sentimento c’erano. Ma se devo essere onesto al 100%, quello che mi stava investendo era una sensazione quasi segreta, e la ricordo benissimo: era la mia occasione di vedere il mondo”.

• • •Anche se la posizione professionale di Eisner non lo esentava dal servizio militare, gli conferì uno status in qualche modo particolare. Trattandosi di un imprendito-re da cui dipende il sostentamento di almeno cinque uomini, l’ufficio di leva gli concesse tre mesi per organizzare i propri affari. Immediatamente, Eisner si mise al lavoro per organizzare la squadra che in sua assenza avrebbe proseguito il lavoro.Andò a trovare Busy Arnold nel Connecticut e gli disse del problema di partire per l’Esercito. Arnold suggerì di trasferire il suo studio al Gurley Building di

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Stamford, di fianco alla struttura dello stesso Arnold. Eisner accettò e, a partire dal 28 marzo 1942, affittò uno spazio proprio a fianco degli uffici di Arnold, al medesimo piano. Accantonò anche un fondo per aiutare i disegnatori interessati a trasferirsi, con la generosa offerta a ciascuno di loro di una cifra sufficiente per l’anticipo necessario per accendere un mutuo immobiliare.

Dello staff di Arnold faceva parte lo sceneggiatore Gill Fox, che da tempo am-mirava il lavoro di Lou Fine per The Ray su Smash Comics e i due, insieme alle rispettive mogli, divennero ben presto amici strettissimi.Essendo riuscito a conservare la proprietà sui diritti del personaggio, ecco che la clausola in questione nel contratto tra Eisner e il syndicate si attivò: siccome in sua assenza la produzione sarebbe continuata, Eisner conservò implicitamente la proprietà del personaggio.Oltre a produrre il supplemento domenicale di Spirit, Eisner cominciò una stri-scia quotidiana dedicata al suo detective morto e risorto: Arnold e il syndicate, sol-lecitati dal “Philadelphia Record”, avevano insistito ma lui non si sentiva pronto.“Ancora oggi” ricorderà decenni più tardi, “non mi piacerebbe fare una giornalie-ra. È come cercare di dirigere un’orchestra stando dentro una cabina del telefono”.Così, la cosa non lo gratificò minimamente ma il Register & Tribune Syndicate aveva insistito per avere una striscia giornaliera il prima possibile, convinto che

Materiale promozionale per le strisce giornaliere diThe Spirit.

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sarebbe stato un complemento naturale del supplemento.La striscia di Spirit fece il suo debutto il 13 ottobre 1941 e Eisner ne produsse solo sei settimane prima di partire per il servizio militare. La striscia non ebbe suc-cesso, soprattutto perché Eisner la usò per fare ogni sorta di strano esperimento, come un’intera striscia completamente muta e contenente unicamente impronte nella neve. Le critiche provenivano da alcuni dei maggiori fautori di Spirit:

“Trovo che la striscia di Spirit sia difficile da seguire da un giorno all’altro, per via delle trame complicate” scrisse il 28 ottobre 1841 Bill Hawkes, redattore del “Philadelphia Record”

“Consiglio di evitare tutte quelle bizzarre inquadrature nella striscia,” scrisse il 23 marzo 1842 Henry P. Martin Jr., responsabile del Register & Tribune Syndicate. “Troppo spesso confondono le idee e ostacolano la lettura. Più la striscia è semplice e più è facile da leggere”.

Dopo la sua partenza, Eisner continuò a scrivere la striscia, disegnata da Lou Fine. Nonostante la grande bravura, Fine non riuscì mai a disegnare come si deve un cappello calcato su una testa, cosa non da poco quando il personaggio principale ne indossa uno dovunque vada.“E c’è anche un’altra cosa” ricorda Eisner. “Quando gli dicevo: ‘Senti Lou, dovre-sti mettere questo qua in una posa buffa’ – Ebony, per esempio – i risultati erano assurdi. L’idea che Lou aveva di ‘buffo’ era disegnare il personaggio con un sedere enorme, piegato più o meno in avanti. Se guardate le sue cose su Spirit capirete cosa voglio dire. Trovava che questa cosa fosse divertente da morire”.Jack Cole (prima di lavorare a Plastic Man) sostituì Eisner come sceneggiatore e disegnatore prima di lasciare spazio allo sceneggiatore William Woolfolk e poi nuovamente a Lou Fine, come disegnatore. La striscia proseguì stentatamente per un po’, prima di essere sospesa l’11 marzo 1944.Gill Fox, redattore della Quality Comics ha dichiarato che la striscia era in anti-cipo sui tempi. A questo Eisner ha risposto: “Può darsi, ma è più probabile che fosse in ritardo sui tempi. Di trent’anni”.

• • •Durante le vacanze estive Joe Kubert faceva il pendolare tra Brooklyn e Stamford cinque giorni alla settimana (non si fermava mai a dormire) per inchiostrare le matite di Fine su The Spirit mentre Eisner era nell’Esercito.Kubert lavorò nello studio per due anni, anche dopo il trasferimento nel Connec-ticut, ma mentre i disegnatori dello staff si trasferirono a nord, Kubert faceva su e

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giù da Brooklyn in treno. “Sono ebreo, ed era la prima volta in assoluto che man-giavo cibo non kosher: uova e prosciutto. A casa mia madre cucinava strettamente kosher e mio padre era un macellaio kosher: per noi, aragosta, uova e prosciutto erano cose strane ed esotiche” ricorda Kubert. “Era il periodo in cui Fine prese in mano Spirit. Io e Alex Kotzky (che in seguito avrebbe avuto una sua striscia, Apt. 3-G) inchiostravamo le sue matite: lavorare con Lou Fine era meraviglioso e ricordo con piacere ogni singolo minuto, oltre a essere stata un’altra esperienza tremendamente importante, da cui ho imparato tantissimo”.Mantenere The Spirit in produzione anche mentre era occupato a servire il suo pa-ese aveva per Eisner una serie di lati positivi, non ultimo l’assegno mensile prodot-to dalle vendite della serie e degli altri fumetti prodotti dal suo studio, che andava ad aggiungersi al modesto stipendio dell’Esercito. Eisner usava parte del denaro per aiutare i genitori e i fratelli minori, che all’epoca abitavano in un appartamen-to di Riverside Drive, a Manhattan. Il padre era sopravvissuto a due infarti ma non poteva più lavorare: Sam Eisner trascorreva ormai il suo tempo dipingendo in una galleria d’arte ma, a tutti i fini pratici, poteva considerarsi in pensione.

• • •Eisner venne arruolato nel maggio 1942, partendo subito per il centro di reclutamento di Camp Dix, in New Jersey, per essere da lì assegnato al Di-partimento Artiglieri dell’Aberdeen Proving Ground, in Maryland. Al suo arrivo, Eisner cercò in tutti i modi di ottenere un lavoro da corrispondente ma destino volle che restasse in patria. Poco prima, un corpo di artiglieria era stato decimato in Africa al passo di Kasserine e l’Esercito aveva bisogno letteralmente di carne fresca per rim-polpare i propri ranghi.“Arrivai ad Aberdeen con un sacco di altre reclute inesperte, vivendo in una tenda insieme ad altri che seguivano lo stesso addestramento di base” ricorda

Eisner. “L’addestramento di base consisteva nell’imparare ad avanzare attraverso il filo spinato e a usare un fucile. Si erano appena accorti che questo tipo di addestra-mento al combattimento era necessario agli artiglieri perché quando un’unità d’as-

Eisner sotto le armi(senza data).

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salto veniva travolta, gli artiglieri dovevano essere in grado di difendersi da soli”.Una sera, mentre Eisner riposava nella sua tenda, ricevette una visita da due uo-mini. Uno era un soldato semplice, l’altro il sergente Bob Lamar, ed erano i re-dattori del giornale del campo.The Spirit veniva distribuito col Baltimore Sun e il campo di Aberdeen si trovava non lontano da Baltimora; il giornale era molto diffuso e apparentemente tutti conoscevano l’inserto di Spirit. Avere insistito per avere il suo nome sulla striscia gli sembrava ogni giorno di più la mossa giusta.La proposta di Lamar fu la seguente: “Ci serve un cartoonist per il giornale. Le interesserebbe provarci?”.All’idea di entrare nell’Ufficio Relazioni Pubbliche della base Eisner balzò in pie-di: qualsiasi soldato circondato dal lerciume fisico e dalla degradazione mentale dell’addestramento dell’Esercito avrebbe accettato un lavoro d’ufficio. Cominciò immediatamente a disegnare vignette umoristiche e una striscia settimanale, Pvt. Otis Dog Tag per The Flaming Bomb, il giornale del campo. Quando scoprirono che Eisner era in grado di scrivere, gli affidarono anche degli articoli.L’ufficiale responsabile del giornale, il Tenente Colonnello Rifkin, disse a Ei-sner che il Dipartimento Artiglieri sta-va implementando un’idea passata dai Britannici, chiamata “manutenzione preventiva”, che avrebbe cambiato l’i-dea stessa di manutenzione dell’equi-paggiamento. Oggi è difficile crederci, ma più di sessant’anni fa la manuten-zione preventiva era sostanzialmente un’attività su base volontaria e all’epo-ca veniva effettuata su richiesta esplici-ta da parte dei soldati.Eisner spiegò a Rifkin che questo vole-va dire chiedere ai soldati di fare qualcosa volontariamente, ed era come ordinare di restare col morale alto. Fino a quel punto, la manutenzione preventiva con-sisteva più o meno nel curare il proprio equipaggiamento tenendolo (almeno) oliato: la nuova idea andava letteralmente “venduta” alle truppe.“Un modo per farlo sarebbe usando i fumetti” propose Eisner.Rifkin tornò un paio di settimane dopo: “Ehi, si ricorda quella cosa di cui aveva-mo parlato? I tipi della manutenzione sono interessati. Potrebbe fare un paio di manifesti a fumetti?”.Eisner fece dei manifesti di prova che vennero preferiti ad altre proposte per via di

Eisner (al centro) esamina il nuovo numero del bollettino militare The Flaming Bomb.

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quel loro look un po’ ruvido da GI. Era il tipo di approccio alla base dell’enorme successo della striscia Willie and Joe di Bill Mauldin; lo stesso tipo di umorismo fatto da altri probabilmente non avrebbe funzionato altrettanto bene.Ben presto Rifkin tornò a cercare Eisner: “Si prepari a trasferirsi. C’è l’idea di affidarle un incarico sul campo”.Eisner non riuscì a dire altro che: “Wow. Non dovrò frequentare l’OCS”. [Officer Candidate School: il corso di addestramento degli ufficiali – NdT]Stavano per affidargli un incarico sul campo. Malauguratamente, ciascuno dei figli del Presidente Roosevelt si vide assegnare incarichi sul campo senza alcun titolo nello stesso periodo in cui si stava per assegnarne uno a Eisner e la stampa sollevò uno scandalo. Così, mentre Eisner restava a Baltimora in attesa del suo incarico, l’Esercitò abbandonò l’idea. Al suo posto, gli proposero un’altra cosa: “Se si sottopone a un colloquio amministrativo potremmo nominarla warrant officer, il che le permetterebbe di lavorare su queste cose, e sarebbe praticamente un ufficiale”.Così, Eisner diventò warrant officer di grado inferiore. L’Esercito usava i warrant officer come strumento per non perdere competenze preziose di cui volevano usu-fruire. In genere, cercavano di usare i civili per certi incarichi ma a un certo punto fu chiaro che i civili non potevano svolgere gli stessi compiti e fare le stesse cose degli ufficiali. Per esempio, un civile non poteva pranzare negli stessi luoghi di un ufficiale. E l’Esercito non era in grado di pagare grosse cifre o di ordinare ai civili di spostarsi da un posto all’altro a loro piacimento. Così avevano creato questo grado intermedio: una persona nominata ufficiale per mandato.Eisner venne inviato alla Base Artiglieri Motorizzata Holabird di Baltimora, dove il suo incarico era creare manifesti che illustrassero l’importanza della manuten-zione preventiva per l’Unità di Manutenzione del Genio. In un articolo del 5 novembre 1942, il bollettino Holabird Exhaust annunciava l’arrivo di Eisner alla base con in prima pagina uno schizzo di Spirit e un articolo in cui si sottolineava quanto segue:

Con un po’ di fortuna potrete incontrarlo nella stanza 310 del Dipar-timento, intento a pulirsi le scarpe o a immaginare chissà quale storia per la sua celebre serie Spirit ... a Stamford, Connecticut, un grosso staff porta avanti Spirit mentre il suo autore, Eisner, presta servizio nell’E-sercito, ma lui non ha smesso di pensare alle sue avventure a fumetti e continua a fare la maggior parte dei disegni e della supervisione ... via posta.

• • •

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All’inizio del servizio militare, Eisner tentò di servire sia lo Zio Sam che Busy Arnold, scrivendo storie di Spirit durante il periodo dell’addestramento e quindi facendole avere a una persona che Arnold mandava ad aspettare fuori dal campo. Ma dopo un po’ semplicemente non riuscì più a svolgere entrambi i lavori e, malvolentieri, rinunciò a Spirit.Non ci volle molto prima che la qualità precipitasse, mentre Eisner non poteva che restare a guardare, impotente: “Quando riuscivo a leggere le storie, erano già state pubblicate. Per un po’, Busy pensò di spedirmi le sceneggiature in anticipo ma non poteva funzionare, perché mi interessavano più le pagine disegnate che le storie: se leggevo una sceneggiatura, potevo immaginare in che modo l’avrei disegnata. Tenevo ai dialoghi quanto alla visualizzazione della storia”.Un fine settimana, durante un permesso, Eisner si incontrò con Arnold a New York, lamentandosi della parte grafica delle storie di Spirit: “Devi assolutamente parlare con Lou Fine” gli disse. “Fa il cappello di Spirit in quel modo assurdo”.“Lou Fine è un ottimo disegnatore” rispose Arnold.“Sì, lo so, ma dovresti parlargli di questa cosa”.Più avanti, Eisner si lamentò anche di come Fine disegnava Ebony, con quel gros-so sederone che non aveva mai avuto: secondo lui, stava superando i limiti degli stereotipi accettabili anche in quel periodo.

• • •Nel 1942 la manutenzione preventiva era un’idea nuova. Norman Colton e Ber-nard Miller, due civili di Holabird, producevano un foglio di istruzioni ciclosti-late dal titolo Army Motors, distribuito ai militari addetti alla manutenzione delle attrezzature. Era pieno di espedienti e suggerimenti per la manutenzione e Eisner – pervaso dal suo consueto spirito imprenditoriale, nonostante l’uniforme – sug-gerì che quanto andavano facendo sarebbe stato più efficace in formato rivista, con dei fumetti a illustrare il modo corretto di svolgere i vari compiti.“Feci un piano per la rivista, stendendo dei bozzetti. Tecnicamente, l’idea era loro ma io l’ampliai e ne feci una vera e propria proposta. All’inizio, ero responsabile più per la confezione che per i contenuti editoriali, di cui si occupavano loro”.Col suo nuovo formato, e con Eisner come direttore artistico, la rivista crebbe ra-pidamente: al suo apice, aveva raggiunto una distribuzione di un milione e mezzo di copie. Eisner creò anche una striscia avente per protagonista un personaggio il cui nome completo era Pvt. Joe Dope – M-1. Joe faceva sempre qualsiasi cosa nel modo sbagliato. La sua missione, come riferito nel numero del 23 settembre 1944 del “Washington Post”, era “diffondere la manutenzione preventiva per diminu-ire la necessità di riparazioni e la requisizione di nuovi pezzi ... Secondo alcuni ufficiali, anche secondo le stime più prudenti, i suoi risultati sul campo non sono

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inferiori a quelli dei suoi colleghi del mondo reale”.Army Motors diventò estremamente popolare: all’epoca, l’Esercito contava due milioni di uomini e la rivista arrivava in qualsiasi negozio o punto vendita in qualche modo collegato alla manutenzione dei mezzi e delle armi (quando Nick Cardy venne arruolato – il 1 aprile 1943 – contattò Eisner attraverso Army Motors per vedere se ci fosse la possibilità di lavorare insieme a lui. Ma non c’erano posti a disposizione e i due non lavorarono mai più insieme).Dopo non molto Eisner venne trasferito a Washington, al Pentagono, entrando a far parte dello staff del Capo di Stato Maggiore dell’Artiglieria. Il suo nuovo compito era produrre materiale visivo per il Generale Levin H. Campbell, Capo di Stato Maggiore dell’Artiglieria della Seconda Guerra Mondiale.Il primo incarico di Eisner fu particolarmente divertente. Mentre un venerdì sta-va per sedersi alla scrivania, il generale lo chiamò nel suo ufficio nell’Anello E del Pentagono. Il Generale reggeva in mano una pila di fogli ciclostilati: “La commis-sione di vigilanza del Senatore Truman si lamenta del fucile Garand perché con-tinuiamo a pagarlo allo stesso prezzo pur avendone già ordinati mille pezzi”. Poi tirò fuori un mucchio di carte, piene di statistiche, sbattendole in faccia a Eisner: “Voglio che lei mi metta a punto un sacco di diagrammi: abbiamo una riunione lunedì mattina e io parlerò mentre lei sfoglierà i diagrammi”.Eisner trascorse il fine settimana stendendo diagrammi e “imparando a mentire con le statistiche” come ebbe modo di dire. Imparò che “tracciando un grafico da 0 a 10 espandendo la scala, l’aumento sembra modesto, ma se lo si comprime mettendo 1 e 10 molto vicini, allora diventa un picco”. Ragionando in questo modo, i diagrammi furono un successo e il generale si ritrovò in debito di ricono-scenza col suo nuovo assistente.Subito dopo Eisner contribuì a lanciare un’altra rivista, Firepower (“La rivista dell’Artigliere”). Curiosamente, non era finanziata dall’Esercito ma dall’Associa-zione Artiglieri, un’associazione di civili: invece di storie mirate e didattiche, pub-blicava racconti edificanti e l’Esercito aveva ritenuto di non poterlo finanziare con denaro pubblico.Intanto, Army Motors cresceva, Colton e Miller misero insieme uno staff ampio e autorevole, che a un certo punto fu trasferito a Detroit, più vicino ai fabbricanti di automobili. Eisner continuava a fare tutte le vignette e i fumetti restando al Pentagono, creando o sviluppando diversi nuovi personaggi per fare compagnia al soldato Joe Dope, come il Sergente Half-Mast, il meccanico imbranato e Connie Rodd, un graziosissimo membro dei corpi femminili dell’Esercito.Introdusse anche l’uso di strisce a fumetti didattiche nei TM, i manuali tecnici dell’Esercito.“Era proprio come era sempre piaciuto a me: trovare un varco nella foresta e infi-larmici prima che lo facesse qualcun altro. Ero convinto che i fumetti fossero un

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buon strumento didattico, con un suo futuro in questo ambiente” ricorda Eisner.Ancora una volta, sapere riconoscere un’occasione si rivelava di grande importan-za per la sua carriera.La cosa buffa della situazione era che Eisner si prendeva gioco delle SOP dell’E-sercito (le procedure operative standard) dall’inizio alla fine e quello che dice-va veniva accettato, persino in maniera entusiasta, perché scriveva, disegnava e parlava ai GI in un linguaggio che loro potevano capire. Alcuni lamentarono che Eisner danneggiava il morale delle truppe, perché spesso mostrava ufficiali non proprio efficienti come si pensava che dovessero essere, ma certamente stava producendo pubblicazioni diverse, originali. Dove il manuale tecnico diceva: “Ri-muovere tutto il materiale estraneo dalle pareti del motore” Eisner riformulava tutto nel linguaggio del Queens: “Togliete dal motore tutto lo schifo”. I GI anda-vano matti per questo tono colloquiale, terra-terra, e le istruzioni in forma visiva. Tutto diventava semplice e rapido.Nei primi anni Quaranta gli USA non erano il paese complesso, scettico e con-sapevole dei media che sarebbe diventato all’epoca del Vietnam. Le reclute pro-venivano da ogni angolo del paese: c’erano ragazzi di Filadelfia che conoscevano a menadito il gergo alla moda di Fred Allen e Bob Hope, altri dal Kentucky che non avevano mai visto l’acqua corrente prima di essere arruolati e tutti questi soldati necessitavano di un linguaggio comune.

Poco dopo essere stato arruolato, Ei-sner conobbe un sergente di Aberdeen la cui unità era composta interamente da soldati analfabeti del West Virginia. Era il sergente a scrivere per loro let-tere alle fidanzate e ai genitori, perché loro non erano in grado di farlo; dopo il lavoro, insegnava ad alcuni di loro a leggere. Da questo episodio Eisner im-parò l’importanza di un insegnamento svolto al livello del lettore. Le riviste di

Eisner erano pensate per lettori il cui livello di alfabetizzazione era leggermente inferiore a quello che i manuali tecnici dell’Esercito, difficili da leggere e dal vo-cabolario fiorito, tendevano a dare per scontato.Naturalmente, alcuni superiori di Eisner non erano precisamente entusiasti del suo approccio.Il dipartimento incaricato di produrre i manuali tecnici cercò di stroncare il ten-tativo di Eisner di utilizzare il fumetto per progetti tecnici importanti: i fumetti venivano considerati utilizzabili unicamente per la propaganda o per tecniche di

Will Eisner in licenza provvede ai lavori di casa(1944).

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condizionamento dell’opinione. Il responsabile del dipartimento pensò di potere fermare Eisner con una gara di efficienza: convinse l’università di Chicago a con-durre dei test col materiale manualistico standard e le riviste illustrate di Eisner sul medesimo campione di soggetti. Eisner vinse proprio perché la leggibilità e il livello di ritenzione del suo materiale era maggiore di quello dei manuali, precisi ma asciutti e pedanti.Il risultato rafforzò il convincimento di Eisner su alcune caratteristiche specifiche della striscia a fumetti: la facilità con cui le immagini illustrano un procedimen-to. In confronto a un linguaggio militare che faceva di tutto per confondere un determinato concetto, i fumetti riducevano ogni idea a una serie di immagini che rendevano il concetto assolutamente chiaro al lettore.Per esempio, un ingegnere avrebbe detto: “Supponiamo di sostituire questo com-ponente…” mentre Eisner diceva: “Quando sostituite questo componente…”. Le due cose, nella sua mente, erano assolutamente identiche, anche se gli ingegneri insorgevano. I manuali dell’Esercito erano estremamente limitati nella parte il-lustrata, e quando si trattava di fotografie, spesso erano mosse e piccole. Eisner, invece, ebbe il permesso di realizzare disegni spettacolari dal punto di vista del lettore, illustrando e spiegando con precisione come sostituire un determinato componente. In questo modo, mostrava ai lettori il gesto da compiere dal loro punto di vista. Una macchina fotografica, al contrario, non avrebbe sempre potu-to posizionarsi secondo lo stesso angolo, o essere altrettanto chiara.Curiosamente, per quanti schemi fai-da-te di questo tipo illustrasse, Eisner non imparò mai nulla su argomenti tecnici. Era bravo a spiegare le cose, “probabil-mente perché ero molto ottuso sulle questioni meccaniche” ricorda. “Ma anche se ho disegnato e spiegato il sistema elettrico a 24V, visualizzando il tutto, sono riuscito a non capire nulla di come diavolo funzionasse”.

• • •L’allampanato fratello minore di Eisner, Pete, venne arruolato nel 1942, a Long Island, addestrato a Fort Dix e quindi spedito a Miami Beach, dove venne asse-gnato all’Aeronautica. All’inizio venne addestrato come mitragliere su un B-51, “finché non mi fecero salire su un aereo” ricordò anni dopo. “Non entravo nella torretta e a questo punto non sarei servito a molto”.Così, fu riassegnato a un’unità di artiglieri dislocata a Mobile, in Alabama, e poi a San Francisco. Presso un poligono di tiro, Pete vinse un premio come miglior tira-tore: “L’errore più grosso della mia vita. Non avrei mai dovuto colpire il bersaglio”.Stavolta venne assegnato come mitragliere su una nave da trasporto truppe: un incarico più adatto, evidentemente. Ma mentre si trovava in viaggio dalla Nuova Guinea alle Filippine, la nave andò in avaria, si separò dal convoglio e restò sola in

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pieno Pacifico a fare da bersaglio. A un certo punto l’equipaggio cercò di sbarcare su un’isola delle Filippine ma i Giapponesi continuavano a prenderli di mira.Negli Stati Uniti, intanto, Eisner si preoccupava per la salvezza del fratello e riuscì a procurargli un cambio di incarico, non appena Pete lasciò la Nuova Guinea per le Filippine. Dal Pentagono arrivò un ordine che gli assegnava un incarico di-staccato che, di fatto, faceva di lui un sottufficiale. Nessuno sul campo sapeva del nuovo incarico tranne il suo superiore diretto. Aveva un nome in codice e avrebbe fatto rapporto su attività potenzialmente sovversive.“Ogni due o tre giorni andavo all’ufficio postale e spedivo il rapporto” ricordò in seguito Pete. “Tenevo d’occhio un tipo o due; in particolare, un paio di ufficiali abbastanza sospetti. Uno era nato e cresciuto in Germania. Censuravano la sua posta, io lo sapevo ma lui no. Non si avvicinava e non parlava con nessuno, un comportamento sospetto, ma non scoprii mai nulla di strano”.Ma per Pete era ancora più sospetto il suo superiore.“Il mio ufficiale di riferimento era diventato capitano perché il suo ufficiale non era finito al fronte. Insomma, ‘sto tipo doveva restare un soldato semplice, non aveva nessuna qualifica. Da civile faceva il controllo qualità per la Campbell, quella delle scatolette, controllando la temperatura nelle vasche della zuppa. In-somma, era questa la sua preparazione. Sospettava sempre che qualcuno gli stesse addosso e quando mi spedirono delle informative era nervoso come un gatto. Un tipo davvero nevrotico, ma con me non poteva farci niente. Per fortuna, sotto di lui c’erano dei veri ufficiali che erano più in stile GI”.Se Pete si sia mai offeso per il fatto che il fratello avesse interferito con la sua carriera militare, non lo diede mai a vedere. “Non mi sono mai sentito un eroe” commenta Eisner. “Trovai una nuova sede a mio fratello quando era in Nuova Guinea perché non volevo che ci restasse secco. Poi mi supplicò di non esagerare perché il comandante della sua compagnia sospettava che lui fosse una spia”.Pete non fu l’unico GI a beneficiare della naturale tendenza di Will a compor-tarsi da fratello maggiore del prossimo: in altre occasioni, fece uscire persone che conosceva dai campi di addestramento trovando loro incarichi sicuri prima che venissero spediti al fronte. Quando l’amico Bernard Miller si trovava a Holabird, confidò a Eisner che sarebbe partito per il fronte. “Era sposato con un bambino e feci un salto” ricorda Eisner. “Ero distaccato al Pentagono e avevo qualche co-noscenza: andai nell’ufficio del personale e lo feci trasferire ad Army Motors, dove alla fine divenne redattore”.

• • •È mai veramente possibile costruirsi una reputazione di disegnatore all’interno della sconfinata, anonima struttura burocratica dell’Esercito USA? C’era qual-

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cuno che si accorgesse veramente del lavoro di Will Eisner attribuendolo a lui?Per quanto l’Esercito faccia di tutto per essere anonimo per chiunque abbia meri-tato meno di una medaglia al valore, nel caso di Eisner gli fu effettivamente utile per costruire una nicchia per il suo lavoro. Fu in parte per questo che quel lavoro sopravvive ancora oggi. Army Motors era una novità all’interno della gerarchia militare e godette subito di una grande popolarità tra le truppe. Mentre GI e ufficiali la divoravano numero dopo numero, non potevano fare a meno di imparare il nome di Eisner visto che, incredibilmente, gli era stato permesso di firmare tutto quello che faceva. “Mi feci conoscere in un modo assai poco militare. Sotto questo tipo affabile e sorridente si annida un bieco affarista. Anche in piena Seconda Guerra Mondiale”.Bill Mauldin divenne famoso grazie alla sua striscia Willie and Joe per la rivista Stars and Stripes. A Eisner piaceva fare qualcosa che non aveva fatto nessun altro prima di lui, ma ancora desiderava veramente fare il corrispondente di guerra: “Volevo essere un altro Bill Mauldin ma una volta consolidate certe competenze, l’Esercito non mi avrebbe mai permesso di cambiare incarico”.Eisner desiderava ardentemente una destinazione al fronte, come suo fratello Pete. Era il suo sogno e fece di tutto.Una volta, per sviluppare materiale didattico per l’Artiglieria venne distaccato in via temporanea nel Texas, dove ancora si faceva manutenzione degli aerei. Là fece amicizia con un ufficiale, con cui andò a bere un bicchiere al bar. Più o meno in-torno a mezzanotte erano ormai ubriachi e si giuravano eterna fedeltà. Giurarono davvero: ora erano fratelli di sangue. L’ufficiale confidò a Eisner che in realtà era di stanza a Casablanca. “Mio Dio, Will, devi assolutamente venire là e portare con te un po’ del tuo talento, a vedere quello che faccio”.“Ma certo” rispose Eisner stupefatto, “non desidero altro”. Naturalmente, Eisner smise di pensarci una volta rientrato al Pentagono. Tre settimane dopo, gli venne comunicato con una telefonata di presentarsi immediatamente a rapporto dal generale: precipitandosi nell’ufficio, fece il saluto e disse a voce alta “Signorsì!”.“Mi è arrivato un telegramma da un ufficiale di Casablanca” disse il generale, notando lo stupore sul volto di Eisner. “Vogliono che venga distaccato tempora-neamente là – per un mese o giù di lì – per sviluppare materiali didattici”.“Davvero, signore?” azzardò Eisner.“Davvero”.Poi, drammaticamente, il generale stracciò il telegramma, e disse: “Non la lascerò andare via. Sa chi ha scritto quel dannato telegramma? Quel figlio di puttana di George Patton! Una volta che lei finisse là, non la lascerebbe più andare via!”, cosa risultata poi vera. Don Brennan, un collega di Eisner, venne in seguito promosso a Maggiore e destinato a Casablanca con un incarico d’artiglieria e Patton lo legò

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mani e piedi, per così dire, costringendolo a scrivere la storia della sua unità.

• • •Durante la Seconda Guerra Mondiale Washington era una città con pochi uomi-ni e un sacco di donne, e trovare appuntamenti non era difficile.Eisner abitava al Wardman Park Hotel. Spirit gli procurava delle entrate extra e poteva permettersi di vivere al di fuori della caserma per 30 dollari al mese. “Volevo stare al Wardman perché così era molto più facile portarsi in camera le ragazze, ris-petto a un appartamento vicino allo Zoo che avevo affittato per un po’ di tempo”.Durante i primi mesi, Eisner usciva con una ragazza ogni volta che gli era pos-sibile. Si innamorò persino di Leona, una redattrice di Army Motors che aveva conosciuto durante l’incarico a Detroit. “Attirò la mia attenzione perché era una redattrice che non aveva problemi ad andare sul campo di collaudo e mettersi a guidare un camion da due tonnellate” ricorda Eisner. “Era estremamente attraen-te e dopo un po’ diventò una storia molto appassionata. Bisogna ricordare che in tempo di guerra non ci si preoccupa del domani”.I carri e i camion per l’esercito venivano fabbricati dalle case automobilistiche e Eisner volava spesso a Detroit per sviluppare nuovo materiale didattico. Incarico o no, ci volava la maggior parte dei fine settimana per vedere Leona, strappando un passaggio a Bolling Field, l’aeroporto dell’aeronautica di Washington.“Di solito andavamo a ballare in qualche locale: Leona era bionda, snella e molto bella, una ragazza strepitosa”.Leona era intelligente ed estremamente informata sull’attualità, e con lei a Eisner piaceva non solo ballare ma anche parlare di ogni genere di cosa.La relazione proseguì per circa un anno dopo la fine della guerra, ma Leona e Eisner non abitarono mai nella stessa città. E Leona non era ebrea, cosa che la madre autoritaria di Will contestava ferocemente: suo figlio non poteva sposare una goyim! Quando infine Eisner accettò il fatto che lui e Leona non si sarebbero mai scambiati gli anelli, mise fine alla storia.

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quattroIl ritorno di Spirit

Will Eisner restò nell’Esercito per quasi quattro anni. Sotto molti aspetti furono i migliori della sua vita, un periodo durante il quale, da uomo,

maturò il talento che prima aveva fatto capolino in un ragazzo dei marciapiedi di Brooklyn. Quando nel 1945 fu congedato, cominciò finalmente a raccontare le storie di Spirit che aveva sempre desiderato fare. La sua prima del dopoguerra venne pubblicata il 23 dicembre 1945. Da allora, scrisse o disegnò o inchiostrò praticamente ogni episodio fino al 12 agosto 1951, quando affidò quasi del tutto Spirit ai suoi assistenti.“Per me, come autore di fumetti, fu un periodo meraviglioso: ero libero di fare tutto quello che volevo. Non c’era censura e nessun vincolo editoriale da parte del Des Moines Register & Tribune Syndicate: non sapevano nulla di fumetti, per loro l’esperto ero io”.Una delle poche volte che Eisner finì nei guai col syndicate fu in effetti prima della guerra, quando aveva scritto due storie consecutive su una scimmia che si innamora-va di una ragazza: Orango, l’uomo scimmia e Il ritorno di Orango, la scimmia umana.“Busy Arnold mi chiamò in ufficio dicendo che il quotidiano di San Antonio si opponeva furiosamente a quello che a loro appariva una forma di propaganda per la promiscuità, la mescolanza razziale”.C’era poi la questione di Ebony, la spalla di colore, nonché tassista nelle storie di Spirit. Un giorno, Eisner se lo sentì rimproverare da un vecchio compagno di liceo che a Filadelfia era diventato sindacalista: “Era indignato con me perché scrivevo ‘sui negri’ in quel modo” ricorda Eisner. L’ex amico del liceo non apprez-zava per nulla la sfacciata caricatura di Ebony.“È davvero tremenda” si lamentava.La stessa settimana, Eisner ricevette una lettera dal redattore di un giornale afro-americano di Baltimora che si complimentava con lui per il “garbato” trattamento del personaggio.

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Eisner, che non si era mai preoccupato granché per la sua rappresentazione di Ebony, aveva invece problemi con la serie in quanto tale: “Dopo due anni di Spi-rit trovavo sempre più difficile gestire un eroe che cammina per strada, indossa una maschera e affronta situazioni reali, come prendere la metropolitana”.

• • •Libero dagli obblighi militari, Eisner si ritrovò però socialmente isolato come pri-ma della leva. L’Esercito l’aveva cambiato sotto molti punti di vista, costringendo-lo ad aprirsi e a scoprire l’animale sociale ormai completamente sviluppato dentro di sé. Durante il servizio militare si era fatto molti amici, ma la vita da civile lo trovò ancora una volta prigioniero delle sue stesse creature, e in particolare delle sette pagine settimanali di Spirit. Non c’era nessuno studio a cui fare ritorno: tutti i ragazzi del vecchio ufficio di Tudor City si erano trasferiti nel Connecticut da Busy Arnold, o erano diventati freelance. Bob Powell era ancora nell’Esercito, Lou Fine stava per lasciare il settore e Jack Cole non vedeva l’ora di mollare Spirit. Non che Eisner avesse mai socializzato granché con loro, certo: erano dipendenti o collaboratori, non amici.Alla ricerca di un posto in cui lavorare, un agente immobiliare gli trovò un ufficio al 37 di Wall Street: “Era un indirizzo importante. Quando entrai nel palazzo, mi resi conto che durante la Depressione avevo venduto giornali proprio lì davanti”.Il disegnatore John Spranger fu il suo primo nuovo assunto e si occupò delle ma-tite di Spirit mentre Eisner cercava di riprendere i ritmi della serie.

• • •Jerry Grandenetti è un altro dei disegnatori che ebbero la possibilità di esordire nel fumetto grazie a Eisner. Prima di conoscerlo, era un disegnatore tecnico presso uno studio di architetti paesaggisti che sognava a occhi aperti di disegnare fumetti.Un giorno del 1945, Grandenetti non andò al lavoro e, infilatosi una cartella sotto il braccio, si presentò alla Quality Comics, dove Busy Arnold, abbastanza colpito dalla qualità dei suoi lavori, gli disse: “C’è un certo Will Eisner che sta cercando un assistente”. Gli diede l’indirizzo del nuovo studio di Eisner e mise la carriera di Grandenetti lungo una nuova direzione.All’inizio, Eisner usò Grandenetti per gli sfondi (dopo tutto, era un architet-to paesaggista), per dargli il tempo di imparare il mestiere. Senza parlare di un trucchetto o due che doveva necessariamente imparare, non avendo mai neppure cercato di inchiostrare, fino ad allora.“Non mi diceva niente” ricordò in seguito Grandenetti. “Bill aveva da fare a scrivere le storie, e lasciava tutto a me. Non fece mai critiche. Ripensandoci, col senno di poi, mi diede un sacco di fiducia”.

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Nelle pagine di Spirit che Grandenetti riceveva da Eisner, tipicamente le teste e le figure erano già disegnate e inchiostrate. Sullo sfondo. Eisner scarabocchiava le indicazioni su cosa andava lasciato vuoto o riempito di nero.Poco dopo l’arrivo di Grandenetti, John Spranger lasciò lo studio per disegnare The Saint, una striscia quotidiana.Il letterista Abe Kanegson divideva il compito con Ben Oda, mentre un giovane Jules Feiffer – destinato a diventare un grande cartoonist e a vincere il premio Pulitzer – entrò nello studio poco prima che si trasferisse al 90 di West Street, circa un anno dopo l’arrivo di Grandenetti. I disegnatori Klaus Nordling e Andre LeBlanc cominciarono a collaborare regolarmente a Spirit e ad altri progetti di Eisner più o meno in questo periodo.Marilyn Mercer arrivò come segretaria nel 1946 ma, come tanti altri che avevano cominciato in un qualche studio di Eisner svolgendo lavori umili, anche lei si scoprì sceneggiatrice.Ecco come la Mercer ricordava quel periodo in un articolo intitolato The Only Real Middle-Class Crimefighter per il “Sunday New York Herald Tribune Magazi-ne” del 9 gennaio 1966:

Da quello che ricordo, io scrivevo sceneggiature e Jules era il ragazzo dello studio. Da quello che ricorda Jules, lui faceva il disegnatore e io la segretaria. Will invece non ricorda granché. È una sua ricostruzione a posteriori che Jules sia poi diventato un’eccellente sceneggiatore e che io facessi un buon lavoro nel tenere la contabilità. Nessuno di noi, secondo gli “Standard Eisner” sapeva disegnare.

In seguito, la Mercer passò a lavorare come freelance e nei primi anni Sessanta presentò al suo ex capo un’altra brillante promessa, Gloria Steinem.“All’epoca era l’assistente di redazione della rivista Help! Di Harvey Kurtzman” ricorda Eisner.“Parlammo per qualche minuto e Marilyn mi disse: ‘Secondo me dovresti assu-merla’. In tutta onestà, all’epoca non mi colpì particolarmente: mi sembrò chiusa, per nulla la persona brillante ed estroversa che diventò in seguito. Ma certamente di ottimo aspetto, attraente. Questo l’avevo notato”.

• • •La primavera del 1949 vide il lancio di una delle maggiori cantonate di Eisner, la linea di fumetti dalla vita brevissima “Will Eisner Productions”.Tra i titoli, Baseball Comics, con protagonista Rube Rooky (ai disegni, tra gli altri, Feiffer, Blaisdell e Grandenetti) e Kewpies. Sì, Kewpies, gli adorabili personaggini

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creati nel 1909 dall’illustratrice Rose O’Neill per la rivista Ladies Home Journal: i Kewpies furono tra le prime star multimediali, riprodotti praticamente su qualsi-asi cosa, dalle bambole alle riviste, alla porcellana, alle carte da parati.“Volevo pubblicare dei fumetti miei” spiegò in seguito Eisner.“I disegni erano buoni ed ero convinto che ci potesse essere spazio per un perso-naggio tratto dai Kewpies, e quello che facemmo fu animarli, dare loro vita.Cercai di affiancare a Spirit un’attività editoriale ma Kewpies e Baseball Comics furono fallimenti clamorosi. Ci rimisi anche la camicia”.

• • •Tra Will Eisner e uno degli autori di maggior successo e prestigio uscito dal suo studio del dopoguerra c’è sempre stato un rispetto divertito, a volte bur-bero, e ammirazione.E come da allora divenne loro abitudine, ciascuno dei due ha sempre avuto una versione diversa su quasi qualsiasi cosa, dal loro primo incontro a di chi fosse la colpa se Spirit non portava i calzini.Lo studio di Will Eisner si trovava al 37 di Wall Street e un certo Jules Feif-fer, un disegnatore giovane e inesper-to, si presentò alla ricerca di un lavo-ro. “Le sue cose non erano granché” ricorda Eisner ridendo. “Così lo presi perché facesse il galoppino. Ma dopo un po’ cominciò a scrivere dei dialoghi per Spirit assolutamente stupefacenti. E colorava. Poi mi tradì andando in giro a dire a tutti che Spirit non porta-va i calzini!”.La vera storia, secondo Feiffer, “richie-

de un bel po’ di chutzpah, di faccia tosta in più”. Quando si presentò da Eisner, Feiffer aveva appena finito il liceo: “Con mio grande stupore, scoprii che trovarlo non era difficile. Arrivato allo studio, aprii la porta e lui era lì. Era seduto nella prima stanza, dove di solito sta la segretaria: non c’era nessuna finestra, solo luce diffusa, e stava lavorando a delle matite di John Spranger”.Feiffer adorava le storie anteguerra di Spirit e pur trovando che successivamente

La parodia di Harvey Kurtzman di The Spirit appare in origine su Lana n.2 (1948), per poi essere ristampata

nella raccolta Hey Look! della Kitchen Sink.

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il disegno fosse migliorato, secondo lui le storie non avevano la stessa forza. Gli sembravano più scoordinate e improvvisate; secondo lui “Eisner aveva delle idee grandiose ma lo sviluppo, la narrazione non erano alla sua altezza”.E da bravo ragazzino presuntuoso qual era, Feiffer lo disse a Eisner: “Le storie di Spirit non sono buone come una volta. Perché non scrive più buone storie?”. Se-condo Feiffer, Eisner doveva tornare alle origini, e la reazione di Eisner fu di quel-le prevedibili: “Se pensi di potere fare di meglio, scrivine una”. Ed è esattamente quello che fece il ragazzino saccente: totalmente sicuro di sé, nella sua arroganza, tornò a casa e scrisse una storia di Spirit. Nonostante la consapevolezza, all’epoca, delle carenze nel suo disegno, era più che certo di essere in grado di scrivere.Feiffer scrisse la storia come avrebbe potuto scriverla il vecchio Eisner, infon-dendovi lo stile dei radiodrammi. Con suo enorme piacere – e stupore – Eisner commentò: “Niente male, ragazzo. Facciamola”.Incoraggiare Feiffer a scrivere invece di sentirsi offeso fu una tipica reazione di Eisner.“Feci lo spaccone; lui era un maestro” ricorda Feiffer. “Ma era convinto che potes-si fare qualcosa di buono, e aveva ragione. Da parte sua, fu un gesto incredibile: non mi offrì soldi ma a me interessava stare nello studio, sgommare le pagine, im-parare qualcosa, per cui mi andava bene. Ricordo che in metropolitana, tornando a casa, nel Bronx, pensavo che mi sarebbe caduto un mattone in testa e ci sarei rimasto secco. Non potevo essere così fortunato!”.Eisner era rimasto colpito per davvero: “Avevo pensato, Cristo, questo sa scrivere! Aveva un orecchio eccezionale per i dialoghi colloquiali”.Tre mesi dopo, la luna di miele era finita e l’idea che il fumetto fosse un lavoro si era fatta strada. Con la consueta spavalderia, Feiffer chiese a Eisner di pagarlo 20 dollari alla settimana.E Eisner disse: “No”.“E io me ne vado” rispose Feiffer. E se ne andò. Con grande stupore e sollievo di Feiffer, ben presto Eisner lo richiamò.In quel periodo gli incassi erano quello che erano e non poteva permettersi molte persone a tempo pieno, ma aveva bisogno di un assistente. E assunse Feiffer per 20 dollari alla settimana.All’età di 31 anni, Eisner era considerato roba vecchia dai giovani del settore – alcuni dei quali lavoravano nel suo studio – secondo cui, nel 1948, aveva fatto il suo tempo. “Al primo colloquio, guardando le mie cose, Will mi fece capire che non avevo alcun talento” ricorda Feiffer. “Ma quando cominciammo a parlare delle sue cose fu chiaro che avevo un intero dossier su di lui, fin da Hawks of the Sea. Ed era anche chiaro che mi aveva assunto in qualità di groupie: nello studio ero l’unico lettore di fumetti”.Nel giro di un mese, a mano a mano che la fiducia di Eisner aumentava, cominciò

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persino a disegnare e a fare i layout delle storie di Spirit, sulla classica carta Bond usomano. Poi Eisner prendeva tutto nel suo ufficio, lo leggeva, apportava le cor-rezioni e ridava il tutto a Feiffer per la revisione e il vero e proprio layout su fogli in formato, che poi Eisner avrebbe preso in consegna e rifatto adeguatamente. “Riscriveva anche i dialoghi. A volte gli venivano meglio, altre no”. D’altra parte, ogni volta che Eisner vedeva Feiffer avvicinarsi alle tavole – “Una cosa che sogna-vo da quando avevo cinque anni” – diventava di ghiaccio: “Non riuscivo a fare neanche i neri. Neppure la cosa più semplice. Stranamente, e curiosamente, non avevo alcuna predisposizione per la cosa che desideravo di più fare, cioè gli albi a fumetti. Ed è così anche oggi. Nel corso degli anni ho avuto occasione di dire più volte che se fossi stato più sciolto come disegnatore di fumetti, potevo diventare un cane. Dovetti scegliere la qualità, ma non fu la mia prima scelta”.

• • •Grandenetti ricorda che nello studio erano tutti relativamente tranquilli, e si facevano poche chiacchiere.“Io e Jules avevamo frequentato il Pratt Institute, mentre Spranger si faceva i fatti suoi, tranne quando tornò da un viaggio in Europa ed era orgogliosis-simo delle foto che aveva scattato. E della Studebaker nuova che si comprò un giorno.Poi c’era Marilyn Mercer, e Andre LeBlanc, un grandissimo disegnato-re, ma con uno stile molto diverso da quello di Eisner”.Manny Stallman fu assistente di Eisner per circa un anno. Un tipo molto pla-cido, ma non proprio un disegnatore e tutti gli volevano talmente bene da avere paura a dirgli che i suoi disegni non valevano nulla.Secondo Mark Evanier: “Se qualcuno gli avesse detto che aveva fatto una gamba troppo lunga, sarebbe scoppiato in lacrime. Sospetto che le sue cose alla fine non siano mai arrivate alla pagina finale, ma era incredibilmente orgoglioso di lavorare per Will”.Stando a Evanier, lo stile di Stallman era rudimentale ma innovativo dal punto

Prima pagina della section di Spirit del 29 dicembre 1940, per il quotidiano The Baltimore Sun.

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di vista grafico. “Lavorò per la DC tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta e a quell’epoca la redazione era parecchio rigida: tutto doveva essere dise-gnato dentro a dei quadrati. Ma Manny era convinto che toccasse a lui predicare al mondo ‘l’approccio Will Eisner’. E in alcune delle sue storie riuscì a fare queste cose strane che non erano permesse a nessun altro, perché nessun altro sarebbe scoppiato a piangere se qualcuno gli avesse detto che non poteva. Di Will parlava come di un santo e anch’io, se fossi stato Will, e ci fosse stato quest’uomo che dise-gnava per me, non avrei avuto il cuore di dirgli che il suo lavoro non era granché”.Ogni volta che per lo studio c’erano brutte notizie, dirle ai ragazzi toccava ad Alex Kotzky, l’ex ragazzo di bottega ormai diventato un veterano: a Eisner non piaceva farlo.Quando nel 1948 Eisner cominciò a lavorare a John Law, girava le commissioni esterne a Grandenetti. Cose come una serie di rincalzo della Fiction House dal titolo Secret Files of Drew Murdock: “Volevano che la facesse Bill” ricorda Grande-netti “ma per quanto imitassi malissimo Bill, riuscii a reggere il tempo necessario a migliorare un po’. Inoltre, raramente firmavo. La mia prima storia di Murdock venne così male che Bill rifece le mie chine. Col secondo numero, riuscivo già a fare da solo. Ne feci cinque o sei e arrivai a sviluppare uno stile mio, diverso dal ‘look Eisner’”.Può darsi, ma Grandenetti restò con Eisner abbastanza da vedersi affidare le mati-te di Spirit e farsele inchiostrare dal nuovo ultimo arrivato, Al Dixon.Grandenetti andò poi a lavorare per la DC Comics, dove il suo stile personale – e il suo reddito – esplosero: “Prendere 35 dollari alla settimana da Bill mi andava bene. L’ambiente era tranquillo e una volta ricordo che cercai di avere un au-mento da Bill. Credo che mi diede 5 dollari in più alla settimana. Per me fu una palestra assolutamente insostituibile. Non avevo idea del mercato e di quanto si venisse pagati per pagina prima di andare alla DC. Figuratevi cosa voleva dire per me prendere 35 dollari per pagina. E diventai anche veloce, quindi a a un certo punto stavo facendo un po’ di soldi!”.

• • •Nel 1947, Feiffer lasciò Eisner per frequentare il Pratt Institute a tempo pieno per nove mesi, nella speranza di lanciarsi nella pubblicità. Cercò lavoro in quella direzione ma, non trovandone, tornò da Eisner nel 1948: “A quanto pare, l’unica cosa che sapevo fare era scrivere Spirit”.I cartoonist non sono sempre brillanti o eloquenti. Eisner sì. Sempre. E quando trovò un ragazzo come Jules Feiffer, in grado di discorrere in maniera intelligente del loro linguaggio preferito, la cosa gli fece un piacere enorme.“Non ricordo Will come un insegnante. Non è mai stato il mio insegnante; piut-

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tosto, il mio mentore. Imparavo osservandolo lavorare, facendogli domande. Tro-vo sconvolgente il fatto che oggi non facciano domande perché è ‘out’. Io avevo la possibilità di parlare con uno dei miei eroi e non smisi mai di tempestarlo di domande. Gli chiedevo qualsiasi cosa.Mi portava dai fotolitisti. Conosceva bene il processo di stampa, e come veniva fabbricata la carta. Io, allora come oggi, non ci capivo niente. Ci provavo, poi scuotevo la testa. Ma lui era incredibilmente paziente. E gli piaceva insegnare. Non c’era niente di pedante in lui: era il ‘rabbi’ del fumetto. Credo che fosse una delle cose che rendeva così gradevole il nostro lavoro. Insieme parlavamo di Al Capp e Milton Caniff”.All’inizio degli anni Cinquanta, Feiffer si sentiva più a suo agio come sceneg-giatore che come disegnatore, ma quando Eisner gli concesse spazio sul retro dell’episodio di Spirit per fare “Clifford” – una striscia sulle dinamiche infantili – fece disinvoltamente sfoggio delle sue capacità ogni settimana sotto gli occhi di milioni di lettori.“Era incredibilmente esaltante e assolutamente terrificante” ricorda Feiffer. “Ma era sostanzialmente un work in progress. Non ero mai sicuro dei disegni: non ave-vo ancora consolidato uno stile mio e cercavo di sembrare come una dozzina di altri autori. Ero molto più sicuro della scrittura che del disegno: era qualcosa che si sviluppava lungo la strada e Will mi diede la possibilità di farlo”.Abe Kanegson, il letterista dello studio, aiutava Feiffer a sviluppare dei criteri per il controllo della qualità: provenivano entrambi dal Bronx e avevano frequentato tutti e due il liceo James Monroe. Feiffer mostrava a Kanegson uno dei suoi epi-sodi di Clifford e Kanegson diceva: “Puoi fare di meglio”. Feiffer, il cui ego in quel periodo era probabilmente più sviluppato delle capacità grafiche, se la prendeva con Kanegson ma fu in questo modo che imparò a essere esigente con se stesso.“Come molti di noi Abe era di sinistra” ricorda Feiffer, le cui convinzioni liberal segnarono poi gran parte del suo lavoro, “ma di una sinistra radicale, dottrinaria. E balbettava parecchio. Aspettare che riuscisse a finire una frase poteva essere un tormento. Ma era uno sveglio, di ottime letture. In reazione alla balbuzie, si im-pegnò e divenne piuttosto bravo a cantare le canzoni di Gilbert e Sullivan”.Quando Grandenetti lasciò lo studio, Kanegson gli subentrò come disegnatore per gli sfondi di Spirit.“Dopo Spranger, toccò a Grandenetti, Kanegson e me. Io ero il meno necessario e quello che facevo nello studio, in realtà... io ero il Chris Hitchens della situazione e non facevo mai mancare un’esauriente critica fumettistica. Fui io il primo a par-lare a Will del fumetto come di una forma d’arte. Lui stava già producendo per la rivista American Angler, voleva tirarsi fuori dal fumetto e fare l’editore”.Feiffer ha sempre ricordato gli anni dello studio con grande affetto: era normale

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in quel periodo, vedere alcuni dei migliori autori della generazione successiva – Harvey Kurtzman, Wally Wood o Dave Berg (prima di MAD) – entrare e uscire dallo studio di Eisner.

• • •Uno degli argomenti di discussione più scherzosi tra Eisner e Feiffer nel corso degli anni è stata la presunta ascendenza religiosa di Denny Colt.“In un articolo Feiffer scrisse che lo sapevano tutti che Spirit era ebreo anche se aveva un bel nasino irlandese all'insu!” si è lamentato Eisner.Ancora oggi, Feiffer insiste di avere ragione su questo punto.“Ebreo, vi dico. E io l’ho sempre saputo! Se Arthur Miller avesse scritto Morte di un commesso viaggiatore negli anni Sessanta, Willy Lohman sarebbe stato ebreo. Se Herb Gardner avesse scritto L'incredibile Murray: l'uomo che disse no negli anni Settanta o Ottanta, Murray Burns sarebbe chiaramente stato ebreo. Quel tipo di ebraicità pubblica ed evidente semplicemente non era parte integrante della cultura del loro tempo: i tipi ambiziosi e integrati stavano alla larga dalla propria ebraicità. Pensate a tutti quegli scrittori televisivi del Sid Caesar Show: erano tutti ebrei, ma di riferimenti ebraici non ce n’è neanche uno. Sono tutti tedeschi. Sem-plicemente, l’ebraicità non faceva parte della cultura del tempo e rivolgendosi al grande pubblico andava evitata. Così, tutti i personaggi erano gentili, con nomi come Wesley, Clark e Denny. Spirit sembrava Dennis O’Keefe. Will faceva quello che facevano tutti: gli ebrei servivano a far ridere e lui era lo schlepper [yiddish per ‘stupido’, ‘imbranato’ – NdT]”.Come Eisner, Feiffer era ebreo anche se la sua ebraicità da ragazzo non lo interessò mai e non divenne mai religioso. Ma quando li vedeva sapeva certamente ricono-scere simbolismi, naches – il termine yiddish che indica le cose belle della vita – e stili di vita ebraici. E nel lavoro di Eisner ne vedeva un bel po’.“Ovviamente, la Central City di Will e la mia New York erano più in sintonia della Cina o dell’Estremo Oriente di Milton Caniff. Caniff era di Columbus, Ohio e per quanto adorassi il suo mondo, non mi sentivo un suo cittadino. Will arrivava dal Bronx, come me. Central City era un posto in cui avrei potuto nasce-re e crescere: le strade luride, l’acqua che colava dappertutto. Da ragazzo, leggen-do Spirit non pensavo a niente di ebraico ma, piuttosto, a quel tipo di esperienza urbana. Quel tipo aveva la mia stessa storia, e io la sua”.Difficilmente Feiffer ha parlato di Eisner senza qualche riferimento alla presunta tirchieria del suo antico maestro. Nell’introduzione a The Art of Will Eisner, Feif-fer lo etichetta addirittura come il suo “capo avaro”.“Will era il primo a dire come per lui fosse normale attaccarsi anche all’ultimo centesimo” ricorda Feiffer. “Per esperienza, posso dire che era una delle vere e

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proprie leggende dello studio. Quando ormai stavo scrivendo Spirit da un anno, gli chiesi un aumento e lui rispose che il lavoro non valeva l’aumento. Ma mi avrebbe dato il retro della pagina. Lui si sbarazzò di Jonesy e io cominciai a fare Clifford. Ebbi la mia prima distribuzione su scala nazionale a mio nome, ma non venivo pagato”.Poi c’è la questione dei calzini. Perché Spirit non indossava calzini?“Perché Jules si dimenticava di colorarli” era la versione di Eisner. “Nessuno sape-va mai cosa fare con i calzini”.“Egli parla con lingua biforcuta” rispondeva regolarmente Feiffer. “Guardate ne-gli Spirit degli anni Quaranta se ha o no i calzini”.

• • •Eisner ha dato all’editoria contributi innovativi. Le tecniche e gli standard nar-rativi da lui messi a punto comprendevano, tra le altre cosa, la narrazione di una storia in sette pagine. Settimana dopo settimana, tutte le settimane, Eisner dimo-strava che persino una storia a fumetti breve poteva avere un inizio, uno svolgi-mento e una fine, e che poteva essere sia divertente che drammatica. Raccontava le sue storie con sottotrame robuste che non perdevano un colpo e chiunque poteva prendere un numero a caso e capire cosa stava succedendo. Insomma, sia i lettori occasionali che quelli più appassionati venivano fatti sentire come a casa loro.Settimana dopo settimana, Eisner sfornava autentici classici. E per dodici anni Spirit non mancò mai una scadenza. “Ovviamente, Eisner dipendeva per questo dai suoi collaboratori, ma che importanza ha? Chi altri è riuscito a fare qualcosa del genere?” si domanda Maggie Thompson, editor del Comics Buyer’s Guide.Wally Wood (più noto per i suoi lavori su Weird Science e Weird Fantasy dell’EC Comics, oltre che per Witzend, la sua rivista underground degli anni Sessanta) entrò nello studio di Eisner dopo avere rotto con l’EC Comics. Stando a Eisner, l’EC gli aveva promesso di pubblicare una rivista ideata da Wood, per poi cam-biare idea.“Tu hai una certa esperienza”. gli disse Wood. “Posso fargli causa per questo?”“Non se hai solo la loro parola, e nessun contratto”. rispose Eisner.Mentre Wood ribolliva per la rabbia, Eisner – ancora una volta alla ricerca di un disegnatore a cui affidare Spirit, questa volta perché si accingeva a lavorare su una nuova rivista dell’Esercito – approfittò della situazione.“A proposito, Wally, ti interessa un lavoro?” gli chiese.Eisner non riusciva mai a trovare nessuno in grado di emulare a sufficienza il suo stile, ma si convinse che Wood ci sarebbe andato ragionevolmente vicino.

• • •

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Nel 1952, Eisner aveva ormai perso interesse per le storie di Spirit e non le di-segnava quasi più, tranne quando Wood rischiava di mancare una scadenza e Eisner accorreva a toglierlo d’impaccio. Wood era salito a bordo della nave di Spirit come disegnatore delle storie di Feiffer, in una delle sue storie più insolite e creativamente meno soddisfacenti, ambientata nello spazio. Feiffer scrisse que-gli episodi durante il servizio militare, proprio come Eisner un decennio prima, quando appena arruolato aveva continuato a scrivere sceneggiature per Spirit.“Lo feci di gran malavoglia” ricorda Feiffer. “Non sono mai stato un appassionato della fantascienza o del fantasy e lo spazio non mi interessava granché neppure quando effettivamente esisteva un piano di esplorazione spaziale. Era un argo-mento che trovavo noioso, noioso da scrivere. Così cercai di concentrarmi sulla storia, e i rapporti tra i personaggi: presi una storia che poteva anche svolgersi sulla terra e la spostai a bordo di un’astronave. Era un unico episodio, quello in cui Spirit va nello spazio e si imbatte in Hitler, che per questioni politiche Will cambiò in un dittatore in stile Franco”.Ormai, per Spirit si intravedeva la fine della corsa. Eisner aveva perso interesse, Wood se n’era andato e Feiffer era partito per il servizio militare.“Continuava a prendere disegnatori di seconda e poi terza mano, e la qualità era molto calata. Mi sarebbe interessato continuare se avessi avuto mano libera nelle storie. Ma Will insisteva nel cambiare le storie e fare un sacco di cose con cui non ero d’accordo. Era diventato un vicolo cieco, non mi divertivo più e continuavo a farlo solo per i soldi. Partendo per l’esercito, fu un sollievo mollare il lavoro”.Il motivo definitivo per cui Eisner interruppe Spirit nel 1952 fu che il personaggio non riusciva più a interessare nuovi giornali. La serie era arrivata a un massimo di venti giornali, senza mai andare oltre. Nel Bronx veniva allegato al Parkchester Review . Tra gli altri principali quotidiani del paese, c’erano il Chicago Sun, il Baltimore Sun, il Philadelphia Record, il Minneapolis Star e il Washington Star.Numeri alla mano, il supplemento domenicale di Spirit veniva distribuito in molte più copie di qualsiasi albo a fumetti del periodo, compreso Superman e Captain Marvel, le cui tirature raggiunsero un massimo di un milione di copie. Inoltre, mentre gli albi a fumetti erano mensili, Spirit usciva tutte le settimane. Ma a meno di vivere in un’area coperta da un quotidiano che lo distribuiva, era impossibile anche solo averne sentito parlare. Insomma, Spirit era qualcosa di parecchio strano.Il problema della prosecuzione della serie era che i costi di produzione crescevano continuamente e, dopo un po’, superarono il valore intrinseco dell’operazione. Un anno, i distributori fecero sciopero imponendo un costo extra per inserti come quello di Spirit, e questo fece aumentare ulteriormente i costi.Quando Eisner era partito per il servizio militare, la carta costava circa 75 dollari

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alla tonnellata. Quando tornò, il prezzo era quasi raddoppiato, raggiungendo i 150 dollari. Oggi, la carta dei giornali costa 500 dollari alla tonnellata.Eisner abbandonò definitivamente Spirit nel 1952.“Certo, mi dispiaceva vederlo chiudere. Fu una combinazione di cose: era chiaro che come inserto dei giornali non stava andando da nessuna parte. I costi erano troppo alti, io non riuscivo a promuoverlo e a fare aumentare le vendite e a un certo punto, mi resi conto che se c’era qualcosa che dovevo mollare, quella era Spirit. C’era anche un forte coinvolgimento emotivo: personalmente, avvertivo un senso di fallimento perché non era mai diventato quel grande successo che avevo sperato, economicamente o a livello di diffusione. Ero soddisfatto dal la-voro: ci avevo sgobbato sopra e avevo prodotto un sacco di cose interessanti, ma solo molti anni dopo cominciarono a dire che ero stato innovativo. In definitiva, mi lasciò con un senso di fallimento”.

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UNA VITA PER IL FUMETTO

OPACO

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cinqueIl figlio del pittore

Come la maggior parte dei ragazzi adolescenti intorno alla metà degli anni Trenta, Bill Eisner capì che la sua famiglia era povera solo molto più avanti

nella vita. Nel suo quartiere di Brooklyn tutti soffrivano allo stesso modo per la Grande Depressione e non indossare abiti nuovi o non disporre di quello che in seguito sarebbe stato chiamato “reddito riservato ai consumi non essenziali” per lui non era un problema.

Crescere durante la Grande Depres-sione fu duro e difficile soprattutto dal punto di vista delle ambizioni e delle opportunità personali: la mancanza di queste ultime e le risultanti, perenni restrizioni economiche costituivano una fonte di frustrazione per chiunque non fosse un incallito sognatore. Ma Fannie Ingber Eisner, la madre di Bill, non si accontentò mai di una vita di ristrettezze. Nata sulla nave con cui i suoi genitori stavano lasciando la na-tiva Romania per gli Stati Uniti, da adulta Fannie era diventata una donna imponente, con zigomi alti, carnagio-ne scura e un atteggiamento che in-cuteva rispetto. Conservò sempre una certa distanza tra sé, gli amici e persino i famigliari, e non si trovò mai a pro-prio agio con manifestazioni fisiche

d’affetto, neppure con i propri figli.

Fannie, la madre di Eisner, sul traghetto di Staten Island (prima del 1917).

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Samuel, il marito austriaco, costituiva l’unica fonte di reddito della famiglia, ma solo grazie alla tenacia di Fannie, che per tutto il loro matrimonio non cessò mai di tenerlo alla larga dai suoi sogni e da ciò che amava maggiormente fare – dipin-gere – spronandolo verso tutto quanto di più pratico potesse sostentare la famiglia.

In parte, questo derivava forse dal so-spetto con cui accoglieva chiunque incontrava per la prima volta e qualsi-asi novità. Inoltre, come il figlio mag-giore scoprì negli anni Trenta, Fannie era analfabeta: era il marito a leggerle sempre il giornale, un’abitudine fami-gliare che ai figli era sempre sembrata semplicemente curiosa, prima di sco-prire che la madre non era in grado di farlo da sola. Pur essendo una pessima

cuoca, il sogno di Fannie era gestire un forno. Il punto era che secondo lei una panetteria costituiva un’attività rispettabile, che le avrebbe conferito un certo lu-stro. Fannie si preoccupò sempre per il suo status sociale ed economico all’interno della comunità, un comportamento che il marito – un uomo e un padre esempla-re sotto numerosi altri aspetti – non manifestò mai nonostante, le pressioni e gli obblighi sociali a cui era normalmente soggetto un padre di tre figli.Fannie tormentava spesso Sam rinfac-ciandogli i suoi fratelli più agiati, soste-nendo che accettava troppo facilmente il loro aiuto, senza fare abbastanza per camminare con le sue gambe. Una vol-ta, le sorelle del marito sottolinearono divertite come Fannie avesse indossato lo stesso abito a due matrimoni, cosa che la imbarazzò e irritò moltissimo.A otto anni, il piccolo Billy era come tutti gli altri bambini della sua età: col-lezionava le figurine del baseball che raccoglieva dai pacchetti di sigarette del padre, giocava a palline, guardava le storie di cowboys a puntate al cine-ma per poi andare a giocare a indiani e cowboys.

Will Eisner all’età di un anno.

Will Eisner a cavallo(tre anni).

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Gli capitava anche di fare a botte, a volte per il fatto che essere ebreo faceva di lui un bersaglio degli scherzi altrui, a volte semplicemente perché non riusciva a controllarsi.“Stavo scambiando le figurine del baseball con un ragazzo che si chiamava Jimmy, e cominciammo a litigare” ricorda Eisner. “Lui barava e quando scesi in strada a riprendermi le mie figurine, lui scappò in casa, bloccando col piede la porta a vetri dell’ingresso. Ma commise un errore fatale: appiccicandosi al vetro, cominciò a farmi le boccacce e io, che non ci vedevo più per la rabbia, gli diedi un pugno in faccia attraverso il vetro, rompendolo e tagliandomi il polso. Spillavo sangue come una fontana e scappai a casa. Mio fratello minore Pete aveva il morbillo e restava sempre in una stanza al buio, con mia madre vicino. Mia madre – la tipica madre ebrea – mi disse come prima cosa ‘Come hai potuto farmi una cosa del genere?’ Era domenica, e mio padre corse da tutte le parti per il resto della giornata, alla ricerca di un medico. Mi ci vollero sei punti al polso, che si vedono ancora oggi”.Prima del liceo, Billy abitava con la famiglia nel Bronx e diventò un grande fan degli Yankees, andando a vedere le partite più spesso che poteva. Una volta afferrò persino un fly ball stando sugli spalti fuori campo e riuscì a farla firmare da diversi giocatori, tra cui Lou Gehrig. Abitò con i genitori anche dopo il liceo, durante la sua società con Jerry Iger e, in seguito, con Busy Arnold, e loro conservarono intatta la sua stanza durante il servizio militare. Quasi intatta.Durante un permesso, sua madre lo stupì ripulendo la stanza. “Sei così disor-dinato!” si lamentò con lui. “Ho messo a posto io la stanza, c’erano un sacco di cianfrusaglie che ho buttato via”.In preda al panico, Eisner le chiese: “Che cosa hai buttato via?”.“Be’, c’era una vecchia palla da baseball tutta scucita e ormai, alla tua età, non vai più a giocare, così l’ho buttata”.“Oh, mamma!”.

• • •Mentre il talento di Billy sbocciava sui marciapiedi di Brooklyn, da lui decorati con dettagliatissime rappresentazioni dello Spirit of St. Louis, il celebre aereo di Charles Lindbergh, Fannie non poteva fare a meno di preoccuparsi. Ammirando ma al tempo stesso temendo il talento del figlio, era convinta che gli avrebbe procurato solo una vita di difficoltà e dolore e la sola idea che Billy diventasse un artista la terrorizzava. Un fratello del marito era celebre in famiglia per essere un artista di talento, ma era perennemente sul lastrico e Fannie si convinse che questo sarebbe stato anche il destino di Billy. “Perché non ti trovi un buon lavoro? Potresti fare l’insegnante. È pur sempre un lavoro fisso”.Al buio nel suo letto, Billy ascoltava sempre le discussioni tra i genitori, in cu-

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cina: “Non dovresti incoraggiarlo!” si lamentava in continuazione Fannie. “Tu non sei mai riuscito a guadagnarti da vivere in quel modo, e finirà così anche lui!”.Visti i tempi, era un ottimo consiglio, ma Sam non l’ascoltò mai. Come tanti altri artisti, Sam ammirava le capacità economiche degli uomini d’affari ma incoraggiava il figlio maggiore a segui-re il proprio talento, ovunque questo lo portasse.Talento che Billy aveva ereditato dal padre, che aveva fatto un po’ di espe-rienza a Vienna e in seguito aveva di-pinto scenografie per i teatrini yiddish di New York. Fumatore accanito per quasi tutta la vita, Sam Eisner era un uomo cordiale e amante della compa-gnia, che parlava tedesco, yiddish e in-glese e che non aveva problemi a farsi

nuovi amici. Come artista era ambidestro e dipingeva sia con la destra che con la sinistra. Conosceva tutti i grandi attori yiddish dell’epoca, tra cui Edward G. Robinson (Emanuel Goldberg) e Paul Muni (Meshilem Meier Weisenfreund), di cui fu amico prima di cedere alle richieste di Fannie di trovarsi “un lavoro vero”. Sam non aveva mai studiato veramente e il suo talento, come disse più tardi il figlio, era “un dono di Dio”. Fino alla fine, non riuscì mai a ritrarre le persone: dipingeva unicamente paesaggi, il tipo di soggetti a cui era abituato un pittore di scenografie, o il disegnatore degli sfondi in uno degli studi di Will Eisner.La pittura di Sam diventò un lavoro quando cominciò a decorare mobili e poi case, e a fare il pellicciaio. Spesso intratteneva i figli con storie della sua vita da giovane pittore a Vienna, storie che Eisner raccontò poi nel suo romanzo a fu-metti Verso la tempesta (1991). Naturalmente, Billy desiderò sempre e da subito visitare Vienna, che il padre aveva descritto come un posto incredibilmente ro-mantico, dove per strada ci si sedeva nei bar a sorseggiare caffè e a discutere con gli intellettuali.Quello che Fannie non capì fino a molto tempo dopo era che il talento artistico di Billy gli tornò utilissimo per tutta l’infanzia e l’adolescenza. Era un tipo di abilità che lo faceva rispettare dagli amici e che non passava inosservato, rendendogli più

Fannie, Sam e Will Eisner(tre anni).

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semplice conoscerne di nuovi.Pessimo atleta, Billy era sempre l’ultimo a essere scelto per giocare a stickball, sto-opball, football: qualunque fosse lo sport, la storia era sempre la stessa. Quando ci sono dei ragazzi che hanno voglia di correre e delle palle da prendere a calci, colpire o lanciare, e si formano le squadre, chi non è fisicamente all’altezza degli altri viene sempre lasciato per ultimo. Da questo punto di vista, le strade e i vicoli di Brooklyn non erano diversi dai campi dello Iowa.Proprio per questa sua minore atleticità, Billy era circospetto nei confronti de-gli altri ragazzi e solo quando fu più grande a questi timori si aggiunsero quelli economici. Così, era sempre alla ricerca di nuovi modi per farsi notare ed essere rispettato nel quartiere per qualcosa che non fossero i muscoli e l’ottusità. Ok, pensava, voi sapete giocare a calcio, ma io so disegnare.Billy era affezionatissimo al padre, in cui intuiva uno spirito artistico affine e a volte si arrabbiava con la madre, convinto che trattasse male Sam, urlandogli dietro in continuazione. Su pressione della madre, e per cercare di aiutare la fami-glia, Billy cominciò a vendere giornali all’angolo di Wall Street, tra cui il Brooklyn Eagle, il New York Telegram, il New York Sun, il New York Daily Mirror, il New York Daily News e il New York Times e per questo, per molto tempo fu arrabbiato con la madre: “Era come se i miei genitori mi tagliassero le gambe, ma in famiglia ogni soldo poteva servire”.Fu un’esperienza dolorosa, prima di accorgersi sui giornali che vendeva dei grandi cartoonist dell’epoca: George Herriman, Alex Raymond, Milton Caniff e E. C. Segar. Fu allora che Billy cominciò a interessarsi di fumetti.Sam aveva notato i disegni di Billy, fatti un po’ a casaccio, in giro per la casa, quando aveva 10-11 anni, e gli aveva comunicato: “Ti insegnerò a disegnare”. Incoraggiò ulteriormente il figlio, accompagnandolo alla sua prima scuola d’arte. Esperienza non particolarmente felice, e non per qualcosa che Billy fece o non fece. Il punto è che la scuola era assolutamente assurda. L’insegnante aveva co-minciato legando la mano destra di Billy a un estremo di uno strano congegno, e la propria mano all’altro estremo. Entrambi reggevano in mano una matita, in modo che la mano di Billy tracciasse dei cerchi in accordo con i movimenti dell’insegnante. Sam era in preda all’orrore. Naturalmente, l’unico motivo per cui l’aveva portato a quella scuola era che costava poco.Un giorno, con enorme gioia di Billy, Sam disse al figlio: “È una splendida gior-nata, andiamo a dipingere al parco”. In occasioni come questa, da artisti che insie-me, fianco a fianco, praticavano la loro arte, Sam e Billy chiacchieravano, spesso della gioventù di Sam in Austria. Billy poteva restare ad ascoltarlo per ore e ore, mentre il pesante accento yiddish sottolineava ogni racconto.Arrivato negli USA, Sam aveva frequentato le scuole serali e aveva imparato l’in-

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glese più rapidamente possibile, ma per quanto si sforzasse, non riuscì mai a libe-rarsi del suo forte accento. Un giorno, regalò al figlio un libro su Giulio Cesare: “Me l’aveva regalato l’insegnante della scuola serale perché avevo imparato più rapidamente di tutti gli altri immigrati. Puoi colorarlo, se vuoi”.Occasionalmente, Sam portava il cavalletto al Metropolitan Museum e copiava opere famose per 1,50 dollari. Faceva sempre di tutto per esporre il figlio alle cose belle della vita, dagli artisti classici alla musica. “È davvero difficile descrivere mio padre” ricorda Eisner. “Era un uomo povero anche quando aveva denaro. Un uomo semplice che amava la musica classica ma che probabilmente non era colto quanto appariva ad altri famigliari. D’altra parte, in famiglia quasi tutti erano analfabeti, a cominciare da mia madre”.

• • •Quando Billy aveva dodici anni, gli Eisner – Sam, Fannie, Billy, Julian e Rhoda – abitavano a Brooklyn, e in questo periodo si iscrisse alla Cooper Union, una scuo-la d’arte di Manhattan, ma la cosa durò poco: “Ricordo che ero in metropolitana, sulla linea BMT, con Ed, un mio amico di allora, mentre con una mano stringevo forte il sacchetto scuro del pranzo che mia madre insisteva sempre perché mi portassi dietro. Io ed Ed avevamo deciso che saremmo diventati artisti. Ma io fui rifiutato perché troppo giovane”. Quando Eisner compì 80 anni, The Cooper Union for the Advancement of Art di Manhattan – l’unico istituto di istruzione superiore privato gratuito negli Stati Uniti dedicato esclusivamente alla formazio-ne di professionalità in campo artistico, architettonico e ingegneristico – diede un ricevimento in suo onore. Nel suo discorso di ringraziamento, raccontò come fosse stato rifiutato tanti anni prima: “Il tipo dell’ufficio mi disse ‘Torna quando sei più grande.’ Be’, eccomi qua!”.

• • •Una delle storie più toccanti raccontate da Eisner in Verso la tempesta è quella della lite insieme al fratello Julian con dei bulli di strada, che trovavano molto divertente che un ragazzo ebreo si chiamasse Julian, o “giù-liiin”, come dicevano loro [Jew, ebreo in inglese, si pronuncia “giù” – NdT]. Dopo averle prese per es-sere accorso in difesa del fratello, Billy prese una decisione strategica: “Da questo momento cambierai nome e ti chiamerai Pete... da queste parti è un nome molto migliore!”. Il nome restò e Will intraprese una difesa del fratello minore che durò una vita intera, trasformandosi in un rapporto professionale. Passarono insieme la maggior parte della loro vita di adulti e furono grandi amici.“Abitavamo in questo quartiere italiano, parecchio difficile, e se il tuo nome non piaceva, poteva essere un problema” ricordava Pete anni dopo. “Will pensò che

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il modo migliore per vivere tranquilli fosse cambiarmi il nome, e aveva ragione”.Dal punto di vista legale, il suo nome rimase sempre Julian. Anche se il certificato di nascita riportava “Julius”, che poi i genitori cambiarono in Julian Kenneth Eisner. “Mia madre, mio padre e alcuni parenti mi chiamavano Julian. In realtà il primo nome doveva essere Kenneth”. Il certificato di nascita di Will era molto più semplice: c’era scritto semplicemente: “Maschio, Eisner”, secondo una prassi dell’epoca per cui ai genitori che ancora non avevano deciso, era possibile non assegnare un nome al neonato.Nonostante l’immagine non entusiasmante che in seguito Eisner diede dei suoi genitori nei suoi lavori autobiografici, i tre fratelli Eisner – Will, Pete e la sorellina minore Rhoda – furono sempre molto vicini. “Ci aiutavamo a vicenda” ricordava Pete. “Anche se economicamente mia padre non se la passava bene, mio fratello aiutava moltissimo tutta la famiglia”.Non che fosse sempre per libera decisione di Eisner.“A un certo punto, mia madre mi disse: ‘Tuo padre non riesce a guadagnarsi da vivere, devi essere tu l’uomo di famiglia’. Un buon modo per fare a pezzi un ra-gazzo” commentò in seguito Eisner.Nel 1946, alla fine del servizio militare in Aviazione, Pete approfittò della borsa di studio per i reduci e si iscrisse al College ma, come Bill, si trovò coinvolto negli eterni sforzi della sua famiglia per sopravvivere. Così lasciò gli studi e cercò un lavoro. Entrambi i fratelli Eisner si impegnarono perché Rhoda avesse tutte le occasioni che a loro erano sfuggite e fecero in modo che frequentasse il college e si diplomasse, prima in tutta la famiglia.Anche dopo che i figli avevano servito il paese nelle forze armate ed erano tornati a casa per pensare a lei e a suo marito, Fannie continuò a esercitare una forte influenza su Will e Pete. Aveva deciso che il figlio maggiore doveva sposarsi per primo, il che mise sotto pressione Will, ma procurò un certo sollievo a Pete: “Non le piaceva affatto che fossi così felice di essere single” ricordava ridendo il fratello di Will. Anni più tardi, con Will ormai sposato, Fannie rivolse le sue attenzioni a Pete e una sua amica trovò una ragazza da presentargli. A Pete non piaceva, ma restò colpito invece dalla sua amica Lila, che alla fine sposò. Ma ogni cosa a suo tempo: il fidanzamento di Pete e Lila venne messo in congelatore quando Fannie decise che prima doveva sposarsi Rhoda.Non sono tanti i fratelli vicini quanto lo erano Pete e Will, ma nonostante l’ami-cizia non si trovavano totalmente d’accordo su come Will rappresentava Fannie nei suoi libri.“Non esistono due ragazzi uguali” ricorda Pete. “Io ero il cocco di mia madre, le facevo un sacco di favori e la stavo ad ascoltare. Mio fratello e mia sorella Rhoda erano più indipendenti e volevano fare le cose a modo loro. Mia madre aveva una

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personalità dominante e voleva che le cose si facessero a modo suo. Era a suo agio con la sua famiglia ma con gli altri parenti ebbe sempre dei problemi. Non era una persona calorosa, e anche quando qualcuno le piaceva, restava molto critica”.Pete, peraltro, andò sempre d’accordo con tutti. E anche se Will era noto per essere un tipo amichevole e alla mano, non ebbe mai la pazienza di Pete. Per tutta la vita, Pete è stato il fratello che aveva sempre il tempo per sedersi a discutere, per cui il tempo sembrava fermarsi. Per Will, l’orologio non smetteva mai di ticchet-tare: aveva sempre qualcosa da fare, delle scadenze da rispettare e non gli piaceva mai restare semplicemente ad aspettare.

• • •Per Billy non era difficile farsi dei nuovi amici ma prima di iscriversi al liceo non conosceva nessuno con ambizioni artistiche. Il DeWitt Clinton, il liceo nel Bronx a cui si iscrisse, gli aprì gli occhi su un altro pianeta. Non solo conobbe giovani con aspirazioni simili alle sue ma scoprì anche in sé un istinto competitivo che l’avrebbe animato per il resto della sua vita. E fu da quel momento che diventò “Will Eisner”, e non più Billy.

Will era attirato da quegli studenti a cui piaceva scrivere: erano quelli che elaboravano le idee e in questo voleva seguirli, e cercare di imitarli. Fu questo a distinguerlo sempre dagli altri.Il DeWitt Clinton restò un istituto esclusivamente maschile fino al 1983 e l’elenco delle persone che l’hanno frequentato è assolutamente notevole per la profondità e l’ampiezza del loro impatto culturale sulla società ameri-cana. Tra i diplomati illustri troviamo Jack Rudin, Lewis Rudin, James Bald-win, Edward Bernays, Avery Fisher, Ralph Lauren, Burt Lancaster, Adolph Shayes, Richard Rodgers, Neil Si-mon, A.M. Rosenthal, Basil Patter-son, Paddy Chayefsky, Daniel Schorr, Ed Lewis, Fats Waller, Jan Murray, Avery Corman, Nate Archibald, Judd Hirsch, Theodore Kupferman, Stubby Kaye, Lee Leonard, Gil Noble, Walter

Illustrazione di Will Eisner per l’annuario licealeThe Clintonian.

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Hoving, Don Adams, Martin Balsam, Stanley Simon, Theodore Kheel, Maurice Nadiari, Arthur Gelb, Garry Marshall, Bernard Kalb, George Cukor, Larry Hart, Jan Peerce, Burton Roberts, Bruce J. Friedman, Steve Sheppard e Stan Lee.Al DeWitt Clinton, Eisner era il classico “Big Man On Campus”, uno degli stu-denti più in vista: “Ero il disegnatore migliore in una scuola da cui evidentemente uscivano ottimi talenti. Molti degli scrittori mi chiedevano di illustrare i loro lavori ma io nicchiavo, non mi interessava. Mi ero convinto che farmi conoscere unica-mente come illustratore mi avrebbe sminuito: quando leggevo le loro cose tra me e me mi ripetevo che anch’io potevo scrivere così, che non avevo bisogno di loro”.Nonostante le grandi ambizioni, Eisner non riportava ottimi voti e, per sua stessa ammissione, era un pessimo studente e le uniche cose che lo interessavano era-no le materie artistiche. Entrò nella redazione di The Clintonian, la rivista della scuola, e pubblicò la sua prima striscia firmandola “William Eisner”. Anni dopo ricorderà: “Per me, disegnare, fare illustrazioni e diventare un autore di strisce rappresentava una via d’uscita dal ghetto. Tutti eravamo alla ricerca di una via d’uscita ed era questa la mia motivazione”.Durante un corso di giornalismo che frequentarono insieme, Eisner e Ken Gi-niger fondarono una rivista letteraria, The Hound and the Horn (in seguito, Gi-niger diventò presidente di una divisione della Prentice-Hall, fondando poi una propria casa editrice). La rivista pubblicava articoli di Giniger, naturalmente, e di Sigmund Koch, destinato a diventare un noto letterato. Un altro collaboratore, Arnold B. Horwit, anni dopo si ritrovò nello staff del musical Make Mine Man-hattan. La rivista diede a Eisner la possibilità non solo di disegnare ma anche di scrivere e gli servì non poco per mettere a fuoco e praticare ciò che gli interessava. I giovani editori non potevano permettersi lastre metalliche e Eisner si procurò dei pezzi di legno su cui incidere a mano le pagine per la stampa.Un giorno, un insegnante di storia lesse uno dei suoi temi e Eisner ricevette la prima lode per qualcosa che aveva scritto. All’epoca, Will pensava di diventare scenografo, soprattutto per via dell’influenza del padre ma anche per via dello spettacolo serale del liceo, a cui collaborava. L’autore era un certo Adolph Green, lo stesso che insieme a Betty Comden scrisse Singin’ In The Rain, oltre ad altri successi di Broadway e cinematografici.

• • •Eisner era un pessimo studente. Addirittura, il DeWitt Clinton si rifiutò di rico-noscergli il diploma per i pessimi voti in geometria, un fatto che non aveva mai rivelato fino a ora, né pubblicamente né in privato.Uno dei suoi insegnanti d’arte andò a parlare con quello di geometria, cercando di convincerlo: “Non potete negargli il diploma; è un artista ed è quello che farà

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nella vita. È il migliore della scuola”. Ma l’insegnante di geometria fu inamovibi-le: “Ha sbagliato la prova, punto e basta”.Fino a oggi, Eisner aveva sempre dichiarato di aver terminato gli studi e essersi di-plomato perché, per lui, è quello che aveva fatto: aveva portato a termini gli stessi quattro anni dei suoi compagni. “Per quanto mi riguardava, ero diplomato, ma non potei partecipare alla cerimonia e non ricevetti mai il diploma. I miei genito-ri lo sapevano e dissi loro che avrei rimediato coi corsi estivi, ma non lo feci mai”.Alcuni anni fa, una persona al corrente di quanto era accaduto chiese a Eisner perché non fosse tornato a prendersi il diploma. Un anno, in effetti, l’associazione diplomati del DeWitt Clinton della Florida assegnò a Eisner un premio per “il Diplomato di successo”. Eisner lo accettò ma non si sentiva la coscienza a posto. “Immagino che quando leggeranno il libro rivorranno indietro il premio”.Questo episodio lasciò talmente il segno da spingerlo a nascondere la verità per più di settant’anni. Inoltre, secondo la moglie Ann, come conseguenza del diplo-ma negato Eisner sarebbe sempre stato “esageratamente impressionato dai Ph.D”.“Nel mio settore i diplomi non sono richiesti” spiegò poi Eisner. “Se qualcuno me l’avesse chiesto, probabilmente mi sarei sforzato, ma non è mai stato veramente necessario. Per quanto riguarda l’attività della scrittura, continuai a leggere e a formarmi da solo un background letterario. In un certo senso, si può dire che sono autodidatta”.

• • •Durante il liceo Eisner irritò come non mai sua madre per alcune lezioni che seguì presso l’Art Students League di New York. Si tratta di una delle più prestigiose scuole d’arte degli Sta-ti Uniti, fondata nel 1875, e che tra i suoi studenti illustri annovera James Montgomery Flagg, Georgia O’Keef-fe, Jackson Pollock, Roy Lichtenstein e James Rosenquist. Ma l’unica cosa che Fannie sapeva dell’Art Students Lea-gue era che suo figlio andava in quel posto a disegnare donne nude. “Ero un ragazzino di sedici anni e accetta-rono la mia iscrizione al corso” ricorda Eisner. “In casa fu un grande scandalo per tutti!”.

Will Eisner con“il ritratto della madre”.

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All’Art Students League ebbe come insegnanti l’anatomista George Bridgman e il pittore Robert Brachman. “Con ogni probabilità il corso di Brachman è stato la mia prima occasione di vedere una donna nuda e mi stupii da matti quando non ebbi un’erezione. Temevo di dovermi presentare al corso col soprabito più largo che riuscivo a trovare. Ho ancora il disegno che feci di una delle modelle. Lo tengo di fianco al ritratto di mio padre che feci circa nello stesso periodo. Non molto tempo fa, abbiamo avuto ospiti e mia moglie mostrava loro la casa, dicen-do che avevo fatto il ritratto di mio padre ai tempi della scuola d’arte. Di fianco c’era questo nudo di donna e, del tutto innocentemente, uno degli ospiti chiese a Ann: ‘E quella è la madre?’”.In realtà, la prima volta che Eisner vide una modella salire sul palchetto e togliersi i vestiti fu la prima volta che si sentì un professionista. Gli ci volle un attimo per ricomporsi, come peraltro alla maggior parte degli altri. Circa un terzo del corso era composto da ragazze, così, guardandosi intorno senza vedere poi grandi reazio-ni, andò avanti. Prima di quel momento, la sua conoscenza del corpo femminile proveniva dai testi di anatomia, ma questa era una cosa completamente diversa.“Pensai: ‘Ragazzi, sono un professionista’. Mi sentivo un giocatore che entra nello Yankee Stadium per la prima volta in vita sua”.Bridgman era un insegnante esigente, un tipo basso che pretendeva che tutti dise-gnassero esattamente come lui. Una volta disse: “Non preoccupatevi di dove sono effettivamente le ossa. Se sta bene, va bene”.Un giorno Eisner si mise a discutere con lui in sala mensa. Dal soffitto pendeva uno scheletro e Eisner cominciò a schizzare lo scheletro per migliorare le sue conoscenze di anatomia. Bridgman arrivò e urlò: “Fuori di qui! Non dovreste neppure pensare di fare una cosa del genere! Nel mio corso imparerete l’anatomia come l’insegno io!”.E Bridgman insegnava l’anatomia nel modo seguente: agli studenti veniva chiesto di disegnare calchi, statuette e statue di grandi dimensioni. Si occupava di aerei e insegnava anatomia in termini meccanici. “Le braccia si muovevano su dei car-dini. Era affascinante” ricorda Eisner, su cui quelle lezioni lasciarono una traccia profonda. Decenni dopo, ancora raccomandava il volume di Bridgman Construc-tive Anatomy ai suoi studenti della New York School of Visual Arts.Bridgman era un uomo accorto. Quando valutava il lavoro di uno studente, se era scarso commentava: “Molto interessante”. L’unica volta che il rapporto con Ei-sner assunse toni personali fu quando minacciò di sbatterlo fuori a calci per avere accennato a disegnare quello scheletro: “Se pensate di imparare da soli, allora non avete bisogno del mio corso!”.A Eisner non interessava granché di conoscere Bridgman al di fuori delle sue lezioni, anche se apprezzava molto quello che poteva imparare, sia da lui sia da

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Brachman, sugli aspetti economici dell’attività di artista. “Nel corso degli anni ho avuto modo di scoprire che un sacco di artisti e di pittori non erano assolutamen-te gli intellettuali che pensavo. Gli scrittori, invece sì. Non so perché. La maggior parte degli artisti avevano un approccio pratico, empirico. Erano mercanti con un atteggiamento da mercante”.Mentre la madre era sconvolta dall’idea terrificante che il suo bambino di sedici anni dipingesse femmine nude, in realtà avrebbe dovuto preoccuparsi per l’in-fluenza corruttrice dei suoi compagni di corso. Eisner infatti perse la testa per una ragazza alta e di bell’aspetto. La prima volta che la vide, era dall’altra parte dell’aula, così le si avvicinò per dare un’occhiata ai suoi lavori.“Però” le fece, “sei in gamba”.E lei: “Anche a me piacciono le tue cose”.Fu questa la sua prima conoscenza “professionale”. Non durò molto, ma durò abbastanza. Aveva un appartamento al Greenwich Village e invitò Eisner ad an-dare a trovarla. Fu la sua prima storia d’amore e la sua prima esperienza sessuale.Brachman, che all’epoca era un pittore di successo, parlò con Eisner una sola volta su come guadagnarsi da vivere dipingendo. Eisner era ancora abbastanza idealista e immaginava il pittore esporre nelle gallerie e immergersi fino al collo nelle Belle Arti, ma Brachman lo disilluse rapidamente, spiegandogli che faceva “ritratti di ricche signore ingioiellate”, sottolineando la parola “ingioiellate” col massimo disprezzo possibile.“Ma è un bel vivere” aggiunse subito. “Pagano bene”. Il fascino scomparve im-mediatamente e Eisner si rese conto che l’arte è un mestiere: fino a quel momento, non aveva visto le cose da questo punto di vista.“Stavo attraversando un periodo in cui desideravo essere qualcosa. Pensavo di diven-tare pittore, di esporre nelle gallerie ma mi resi conto che non faceva per me, perché si tratta di un lavoro che procede troppo lentamente. Ci vuole troppo per realizzare un dipinto, e poi non ero abbastanza bravo”. E anche un pittore abile come Brach-man doveva insegnare, o accettare controvoglia commissioni per ritratti.Eisner non andò mai al college. Dopo il liceo, frequentò per un po’ di tempo una scuola di illustrazione pubblicitaria in cima allo storico edificio triangolare del Flatiron, al 175 della Quinta Strada, all’angolo con la 23esima (nel film Spider-Man del 2002 il Flatiron funge da sede per il giornale “Daily Bugle”, ed è stato inoltre utilizzato da Eisner come modello per il suo libro Il palazzo). Il suo in-segnante metteva l’accento sugli aspetti ripetitivi dell’illustrazione pubblicitaria, ma non erano lezioni aride e capitava di disegnare con modelle dal vivo. La cosa divertente era che quando la modella si riposava, i maschi della classe correvano tutti a “pranzo”. E “pranzo” significava correre dall’altra parte del palazzo a sbir-ciare le ragazze che prendevano il sole sul tetto dell’edificio vicino.

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sei“Le brave ragazze sono per la mamma”.

La sorella maggiore di Ann Weingarten, Susan, restò vedova nel 1949, ritro-vandosi sola con i due figli, Allan di cinque anni e Carl di due. Quell’estate se

ne andò con i ragazzi in un residence per famiglie nel Maine. Non mancava molto alla festa del Labor Day e Ann – una ragazza di 26 anni che aveva cominciato da poco a lavorare come assistente amministrativa nel reparto promozionale della Paramount di New York – voleva trascorre un lungo fine settimana con Susan.Ma come raggiungerla? Nel 1949, nessuno di sua conoscenza aveva l’abitudine di andare da Manhattan al Maine in aereo. Fortunatamente, la sorella minore, Jane, usciva con un certo Arthur Strassburger, il quale, insieme all’amico Will Eisner, quel fine settimana sarebbe andati in auto a Camp Mingo, presso le Kezer Falls, nel Maine. “Ti daremo noi un passaggio” le disse Strassburger.Eisner non era entusiasta di dividere l’auto, ma Strassburger si era già impegna-to. Eisner cercò comunque di tirarsene fuori chiamando un altro amico, Jerry Gropper, anche lui diretto nel Maine in auto quel fine settimana, nella speranza che potesse dare lui un passaggio alla sorella della ragazza di Strassburger. Jerry li supplicò: aveva appena acquistato l’auto e non poteva superare i 65 all’ora; quan-to sarebbe stato divertente guidare a quella velocità dovendo al tempo stesso fare conversazione con la sorella di qualcun altro? No, grazie.Fu così che una scintillante Cadillac nera nuova di zecca si fermò davanti alla casa degli Eisner, al 90 di Riverside Drive, e ne scese una bella ragazza in compagnia del padre. A sbirciare dalla finestra della cucina, una Fannie Eisner scandalizzata.“Che tipo di ragazza se ne andrebbe mai in giro per il fine settimana con voi due fermandosi a passare la notte lungo la strada?”. Fannie voleva che Will si siste-masse, si sposasse e avesse dei figli, ma una ragazza “consegnata” in questo modo dal padre a un uomo e al suo complice non poteva essere quella giusta per il suo primogenito.Eisner, da parte sua, non vedeva l’ora di cominciare il loro viaggio da scapoli.

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“Che vuoi che importi, ma’?” rispose con noncuranza. “La lasceremo lungo la strada. Non mi interessa che tipo di ragazza è, io sono solo il tassista. La molleremo insieme alla sorella e non la vedrò mai più”.Dopo avere dato un’occhiata dalla fi-nestra alla giovane donna in questio-ne, Fannie non era convinta. Aveva già pesanti riserve sulla moralità del suo primogenito che allora aveva 32 anni, ricordando bene quella ragazza con cui aveva passato il fine settimana al Greenwich Village prima della guer-ra: dopo quell’incidente non gli parlò per giorni e giorni, considerandolo un poco di buono.Lasciandosi alle spalle una Fannie de-

cisamente preoccupata, Eisner, Strassburger e Ann si diressero a nord, con Eisner al volante. Lungo la strada per Dartmouth, dove avrebbero passato la notte al Roger Smith Hotel di Holyoke, Ann fece una cosa estremamente sottile: rise alle battute di Eisner.“Quando lo vidi per la prima volta, non mi dispiacque per niente” ricorda Ann. “Ma lo trovai troppo sofisticato per i miei gusti. Inoltre, non ero alla ricerca di una storia, ma di un passaggio”.All’hotel, dove Strassburger aveva insistito perché le stanze fossero su piani diver-si, per motivi di convenienza, Ann salì nella sua stanza, mentre Eisner e Strassbur-ger si diressero verso il bar, dove lei li raggiunse poco dopo per un drink. In realtà, loro bevvero e lei mangiò: i ragazzi avevano mangiato prima di partire da New York, rifiutandosi di fermarsi lungo la strada per pranzare, e Ann stava morendo di fame!Quando entrò nel locale, Eisner la iinquadrò per la prima volta da capo a piedi e, per quanto non volesse ammetterlo, capì improvvisamente cosa aveva preoccu-pato tanto sua madre.Il giorno dopo, Eisner lasciò Ann al cottage di sua sorella. A Susan e ai bambini, Allan e Carl, Eisner e Strassburger stavano simpatici, così restarono per la notte per aspettare Gropper, che arrivò il giorno dopo. Alla fine della vacanza pensò Gropper ad accompagnare Ann; il fine settimana fu un successo anche per lui, che alla fine si sposò con Susan.

Pete Eisner raddrizza la cravatta al fratello maggiore nel giorno del matrimonio.

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Per giorni e giorni Will non riuscì a togliersi Ann dalla testa e quando finalmente la settimana seguente tornò a New York, Ann chiamò Strassburger per chiedergli il numero di Will, con la scusa di ringraziarlo per il passaggio.“Avevo già capito che Will era piuttosto sbadato, ed era possibile che non mi chiamasse; e non era il caso”.Preoccupazione inutile: Eisner le chiese immediatamente di uscire. La serata andò bene ma prima che si mettessero d’accordo per una seconda volta, Ann sentì fare il nome di Eisner in giro per l’ufficio. E in modo non proprio positivo.

• • •Uno dei vantaggi del lavoro di Ann presso l’ufficio stampa di New York della Paramount Pictures era che ogni volta che lo studio distribuiva un nuovo film si organizzava una proiezione di Gala per critici e dipendenti a cui lei poteva parte-cipare. Quando l’attesissimo Sansone e Dalila di Cecil B. DeMille giunse a New York, Ann andò a vederlo portando con sé Will.Il film fu davvero memorabile, ma non nel senso migliore. La guida cinematogra-fica Halliwell’s Film Guide lo descriverà mezzo secolo più tardi come “un assurdo pastrocchio biblico”, ma già sei settimane dopo la prima, il 5 marzo 1950, Will Eisner se ne era preso gioco in un episodio-parodia di Spirit intitolato Sammy e Dalila: vi compare come regista un certo Cecil B. Schlamiel e la storia avrebbe ispirato un intero genere satirico esploso pochi anni dopo sulle pagine della rivista MAD. Il 5 marzo era domenica. Lunedì scoppiò il bubbone: alla Paramount non si erano divertiti per niente.Ann era seduta alla sua scrivania quando sentì urlare.“Questo bastardo lo porto in tribunale!”.“Chi diavolo è Will Eisner?”.Fortunatamente, nessuno sapeva che Ann conosceva Will; Ann si scusò e corse a una scrivania da cui era possibile telefonare in maniera riservata: senza la minima esitazione – e in qualche modo terrorizzata – chiamò quel giovane e divertente disegnatore con cui era uscita una sola volta e, rischiando di perdere il lavoro, lo avvertì di quello che minacciava di accadere: “Vogliono farti causa”.Ma non conosceva ancora bene Will Eisner, entusiasta all’idea che Spirit avesse irritato qualcuno abbastanza da indurlo a fargli causa! E i dirigenti della Para-mount erano irritati, poco ma sicuro, anche se, come si capì subito, Will era solo un pretesto per sfogare la rabbia: la maggior causa d’irritazione era che Sansone e Dalila era un brutto film e stava causando loro un danno d’immagine.“Che cosa?” chiese Eisner spiazzato.“Mi dispiace dovertelo dire” confermò Ann. “Ma sarà una brutta storia, fanno sul serio”.

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Con la voce allarmata, quasi incapace di controllarsi, Eisner ringraziò la sua nuo-vissima fidanzata per la soffiata, agganciò il telefono e chiamò immediatamente il syndicate che distribuiva Spirit.“Grandi notizie!” urlò al telefono, non riuscendo quasi a contenere la gioia. “La Paramount Pictures vuole farci causa!”.“Ma è fantastico” rispose il redattore. “Chiama subito l’Associated Press e rac-conta tutta la storia!”. La soffiata portò immediatamente a un’altra uscita, poi a un’altra ancora finché, da lì a poco, Will e Ann fecero coppia fissa. Verso la fine dell’anno, con la benedizione di Fannie, Will chiese ad Ann di sposarlo. Cono-sciuta meglio Ann, Fannie non riusciva a credere quanto il figlio fosse stato fortu-nato: Ann si era diplomata presso un istituto privato e proveniva da una facoltosa famiglia ebrea che abitava in Park Avenue. Il padre, inoltre, era uno stimato ope-ratore finanziario. Per Fannie, il padre di Ann rappresentava tutto ciò che poteva desiderare in un uomo, a differenza di suo marito, il sognatore. Ma mentre la famiglia di Ann accolse Will come un figlio, per loro Fannie e Sam restarono sem-pre due imbarazzanti parenti acquisiti, un incidente di percorso (come descritto tanti anni dopo da Will nel suo romanzo Le regole del gioco).Quando conobbe Will, Ann era già una donna adulta: “Ero sempre stata la ribelle della famiglia e non mi interessava l’approvazione dei miei genitori. Non facevo mai quello che ci si aspettava da me. Una volta mio padre disse che chiunque vo-lesse sposare una delle sue figlie avrebbe dovuto chiederlo a lui. Il fine settimana in cui ci fidanzammo i miei genitori erano ad Atlantic City e corremmo subito là in auto per dare loro la notizia. Da loro non ebbi mai la possibilità di scegliere tra un regalo di matrimonio in denaro e un matrimonio in grande: loro avevano deciso che avrei avuto un matrimonio in grande. Mio padre era un grosso agente di borsa e per lui era un modo per invitare un sacco di clienti”.I genitori di Ann non furono immediatamente entusiasti del loro futuro genero. Oh, certo, era un tipo accattivante e amava Ann, ma nel loro mondo questo non era abbastanza.“Mia madre era un tipo decisamente snob” ricorda Ann. “Io ero americana di terza generazione. Lui invece non era alla mia altezza. La cosa non poteva inte-ressarli, a meno che Will non fosse stato abbastanza famoso da permettere loro di vantarsene.Mio padre fece un vero e proprio interrogatorio a Will; la sua teoria era ‘Facciamo due chiacchiere tra uomini. Le signore possono aspettarci qua’. Fortunatamente, Will affascinava sempre tutti e alla fine anche mio padre ne fu conquistato. Voleva che andasse a lavorare con lui e che diventasse un finanziere. E Will desiderava l’approvazione dei miei genitori. A me invece non importava per niente e non fu mai un problema”.

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Il padre di Ann si informò sulla reputazione e sulle prospettive professionali di Will: quello che scoprì finì per convincerlo definitivamente e fece guadagnare a Eisner il suo rispetto.I due fidanzati si sposarono il 15 giugno 1950.

• • •Lo sceneggiatore Alan Moore – l’autore di Watchmen, Swamp Thing, From Hell e tanti altri capolavori – e Will Eisner si sono incontrati poche volte, ma è sempre stata un’accoppiata magica.“Per me è sempre stato molto divertente, peccato che io sia un dannatissimo eremita” ricorda Moore. “Will era sempre e comunque a suo agio. Era una specie di instancabile farfallone di società che se ne andava in giro per il mondo senza il minimo sforzo, mentre io, a essere sinceri, comincio a sentire i miei anni. Proprio non so come facesse”.L’episodio più memorabile che li vide insieme fu un tragitto in auto decisamente scomodo per le strade di Londra. “Si dà il caso che io mi ritrovi con queste due gambe assurdamente lunghe, e si decise che io sarei stato davanti, di fianco all’auti-sta. Il che voleva dire schiacciare tre o quattro persone sul sedile posteriore, due del-le quali erano Will e Ann Eisner. Ricordo bene che Ann dovette accomodarsi sulle ginocchia di Will. Mentre ce ne andavamo in giro per Londra, là dietro ridevano come una coppia di ragazzini e ricordo Will che diceva: ‘Cavolo, se avessi trent’anni di meno e non fossi mia moglie...’. Come si fa a non adorare un tipo così?”.

• • •Tra di loro si chiamavano “amore” e lui la chiamava affettuosamente “tappetta”. Ma che cosa poteva regalare un artista leggendario per San Valentino, il comple-anno e gli anniversari a una moglie che aveva già tutto? Cartoline fatte apposita-mente da lui, che lei adorava e che attaccava al frigorifero.L’intesa sentimentale e persino sessuale restò fortissima per gli oltre 50 anni del loro matrimonio, e spesso si prendevano affettuosamente in giro, si tenevano per mano e si toccavano come adolescenti, arrivando a completarsi le frasi a vicenda. Della grafia di Ann, Will diceva sempre che: “L’Uomo Ragno era stato morso da un ragno radioattivo, Ann è stata morsa da un medico. Che calligrafia orribile!”. Questo mentre Ann si sforzava di migliorare un po’ le sue maniere a tavola, taci-tandolo quando insisteva per parlare con la bocca piena.Trascorrevano insieme tutto il loro tempo libero. I giorni feriali spettavano a lui, i fine settimana a lei. E quando lui viaggiava per lavoro, era fuori discussione che venisse anche lei.Tutto ciò non vuol dire che Will fosse il perfetto romantico. Anzi, era capace di

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una goffaggine tremenda. Un esempio tipico: l’anello che regalò alla moglie per il primo anniversario di matrimonio. Quando Ann vide l’incisione all’interno, scoppiò a ridere. “Eravamo sposati da un anno e non sapeva neppure scrivere il mio nome!”. L’incisione riportava il nome della giovane signora Eisner come “Anne” e non “Ann”.La sua risposta fu: “Lo sai che con i nomi sono un disastro!”.

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setteChi conosce quest’uomo?

Will e Ann Eisner divennero genitori nel 1951, alla nascita del figlio John, e poi un anno e mezzo dopo, all’arrivo di Alice. Nel 1952 la famiglia si tra-

sferì al numero 8 di Burling Avenue, nel quartiere Gedney Farms di White Plain. Entrambi gli Eisner erano nati, cresciuti e avevano trascorso la maggior parte della loro vita adulta nei canyon di cemento di New York e trasferirsi in un’area periferica richiese qualche adattamento. Prima di allora, la famiglia usciva dalla città solo un paio di volte all’anno: a Will piaceva prendere ogni tanto una boc-cata d’aria fresca, ma per Ann era diverso, a chi le avesse detto che non sarebbero mai potuti tornare a Manhattan, avrebbe risposto: “No problem”. Le sarebbero mancate le persone, non l’ambiente.La famiglia Eisner era estremamente unita e per Will era importante costituire per i figli quella presenza emotiva – ed economica – che per tutta l’infanzia a lui era mancata. Sapeva sempre come andavano a scuola, chi erano i loro amici e che cosa facevano per passare il tempo e divertirsi.Will insegnò a John a giocare a scacchi e una volta fece loro una grande sorpresa portando a casa una vecchia barca a remi trovata in un molo di Long Island e riempiendola di sabbia in modo che ci potessero giocare in giardino insieme agli amichetti. E naturalmente ai ragazzi piaceva moltissimo restare a guardare papà che lavorava al tavolo da disegno.“Sentivo di dare a John più di quanto avessi ricevuto io, grazie al fatto di avere avuto un ragionevole successo” ricorda Eisner. “Non parlavamo mai di quello che doveva o avrebbe dovuto fare. Un’estate mandammo John e un suo amico a una scuola estiva in Svizzera: avrà avuto 15 anni e Ann mi disse: ‘Ci troverà delle ra-gazze. Gli ha mai parlato del sesso?’. Così andai nella sua stanza: ‘Hai un minuto? Vorrei parlarti del sesso’. E lui: ‘Cos’è che vuoi sapere?’. Rimasi senza parole...”.Ann, John e Alice sopportavano le lunghe assenze di Will durante i suoi viaggi per l’esercito negli anni Cinquanta e Sessanta leggendo le meravigliose lettere

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illustrate che scriveva loro. In una parlava in dettaglio del suo primo giorno all’A-kasaka Prince Hotel di Tokyo, non lontano dal palazzo imperiale. Tra le figure della lettera, una rappresenta Will in bagno, ancora vestito da viaggio, che cerca di capire qual è il rubinetto della doccia. Sceltone uno, si decide a girarlo e l’acqua comincia a sprizzare da tutte le parti, bagnandolo dalla testa ai piedi. “A quanto pare” scrive nella lettera, “l’intera stanza era una doccia”.In un’altra lettera ad Ann, scriveva: “Qua molti americani hanno sposato ragazze giapponesi (E NON LI BIASIMO... WOW!!)”. In una tappa alle Hawaii di ritor-no dalla Corea, Eisner mandò una lettera diversa a ciascuno dei bambini.

Caro John,ho ricevuto la tua lettera e sono felice di sapere che l’uragano non ha fat-to danni. Sono orgoglioso per come ti stai prendendo cura delle ragazze.

Il tuo amicone

Cara Alice,mi hai scritto una lettera molto, molto bella. Sono contento che tu abbia aiutato John a montare quei binari. Sono certo che il salice tornerà a crescere come quando eri piccola piccola. Tu, la mamma e Johnny mi mancate molto.

Papi

Nel 1966 la famiglia al gran completo andò in Europa. John aveva 14 anni ed era ormai un ragazzo. Durante il viaggio, Ann disse o fece qualcosa che lo irritò molto, così si girò verso il padre dicendogli: “Come fai a sopportarla?”.Alice era in tutto e per tutto figlia di suo padre. Aveva il suo carattere e la sua compassione nei confronti degli altri. Ogni volta che in TV sentiva che qualcuno aveva fame, Ann doveva immediatamente donare qualcosa.“Dovevo salvare il mondo per lei” ricorda Ann.Poi c’era l’altro lato di Alice, quello che qualsiasi padre pronto a scattare ogni vol-ta che la figlia schiocca le ditina conosce bene. Ann era il genitore severo mentre Will non poteva rifiutare nulla ad Alice e lei riusciva a fargli fare quello che voleva. Quando Ann le disse che non poteva avere un paio di stivali nuovi, Alice fece quello che farebbe ogni ragazzina decisa: chiese a papà di portarla a fare shopping.Un sabato mattina, John, Alice e Will stavano guardando insieme dei cartoni alla TV. “Papà” chiese John, “perché non sei famoso come tizio o caio?”. Prima che potesse rispondere, Alice saltò su: “Be’, è famoso abbastanza”.I due fratelli erano come la notte e il giorno, e non avrebbero potuto essere più diversi. John spopolava tra gli amici, era un tipo atletico, brillante e secondo il

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padre “sprizzava energia da tutti i pori”. Per esempio, per un anno dovette portare l’apparecchio ai denti ma continuò ugualmente a suonare la tromba, facendo sanguinare le labbra.Alice non era nulla di tutto ciò, ma per i suoi genitori, a modo suo, era molto, molto di più.

• • •Ai tempi di Spirit, un cartoonist che lavorava nello studio di Eisner aveva una figlia di sedici anni che morì di cancro. Lui andò al lavoro il giorno dopo la morte, crollando al tavolo da disegno in lacrime. “Guardalo” disse Eisner a suo fratello Pete. “Se succedesse a me, non potrei farcela”.

• • •Un giorno del 1969, Alice non si sentì bene. Ann la portò dal medico per un esame del sangue e per gli Eisner nulla fu più come prima: la diagnosi era “leucemia”.Per i diciotto mesi che seguirono, Ann lasciò il lavoro e qualsiasi altra cosa per pren-dersi cura di Alice. Will, dal canto suo, si seppellì nei suoi lavori per l’esercito. “È stata con me solo per sedici anni” ricorda Ann. “Stavo insieme a lei al Mt. Sinai Ho-spital, dove insistetti per avere una brandina. Tornavo a casa solo quando gli amici passavano a darmi il cambio per un po’, mi davo una rinfrescata e poi tornavo”.Alice non seppe mai qual era il suo problema. Will aveva deciso che non doveva saperlo e insistette perché il medico le dicesse semplicemente che era anemica. Il resto della famiglia accettò la sua decisione. “Non volevo che i medici le dicessero che stava morendo. Aveva sedici anni! A sedici anni sei nel fiore della giovinezza e non riesci neppure a pensare che possa mai accaderti qualcosa di brutto. Pensi solo che ci penseranno mamma e papà”.“Una sera entrò nella nostra camera dicendo: ‘Posso venire a letto con te e la mamma? Mi fanno male le ossa’. Soffriva di leucemia mieloide, un forma di tumore alle ossa. Oggi probabilmente si potrebbe fare qualcosa trapiantando il midollo. All’epoca non sapevano cosa fare e fu dura. Fu molto, molto dura. In famiglia le cose non erano semplici: al lavoro io cercavo di non impazzire, John non sapeva cosa fare e noi non sapevamo come aiutarlo”.Poco prima di morire, Alice disse al padre: “Papà, compra un regalo per il com-pleanno della mamma. E non dimenticarti! Ti dimentichi sempre tutto! Compra un regalo per la mamma”.Aggiungendo la beffa al dolore, Alice morì il giorno del compleanno di Ann.“Fu un giorno tremendo. Devastante” ricorda Eisner. “Duro. Durissimo”.Alla morte di Alice accadde un episodio di cui Eisner non parlò mai con nessuno. “I ragazzi di PS Magazine vennero al funerale. Poi, quella settimana, mi fecero

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avere la richiesta di pagamento per gli straordinari. Una cosa che mi restò sullo stomaco come un macigno.Sei un genitore a cui il mondo è appena crollato addosso, è come se fosse crollata la casa. Te ne stai lì, in piedi, non sai cosa fare, e le tue reazioni non sono più normali. Puoi restare immobile, inerte, per cercare di difenderti, oppure cominci a fare cose stupide. Che è quello che successe a me”.

• • •Dopo la morte di Alice, Will voleva lasciare White Plains, ma Ann non riuscì a rassegnarsi ad abbandonare la stanza della figlia fino al 1975. Sei mesi dopo la morte di Alice, Ann divenne direttrice del programma di volontariato della se-zione di Westchester del New York Hospital-Cornell Medical Center (che allora cambiò nome in New York Presbyterian Hospital), con sede a White Plains. Il lavoro le piaceva e lo portò avanti finché non si trasferirono definitivamente in Florida, nel 1983. Da molti punti di vista quel lavoro fu la sua salvezza: un luogo in cui recarsi tutti i giorni da persone che avevano bisogno di lei, di umanità e di un po’ di sano umorismo.Alla fine, la famiglia si trasferì in un’altra casa nel quartiere Soundview di White Plains, lasciandosi alle spalle molti ricordi dolorosi. La nuova casa era in uno stile moderno, con cinque camere da letto, una palazzina sul retro per lo studio di Will e un sacco di terreno.La prima volta che Eisner vide la casa al 51 di Winslow Road se ne innamorò: “Sta dicendo ‘comprami’” disse ad Ann.

• • •L’amicizia tra Eisner e Harvey Kurtzman (autore di racconti di guerra per l’EC Comics e creatore delle riviste MAD, Trump – in collaborazione con Hugh Hefner – e co-autore per Playboy, insieme a Bill Elder, della serie a fumetti Little Annie Fanny) fu molto più stretta e profonda di quanto la maggior parte dei loro colleghi abbia mai saputo. A parte l’amicizia e il rispetto professionale, si frequen-tavano insieme alle rispettive famiglie a New York o nei luoghi dove si ritrovavano per lavoro, come per esempio alle convention di fumetti.“Lui e Harvey facevano queste lunghe chiacchierate e poi andavano a tavola” ricorda Adele Kurtzman, vedova di Harvey. “Harvey chiedeva sempre consigli a Will e non li seguiva mai. Will gli diceva sempre: ‘Non firmare un contratto senza sapere cosa stai firmando’. Ma Harvey era quello che era e non gli dava mai ascolto. Se l’avesse fatto, forse le cose sarebbero andate diversamente”.Eisner disse più volte a Kurtzman di leggere attentamente i contratti. “Se qualcu-no dice: ‘Ti interessa fare questa cosa?’, non dire subito di sì. Fai in modo che te

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lo propongano in forma scritta”. Ma Harvey preferiva stringere degli “accordi tra gentiluomini” non scritti.“Se non fossero gentiluomini” ripeteva ad Adele, “non ci sarebbe l’accordo”.Uno dei legami meno noti tra i due, separati da dodici anni (Kurtzman era il più giovane) erano le tragedie parallele che li avevano colpiti.“Abbiamo un figlio autistico” spiega Adele. “Credo che Harvey e Will avessero questo in comune: i figli. Quando Will venne a casa nostra per la prima volta e mia figlia Nellie era ancora piccola, li presentai. E Will disse: ‘Anch’io avevo una bambina, una volta’. Lo disse in un modo straziante. Harvey traeva sollievo dal parlare con Will: chi altri poteva capire che cosa significava quel tipo di dolore, che si accompagna a imbarazzo, senso di colpa, a ogni tipo di emozioni.Un figlio colpito da un tumore è qualcosa che va oltre la ragione. Ti guardi alle spalle, pensando alla tua vita, e ti domandi: ‘Come ho fatto a farcela? Come ho fatto a sopravvivere?’. Nostro figlio aveva degli scoppi d’ira furibondi. È rimasto a casa per 28 anni, poi è entrato in una casa protetta. Ora sta bene”.

• • •Ann conosceva bene l’editoria a fumetti e le persone che ci lavoravano ma non fu mai interessata agli aspetti economici e alla loro gestione. In occasione dei loro tradizionali viaggi annuali al Comic-Con International di San Diego, si chiamava sempre fuori dalle “chiacchiere dei ragazzi”. Accompagnava il marito alle cene e ai ricevimenti ma una volta terminata la cena, quando la discussione si portava sui contratti, sugli andamenti di mercato o sulla rituale adorazione del Dio in Terra (Will), si scusava e andava via.“Dai, Ann, resta con noi!” supplicava il marito, quasi per finta, sapendo che non avrebbe cambiato idea.“No, no, voi ragazzi restate a parlare dei vostri affari, io vado” rispondeva inva-riabilmente.Erano cose che non la interessavano e aveva sempre posseduto un impeccabile senso dell’equilibrio tra quando era il caso di socializzare e quando invece era meglio togliere il disturbo.Will e Ann si leggevano nella mente. Oppure lei ruotava gli occhi perché aveva sentito una storia chissà quante volte, e voleva che lui la raccontasse corretta-mente. Se invece Will diceva qualcosa con cui lei non era d’accordo, non aveva nessun problema a rispondergli: “Andiamo, Will, lo sai che non è vero” oppure “Will, non sono assolutamente d’accordo con te”. E lui di solito rispondeva con finta indignazione: “Posso sempre trovarmi un’altra fidanzata, sai?”. Gli amici lo chiamavano “The Will and Ann Show”, e per certi versi era del tutto spontaneo, per certi altri lo portavano avanti da anni perché sapevano che divertiva gli amici.

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Ann non era mai inutilmente riservata o timida e non permetteva mai che fosse il marito a dominare una discussione. Se in una qualche circostanza le interessava dire la sua opinione o dare il suo contributo, lo faceva. Stava molto attenta a non dire nulla di veramente negativo su Will, ma Ann era sempre e comunque Ann.

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UNA VITA PER IL FUMETTO

GRIGIO

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OTTOPS Magazine

Norman Colton, l’editor civile di Army Motors, continuò a lavorare per l’Ar-tiglieria anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la sospensione

della rivista.Nel 1949, con la guerra di Corea all’orizzonte, Colton fece visita a Will Eisner a New York, comunicandogli che l’Esercito voleva pubblicare una nuova rivista nello stile di Army Motors: lo studio di Eisner – che ancora si stava leccando le ferite dopo il suo tentativo di pubblicare fumetti – era interessato a preparare un’offerta per partecipare alla gara per l’assegnazione della rivista? “Be’, poco ma sicuro” rispose Eisner.“Colton era ansioso che salissi a bordo per via dei miei precedenti positivi con Army Motors e per il fatto che venivo identificato con la rivista. Ma naturalmen-te avrei dovuto passare attraverso le procedure di gara. Al Harvey, della Harvey Publications, lo venne a sapere e fece anche lui un’offerta, ma vinsi io la gara e partecipai alla stesura del contratto. Era completamente diverso dalla maggior parte dei contratti usati dall’Esercito in quel periodo. All’epoca, di norma l’Eser-cito pagava i servizi a ore mentre il mio contratto prevedeva una cifra fissa e una verifica della soddisfazione del cliente che consentiva al governo di ridiscutere il contratto unicamente al ribasso”.Colton era uno di quei tipi che capita di incontrare ogni tanto nella vita, con-vinti di avere già capito tutto. Un “faccendiere”, come lo chiamava Eisner, che a proprie spese produsse un dummy, un campione in bozza di come sarebbe stata la rivista. La fatica alla fine pagò, e fu proprio quella copia campione a far vincere il contratto per la produzione di ciò che diventò PS: The Preventive Maintenance Monthly. “PS” stava per “Post Scriptum” e si riferiva ad altre e più tradizionali pubblicazioni dell’esercito su equipaggiamento e manutenzione.Una volta definiti tutti i dettagli, Colton sganciò la sua bomba su Eisner: “Voglio la mia fetta di torta” gli disse.

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“Non posso” rispose Eisner, stupito da tanta sfrontatezza. “Lei è un dipen-dente dell’Esercito!”.“Può riconoscermi delle quote, in modo che possa esercitare l’opzione in segui-to” replicò Colton. “Sono stato io a rac-comandarvi. Siete in debito con me!”.“Strettamente parlando, è vero” rispose Eisner. “Ma in realtà le cose non sono andate così. È stata la qualità del lavo-ro a vincere la gara. Ho visto le offerte della concorrenza... impresentabili!”.“Sono stato io a dare l’approvazione”.“Questo per me non significa nulla. Inoltre, non posso concedere parteci-pazioni nella rivista, è illegale”.Colton, che fino al 1953 fu il primo direttore della rivista, non era tipo da accettare un rifiuto. Con la scusa delle varie questioni legate alla produzione

della rivista si presentava a New York una settimana sì e una no, con sempre nuovi piani per portare a casa ciò che Eisner considerava illegale. L’avvocato di Eisner gli consigliò di non discutere nemmeno le proposte di Colton, che a ogni rifiuto si infuriava sempre di più. Era convinto che Eisner stesse cercando di sottrargli qualcosa che gli apparteneva.Colton era un tipo decisamente colorito, piccolo di statura e abbigliato sempre con grande cura, non fumava sigarette come tutti, preferendo un lungo bocchi-no. “Era un tipo strano, tranquillo ma incredibilmente intraprendente. Era uno capace di muovere le acque nell’Esercito. In maniera molto tranquilla ma anche subdola. Il suo punto di forza era la capacità di mettere insieme le cose. Era, im-magino, quello che i tedeschi chiamavano luftmensch, una ‘persona d’aria’”.Un giorno si verificò un colpo di scena. Come sempre, Colton era in arrivo a New York per incontrarsi con Eisner che quel mattino, però, ricevette prima la visita di due agenti dell’FBI: “Tipi alti, distinti, vestiti di nero. Uno aveva con sé una piccola busta, l’altro un blocchetto per appunti”.“Vorremmo fare quattro chiacchiere con lei” disse uno dei due.“Non so di che cosa si tratta, ma preferirei farlo in presenza del mio avvocato” rispose Eisner.“Non sarà necessario, non siamo qui per lei” rispose l’agente seccamente. “Voglia-

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mo solo parlare. In via non ufficiale”.Spiegarono che l’uomo che continuava a importunare Eisner era sospettato di truffa ai danni dell’Esercito per una questione di spese di viaggio. Eisner non ne fu stupito ma pensò ugualmente: ‘Cielo, metteranno dentro me!’. Mentre ancora i tre stavano parlando nello studio di Eisner, suonò il telefono: era Colton.“Sono alla stazione Grand Central” disse a Eisner.Un agente fece segno a Eisner di dirgli di raggiungerlo in ufficio. E Eisner rispose: “Okay, venga pure, l’aspetto qui”.All’arrivo di Colton gli agenti lo interrogarono per poi arrestarlo: colto nel mezzo di un rimpasto e di uno scontro di potere all’interno dell’Artiglieria, Colton ave-va commesso l’errore di cavalcare le politiche interne dell’Esercito, e la sua parte aveva perso. Quali che fossero le sue colpe vere o immaginarie, era possibile che al Pentagono Colton avesse semplicemente puntato sul cavallo sbagliato.

• • •Jim Kidd venne assunto come sostituto redattore per PS alla metà del 1953. Era un insegnante di giornalismo all’università del West Virginia e considerava quello per PS un lavoretto estivo. Un estate decisamente lunga, visto che Kidd restò fino al 1982.Quando decise di rendere permanente il suo lavoro per PS, contattò un suo vec-chio studente, Paul Fitzgerald, all’epoca responsabile di produzione del settima-nale Cecil Whig a Elkton, nel Maryland. Fitzgerald fu il primo direttore di produ-zione di PS, lavorando per la rivista dall’ottobre 1953 all’ottobre 1963.“Prima del mio arrivo c’erano stati un sacco di problemi” ricorda Fitzgerald. “Il mio lavoro consisteva nello sbarazzarmi della zavorra e mettere a punto un siste-ma per riportare tutto in carreggiata. Non ho mai conosciuto Norman Colton, ma dopo che se ne era andato passai tanto tempo a spalare le macerie che aveva lasciato e fu abbastanza chiaro quali fossero i suoi problemi. Da quanto capii, non era un giornalista né un esperto di produzione, o un amministratore. Era un esperto commerciale, un venditore. Doveva essere un mensile ma per i primi due o tre anni penso che la media non arrivò neppure a un numero ogni tre mesi.Da quello che riuscivo a capire, la redazione cercava di produrre un singolo nu-mero come un’entità monolitica, e se restavano impigliati in una qualche spor-genza, per così dire, si impantanava tutto”.Fitzgerald si accorse che uno dei maggiori problemi creati da Colton era la costan-te evidenziazione di difetti nell’equipaggiamento d’artiglieria, con l’intenzione di imbarazzare un aspirante allo Stato Maggiore rivale del suo sponsor al Pentagono. Un gioco denigratorio che era degenerato, coinvolgendo l’intera redazione di PS.Quando Colton fu sbattuto fuori, PS venne commissariata: “Da un giorno all’al-

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tro, i testi dovevano essere approvati dalle stesse persone che fino a quel momento avevamo pugnalato alla schiena!” ricorda Fitzgerald, che rimise a punto l’intera procedura di revisione, in modo che i militari si trovassero ad approvare articoli in corso di lavorazione, non interi numeri subito prima che andassero in stampa. Articoli e testi venivano depositati in una specie di archivio dei contenuti uti-lizzabili. In questo modo, era possibile avere sempre più numeri in lavorazione e ricorrere ad altro materiale se un articolo si fosse impantanato su una qualche sporgenza tecnica o burocratica.Durante la gestione di Fitzgerald, PS si ritrovò sotto un controllo rigidissimo in termini di conformità tecnica e prima di arrivare alla stampa era necessario che un numero ottenesse una lunga serie di approvazioni.Di fatto, Fitzgerald elaborò una griglia che prevedeva fino a sedici diverse scaden-ze produttive intermedie, tra cui le approvazioni tecniche dei vari centri di co-mando in giro per il paese e un protocollo di approvazione delle bozze pre-stampa a Washington, che ogni mese richiedeva due interi giorni e che normalmente ve-niva gestita da Kidd. C’erano anche revisioni separate dei bozzetti a matita, delle versioni intermedie in bianco e nero e quindi del disegno finito. Le separazioni cromatiche venivano controllate su lucidi appositi.“Direi che tranne Jim Kidd, al mio arrivo non ci fosse gente realmente in gra-do di scrivere” sostiene Fitzgerald. “C’erano dei tecnici, rigidamente fedeli alla gerarchia tecnica dell’Aberdeen Proving Ground. Io e Jim cambiammo questa specie di cultura di corpo, richiedendo competenze tipiche dei comunicatori, senza esperienza pratica sui vari argomenti. L’esercito aveva migliaia di esperti ma era compito di PS fare in modo che le conoscenze dei tecnici venissero esposte in maniera comprensibile anche all’ultimo dei GI”.Fitzgerald descrive il senso dell’umorismo di Kidd come “impassibile”.“Non era il tipo a cui scappasse da ridere in continuazione. Jim era figlio di un segnala-tore ferroviario della Contea di Monroe, in West Virginia e nella Seconda Guerra Mon-diale aveva vinto una medaglia al valore come ufficiale di fanteria. Era cresciuto durante la Grande Depressione e ci pensava due volte a spendere un dollaro, suo o dello Stato”.Seymour “Sy” Reitman fece parte della redazione di PS dal 1956 al 1970. “Jim Kidd ci incoraggiava e ci proteggeva” ricorda. “Jim era un tipo a posto, molto se-rio. Una battuta o qualsiasi cosa di divertente non sarebbe mai arrivata da lui, ma non aveva niente in contrario alle battute. Era la carica creativa che convinceva i GI a leggere PS: non leggevano granché i manuali e volevano una rivista godibile; e questo faceva risparmiare un sacco di dollari in manutenzione”.“Col senno di poi” è il giudizio di Fitzgerald, “alcune delle cose che abbiamo fatto ave-vano uno stile goliardico. Jim Kidd aveva un senso e una percezione di cosa fosse pre-sentabile e pubblicabile che portò a una serie di parametri e regole non necessariamen-

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te scritte. La linea della rivista era un riflesso diretto dell’onestà e del rigore di Kidd”.Tecnicamente, Eisner era un fornitore della rivista, anche se la sua influen-za sulla gestazione e lo sviluppo della stessa venivano ampiamente ricono-sciuti. Era lui a ideare le illustrazioni e la continuity, la storia dell’inserto di otto pagine a colori, a partire da testi tecnicamente corretti e affidabili forni-ti dallo staff di PS. Ed era lui a sfornare le pagine finite che, una volta superata la rigorosa analisi e la trafila delle ap-provazioni, andavano in stampa.“Tra le mie responsabilità” ricorda Fitzgerald “c’erano i controlli finali e l’appro-vazione o la bocciatura, e controllavo anche le cianografiche, o le lastre presso la tipografia. In seguito, cambiammo leggermente le competenze e spettò a Eisner occuparsi degli ultimi aggiustamenti alle pellicole, in modo che il tipografo pro-prio non potesse sbagliare in nessun accidenti di modo”.Eisner e Fitzgerald si incontrarono sulla base di una formazione comune: entram-bi avevano imparato a lavorare in editoria all’antica, trafficando nelle tipografie. Fitzgerald era il primo direttore di PS che conoscesse per filo e per segno cosa era possibile fare oppure no, ed era anche alleato di Eisner durante le revisioni edito-riali, quando ogni tanto gli alti papaveri dell’Esercito dimenticavano da qualche parte il loro senso dell’umorismo.“Durante tutti questi controlli e revisioni un sacco di gente che aveva l’autorità per dire la sua non aveva il minimo senso dell’umorismo... Io, Will e Jim Kidd eravamo costretti a spiegare le battute. Will ripeteva in continuazione che se devi spiegare una battuta, la battuta non fa ridere. La sua opinione era che esistevano due punti di vista opposti e inconciliabili a proposito di cosa faccia ridere. Per lui, l’umorismo stava negli accostamenti incongrui. Sempre secondo Will, la tesi opposta sosteneva che l’origine di ogni forma di umorismo era la capacità dell’uomo di essere disuma-no nei confronti degli altri uomini, e che questo era il punto di vista di Al Capp. E ogni volta che si incontravano era l’argomento che saltava fuori più spesso”.Molte delle soluzioni che PS presentava ai suoi lettori erano risposte a problemi operativi o a questioni di manutenzione che riguardavano apparecchi progettati a tavolino da ingegneri tranquillamente seduti in un ufficio con l’aria condizionata e una camicia pulita, pensati per essere utilizzati nelle peggiori condizioni concepibili.Il risultato erano richieste “ufficiali” per la manutenzione che a volte erano fisica-mente impossibili. Per esempio, agli inizi degli anni Cinquanta era in dotazione

Attestato per Will Eisner dalle prime linee.

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un carro leggero, l’M-41, progettato in modo che i GI dovessero cambiare le candele ogni tot ore. Ma non era possibile cambiare le candele senza estrarre il motore. Un GI meccanico, in Corea, escogitò un espediente e costruì una strana chiave inglese che gli permetteva di estrarre le candele lasciando al suo posto il motore. Il che, naturalmente, non fece fare salti di gioia né agli alti papaveri di Washington, né agli ingegneri di Detroit.“Un’idea che avemmo per una copertina erano questi due GI ai bordi di un cam-po militare immersi nel fango fino al naso, o alle chiappe se si vuole, nel tentativo disperato di cambiare un pneumatico a un mezzo” ricorda Fitzgerald. “La coper-tina era divisa in diagonale da una rete da campo. Sull’altra mezza copertina c’è, su un marciapiede, una bella ragazza in abiti aderenti. Soffia una leggera brezza, su un ramo canta un uccellino e i GI restano immobili a guardare. Accostamenti incongrui. Ma in fase di revisione, qualcuno a Washington osservò che ‘nelle basi militari non c’è tanto fango!’. Così, non usammo la copertina... per un po’. La ritirammo fuori quando quel certo ufficiale fu trasferito”.Fitzgerald e Eisner camminavano lungo un confine sottile, sempre con rispetto ma irritandosi spesso a vicenda. Ma alla fine, nonostante tutto, l’amicizia restò.

• • •Nonostante la partenza tutt’altro che sotto una buona stella, PS Magazine e Eisner trascorsero insieme i successivi 22 anni. Si trattava di un contratto piuttosto ricco, che pagò molte cose, tra cui una fotocopiatrice per l’uffi-cio, un autentico lusso a quei tempi. Inoltre, la rivista costituiva un’attività gratificante, non solo economicamen-te: “Era certamente meglio che gua-dagnare gli stessi soldi facendo albi a fumetti”. ricorda Eisner. Il lavoro per PS Magazine gli diede la possibilità di farsi strada nell’editoria industriale e di settore alle sue condizioni.Tra i disegnatori che lavorarono nello studio di Eisner alla produzione di PS ci furono Dan Zolnerovich (Sheena), Klaus Nordling (Lady Luck, The Thin Man), Murphy Anderson (Strange

PS Magazine n. 9(settembre/ottobre 1952).

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Adventures, Mystery in Space, Adam Strange, Flash, Lanterna verde), Mike Ploog (Creepy, Il pianeta delle scimmie, Licantropus, Man-Thing), Chuck Kramer (The Spirit), Alfredo Alcala (Conan, Man-Thing, Guerre Stellari, Swamp-Thing), Andre LeBlanc (The Phantom, Flash Gordon, Rex Gordon, MD), Don Perlin (Licantro-pus, Ghost, I Difensori) e Dan Spiegle (Hopalong Cassidy, Space Family Robinson, Magnus, Robot Fighter, Korak).La PS di oggi, con le sue 64 pagine, invece delle 48 dell’epoca, prosegue senza grossi cambiamenti, dopo più di 50 anni, il suo servizio come bollettino tecnico dell’esercito, distribuito ogni mese in circa 85.000 copie alle varie basi e unità. Ha ancora una copertina a colori in stile fumetto e un inserto centrale di otto pagine con una storia a fumetti a colori. Nelle altre parti della rivista si trovano articoli con informazioni tecniche, sulla sicurezza e procedurali, il tutto a due colori, per risparmiare. Le storie a fumetti illustrano sempre la solita morale: un soldato che ignora la manutenzione preventiva ne scopre alla fine l’importanza: è sempre sta-to così, per oltre cinquant’anni.In questa parte della rivista, per quanto riguarda la storia centrale, Eisner ha sem-pre avuto molta più libertà di quella che fu concessa a chi venne dopo di lui. Usava i fumetti come specchietto per le allodole per attirare il lettore e raramente vi si trovavano informazioni di tipo strettamente tecnico.I redattori interni hanno il compito e la responsabilità di raccogliere correttamen-te le informazioni tecniche e di guidare i disegnatori. “Questo è sempre all’origine di una certa tensione creativa” ricordava Stuart Henderson. “I disegnatori tollera-vano i redattori e pensavano di essere Dio; e i redattori tolleravano i disegnatori che pensavano di essere Dio”.Eisner e il suo studio non potevano produrre i fumetti senza l’aiuto della reda-zione, che procurava le foto, svolgeva le richieste, conduceva le interviste e si coordinava con gli specialisti dei vari settori.

• • •Don Hubbard entrò nella redazione di PS presso l’Aberdeen Proving Ground nel luglio 1954 come giornalista, diventando poi responsabile di produzione e quindi direttore. Nel novembre 1991, quando andò in pensione, deteneva il record per la più lunga permanenza presso la rivista.Cominciò a lavorare insieme a Eisner nel 1955, quando era già direttore di pro-duzione e la rivista fu trasferita da Aberdeen al Raritan Arsenal, nel New Jersey. Hubbard andava nello studio di Eisner a Manhattan due volte al mese, per ve-rificare l’avanzamento dei lavori, e Eisner si recava a Raritan una volta al mese.Durante la gestione Eisner, la “settimana delle bozze”, quando la rivista veniva chiusa, letta e approvata per la stampa, era un periodo inviolabile, quasi sacro.

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Durante la settimana delle bozze nessuno avrebbe mai ottenuto un permesso, senza possibili eccezioni. Le settimane delle bozze venivano programmate di anno in anno, con un anno di anticipo.“C’era sempre un certo antagonismo” ricorda Hubbard. “Quando Will faceva le sue cose migliori, non sempre noi pensavamo che fosse così. La prassi prevede-va che gli fornissimo le specifiche tecniche e poi visionassimo le bozze. A volte andava fuori tema: il suo incarico comprendeva la copertina e l’inserto interno e a volte prendeva una direzione che non c’entrava niente; oppure per la storia proponeva una trama che a noi non andava bene. Si trattava sempre di trovarsi a metà strada, di trovare un equilibrio. Per costringerlo a fare quello che volevamo dovevamo sempre tenerlo sulla graticola: provate a immaginare uno col suo ta-lento e un branco di analfabeti che gli dicono cosa deve fare! Il suo punto di vista era quello di un autore: ‘Ho creato io l’intera idea della rivista, non venitemi a dire cosa devo fare’. Non fu mai niente di meno che un gentleman ma a volte era un rapporto difficile, e se gli chiedevamo di cambiare una trama teneva il muso”.Il responsabile di produzione di Eisner lo accompagnava sempre nelle riunioni, prendendo appunti sulle questioni tecniche, senza tirarsi indietro nelle discussioni.“Per dirla tutta, Will mostrò i denti più di una volta” ricorda Hubbard. In un numero, i piani alti dell’Esercito imposero la sostituzione di una storia con un’al-tra, a causa di un cambiamento nelle procedure. Ma non è mai successo che si

In questa pagina e nella seguente: immagini dal vero che Will Eisner disegnava sulle lettere per casa.

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chiedesse a Eisner e ai suoi di rifare un’intera storia per qualcosa di imputabile a loro. In genere, Eisner contestava le richieste di cambiamenti non per la storia ma per via dei soldi: i cambiamenti avrebbero avuto un costo e lui si opponeva per principio.

Il lavoro di Eisner per PS preferito da Hubbard fu un’illustrazione durante gli anni della guerra di Corea in cui Joe Dope e un altro GI si erano fermati in cima a una collina a studiare il terreno. “Bisogna proprio mantenersi in forma per riuscire a

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coprire un territorio come questo” si dicono mentre studiano un paio di alture ricoperte di neve inconfondibilmente modellati sui seni dell’attrice Jane Russell.

• • •Il contratto di Eisner per PS prevedeva soggiorni, a volte per settimane, in paesi come Giappone, Corea e Vietnam. Secondo l’Esercito era importante che Eisner restasse periodicamente in contatto con i soldati, vedendo le cose attraverso i loro occhi e cercando di capire le situazioni reali in cui potevano trovarsi insieme alle loro attrezzature.Nel 1960, Eisner e Fitzgerald partirono per un viaggio di aggiornamento insieme di sei settimane per PS. Da New York volarono a San Francisco, poi a Guam, in Giappone e in Corea. Era un periodo di grandi tensioni sullo scenario internazio-nale, poco dopo l’abbattimento da parte dell’Unione Sovietica dell’U-2 di Francis Gary Powers, il 1° maggio. Un imbarazzato Dwight D. Eisenhower aveva riferito in un primo momento che un un aereo aveva perso la rotta, finché Powers non aveva ammesso di essere una spia. Il premier sovietico Nikita Krusciov disdisse un summit già in programma con Eisenhower e fece invece un intervento alle Nazioni Unite, il successivo 11 ottobre, denunciando sprezzantemente la bugia del presidente americano davanti all’assemblea, togliendosi la scarpa e sbattendo-la sul banco.All’inizio del viaggio, mentre il DC9 si sollevava nel cielo di Manhattan, Eisner osservava la città.“Esiste un denominatore comune, il motivo per cui ogni mattone, o pietra o lastra di cemento si trova al suo posto” confidò a Fitzgerald, “ed è il desiderio. Il desiderio o la convinzione di qualcuno di dover avere qualcosa di cui è privo: una donna, del cibo, un rifugio”.Era un pensiero semplice ma profondo che Fitzgerald ricordò per il resto della vita, ritrovandolo sotto forma di un tema ricorrente nei tanti romanzi a fumetti di Eisner.Il viaggio fu probabilmente una delle esperienze più importanti e formative della vita di Eisner. Durante il suo stesso servizio militare non gli era stato permesso di uscire dagli Stati Uniti, mentre ora gli veniva data la possibilità di percorrere l’intero scacchiere internazionale della guerra e della pace globali, in un’unica soluzione. Nelle sue numerose lettere a casa – che appaiono qui per la prima vol-ta – Eisner riassumeva le sue esperienze con parole e immagini a beneficio della moglie e dei bambini.A Tokyo i loro ospiti dell’aeronautica restarono del tutto indifferenti all’arrivo dei due, mandandoli in giro senza un interprete, una guida o alcun tipo di istruzioni. “Ci portarono alla stazione dei treni scaricandoci subito giù” ricorda Fitzgerald.

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“Né io né Will parlavamo o leggevamo una parola di giapponese: al bigliettaio dicemmo semplicemente ‘Tokyo’, lui sollevò le dita e noi gli passammo le mo-nete finché lui non ci consegnò i biglietti. Il nostro albergo era l’Akasaka Prince Hotel e ci ritrovammo su un mezzo stipato di studenti di sinistra diretti a Tokyo per una dimostrazione. Per capire dove scendere mostravamo i biglietti agli altri passeggeri, che indicavano con le dita quante fermate mancavano. Era evidente anche fisicamente che eravamo stranieri”.Fortunatamente – o sfortunatamente, forse – i due viaggiatori si imbatterono in alcuni studenti che parlavano inglese, ma per nulla interessati al consueto scam-bio di cortesie “how-do-you-do” e che contestarono a Fitzgerald e Eisner la poli-tica estera degli USA.“Cosa pensate del comportamento di Krusciov all’ONU?” li aggredì un ragazzo. “L’approvate oppure no?”“Non dovete dimenticare che nel mio paese un ospite nella casa di mio padre è anche mio ospite” rispose Fitzgerald. Al che, Eisner sorrise e commentò: “Sapete, le usanze”.Gli studenti, stupiti dal fatto che degli americani manifestassero questo tipo di garbo, eseguirono gli inchini di rito commentando con “Ah-so”.A Okinawa, la scorta loro assegnata, il Sergente Kennedy, era – stando a Fitzge-rald – “un vero soldato, che conosceva i pro e i contro di qualsiasi cosa. Per esempio, al loro arrivo aveva prenotato un elicottero. Ma la cosa che aprì vera-mente loro gli occhi fu un ricevimento privato organizzato da Kennedy presso la leggendaria Casa da tè alla Luna d’Agosto. Ecco come Eisner descriveva la serata in una lettera ad Ann:

Stasera il Sergente Kennedy ci ha portati a casa sua, dove ci ha presen-tato sua moglie e i sei figli, e dopo un paio di birre ci hanno portati in un locale dove avremmo cenato. Era LA CASA DA TÈ ALLA LUNA D’AGOSTO. Sì, la stessa casa da tè della commedia e del film. A quan-to pare (così mi è stato detto, perché non ho visto nessuno dei due) è rimasta identica a come era all’arrivo dei GI.Abbiamo cenato... a base di sukiyaki... e che cena, con tanto di geishe che suonavano quei loro strumenti a corda cantando canzoni di cowboy imparate dai GI. Dopo un po’, si erano sedute con noi otto ragazze e la signora Kennedy ha dovuto chiedere a suo marito di informare la MAMASAN (“signora”) che non eravamo interessati. È stata una serata divertentissima, piena di risate. Le donne sono molto piccole e hanno denti grandi con un sacco di lavorazioni in oro e quando sorridono noi scoppiamo a ridere. Anche loro ridono a qualsiasi cosa diciamo, ma non

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dimenticano mai i soldi e dopo ogni bicchiere dicono sempre “Due doll-a-i, p-ego”. Mi sentivo una specie di signorotto orientale.

Una delle geishe aggiungeva alle parole della canzone coreana una sua pantomima e uno dei suoi numeri, spiegava l’interprete, era una canzone popolare della tradi-zione giapponese intitolata “La canzone del minatore”, durante la quale mimava un piccone e una pala.“Alla fine, Will indicò me e con l’aiuto dell’interprete disse alla geisha che ero stato un minatore, il che è vero” ricorda Fitzgerald. “Io dissi che sui minatori esistevano molte canzoni popolari americane. Una particolarmente commovente è Dream of a Miner’s Child, una vecchia canzone folk. Tutti cominciarono a dire di ricambiare la canzone, di cantare quella americana, e accettai. Mentre cantavo, Will faceva disegni su un tovagliolo per illustrare e tradurre quello che cantavo. Fu una gran serata per tutti”.Da lì, si spostarono in Corea.

Otto anni dopo la cessazione delle ostilità, la tensione era ancora alta al confine tra Corea del Nord e Corea del Sud. L’unico modo di arrivarci era attraverso lo stretto Ponte della Libertà a corsia unica, costruito nel 1953. Il ponto originale era stato distrutto du-rante il conflitto e non è stato ricostru-ito fino al 1998. Se fosse scoppiato un conflitto, non sarebbe stato possibile fare arrivare i rifornimenti alla base USA attraverso il ponte di barche.“Ci restammo per poco tempo” ricor-da Fitzgerald. “Eravamo sostanzial-mente osservatori, interessati a capire l’atmosfera che si respirava per poter realizzare una comunicazione per im-magini efficace sulla rivista. Una mat-tina ce ne stavamo appena fuori dal quartier generale, quando un’enorme autobotte si ferma davanti all’inferme-

ria, da dove esce un medico che si arrampica in cima al serbatoio, preleva un campione d’acqua e rientra ad analizzarlo. Esce, dà un okay all’autista dell’auto-botte e questo se ne va. Il colonnello in servizio piantò una grana colossale. Noi

Tavola in lavorazione per PS Magazine n. 24(1954).

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chiedemmo dove stesse andando e il colonnello ci rispose ‘Va sulla collina a fare rifornimento d’acqua’. Più tardi, io e Will ce ne stavamo per i fatti nostri, a fare due passi nel prato davanti alla base. Will mi guardò sorridendo: ‘Che ci sfugga qualcosa? Per esempio, un ufficiale dell’esercito che segue un autista per essere certo che non metta qualcosa nell’acqua?’. Ma non dicemmo mai niente; non eravamo lì per quello. Non eravamo in uniforme, eravamo civili”.Più tardi, lo stesso giorno, Fitzgerald, Eisner e il colonnello si trovarono al club degli ufficiali e discutere questioni tecniche per il loro lavoro.“Colonnello” disse Fitzgerald, “forse non dovremmo continuare a discutere di queste cose al bar”. E così dicendo fissava il barista coreano.“Non si preoccupi per Kim” disse il colonnello, “non capisce un parola di inglese, tranne ‘extra dry Martini’”.Eisner annuì: “Probabilmente perché sua madre s’è fatta ingravidare da un cam-mello sifilitico”.Il barista non battè ciglio.L’incontro più gratificante che Eisner ebbe in Corea fu in seguito alla visita a un’unità di manutenzione. Un sergente, camicia scura e sigaro spento in bocca, lo squadrò e disse: “Sei tu quello che fa la rivista?”“Sì” rispose Eisner, senza capire se stava per essere ringraziato o pestato.“Quello che fa le figure?”“Sì...”.“Cacchio, lo sai che mi hai salvato il culo?”All’origine della gratitudine del sergente c’era un’illustrazione realizzata da Eisner che spiegava un certo dettaglio di manutenzione, il cambio di una guarnizione. Il sergente spiegò che non riusciva a seguire i manuali, che erano troppo complicati, ma che adorava PS.Di ritorno negli States, Fitzgerald e Eisner fecero tappa a Honolulu e in qualità di civili in viaggio per conto dell’Esercito ebbero accesso a Fort de Roussy, a Waikiki, sull’isola di Oahu. Ma mentre Waikiki è una spiaggia pubblica, erano i grandi alberghi a controllare l’accesso alla riva. I pochi punti di passaggio pubblici non erano segnalati ed era quindi impossibile utilizzarli.“Andai a Fort de Rossy insieme a Will per nuotare e stare un po’ al sole. A un certo punto ci eravamo stancati e decidemmo di risalire fino al quartiere com-merciale. Una volta arrivati, c’era troppa gente ed eravamo stanchi: non volevamo tornare indietro camminando sulla spiaggia, era più comodo usare il marciapiedi. Ci trovavamo nella zona del Royal Hawaiian Hotel e la riva era praticamente intasata da questi ragazzotti hawaiiani da spiaggia e quelle loro enormi canoe a bilanciere. Erano grossi e pieni di muscoli, come dei lottatori di sumo che faceva-no pesi. Non c’era verso di trovare un punto tranquillo per uscire dalla spiaggia!

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Non potevi passare attraverso gli alberghi se non eri un cliente e la scena era quella di noi due, chiaramente riconoscibili come estranei, culturalmente diversi, etnicamente inferiori che ci aggiravamo tra questi re hawaiiani della spiaggia, chiedendo informazioni per un’uscita pubblica. Una domanda che, tra l’altro, ci identificava come economicamente più indigenti di loro, che ci trattavano con accondiscendenza, coprendoci di ridicolo. Ce ne scappammo con la coda tra le gambe, come due cani bastonati. E mentre ci allontanavamo, Will si girò e mi disse: “E adesso, caro il mio amico bianco, anglosassone e protestante, sai anche tu come ci si sente”.

• • •Durante un altro viaggio a Tokyo, nuovamente in compagnia di Fitzgerald, i due dovettero anche quella volta trasferirsi in treno dall’aeroporto all’albergo, non lon-tano dalla stazione Shimbashi. A Will, che svettava sugli altri passeggeri, sembrò di andarsene in giro su un treno giocattolo per bambini. “Will” gli disse Fitzgerald “stiamo passando una stazione dopo l’altra, ma non so dove dobbiamo scendere”.Will si allungò, chiedendo ad alta voce e molto lentamente a un passeggero: “SA-QUALE-È-LA-STAZIONE-SHIMBASHI?”Agli occhi di Will, quell’uomo era il tipico stereotipo del giapponese da cartoni animati visto da un americano, e il suo approccio fu quello del tipico stereotipo dell’americano da cartoni animati visto da un giapponese, il tipo di persona con-vinta che ponendo una domanda con voce abbastanza alta l’altro avrebbe capito.E in effetti funzionò.Il giapponese si protese a sua volta e, con grande gentilezza, rispose in perfetto inglese: “Siete stati fortunati a chiederlo a me...”. Come poi spiegò, si era laureato alla Washington State University.

• • •Eisner avrebbe semplicemente voluto dimenticare uno dei suoi ultimi viaggi per PS. “Mentii a mia moglie dicendole che sarei andata in Giappone. In realtà andammo in Giappone ma non le avevo detto dove ci saremmo diretti dopo, e cioè Saigon”.Fino a Saigon Eisner fu in compagnia di Jim Kidd, ma poi andò solo fino a Bear-cat, un campo militare in zona di guerra.La sua scorta era un giovane maggiore: “Per tutto il viaggio fu molto nervoso per-ché era il suo ultimo giorno in Vietnam e la moglie e i figli lo stavano aspettando alle Hawaii. Su questa cosa, su quello che può capitare l’ultimo giorno, erano tutti molto superstiziosi e quindi era terrorizzato”.Saltarono su un elicottero da combattimento, volando fino al delta del Mekong, ma fu una visita breve.

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“Cominciarono i bombardamenti e fummo costretti ad andarcene immediata-mente” ricorda Eisner. “Piovevano proiettili dappertutto: eravamo al centro di un boschetto, su un’isoletta al centro del delta. Era una specie di palude con alcune lingue di terra asciutta, e io dovevo assolutamente uscire di lì. Intanto il giovane maggiore aveva cominciato a tremare, e tra me e me io pensavo ‘Cosa diavolo ci fa qui un ragazzone per benino come me? Devo morire per un dannato contratto con l’esercito?’. A un certo punto ebbi veramente paura e corsi al centro dello spiazzo buttandomi sull’ultimo elicottero, che stava decollando. Saltai a bordo senza autorizzazione”.Va detto che in tutti questi suoi viaggi Eisner non rimase mai ferito, anche se la sua unica difesa fu sempre, unicamente, un tesserino di riconoscimento in qualità di civile.Eisner separò sempre le sue convinzioni personali dagli affari con l’Esercito. “Pri-ma di trovarmi là, ero convinto che non avremmo avuto grossi problemi, e che avremmo vinto. Ma quando tornai dal Vietnam avevo cambiato completamente idea. Militarmente, non pensavo che potessimo farcela.Ho sempre considerato il contratto per PS come un punto importante della mia carriera e ne andavo fiero. Da tutti i punti di vista, non avevo alcun collegamento con l’esercito: era solo un’occasione per dimostrare che il fumetto poteva trattare argomenti non necessariamente di puro intrattenimento. Tra quello che io face-vo coi fumetti e quello che ci faceva l’esercito a un altro livello c’era una grossa differenza: li usavano come forma di condizionamento, come uno strumento di propaganda. Io ne facevo un uso realmente didattico, uno strumento di istruzio-ne. Ero orgoglioso di quello che facevo ed ero convinto che fosse importante”.

• • •Murphy Anderson incontrò Eisner per la prima volta a un party organizzato dalla Wham-O, la ditta produttrice degli Hula-Hoop. La società voleva produrre un albo a fumetti e aveva invitato diversi creativi perché si conoscessero e socializzas-sero. Dopo quella sera, Alex Kotzky, Lou Fine e Wally Wood finirono tutti per lavorare per Wham-O. Anderson invece no.Diversi anni più tardi, alla fine degli anni Sessanta, mentre l’isteria per la serie TV di Batman stava passando, Anderson venne a sapere che Eisner stava cercando nuovi disegnatori per PS. Si presentò per un colloquio all’American Visuals, la società di Eisner, e venne assunto come illustratore, pur continuando a lavora-re anche per la DC. Anderson arrivava in ufficio alle 5 del mattino e lavorava fino a mezzogiorno, poi si trasferiva a disegnare supereroi alla DC, dove i suoi Hawkman e Superman avrebbero segnato un’epoca.“Per me non era difficile scimmiottare lo stile di Will su PS: avevo sempre adora-to le sue cose e lui era stato una grossa influenza fin dalla fine degli anni Trenta,

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quando cominciarono ad apparire i primi albi a fumetti” ricorda Anderson.“Al tempo non ci misi molto ad accorgermi che i fumetti migliori erano quelli realizzati dalla Quality di Busy Arnold per cui, naturalmente, Will stava facendo un sacco di cose. Ma quando uscì diventai anche un grande fan di Spirit, e col-lezionavo tutti i supplementi a fumetti di Spirit del Philadelphia Record. Ne ho conservati parecchi e, anzi, li ho anche rilegati”.Anderson fu uno dei primi appassionati a diventare un professionista del fumet-to. Il suo primo lavoro, all’età di 17 anni, fu per uno dei clienti fissi di Eisner, la Fiction House.

Per PS Eisner faceva bozzetti a matita delle copertine e degli inserti centrali a fumetti, che poi passava ad Anderson per le matite definitive e le chine. Spes-so Eisner si portava le matite di Ander-son a casa la sera, per cambiare o ritoc-care dove secondo lui c’era bisogno del suo intervento. “In ufficio non poteva lavorare granché” ricorda Anderson. “La maggior parte del tempo se ne an-dava nella conduzione della società”.Per la cronaca, Anderson è uno dei po-chi dipendenti di Eisner che non ha mai fatto insinuazioni sulla sua tac-cagneria. Ricorda anzi di avere svolto oltre a PS dei lavori per lui, come for-ma di straordinario: “Restavo la sera o arrivavo prima la mattina. Era molto generoso e per lo straordinario mi ri-conosceva il 50% in più. Ho sentito

un sacco di gente lamentarsi di lui ma mai nessuno che potesse dimostrare che non era una persona giusta. Uno dei ragazzi della DC, Chuck Cuidera, quando sentì che avrei lavorato per Eisner mi prese per un braccio insistendo per offrirmi un caffè. Poi cominciò a raccontarmi un sacco di cose su Will, spiegando che raz-za di errore fosse andare a lavorare per lui. Da parte sua c’era del rancore ma non penso che Will l’abbia mai preso seriamente”.

• • •Uno degli sviluppi dei viaggi oltreoceano di Will fu il tentativo di convincere l’esercito turco che avevano assolutamente bisogno di una versione in turco di

PS Magazine n. 12(1953).

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PS Magazine. Gli Stati Uniti stavano vendendo dei camion della Seconda Guerra Mondiale ai Turchi “che li stavano distruggendo tutti. Non sapevano nulla di manutenzione” commenta Eisner con una smorfia, al ricordo degli ufficiali turchi che ad Ankara tiravano e grattavano le marce, convinti di dimostrare la loro abi-lità. All’inizio, l’ufficiale con cui era in contatto dubitava dell’utilità di una guida all’addestramento e alla manutenzione preventiva. “Abbiamo un ottimo sistema di addestramento” gli rispondeva l’ufficiale. “Quello che ci serve dagli americani sono più soldi!”

29 gennaio 1964Cara Ann,per ora, chiunque abbia assistito alla mia presentazione ha risposto con entusiasmo, comprese le alte (o forse non così alte) gerarchie turche.Per gli ultimi tre giorni e tre notti ho lavorato fino all’una o alle due di notte in albergo per studiare i personaggi e mettere a punto il prodotto.

Baci ai ragazzi, a Dawg e a Nibb,

Will

Col titolo di Askars – il termine turco per “GI Joe” – la rivista ebbe vita breve e aveva una sua versione del soldato semplice Joe Dope.Nasrettin Hoca andava a cavallo di un asino alla rovescia per vedere da dove pro-veniva, ma “dove andava era nelle mani di Allah” ricordava Eisner.

• • •Molte storie riportate in questo libro sono state riferite da disegnatori che hanno imparato il mestiere cominciando come appassionati di Eisner. Curiosamente, l’uomo che viene citato più spesso per la notevole somiglianza dei suoi lavori con quelli di Eisner non l’aveva neanche sentito nominare prima di cominciare a lavorare per lui a PS Magazine nel 1970.“Avevo visto PS quando ero militare ma non sapevo chi fosse Will Eisner” ricorda Mike Ploog. “Quando fui congedato andai a lavorare ai Filmation Sudios, poi agli Hanna-Barbera. Nel bollettino della National Cartoonists Society c’era un annuncio per un disegnatore con esperienze militari in grado di disegnare nello stile riportato nell’annuncio. Il tipo che da Hanna-Barbera stava seduto di fianco a me mi disse: ‘Ehi, sembra fatto su misura per te!’”.Ploog, all’epoca residente in California, rispose all’annuncio e Eisner gli chiese di inviare delle illustrazioni di prova. Alcuni giorni dopo, Eisner lo richiamò:

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“Domani sarò a L.A. per una riunione, può venire al mio hotel?”. Contento per il fatto che Ploog fosse un tipo diretto e di talento, Eisner non perse tempo: “Può essere al lavoro lunedì?”, era un mercoledì. “Ehi, che diavolo...” rispose Ploog. “Ok, ci sarò”. Non era sposato, non aveva legami o problemi, detestava l’anima-zione e aveva già mollato la scuola d’arte dopo la prima settimana (“Nessuno la prendeva seriamente”), per cui non fu una scelta difficile.“Lavoravo a Moto topo e Auto Gatto, il pilota di Scooby-Doo e Wacky Races. Stavo per impazzire! Avevo disegnato così tante macchine del cavolo che se Will mi avesse offerto un lavoro a Bangkok ci sarei andato” ricorda Ploog (in seguito, Plo-og lavorò a più di 40 altri film, tra cui tre con Ralph Bakshi: Wizards, Il Signore degli Anelli e Hey, Good Lookin’; tre con Jim Henson: Dark Crystal, Labyrinth e Return to Oz; è stato production designer per Moonwalker di Michael Jackson e character designer per il remake di La piccola bottega degli orrori. Ha collaborato anche a L’insostenibile leggerezza dell’essere).Dopo dieci anni di inquadramento e di disciplina ferrea, Ploog – un po’ come Eisner, da questo punto di vista – non sopportava le persone inconcludenti. Se-condo i suoi standard, né chi faceva animazione né quelli che lavoravano nell’il-lustrazione erano sufficientemente seri: “Erano solo un branco di imbranati che andavano in giro per i corridoi a bere caffè”. Così, quando Eisner gli offrì di lavorare per l’American Visuals, il problema non furono i soldi. “Conoscendo Will, dubito che mi avrebbe offerto di più” scherza Ploog. “Era un tipo, diciamo, parsimonioso, questo è poco ma sicuro. Credo che fosse l’idea di andare e lavorare a New York. Conoscevo PS Magazine, così pensai: ‘Cavolo, stavolta mi diverto’”.Ploog volò da L.A. a New York passando per Washington, ma dopo una breve fermata nella capitale per salutare un amico del servizio militare, perse il volo: “Fi-nii col prendere un volo il giorno dopo, senza neppure pensarci. Ma siccome non ero arrivato al lavoro lunedì, Will era preoccupatissimo. Avevo già ottenuto un permesso speciale dall’esercito e siccome avvertendo la polizia Will aveva citato PS Magazine, per giorni e giorni si mise in mezzo anche l’FBI. Anche dopo il mio arrivo, continuavano ad andare dai vicini di mio padre. Mio padre era morto da due anni e chiedevano a tutti cosa sapevano di me. Insomma, Will aveva mandato l’FBI a cercarmi!”“È fatto così. Will è il tipo che, se gli hai detto che sarai al lavoro lunedì, se non ti presenti è meglio che ti fai mettere sotto da una macchina”.Prima di allora, Ploog era stato solo una volta a New York, in visita a un amico, e gli era piaciuta moltissimo. La seconda, al lavoro per Eisner, molto meno. Il punto non era il lavoro per Eisner, ma abitare in città.Eisner aveva prenotato per Ploog al Washington Hotel, in modo che si sistemas-se all’arrivo in attesa di trovare una sistemazione più stabile. “Era una cosa da

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incubo: la mia prima settimana fu la più assurda che mi fosse mai capitata, tra tempeste e gente che dalla strada ti urlava contro. Alla fine, riuscii ad andarmene e a stabilirmi nel New Jersey.Spesso lavoravamo fino a tardi e la prima o la seconda sera che lavoravo per Will, mentre attraversavo la strada per tornare all’hotel, vidi questa vecchia signora che attraversava a sua volta, diretta verso di me. Quando ci incrociammo in mezzo alla strada, quella si mise a urlare a pieni polmoni ‘ALLO STUPRO!!’ e io non sapevo che diavolo fare. Non capivo se era malata o cos’altro, poi all’improvviso mi resi conto che si stavano accendendo le luci e la gente si stava affacciando alle finestre. Pensai subito Me la devo filare e scappai, mentre arrivavano le sirene e tutto quanto il resto. Non so se le sirene fossero per me ma in realtà non era im-portante. Ero terrorizzato, era come trovarsi in una città di pazzi”.Ploog continuò a traslocare sempre più lontano dalla vecchia pazza, finché il suo avanti e indietro quotidiano per recarsi al lavoro cominciò e finì a due stati di distanza, nella contea di Bucks, in Pennsylvania.Ma il lavoro in sé gli piaceva. Tra i colleghi dello studio c’erano Ted Cabarga, Bob Sprinsky, Frank Chiaramonte e Chuck Kramer. L’ufficio si trovava nove piani al di sopra di uno dei luoghi più caratteristici di Manhattan, la caffetteria Chock Full o’Nuts [lett.; “pieno zeppo di matti” – NdT], tra la 34esima e Park Avenue. La redazione pranzava in una tavola calda dall’altra parte della strada tristemente nota come Greasy Spoon Chock Full o’Nuts [Greasy Spoon = Mestolo lurido – NdT].Il palazzo dello studio era un posto interessante. Ogni anno, chi ci lavorava doveva ricordarsi di fare il regalo di Natale all’uomo dell’ascensore, che altrimenti avrebbe smesso di servirli. Non di rado, l’ascensore smetteva di arrivare al nono piano.Eisner occupava l’ufficio principale insieme alla sua segretaria di sempre, nonché capo contabile Mary Swiatek. “Era un tipino un po’ attempato che badava a Will. Una specie di mamma chioccia”.Al di là dell’ufficio di Eisner c’erano quattro stanze, anche se dopo la dipartita di Kramer Ploog fu l’ultimo disegnatore a lavorarci. Gli altri dipendenti si occupa-vano dell’impaginazione e della produzione di PS.Uno sgabuzzino era il deposito delle lastre di piombo originali delle storie di Spirit. Eisner le conservò finché l’acqua o qualche altro disastro naturale non ne danneggiò la maggior parte. In seguito, affidò quelle che restavano a Denis Kitchen, perché le conservasse.In un’altra stanza, Eisner conservava scatole di giocattoli e ogni genere di tchotchkes, ammenicoli per il suo programma di educazione elementare World Explorer.“Non ci ho mai lavorato, era qualcosa che seguiva lui” ricorda Ploog, “ma ogni tan-to arrivava con delle cose strane, tipo dei grossi bachi da seta... una volta i topi se li mangiarono tutti lasciandoci con una manciata di bozzoli. Un’altra volta arrivò con

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delle collanine di granaglie che risulta-rono tossiche, se qualcuno le avesse in-dossate. Tutte queste cose venivano re-golarmente bloccate in dogana perché nessuno riusciva a credere che un idiota avesse comprato due casse di bachi da seta. I ragazzi mandavano un coupon e un dollaro, e Will spediva tutto. Era un business assolutamente assurdo, fuori di testa, ma gli veniva piuttosto bene. Ci ha fatto dei soldi”.Ploog lavorava quasi esclusivamente per PS. Ogni mese, esaminava insieme a Eisner le voci che richiedevano illu-strazioni, oltre a decidere un argomen-to per la storia centrale di otto pagine. Poi Ploog andava a disegnare, mostrava le matite a Eisner, ascoltava i suggeri-menti del capo e finiva il tutto.“Will era un vero padrone” ricorda Ploog. “Ti tirava fuori tutta intera la

tua giornata di lavoro. Era esigente, non nel senso che tutto doveva essere assolu-tamente perfetto ma nel senso che doveva essere qualcosa che parlava ai soldati, e questa era una delle cose in cui metteva veramente molto, molto lavoro. Voleva che chi leggeva la rivista ci si ritrovasse, e pretendeva che quando si disegnavano dei soldati sembrassero dei soldati. Un disegnatore qualunque poteva pensare che un soldato fosse un personaggio come qualunque altro, ma Will aveva questa sua immagine da ‘middle America’ su quale aspetto dovesse avere un soldato. Questa cosa mi faceva uscire di testa: guardava quello che avevo fatto e diceva ‘Io questo non lo conosco’, e io pensavo Devono proprio essere uguali a quello che hai in testa tu?, voleva umanizzarli per davvero. Mi diceva ‘Voglio capire cos’è che ha mangiato per colazione. Voglio sapere se a Des Moines, Iowa, ha lasciato la fidanzata’. Io me ne stavo seduto a guardarlo e pensavo ‘Io come diavolo lo disegno uno che sta per dirti che cosa ha mangiato per colazione?’. Poi, all’improvviso, capivo: voleva sem-plicemente che fossero umani. Voleva che si capissero più cose possibile di un certo personaggio attraverso l’atteggiamento, l’espressione, il linguaggio del corpo”.Con ogni probabilità Ploog è stato il migliore di una lunga serie di disegnatori ingaggiati per la loro capacità di imitare lo stile di Eisner. Più a lungo questi restavano e più questo diventava semplice. Stando a Ploog, lo stile di Eisner era

Una delle pubblicazioni militari dell’American Visuals (1960).

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caricaturale: “Non si preoccupava della realtà. Non doveva avere l’aspetto di una macchina ma doveva sembrarla. E lo stesso faceva con le sue figure umane. Non doveva essere necessariamente una figura disegnata impeccabilmente ma doveva essere esattamente quel personaggio, e trasmettere la sua espressione. Col lin-guaggio del corpo e con l’espressione: doveva essere riconoscibile. Will era un caricaturista pazzesco ma non nel senso che disegnava la gente, come dire... non disegnava un personaggio, disegnava gente vera. Se erano vagabondi di strada, cavolo se lo capivi! Se era una battona, idem. Aveva una profonda comprensione delle persone, che emanava dal suo disegno”.Ploog rispettava Eisner per PS ma non venne a conoscenza della sua importanza nel più ampio mondo del fumetto fino a molto dopo aver smesso di lavorare per lui.“Non sono mai stato un appassionato di fumetti. Gli unici che leggevo da piccolo erano Roy Rogers e Donald Duck. Avevo i miei idoli ma erano quasi tutti illustra-tori degli anni Cinquanta e Sessanta e solo molti anni dopo mi resi conto di che razza di icona fosse Will in quell’ambiente”.Secondo Ploog, Eisner voleva essere considerato prima come un imprenditore e poi come un disegnatore, perché pensava di essere maggiormente rispettato e apprezzato nella prima veste. Durante gli ultimi anni di PS Eisner non teneva neppure un tavolo da disegno in ufficio: lavorava sulla scrivania oppure, occasio-nalmente, su un tavolo da disegno libero di fianco a Ploog.“Quando cominciai a conoscerlo me-glio, capivo che c’era un certo imba-razzo per il fatto di essere un cartoonist, e che sarebbe stato più rispettato come uomo d’affari” precisa Ploog. “Ovvia-mente, era un ottimo uomo d’affari”.Come Feiffer e altri prima di lui, Ploog ricorda Eisner come attento fino all’ul-timo centesimo.“Era, diciamo, parsimonioso. Al pun-to che tutti avevano delle prolunghe per matite. Ha presente quando una matita si accorcia tanto che non si ri-esce più a tenerla in mano? Una pro-lunga è un aggeggio in cui si infila la matita e che ne aumenta la lunghezza, in modo da poterne usare anche gli ul-timi centimetri”.Taccagno? Può darsi. Ma Ploog ne fu af-

In questa pagina e nella seguente: immagini dal vero che Will Eisner disegnava sulle lettere per casa.

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fascinato e usa le prolunghe ancora oggi.Crescendo durante la Grande Depres-sione degli anni Trenta Eisner svilup-pò una profonda e mai superata paura dell’indigenza che a volte si manife-stava in pratiche che alcuni dei suoi dipendenti consideravano mediocri, come appunto le prolunghe. Alla fine di ogni giornata, quando tutti andava-no a casa, Eisner recuperava la carta da disegno non del tutto usata, la tagliava e la usava come carta di recupero, per gli schizzi e gli appunti. Aveva anche l’abitudine di raccogliere le matite blu non riproducibili (che sono invisibili in stampa e sono utilizzate per scrivere indicazioni ai tipografi sui bordi del-le pagine) buttate dai disegnatori. Un

giorno, per scherzo, Chuck Kramer prese tutti i mozziconi di matita recuperati da Eisner e ne fece una cintura – una specie di cartucciera da cowboy – regalandola al capo.

• • •Eisner lavorò con un contratto esclusivo per l’Esercito per vent’anni. Alle varie scadenze, quando si trattava di rinnovarlo, non fu mai in gara con nessun altro per l’incarico. Ma nel 1971 comunicò alla rivista che i futuri contratti di produ-zione dovevano essere assegnati in base a una gara. Eisner aveva già guidato PS per 227 numeri: era pronto a lasciare la rivista e a fare altro.Rinunciare al contratto per PS voleva anche dire mettere in libertà la maggior parte della redazione.“Ci fu una cena d’addio” ricorda Ploog. “All’Illustrators Club di New York. Una di quelle cene in cui tutti fanno dei brindisi. Poi Will ricevette una telefonata, e si alzò per andare a rispondere. Al ritorno, salutò tutti: ‘Devo lasciarvi, ragazzi. Buona fortuna a tutti, devo proprio andare adesso’. E se ne andò. Quindi arrivò il cameriere con tanti conti separati, uno per ciascuno. Ce ne restammo lì, col conto in mano, a guardarci in faccia allibiti: quel figlio di... gli arriva una telefonata, se ne va e ci lascia col conto!”

• • •

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Ma la storia non finì qui. Pur non partecipando alla gara per PS, l’influenza di Eisner su chi ci lavorò anche in seguito continuava a farsi sentire.“Il contratto andò a Chuck Kramer” ricorda Hubbard. “Ma Chuck non aveva la lucidità o la sottigliezza di Eisner. I suoi personaggi diventarono esageratamente espliciti e volgari. Durante la guerra del Vietnam ampliammo la rivista e per al-cuni dei manifesti e delle cose che facemmo toccò a me litigare. Quelle che una volta erano giovani donne sane, eleganti e assolutamente accettabili, nelle mani di Chuck erano diventate quasi grottesche, volgari e sessualmente esplicite. Le donne di Kramer non mi sono mai piaciute”.Kramer, Dan Zolnerowich e Mike Ploog formarono la Graphic Spectrum Sy-stems nel novembre 1971 e aprirono uno studio vicino a quello di Eisner, a cui ogni tanto andavano a chiedere consigli.E al nuovo studio capitò un incidente simile alla celebre “storia degli asciugama-ni” all’epoca di Eisner & Iger.Il servizio di smaltimento dei rifiuti costava a Kramer e Ploog quasi 150 dollari al mese. “Cacchio, Will, 150 al mese per la spazzatura!” ricorda Ploog.“Devi abituarti a queste cose, Mike. Sei a New York”, gli spiegava Eisner. “Faccia-mo così: perché non attraversate la strada e mettete la vostra spazzatura insieme alla mia. Così risparmierete un po’. Vi va?”Kramer e Ploog cercavano di risparmiare ovunque fosse possibile: il contratto per PS non era ricco come si aspettavano e, per cominciare, Ploog cominciò, tutte le sere, a portare la spazzatura dall’altra parte della strada, come aveva suggerito Eisner.Un giorno, Ploog stava lavorando in ufficio quando arrivarono tre ceffi, uno in cappotto di cammello con le maniche strappate e col cappotto troppo lungo di un buon 30 cm. “Chi è il capo? Ci devo parlare”, fece il tipo col cappotto, met-tendosi le mani in tasca.“Sono qua” rispose Ploog.“Com’è che non portate più fuori la spazzatura?”“Prego?” rispose Ploog, non capendo cosa stesse succedendo.“La spazzatura. I sacchi da lasciare all’ingresso. Dovete lasciare la spazzatura nei sacchi”.“Non so perché vi interessiate tanto ai nostri rifiuti ma noi ne facciamo pochi, così ogni tanto porto tutto in un altro ufficio, dall’altra parte della strada”.“Oh, no! Voi metterete la spazzatura nei sacchi!”E su questo se ne andarono, lasciando Ploog sbalordito. Il cuore gli batteva come non mai e, non sapendo bene cosa fare, chiamò Eisner.“Will, sono venuti tre brutti tipi a minacciarmi. Dicono che devo mettere la spazzatura nei loro sacchi!”“Temevo che potesse accadere” rispose Eisner con calma. “Il vostro lato della strada è nel territorio dei fratelli (nomi e cognomi), mentre il mio è coperto da

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un altro servizio di raccolta. Il vostro lato è mafioso, il mio no”.Improvvisamente, divenne tutto chiaro anche a Ploog. Non solo la raccolta della sua spazzatura era in mano al crimine organizzato ma Eisner lo sapeva già. E pen-sava che ci fossero due o tre cosucce che Ploog doveva imparare da solo.Dopo 24 numeri (228-251), nel novembre 1973 Kramer, Zolnerowich e Ploog consegnarono con grande piacere PS alla Visual Concepts di Murphy Anderson. Anderson fu titolare del contratto dal numero 252 al 308 (luglio 1978) e dopo una breve parentesi, durante la quale la rivista fu realizzata dalla Sponsored Co-mics di Zeke Zekley (che fece realizzare l’inserto a fumetti a Dan Spiegle e le copertine ad Alfredo Alcala), tornò a lavorarci dal numero 315 (febbraio 1979) al 368 (luglio 1983).“A certe persone le cose vengono in maniera facile, naturale” spiega Ploog. “Non sono una di quelle. Non mi piace dovermi occupare dei dettagli. Ancora oggi faccio fatica a pagare le bollette del telefono perché la prima cosa che penso è ‘Accidenti, di nuovo.’ No, non sono portato per le questioni commerciali”.Ma se dovesse, rifarebbe tutto da capo.“Mi sono divertito molto, davvero. Era un lavoro interessante e stimolava l’im-maginazione. Sono contento di avere lavorato con Will perché da lui ho imparato davvero una quantità enorme di cose. È stato il primo vero punto di svolta della mia carriera: prima di quello, fare il disegnatore era solo un lavoro, un mestiere. Era come fare il meccanico: casualmente, mi era capitato di disegnare invece di stringere viti e bulloni. E fu solo conoscendo Will che mi resi conto che c’era ben altro. Fu la sua insistenza nel chiedermi di approfondire il disegno, e il modo di disegnare le persone a farmi veramente capire, a tirarmi fuori dal mio guscio”.In parte a causa dell’approccio rudimentale di Kramer, diversi classici personaggi militari di Eisner – alcuni risalenti ad Army Motors – scomparvero dall’inserto di PS (Joe Dope e Private Fogsnoff) o semplicemente cambiarono (Connie Rod, Sgt. Half-mast).“Secondo l’esercito, non rendevano giustizia alla sua immagine dell’epoca” ricor-da Don Hubbard. “Noi non ci opponemmo. Erano i personaggi di Will Eisner e di Army Motors. Sia nell’Esercito che nel pubblico le cose stavano cambiando e Will non era particolarmente preoccupato. Eravamo noi i suoi clienti, non aveva l’interesse personale che aveva avuto in Army Motors”.Nella sua storia ufficiale di PS, Dan Andree spiega perché nel tempo i perso-naggi cambiarono:

Nei primi anni di PS, Connie era una specie di sirena in stile pin-up che appariva spesso in pose provocanti, poco vestita e pronunciava frasi con evidenti doppisensi. Come Betty Boop, o la tradizione della

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“aircraft nose art”, le decorazioni sul muso degli aerei, si trattava della rappresentazione di una donna che fosse interessante per un pubblico interamente maschile, spesso in servizio in paesi lontani che andava invogliato a prendere in mano la rivista, e a leggerla. Questo tipo di sollecitazione smise di funzionare all’inizio degli anni Settanta, a mano a mano che sempre più donne entravano a far parte del personale che si occupava di manutenzione e l’idea della pin-up diventava sempre più obsoleta e sessista.Nella prima incarnazione della rivista, Connie era assistita da due per-sonaggi in stile Beetle Bailey, il soldato Fosgnoff e il soldato Joe Dope. Come i nomi suggerivano implicitamente [“dope”=tonto; “Fosgnoff” è un nome “ridicolo” e quasi impronunciabile – NdT], erano chiara-mente due imbranati senza speranza. Dopo qualche anno, si decise che rappresentare i soldati come incompetenti non era il modo migliore per motivare le truppe, così Fosgnoff lasciò l’Esercito e PS nel 1955 e Joe Dope nel 1957.Gli afro-americani cominciavano a svolgere ruoli sempre più impor-tanti nell’esercito e nel 1970 ai personaggi di PS si aggiunse Bonnie, una donna afro-americana. Da allora, Bonnie e Connie sono ma-turate nei loro compiti di consulenti civili del personale militare per la manutenzione.Alcuni altri personaggi sono andati e venuti, come il sergente Bull Do-zer, Windy Windsock e Macon Sparks. Nel settembre 2002 PS ha dato il benvenuto al sostituto del sergente Windsock, il Sergente “Rotor” Bla-de, anche lui Afro-Americano.

Quando Murphy Anderson rilevò il contratto per PS Hubbard tirò un respiro di sollievo. “Ovviamente, in quanto disegnatore di Wonder Woman, Murphy avrebbe disegnato le donne molto meglio”.Secondo Hubbard, tra i cui incarichi c’era anche rispondere in maniera gentile e ponderata ai lettori, durante l’era Eisner, PS ricevette solo diciotto lettere con critiche negative, mentre negli anni successivi, Bella Abzug, una deputata Demo-cratica dello stato di New York, nota attivista del movimento di liberazione della donna, e il Senatore democratico William Proxmire del Wisconsin, alla ricerca di buchi nel bilancio federale, portarono la rivista sotto i riflettori accecanti della ribalta nazionale.“All’inizio di Army Motors” ricorda Eisner, “il suo lettore tipo era un GI molto diverso. Era stato arruolato e se ne lamentava moltissimo. Perciò, un umorismo un po’ volgare e scandaloso andava benissimo. Ben vengano i doppi sensi! Ma

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negli anni Sessanta l’esercito era cambiato, diventando più professionale, e questo umorismo troppo sguaiato diventò fuori posto”.La pressione perché PS si evolvesse in qualche modo aumentò il controllo sulle illustrazioni e sulla produzione da parte di Anderson.“I grossi papaveri dell’esercito ci stavano addosso, perché quelli su al Pentagono ricevevano critiche da Senatori e Deputati” ricorda Anderson. “Stavano molto attenti a come si spendevano i fondi federali e le donne soldato stavano comin-ciando a cambiare l’esercito. Durante i miei dieci anni di lavoro alla rivista questo diventò il problema e non c’era proprio più modo di continuare a fare quelle cose un po’ più osé. Le signore a volte si lamentavano che l’esercito era un branco di maschi sciovinisti e, naturalmente, c’era il problema del colore della pelle. Do-vevamo stare attenti a rappresentare correttamente i soldati neri. Introducemmo Bonnie, un nuovo personaggio, ma pensavano che non fosse abbastanza carina: continuavano a mandarmi foto di stupende ragazze nere, cercando di convincer-mi a usarle. All’epoca, durante la guerra del Vietnam, il marchio di fabbrica del personaggio era un’acconciatura “afro” e io mi sforzavo di disegnarla nel modo migliore. E il risultato era sempre: ‘No, no, no! Non è così, non va bene!’. Final-mente ebbi un’idea e semplicemente cominciai a disegnare Connie con gli occhi scuri. E le proteste cessarono. Non feci altro, davvero”.Ma in definitiva, quanto i fumetti erano realmente importanti per PS?“Ho pensato molto a questo punto” risponde Stuard Henderson, attuale diret-tore di produzione di PS. “A un certo punto qualcuno ha capito che i soldati avrebbero letto qualcosa che avesse l’aspetto di MAD, che parlasse e mostrasse le donne in maniera divertente, con i doppi sensi e tutto il resto. Ci provarono un po’ con Army Motors: c’era Connie, che era una brunetta che Will trasformò in bionda. L’esercito sapeva che i soldati l’avrebbero letto, imparando divertendosi. Chi potevano trovare di meglio di Will Eisner? Era un caporale, si identificava con i GI, con la truppa.Ma in seguito, fare in modo che PS restasse interessante e importante, in qualche modo, è stata un’autentica sfida, non potendo più contare su un sacco di espe-dienti come quelli. È la parte grafica a ‘vendere’ la rivista: l’obiettivo è che un sol-dato la prenda in mano e la legga. E spesso per noi e Joe Kubert è stato parecchio frustrante, avendo per la testa un sacco di idee interessanti che non potevamo usare. Will ha lavorato a PS in un periodo molto più spensierato e scollacciato”.Un altro cambiamento che Henderson lamenta è la distanza e la freddezza di Connie.“Ai tempi di Will, Connie interagiva con i soldati. Su una copertina, si sol-leva i capelli allungando la lozione solare a dei GI chiedendo ‘Mi date una mano?’, Ma oggi Connie non può più né toccare né essere toccata dai soldati.

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A me sembra una cosa triste: oggi Connie e Bonnie sono istruttrici civili abbastanza grigie, anonime, che non possono assumere pose ammiccanti, ma che ancora oggi possono essere utili per la trasmissione di informazioni ai soldati. Certo, il lavoro dell’esercito non è fare fumetti, ma usarli per parlare di manutenzione preventiva”.

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noveNational Cartoonists Society: finalmente

Milton Caniff, l’autore delle classiche strisce Terry e i pirati e Steve Canyon, fece entrare Will Eisner nella National Cartoonists Society, l’associazione

di cui era stato uno dei fondatori. Eisner era presente alla prima riunione dell’as-sociazione, come rappresentante puramente simbolico dei disegnatori di comic book, e ripeteva spesso che i disegnatori delle strisce consideravano quelli degli albi a fumetti come il livello più basso della scala creativa, un gradino al di sotto dei pornografi.

Walt Kelly e Milton Caniff si congratulano con Will Eisner per il riconoscimento della National Cartoonists Society.

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Per Eisner, che era stato ispirato a fare il cartoonist proprio dalle strisce che leg-geva da ragazzo, partecipare alle riunioni della NCS era come ritrovarsi tra gli dei dell’Olimpo. Le riunioni si tenevano solitamente in quello che oggi è il museo della Società degli Illustratori, al numero 128 della 63esima East. Eisner era an-cora in uniforme e si ritrovò seduto di fianco a Al Capp, il creatore di Li’l Abner. Con la sua voce forte e tuonante, che poteva sicuramente incutere soggezione, Capp si rivolse a Eisner: “E tu chi sei?”In quell’occasione, Eisner aveva le maniche dell’uniforme leggermente troppo lunghe e con la sua voce normalmente salda e sicura stranamente acuta, riuscì solo a rispondere: “Io, uh, mi chiamo Will Eisner”.“E cosa fai?”“Faccio The Spirit”.Capp ci pensò un minuto poi, rispose: “Oh, sì, ci ho dato un’occhiata una volta a Filadelfia”.Eisner lo prese per un complimento, e sorrise, mentre Capp lo riportava rapida-mente alla realtà.“Non ce la farai mai” gli disse il cartoonist più famoso d’America. “Sei troppo fottutamente normale”.Allontanatosi da Capp il prima possibile, Eisner fece la conoscenza di Rube Goldberg, vignettista del New York Sun. Goldberg è ancora oggi noto e ricordato per il personaggio del Professor Lucifer Gorgonzola Butts, progettista di macchi-ne in grado di svolgere compiti semplici in maniera complicatissima. Se ne stava seduto su una sedia, in disparte, stringendo saldamente il bastone in una mano. Dopo l’ormai consueto interrogatorio a base di “E tu chi sei?”, Goldberg chiese: “Spirit? E che cosa sarebbe?”“Be’, è diverso dalle strisce quotidiane” iniziò a spiegare Eisner. “Trovo che questo tipo di linguaggio sia una forma d’arte e che abbia enormi potenzialità letterarie”.Goldberg fissò Eisner e picchiò per terra il bastone, scuotendo la testa con espres-sione disgustata.“Stronzate, ragazzo! Sei un saltimbanco, come tutti noi. E questo è solo spettaco-lo, puro e semplice, non dimenticarlo mai!”

• • •“Will mi portò alla mia prima riunione della NCS” ricorda Jules Feiffer, “dove assistetti alla prima polemica sull’opportunità di ammettere le donne. Rube Goldberg non le voleva perché con delle donne non si poteva dire ‘cazzo’. Alex Raymond era l’unico che sostenne l’ammissione di Hilda Terry (‘Teena’). Non ricordo che Will abbia detto una sola parola”.

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• • •

Burne Hogarth, meglio noto come disegnatore della striscia di Tarzan nonché au-tentico maestro dell’anatomia in movimento, nel 1975 fu ospite del salone inter-nazionale del fumetto di Angoulême, in Francia, l’anno in cui Eisner divenne il primo autore di fumetti americano a ricevere la massima onorificenza del festival (molti anni dopo, il disegnatore underground Robert Crumb sarà il secondo). I due arrivarono separatamente ma si ritrovarono sullo stesso volo di ritorno a New York.Hogarth si era candidato quell’anno alla carica di presidente della NCS e passò la maggior parte del volo a cercare di convincere Eisner che avrebbe dovuto presen-tarsi per la carica di tesoriere. Eisner era disponibile ma una volta rientrato a casa venne a sapere che il tesoriere in carica non se ne sarebbe andato tanto facilmente.Discussero anche di un altro argomento – a cui Eisner era molto più interessato – e cioè l’idea di riunire molto più spesso i cartoonist per occasioni e discussioni sociali e letterarie.“In Francia i disegnatori si trovano e tengono salotti letterari, da noi invece non abbiamo occasione per vederci. La NCS si riunisce una volta all’anno; non è la stessa cosa. Voglio lanciare un salotto letterario anch’io!”È esattamente quello che fece poco più di un anno dopo, invitando Jules Feiffer,

Will Eisner ad Angoulême (Francia) nel 1983.

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Art Spiegelman (RAW, Maus), Harvey Kurtzman, Gil Kane (apprezzato per le sue raffinate interpretazioni grafiche di Lanterna Verde, Atom e Hulk) e natural-mente Hogarth a passare un pomeriggio con lui e la moglie Ann nella loro casa di Wisnlow Road.La mattina del grande giorno, Ann subì un intervento alle gengive ma, pur afflitta dal dolore, preparò ugualmente la cena per Eisner e gli ospiti.C’era anche Hogarth, che a New York, insieme a Silas Rhodes, aveva fondato la School of Visual Arts. Nonostante i suoi incredibili trascorsi col linguaggio del fumetto, Hogarth non voleva essere considerato un cartoonist, ma un grande illustratore. Eisner lo sapeva, ma a quanto pare non abbastanza bene.“Nel mondo dell’illustrazione si può lavorare in due modi” disse Eisner in aper-tura del suo primo salotto. “Per comunicare oppure a fine decorativo. Noi ci oc-cupiamo di comunicazione”. Hogarth diventò furibondo, cominciando a inveire contro Eisner e dando il via a una furibonda tirata contro il suo ospite.Dalla stanza accanto, Ann udì la voce e il tono, piuttosto che le parole e i conte-nuti e quando tutto fu finito, e gli ospiti se ne erano andati, disse a Will: “Chiun-que fosse, non voglio che quell’uomo entri mai più in casa mia”.Da quel giorno, i rapporti tra i due restarono tesi. In un’occasione, si ritrovarono insieme dietro il tavolo di una conferenza sul tema dell’umorismo. “Burne non aveva il benché minimo senso dell’umorismo” ricordava Eisner di quella volta, “e lo presi in giro dall’inizio alla fine. Alla fine, mi disse ‘Sei subdolo, spunti da dietro una roccia per pugnalare alla schiena’”.Non molto dopo quell’episodio, The Comics Journal domandò a Hogarth un’opi-nione su Eisner. “Che cosa dovrei pensare di un uomo che per riuscire a vincere un premio deve farselo intestare?” rispose Hogarth, riferendosi ai più prestigiosi premi per autori di fumetti, intestati a Eisner (non da lui).

• • •Mort Walker, creatore di Beetle Bailey, co-creatore insieme a Dik Browne di Hi & Lois, fondatore dell’International Museum of Cartoon Art, nonché ex presidente della NCS e vecchio amico di Eisner, contestava la sua accalorata e polemica opi-nione secondo cui i membri della NCS avevano sempre considerato i disegnatori di fumetti come inferiori ai pornografi nella piramide professionale del settore, considerandola “una convinzione auto-imposta”. Peraltro, non negava che i suoi predecessori negli anni Quaranta e Cinquanta fossero estremamente selettivi nel-la scelta degli iscritti.“A un certo punto, accettavano solo autori di strisce che apparivano su più di ottocento giornali” ricorda. La conseguenza era che ad alcune riunioni si ritro-varono soltanto in 15. “Erano molto elitari” ricorda Walker. “Quando diventai

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presidente io, negli anni Sessanta, volevo allargare la NCS; molti si opposero ma io arrivai a triplicare gli iscritti, anche se i vecchi membri la presero male. Non volevano neppure Charles Schulz! Era necessario conoscere già un socio. La mia posizione era: ‘Abita a Minneapolis, come diavolo fa a incontrarsi con gli altri?’. Invitai Schulz a New York e lo portai un po’ in giro. Conobbe Al Capp e altri cartoonist. Il tempo di farlo e vinse un Reuben”. (Il Reuben Award è l’equivalente per i disegnatori di strisce a fumetti di un Emmy o di un Oscar).I disegnatori di comic book non erano gli unici a sentirsi ostracizzati dagli autori di strisce; nella NCS anche i vignettisti umoristici venivano trattati come cittadi-ni di serie B. “A una delle nostre cene si presentò un tipo” ricorda Walker, “e mi fece: ‘Chi sono?’ e io: ‘Spiacente, non lo so’ E lui: ‘Ecco, vede?’”.Gli autori delle strisce godono di grande popolarità in patria e persino all’estero. Volendo fare dei confronti, i vignettisti sono delle personalità nelle città d’origine ma sostanzialmente sconosciuti al di fuori dell’area di distribuzione del giornale. Fu per questo che uscirono dalla NCS per formare una loro associazione di cate-goria, l’Association of American Editorial Cartoonists.

• • •Mort Walker ha un aneddoto su Ei-sner che conoscono in pochi. “Mi stavo separando da mia moglie, ma non avevo ancora divorziato e stavo cominciando a corteggiare la mia fu-tura moglie Cathy. Capitò che ci stes-simo furtivamente infilando nel Rye Brook Hilton Hotel in pieno giorno” ricorda Walker. “E chi ti vedo uscire? Will e Ann Eisner! Parlammo un po’ nel parcheggio: loro stavano uscendo dopo avere pranzato mentre noi stava-

mo entrando. Sono certo che non fossero lì per una stanza, come me. Io dissi ‘vi presento Cathy...’ ma non so che cosa abbia pensato!”

Will Eisner in compagnia diMort e Cathy Walker.

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dieciDi tutto, di più. A fumetti.

Sposato di fresco e leggenda vivente dell’editoria a fumetti alla venerabile età di 34 anni, nel 1951 Eisner si rese conto che il suo lungo percorso professionale

si andava esaurendo. Le vendite dell’inserto di Spirit avevano raggiunto il mas-simo diversi anni prima e in molte grandi città la concorrenza per aumentare la diffusione era diminuita, perché i grandi gruppi possedevano sia i quotidiani del mattino che quelli della sera. Contemporaneamente, il prezzo della carta aumen-tava e gli editori erano riluttanti ad accettare aumenti tariffari. Gli autori migliori preferivano dedicarsi all’illustrazione per riviste e al design, piuttosto che disegna-re personaggi in costume. E i bambini stavano rapidamente passando a un altro mezzo in rapida ascesa, la televisione.

PS Magazine stava per uscire quando Eisner decise che poteva essere il progetto giusto per dare una sterzata alla sua carriera. Inoltre, avrebbe gratificato la sua convinzione sulle potenzialità didattiche del fumetto, come già aveva dimostra

Un supplemento di PS Magazine prodotto dall’American Visuals sul mitragliatore M16.

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nell’esercito dal 1942 al 1945.Alla fine degli anni Quaranta Eisner fondò l’agenzia pubblicitaria American Vi-suals, iniziando un ventennale allontanamento dai comic book a favore dell’A-merica delle grandi industrie. L’agenzia produceva PS, oltre a storie, illustrazioni e fumetti omaggio, soprattutto per clienti della Costa Est come la sede di Balti-mora dell’American Medical Association. Altri clienti erano RCA Records, Fram Oil Filter, Baltimore Colts e New York Telephone. Agli inizi, Eisner scriveva e illustrava personalmente i dépliant, o almeno li abbozzava a matita e disegnava le copertine.

L’American Visuals produceva due tipi di fumetti. Il primo era di “tecniche di con-dizionamento”, una forma di propaganda per qualsiasi cosa, dalla ricerca del lavo-ro alle vacanze, dalla prevenzione antincendio alle campagne elettorali e all’igiene orale. L’altro erano storie di “procedure per l’uso del prodotto”, nello stile di PS.Job Scene, per esempio, è il titolo di una serie di fumetti prodotti per il Dipartimento del Lavoro. America’s Space Vehicles era il titolo di un ponderoso volume rilegato senza neppure fumetti. Grammarfun era un supplemento illustrato per corsi di lingua in-glese. Deadly Ideas fu usato dalla General Motors per il suo programma di sicurezza sul lavoro. Eisner creò la serie Rip Roscoe per New York Telephone, promuovendo

Grammarfun, una delle produzioni di Will Eisner per l’American Visuals.

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l’elettrizzante novità dei te-lefoni multifrequenza. Ho-ods Up era una rivista “per rappresentanti Fram alla ricerca di un profitto” (i let-tori più attenti si accorsero che la Connie delle storie di Joe Dope aveva cominciato a fare gli straordinari nei panni di Convertible Con-nie per la Fram Oil Filters). Eisner disegnò persino la copertina di un album RCA Victor del gruppo The Singing Dogs dal titolo Hot Dog Rock ‘n’ Roll.“Può dare l’impressione che giocassi a fare l’im-prenditore, ed è così” ri-corda Eisner. “Mi piace-va fare affari, mi piaceva quello spirito da partita a scacchi”.Per vent’anni Eisner mise alla prova la sua convin-zione che i fumetti potes-sero essere qualcosa di più di un gioco per bambini, portando il potenziale di questo linguaggio all’at-

tenzione dei responsabili di governo e dei dirigenti d’azienda. Così, creò i più disparati “albetti sequenziali per l’aggiornamento” di personale e cittadini stranie-ri, che spaziavano dalla manutenzione e l’utilizzo di apparecchiature militari alle tecniche di coltivazione, fino alla divulgazione di questioni sociali.Questi prodotti venivano commissionati, acquistati e distribuiti dall’Agency For International Development, dalle Nazioni Unite, dal Dipartimento del Lavoro degli USA e dal Dipartimento della Difesa.

• • •

Un tipico “fumetto aziendale” di Will Eisner.

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Nel 1957 uno degli agenti di Eisner stava cercando di vendere alla General Mo-tors uno stampato informativo rivolto ai dipendenti dal titolo “Help! What Ma-kes A Boss Tick?”.Jules Feiffer aveva appena terminato il servizio militare, era senza lavoro e fece un salto all’American Visuals per salutare l’ex capo e per qualche consiglio.“Perché non lavori su questo libretto, Jules?” gli chiese Eisner.Così, Feiffer mise a punto un fac-simile che l’agente portò alla General Motors, che lo rifiutò seccamente.“Le illustrazioni sono pessime” fu la giustificazione.E neanche l’agente ne era rimasto colpito favorevolmente: “Will, non sei qui per fare la carità agli amici e ai tuoi vecchi disegnatori. Perché non trovi qualche vero professionista?”Il mese dopo Feiffer vendette al Village Voice una striscia a fumetti e da un giorno all’altro era diventato un nome pubblico, noto al di fuori del fumetto. Non passò molto prima che l’agente tornasse da Eisner: “Ehi, Will, non è che si può riavere quel tipo, Feiffer? Secondo me adesso la sua roba si vende”.

• • •Tre anni dopo – senza ricorrere nuovamente a Feiffer – la General Motors com-missionò finalmente una pubblicazione didattica all’American Visuals. Dalla loro prima comunicazione fu subito chiaro quanto più difficile sarebbe stato avere a che fare con grossi gruppi piuttosto che con syndicates e giornali:

2 giugno, 1960Gentile Mr. Eisner:le rimandiamo in allegato la bozza da lei inviataci per “How Your Company Buys”. Mi sembra priva di un qualsiasi interesse e non credo servirebbe granché alla GM o ai suoi dipendenti.

Cordialmente,William H. Lane

Editor, Special PublicationsDirezione del personale

Sei giorni dopo, Lane trasmise i commenti dei suoi consulenti editoriali su un’altra idea per l’aggiornamento del personale, “How to Get Across the Street and Sur-vive”. Un’idea che “mi ha lasciato del tutto indifferente” scrisse uno dei dirigenti.E una settimana dopo, Lane restituì il bozzetto di una terza proposta, “Stop and Go on Ice and Snow”.

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1 agosto 1960Gentile Mr. Eisner:gli incaricati di esaminare “How to Get Across the Street and Survive” non ne sono rimasti per nulla colpiti. Secondo loro si tratta di una presentazione decisamente raffazzonata. Trovano inoltre che vi sia un atteggiamento sostanzialmente ostile nei confronti degli automobilisti. Il titolo potrebbe essere parzialmente responsabile per questa impressio-ne...

Cordialmente,William H. Lane

Editor, Special PublicationsDirezione del personale

La cosa andò avanti, pagina dopo pagina di appunti, note e correzioni dalla Ge-neral Motors a Eisner. Se Eisner pensava che negli anni Quaranta Busy Arnold cercasse il pelo nell’uovo, fu solo all’inizio degli anni Sessanta che capì quanto gli fosse andata bene. Alla fine, il contratto con la General Motors produsse diverse pubblicazioni di successo ma il rapporto non fu mai facile.

• • •A un certo punto, verso la metà degli anni Sessanta, l’American Visuals fece do-manda per entrare in Chapter 11, una forma di amministrazione controllata rego-lamentata dal diritto fallimentare degli Stati Uniti. In quel periodo stava produ-cendo guide e manuali con le istruzioni per i dipendenti delle pompe di benzina ma chiudere il contratto stava richiedendo molto tempo, troppo.“Per stendere i testi ci eravamo rivolti a degli ingegneri” ricorda Eisner. “Quando riuscimmo a firmare il contratto avevamo già pagato cifre sufficienti ad affondare la società”. Così, l’American Visual trascorse circa un anno in amministrazione controllata prima di riuscire a raggiungere dei concordati con i creditori.Nel 1966 Eisner fuse l’American Visuals con la sua diretta concorrente nel settore dei fumetti didattici, la Koster-Dana Corporation. La Koster-Dana era nota per il suo servizio di “Good Reading Rack”, un sistema di distribuzione ai dipendenti di informazioni gratuite e pubblicazioni didattiche su argomenti di igiene perso-nale, incentivi professionali e sicurezza sul lavoro attraverso distributori girevoli. Tra i clienti c’era la General Motors.“Quelli della Koster-Dana si accorsero di noi” ricorda Eisner, “in un periodo in cui ci eravamo ripresi dal Chapter 11 e avevano una certa disponibilità finanziaria. Loro avevano i clienti, ma avevano bisogno di qualcuno che li aiutasse a sviluppa-re i prodotti del caso. Ci chiamarono e cominciammo a discutere della possibilità

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di una fusione”.Eisner diventò così Presidente di tutte le divisioni editoriali e della comunicazio-ne della Koster-Dana – compreso il servizio di “Good Reading Rack”, American Visuals, Will Eisner Productions, Noth American Newspaper Alliance (NANA), NAAN Radio e il Bell-McClure Syndicate – nonché titolare del 17% delle azioni dell’intero gruppo. Tra le altre cose, il Bell-McClure distribuiva le strisce giorna-liere di Batman (firmate dall’ex amico d’infanzia Bob Kane) e Superman.

• • •Oggi R. C. “Bob” Harvey è un apprezzato storico del fumetto, autore di biografie su Milton Caniff e Murphy Anderson. Quando lasciò la marina nel 1963 il suo obiettivo era fare il cartoonist. E sperava che l’apripista sarebbe stato Fiddlefoot, una sua striscia avente per protagonista un eroe che illustrava le modalità con cui si accingeva a salvare le damigelle in pericolo. Il trucco stava nel fatto che il povero Fiddlefoot era timido con le ragazze. In una striscia, un amico lo benda in modo che non si imbarazzi troppo mentre accorre al salvataggio di una donna meravigliosa. In un’altra, Fiddlefoot sfonda una porta per soccorrere l’ennesima ragazza in pericolo.“Mentre disegnavo quella striscia, me ne venne in mente una in cui Spirit faceva la stessa cosa, e la copiai”.

Nell’albetto che preparò per presentare e promuovere Fiddlefoot, Harvey mise an-che alcune pagine con i personaggi principali. “Tornai a dare un’occhiata a Spirit, prendendo ancora un po’ di cose qua e là” ricorda Harvey.All’inizio dell’estate, Harvey si sentì pronto a mostrare la sua creatura ad alcune delle principali agenzie di New York. La procedura era la seguente: lasciava il tutto per una settimana a un editor, poi tornava a riprendere la striscia e a ricevere le opi-nioni. L’ultimo posto a cui la presentò fu il Bell-McClure Newspaper Syndicate.Dopo una settimana di silenzio, Harvey si ripresentò per recuperare le sue cose. C’erano notizie sia buone che cattive.

Fiddlefoot, una striscia creata da Bob “R. C.” Harvey e mai pubblicata.Un editor riconobbe l’ispirazione da The Spirit.

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“Ci è piaciuta” gli disse un redattore di mezza età. “Ma non la prendiamo”.E queste erano le cattive notizie.“Conosce Spirit, di Will Eisner?”“No” rispose Harvey mettendosi sulla difensiva. “Di cosa sta parlando?”“Be’, molti anni fa Will Eisner creò un personaggio chiamato Spirit. E a molti di noi le sue cose ricordano il suo stile” chiarì l’editor. “Per la cronaca, si dà il caso che oggi Will Eisner sia il presidente di Bell-McClure”.Okay, probabilmente erano tutte cattive.

• • •All’età di 15 anni – correva l’anno 1966 – Mark Evanier fondò insieme ad alcuni amici un club di appassionati di fumetti. Subito, per divertirsi, misero ai voti chi fosse il miglior disegnatore. Will Eisner era tra i principali favoriti ed Evanier, in qualità di presidente del club, gli inviò una lettera scritta a mano informandolo dei risultati. Eisner, com’era nel suo stile, rispose con una lettera scritta a macchi-na piena di ringraziamenti, allegando un disegno originale.“Lo mostrai agli altri e ci fu una discussione tremenda sul fatto che fosse mio o appartenesse al club” ricorda Evanier. “Sostenevano che non era giusto che rice-vessi gratis dei disegni di Will Eisner solo perché ero il presidente. Io invece soste-nevo che Will Eisner aveva scritto la lettera a me (nel 2002 Mark Evanier – che nel frattempo era diventato un nome molto noto del fumetto e dell’animazione, autore di Groo the Wanderer insieme a Sergio Aragonés, co-autore di DNAgents, sceneggiatore di una creatura di Eisner come Blackhawks e sceneggiatore di carto-ni animati come Plastic Man e Scooby Doo, tra gli altri – fu preso nuovamente alla sprovvista da una lettera di Eisner, che aveva ritrovato la sua prima lettera di tanti anni prima, e gliela restituiva).

• • •Per Eisner, un uomo abituato a fare le cose a modo suo, la prospettiva di dirigere una Società per Azioni era snervante.“Ero il peggior presidente possibile per una società quotata in borsa e per avere a che fare con un consiglio d’amministrazione” ricorda Eisner. “La goccia che fece traboccare il vaso fu quando cominciarono a volere fare cose che non mi piacevano per motivi che io non approvavo, come acquistare una società perché possedeva un accantonamento di un milione di dollari in fondi pensione. Nello stesso periodo, io stavo cercando di assicurarmi le memorie del generale Douglas McArthur per il syndicate, e il consiglio d’amministrazione non approvò lo stan-ziamento necessario. Erano più interessati ai trucchi per gonfiare il valore delle azioni. Così, volevo tirarmene fuori”.

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Stando a Eisner, il valore delle azioni al momento della fusione era 2 dollari ed era quasi raddoppiato quando cominciarono i problemi. Non era difficile identifica-re una strategia d’uscita: il contratto dell’esercito per produrre PS Magazine era intestato a Eisner, non all’American Visuals. “Non potevano conservare il contrat-to senza di me” ricorda Eisner. Così, Koster-Dana scorporò l’American Visuals insieme al contratto per PS e verso la fine degli anni Sessanta Eisner ricominciò nuovamente da capo.

• • •Eisner trasferì gli uffici dell’American Visuals a Park Avenue, dove cominciò a produrre Job Scene per il Dipartimento del Lavoro. Era una serie di guide a fumet-ti da distribuire nelle scuole e nelle agenzie di collocamento federali. Il materiale e i testi venivano sviluppati e controllati dal Behavioral Science Center del Boston Sterling Institute e tra gli autori delle illustrazioni c’erano i vecchi collaboratori (e autori di Spirit) Klaus Nordling e Andre LeBlanc.Lo scopo di Job Scene era quello di informare i cittadini più svantaggiati delle possibilità di formazione disponibili anche per loro, se solo avessero saputo dove cercare. All’inizio, la pubblicazione fu collaudata in aree degradate afflitte da una disoccupazione endemica, tra cui Newark e Filadelfia. I rilievi appurarono che veniva prelevato il 92,5% delle copie di Job Scene, rispetto al 47% delle precedenti pubblicazioni e un anno dopo, l’Agenzia Federale per il Collocamento allargò il programma su base nazionale. In tutto, l’American Visuals produsse undici nu-meri di Job Scene: nove illustravano settori lavorativi specifici, come Machine Shop Work, Welding, Carpentry, Health Work, Retail Sales, The Food Field, Electronics Work, Clerical Work e Auto Mechanics. I due titoli restanti, You’re Hired e Power is Green si occupavano di questioni generali sul comportamento sul posto del lavoro e sottolineavano l’importanza della formazione.Eisner diresse anche altre due società, IPD Publishing Co. (manuali in lingue straniere) ed Educational Supplements Corporation (materiali sussidiari per studi sociali, oltre a card didattiche per Grammarfun e poster).L’IPD Publishing era un semplice marchio, una divisione dell’American Visuals che lavorò a un’idea di Eisner insieme alla Sterling Publishing dell’amico David Bohem: “Raccoglievamo dépliant omaggio distribuiti da società e organizzazio-ni varie di categoria, rivendendoli per un abbonamento mensile alle biblioteche pubbliche” ricorda Eisner. “Sterling aveva una lunga esperienza con le bibliote-che. La cosa non durò a lungo, perché i dépliant originali cominciarono a scarseg-giare, così l’attività dell’IPD proseguì con altre attività commerciali, come volumi didattici (How to Build Model Ships, How to Build Model Cars, What Your Mayor Does, What Your Senator Does, What Your Congressman Does, Helicopters in Action,

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Combat Tanks)”.Nel 1971, Eisner, all’età di 54 anni, acquistò l’A. C. Croft, una società del Con-necticut che produceva materiale per insegnanti. Per meno di un anno, prima di rivenderla, si ritrovò così a spostarsi di frequente tra New York e Branford. Un giorno, mentre si trovava presso la Croft, ricevette una telefonata destinata a cam-biare ancora una volta il corso della sua carriera. Dall’altra parte del filo c’era Phil Seuling, un appassionato organizzatore di mostre sul fumetto: invitava Eisner alla sua convention annuale del 4 luglio presso il Commodore Hotel di Manhattan.Più o meno in quel periodo, Jules Feiffer – ormai divenuto uno sceneggiatore e un disegnatore affermato e di fama sempre crescente – si sentì con Ann Eisner.“È un peccato che Will abbia sprecato tutti questi anni a occuparsi di aziende. Avrebbe potuto fare cose molto più creative”.“Ma, Jules” gli rispose Ann, “Will si è divertito un sacco!”Il punto era che, pur rimettendosi al tavolo da disegno dopo l’esperienza Koster-Dana, Eisner non era ancora pronto a produrre quel tipo di qualità a cui avrebbe dato vita più avanti. Le esperienze come imprenditore e uomo d’affari avevano fatto maturare una parte di lui come lo scrivere e il disegnare non avevano mai fatto. E avendo cominciato a creare pagine a fumetti così presto nella sua vita, per il momento non avvertiva gli stimoli e la motivazione necessari a riprendere quel tipo di lavoro.

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undiciKitchen Sink

Parte I

Denis Kitchen scoprì Spirit all’inizio degli anni Sessanta, grazie a Jim Warren e alla rivista Help! di Harvey Kurtzman. Harvey aveva scritto un articolo

su Eisner ristampando uno degli episodi di Sand Saref, che per Kitchen fu un’e-pifania. Erano passati circa dieci anni dall’uscita dell’ultimo episodio di Spirit e nell’era di Elvis Presley il personaggio era sostanzialmente sconosciuto ai giovani. Alcuni anni dopo, nel 1966, Kitchen si imbatté nelle ristampe della Harvey, che alimentarono ulteriormente il suo appetito. Diventò un appassionato del perso-naggio, anche se non fu facile.I supplementi originali degli anni Quaranta e Cinquanta erano introvabili, le librerie specializzate in fumetti ancora non esistevano e c’erano pochissimi col-lezionisti che vendevano per corrispondenza. Il collezionismo era una questione di pura fortuna: a volte Kitchen trovava una ristampa in una libreria dell’usato o in un mercatino delle pulci, ma erano occasioni alquanto rare. Era veramente la preistoria del collezionismo dei fumetti.

• • •Nel 1969 Kitchen scrisse, disegnò e pubblicò da solo un albo di fumetti un-derground a Milwaukee, nel Wisconsin: si chiamava Mom’s Homemade Comics (sottotitolo: Straight From the Kitchen to You). Nell’autunno del 1970 co-fondò il settimanale alternativo The Bugle (ispirato al nome del quotidiano che appariva nelle storie dell’Uomo Ragno), di cui disegnò diverse copertine, e produsse una striscia settimanale distribuita in proprio.Circa nello stesso periodo fondò le società Krupp Comic Works e Kitchen Sink Enterprises, per pubblicare e distribuire fumetti underground. All’inizio, furono progetti pionieristici e divertenti, ma senza un ritorno economico. Nel numero di Natale del 1970 del Bugle, Kitchen e il collaboratore Jim Mitchell inserirono un annuncio con alcuni dei loro disegni in vendita e lo strillone “Salvate da morte si-

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cura un artista ridotto alla fame... procurandovi un regalo di Natale assolutamen-te unico”. Su base locale non ricevettero nessuna risposta ma, sorprendentemente, un paio di settimane dopo ricevettero per posta un salame di Coney Island con un biglietto: “Non sia mai detto che Phil Seuling permetta che un cartoonist faccia la fame”.Come Kitchen imparò in seguito, Seuling era un insegnante di Brooklyn, non-ché un fanatico di fumetti che praticamente da solo aveva ideato e realizzato il circuito delle convention del fumetto, e in seguito avrebbe inventato il sistema cosiddetto “diretto” della distribuzione, che praticamente salvò l’intero settore dall’estinzione.A Seuling piaceva lo stile sardonico e umoristico di Kitchen, sia dal punto di vista artistico che personale, e commissionò a Kitchen degli inserti pubblicitari a fu-metti che divennero il marchio di fabbrica delle sue convention, oltre a invitarlo come ospite a quella del 4 luglio 1971, al Commodore Hotel di New York sulla 42esima strada, nei pressi della Grand Central Station. Fu la prima convention di Kitchen (e, casualmente, anche di Paul Levitz, futuro Presidente della DC Comics) e anche se per Eisner era la seconda, non era possibile nessun tipo di confronto. Entrambi erano esterefatti. Provenendo da ambiti totalmente diversi dell’industria editoriale, per loro era stupefacente vedere migliaia di persone riu-nite in un unico posto con un unico scopo e un’unica cosa in mente: i fumetti. Quando Eisner aveva cominciato a lavorare, nessuno si sarebbe lontanamente immaginato che il fumetto avrebbe generato appassionati sfegatati, collezionisti, o raduni come quello.Nella zona dei rivenditori, Kitchen frugava sui tavoli alla ricerca di vecchie copie di Humbug, Li’l Abner e Tip Top Comics, quando la persona al suo fianco lesse il nome sul badge degli ospiti. Con un leggero scoppio ritardato, e con un pesante accento francese, domandò: “Oh, Denis Kitchen!”“Sì?” Rispose Kitchen stupefatto. “Ci conosciamo?”Si trattava dello storico ed esperto di fumetti francese Maurice Horn, co-autore di A History of the Comic Strip, uno dei primi volumi di un certo spessore sull’ar-gomento. In seguito, avrebbe compilato L’Enciclopedia mondiale del fumetto. “Mr. Will Eisner vorrebbe conoscerla” disse a Kitchen.“Vuole scherzare! Se mai, sono io che vorrei conoscere Will Eisner!”Si concordò rapidamente un appuntamento e Horn li presentò in una saletta riservata, lontano dalla folla.“Sono davvero felice di conoscerla, Mr. Eisner, ma anche un po’ stupito. Perché mi stava cercando?” fu l’esordio di Kitchen.Eisner aveva sentito parlare di Kitchen dalla comune conoscenza Seuling ed era curioso di conoscerlo. Eisner squadrò Kitchen, che all’epoca indossava pantaloni

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viola e stivaloni mal messi, sorridendo per quei baffetti non curati e i capelli che scendevano bene al di sotto della spalle del giovane editore.“Eravamo completamente diversi, fino al modo di fumare la pipa” ricorda Kitchen.Eppure, Eisner era rimasto affascinato da quello che il giovane faceva in maniera professionale. Gli pose rapidamente una serie di domande sui fumetti under-ground, o comix, su come venivano prodotti e distribuiti.“Da quello che capisco, avete un vostro sistema di distribuzione” disse Eisner. “E insieme ai vostri amici godete di una libertà artistica assoluta”.“Be’, sì” rispose Kitchen.“Sono argomenti che mi interessano moltissimo”.Parlarono a lungo della scena fumettistica alternativa, di come Kitchen vendeva i suoi fumetti, del sistema degli sconti, delle condizioni economiche e del pubblico di quei prodotti. Eisner era molto interessato al fatto che le forniture di Kitchen ai distributori erano senza resa, perché furono le rese eccessive a stroncare il suo tenta-tivo di editore di fumetti nel 1948. Era anche molto colpito dal fatto che gli autori underground ricevessero diritti come gli altri autori e che si vedessero restituire le tavole originali, cosa che nell’editoria a fumetti ufficiale accadeva molto raramente.“Ero affascinato, anzi geloso, del fatto che Denis godesse di una libertà assoluta nel pubblicare ciò che gli piaceva di più”. ricorda Eisner.Kitchen, nel frattempo – come Seuling prima di lui – voleva sapere tutto dei vecchi tempi, e di Spirit.Dopo una lunga chiacchierata, Eisner gli chiese di mostrargli un po’ dei suoi fu-metti “underground”. Fino a quel momento, aveva solo sentito parlare di questa nuova generazione di comix, non avendo nessuna ragione per recarsi nei coffee shop in cui solitamente venivano venduti. All’epoca, lo stesso Seuling era il mag-gior rivenditore di prodotti underground e ne aveva almeno tre lunghi tavoli nella stanza dei commercianti, stracarichi di ogni possibile albo a fumetti. Quando Kitchen fece strada a Eisner, un giovane disegnatore di nome Art Spiegelman si stava aggirando proprio lì vicino. Spiegelman, che avrebbe vinto un premio Pulitzer, stava iniziando la sua attività collaborando a riviste di comix come Real Pulp, Young Lust, Bijou Funnies e Bizarre Sex.“Qui abbiamo un po’ tutto quanto” disse Kitchen.Ma prima che potesse prendere qualcosa di adeguato da mostrare al suo eroe, Ei-sner, impaziente, afferrò il primo che gli capitò, un albo di S. Clay Wilson [figura storica dell’underground americano – NdT], uno dei fumetti più oltraggiosi e irriverenti in circolazione in quel periodo. Eisner lo aprì e sbiancò visibilmente dando un’occhiata al contenuto, Captain Pissgums and his Pervert Pirates. Per gli autori underground infrangere le regole era un punto d’onore ma Wilson si spin-geva più in là di chiunque altro.

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Eisner non si aspettava che violenza e sesso espliciti fossero così espliciti! Inarcan-do visibilmente le sopracciglia, lo rimise subito giù.Spiegelman, che aveva ascoltato la conversazione, si lanciò immediatamente in una appassionata difesa di Wilson. All’epoca Eisner non sapeva chi fosse Spiegel-man, e Kitchen aveva corrisposto con lui unicamente per posta, perciò fu colto egualmente alla sprovvista. I tre iniziarono un’animata discussione, la prima di tante negli anni a venire. Kitchen, che non voleva irritare o alienarsi la simpatia di Eisner, cercò di essere la voce della ragione. Alla fine, Will alzò le mani: “Okay, gente, è stato molto interessante ma adesso devo andare”. (“Negli anni Settanta Art sapeva essere un tipo davvero odioso” ricorda John Holmstrom, fondatore di Punk Magazine ed ex studente di Eisner alla School of Visual Arts. “La prima volta che ci incontrammo minacciò di prendermi a pugni. Stavo parlando dei Ramones e dei Dictators. Lui li prendeva sul serio, non capiva che erano tutte prese in giro. Ma Art è fatto così”).Eisner pensò che non avrebbe mai rivisto nessuno dei due ma, da rodato uomo d’affari, diede loro il biglietto da visita. Quando Kitchen rientrò a Milwaukee, raccolse un po’ di fumetti underground che aveva pubblicato e il 14 luglio 1971 li spedì a Eisner con la seguente lettera:

Gentile Mr. Eisner,le invio un campione della nostra linea di fumetti underground. Cre-do che in generale li troverà di maggior buon gusto rispetto a quelli che si è malauguratamente trovato per le mani presso la Comic Art Convention (che, per la cronaca, sono pubblicati da un mio concor-rente). Come Maurice Horn sa bene, nelle nostre edizioni mettiamo una cura molto maggiore...

Cordialmente,Denis Kitchen

Eisner lesse gli albi inviatigli da Kitchen, compreso Bijou Funnies, che tra gli altri presentava i lavori di Robert Crumb (noto anche come “R. Crumb”, l’autore maggiormente identificato col movimento underground per le sue storie su Zap e Head Comix, nonché per personaggi sempreverdi come Mr. Natural e Fritz il Gatto, per non parlare del tormentone “Keep on Truckin’”), Jay Linch (Nard n’ Pat), Skip Williamson e Justin Green, Cloud Comix, Deep 3-D Comix (Don Glassford), Home Grown Funnies (Crumb) e diversi numeri di Mom’s Homemade Comics (quasi tutti di Kitchen). Eisner ne restò piacevolmente colpito.Kitchen stupì ulteriormente Eisner parlandogli delle sue ambizioni, oltre alla pubblicazione di fumetti underground. “Conosco solo poche e relativamente

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vecchie edizioni di Spirit, ma meriterebbe di essere ristampato per le nuove gene-razioni. Le interesserebbe?”Due settimane dopo, Eisner rispose a Kitchen che gli sarebbe piaciuto parlarne.

Caro Denis,grazie per la tua lettera e per le tue pubblicazioni.Hai assolutamente ragione! Sono molto più gradevoli e professionali di quasi tutto il resto. Mi hanno colpito in modo particolare le tue cose ed è un piacere constatare che nei tuoi fumetti c’è qualcos’altro oltre a personaggi fornicanti! È tutto assolutamente promettente.Maurice sta lavorando a una prima bozza di una rivista di Spirit. Non appena avremo qualcosa di pronto ci risentiremo per ulteriori dettagli.Restiamo assolutamente in contatto.

Cordialmente,Will Eisner

Per Eisner, lavorare con la Kitchen Sink Press voleva dire salire a bordo di un guscio di noce su cui fare vela verso il tramonto. All’epoca, ormai in vista, lo stava aspettando il suo sessantesimo compleanno. Eisner lo vedeva come la transizione verso la vecchiaia, un pensiero malinconico per l’uomo a cui piaceva pensare a se stesso come a una giovane promessa del cartooning.A un tipo formale e vecchio stile come Eisner, il solo aspetto di Kitchen – il prototipo del tipico hippie con i capelli lunghi – doveva bastare a farlo scappare a gambe levate. In realtà, non occorreva un genio per capire che la scena under-ground era una riedizione dei tempi pionieristici della fine degli anni Trenta. Così, quando Kitchen chiese il permesso di ristampare alcune storie di Spirit, Eisner accettò immediatamente.Si accordarono rapidamente per una percentuale sulle vendite e altri dettagli, poi Kitchen richiamò Eisner al telefono per ricevere la prima tranche di pagine.“Prima” disse Eisner da imprenditore consumato, “vorrei vedere una bozza del tuo contratto standard”.“Uh, be’, ecco, Mr. Eisner, noi non facciamo contratti” rispose Kitchen. “Ha la mia parola, e le invierò una lettera, ma non facciamo contratti”.“Non farò niente con nessuno senza un contratto” rispose fermamente Eisner. “Perché non vuoi spedirmi un contratto?”Kitchen si lanciò quindi in una lunga spiegazione su come i contratti venivano im-posti agli autori da editori privi di scrupoli che in questo modo si approfittavano di loro. “So tutto di come hanno derubato Jerry Siegel e Joe Shuster (gli autori di Su-perman) e anche Harvey Kurtzman, e non farò niente del genere con i miei autori”.

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Eisner ascoltò pazientemente, poi spiegò rapidamente al giovane e idealista amico come si sbagliasse al 100%. I pregiudizi di Kitchen erano effettivamente pregiudi-zi e non c’era alcun motivo perché un hippie non firmasse un contratto. Doveva solo essere un contratto accettabile da ambo le parti.“In realtà, un contratto non è un’imposizione” gli spiegò Eisner. “un buon con-tratto è qualcosa che tutela entrambe le parti chiarendo tutti gli aspetti. Per esem-pio, la tua stretta di mano a me va bene, ma se domani finissi sotto il tram? Come potrei spiegare ai tuoi soci su cosa ci eravamo accordati?”“È alquanto improbabile”. commentò Kitchen.“Può darsi” concordò Eisner, “ma se accadesse qualcosa del genere non voglio avere a che fare coi tuoi soci. Inoltre, domani sotto il tram potrei finirci io. Senza niente di scritto come spiegherai alla mia vedova come ci eravamo accordati?Eisner vinse la strenua resistenza di Kitchen, disperatamente aggrappato alla sua prevenzione nei confronti di qualsiasi cosa che avesse a che fare col Sistema. La sua ultima linea di difesa fu “Will, detesto spendere soldi in avvocati”.A questo Eisner non poteva ribattere niente: “Non posso darti torto. Neanch’io ho voglia di pagare avvocati. Facciamo così: scriverò un contratto io, e lo userai solo se ti andrà bene”.Kitchen ringraziò Eisner e riagganciò. Col senno di poi, la situazione era para-dossale. L’idea di Kitchen di contratti imposti agli autori dagli editori era stata completamente ribaltata da un autore che cercava di costringere lui, un editore, a firmare un contratto. In seguito, Kitchen confidò a Eisner che in quell’occasione gli aveva fatto un grosso favore.

• • •In realtà, quando Kitchen parlò con Eisner di ristampare i vecchi supplementi di Spirit per i giornali sotto forma di moderni comic book, la cosa doveva apparire un’idea bizzarra per entrambi. Non c’era una grande richiesta per quel personaggio già vecchio di decenni, e perché mai Eisner avrebbe dovuto vedere il suo detective – residente in un cimitero ma da ogni altro punto di vista assolutamente per bene e rispettabile – venduto sugli scaffali insieme ai fumetti di S. Clay Wilson?In seguito Kitchen ammise che non aveva un’idea chiara sulla reale possibilità di riuscire a vendere Spirit nel mercato dei coffee shop e delle librerie underground che gravitavano intorno ai College. Più dell’80% dei suoi clienti acquistavano i fumetti insieme a cartine per sigarette di vario tipo, e che Spirit avrebbe venduto era per lui una grossa scommessa (a rischio zero per Eisner). Ma con grande gioia di entrambi, la cosa funzionò.In Spirit gli hippie vedevano una specie di outsider “ganzo”, un improbabile eroe in giacca e cravatta privo di superpoteri, le cui bizzarre avventure e il cui stile non

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convenzionale e sopra le righe si spo-sava bene con lo spirito psichedelico dell’epoca.Non tutti i punti vendita adottarono subito Spirit, naturalmente. I titola-ri dei coffee shop che pensavano cose come “mai fidarsi di nessuno sopra i trent’anni”, per esempio, contestaro-no Kitchen: “Cosa diavolo stai com-binando? Questi non sono fumetti da coffee shop! Sono fumetti per vec-chie cariatidi!”.Ma Kitchen credeva fermamente nell’importanza della diversificazione. Da un lato, era convinto che la rivolu-zione fosse dietro l’angolo, ma al tem-po stesso una parte di lui pensava che da lì a poco la controcultura sarebbe arrivata al capolinea. Si rendeva con-to che i comix underground erano un fenomeno e che non potevano durare per sempre. E aveva ragione.

• • •La Kitchen Sink Press non fu mai gestita con le formalità della Marvel Comics o della DC Comics. La sua produzione era mediamente di un albo a fumetti al mese e anche se a volte Kitchen ne pubblicava due o tre contemporaneamente, potevano trascorrere altrettanti mesi senza nessuna nuova uscita (nello stesso pe-riodo, Kitchen dirigeva un’agenzia pubblicitaria ed era direttore artistico di The Bugle; era impegnatissimo, ma non a tempo pieno nel fumetto). Con un pro-gramma di uscite così irregolare, Kitchen poteva permettersi di parlare con un disegnatore di passaggio da Milwaukee e dirgli: “Che ne dici di farmi qualcosa per la prossima antologia?” e il disegnatore magari rispondeva: “Ma certo, comincio subito; ti darò qualcosa tra tre o quattro mesi”. Spesso passava un anno prima che il disegnatore inviasse il lavoro ma se pensava che fosse all’altezza della propria richiesta Kitchen lo pubblicava ugualmente.E a differenza di oggi, quando un albo a fumetti viene commercializzato con an-nunci e promozione presso distributori e negozianti mesi prima della sua uscita, la Kitchen Sink Press non faceva nessuna forma di promozione prima dell’uscita.

The Spirit: The Origin Years n. 2,Kitchen Sink Press.

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Quando arrivava in redazione un nuovo numero, di solito Kitchen lo portava in tipografia per la consueta prima tiratura, che normalmente era 10.000 copie (un titolo di Crumb poteva arrivare a 50.000). Una volta stampato, se ne spedivano copie campione ai distributori di articoli vari, ai librai indipendenti e ai nuovi distributori come Phil Seuling e Bud Plant: “Ecco il nostro nuovo libro: quan-te copie ne volete?”. Sulla base dell’esperienza, Kitchen presumeva di riuscire a vendere circa 10.000 copie di quasi qualsiasi cosa: tutti gli editori underground ogni tanto pubblicavano prodotti di qualità inferiore ma, sostanzialmente, riusci-vano sempre a venderne almeno 10.000 copie. L’unico punto interrogativo era la velocità con cui la tiratura sarebbe stata venduta: per le prime 10.000 copie poteva essere necessario un anno, prima di ristamparne altre 10.000. Un albo underground di successo non usciva mai di catalogo, mentre i singoli numeri di Spider-Man o Superman uscivano tutti i mesi per essere sostituiti il mese succes-sivo dal numero nuovo.I fumetti commerciali rimasti invenduti – che spesso rappresentavano più del 50% della tiratura – venivano normalmente macerati dai distributori: una proce-dura inefficiente, costosa e dispersiva che Kitchen detestava.Marvel e DC erano normali case editrici che proponevano un prodotto normale: la mensilità degli albi costituiva il loro modello produttivo standard. Ma il punto di vista degli hippie era che se c’e-rano dei fumetti “forti”, perché non si doveva poterli trovare sempre? E infatti i migliori venivano sempre ristampati. Il ragionamento di Kitchen era che en-trando in una libreria era sempre pos-sibile trovare una copia di Huckleberry Finn perché si trattava di un classico che aveva superato la prova del tem-po. E se un fumetto di Robert Crumb era davvero buono, i lettori avrebbero continuato a scoprirlo e a leggerlo oggi come l’anno scorso, o tra cinque anni. Gli underground approfittavano anche di un massiccio passa parola e dei pre-stiti tra appassionati, perché nei college di solito finivano normalmente nelle stanze e sulle poltrone, per non parla-re delle comuni e altri luoghi in cui il

Eisner spiazzò molti suoi lettori con questa copertina per il n. 3 della rivista underground Snarf.

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concetto di proprietà si faceva nebuloso. E in ogni caso, gli acquirenti originali non avevano l’abitudine di leggere il fumetto una sola volta, rinchiuderlo in una busta di plastica e riporlo in un cassetta di sicurezza sigillata ermeticamente a umidità controllata per il resto dell’eternità (come capita spesso oggi).In questa sorta di mercato generazionale, Kitchen assicurò un posto allo Spirit di Will Eisner promuovendolo sotto il marchio di “underground Spirit”. E se da un lato i contenuti erano sostanzialmente e quasi sempre ristampe, per ingraziarsi il nuovo pubblico Eisner creò copertine vivaci e, occasionalmente, anche qual-che nuova pagina. Non era lo Spirit del supplemento del quotidiano di papà: in copertina, Eisner ci poteva infilare, per esempio, una donna a seno nudo. Poi si scopriva che i seni erano fasulli, mentre uno spacciatore ne apriva uno e lo usava come cassaforte, dicendo qualcosa a proposito del fatto che usava quello come posto sicuro. Era una battuta assurda ma Kitchen l’adorava (e all’interno del nu-mero c’erano anche pagine nuove, particolari anche quelle: Eisner stava approfit-tando della ritrovata libertà).Per il vecchio autore, tornare a lavorare col suo linguaggio preferito senza rete e senza regole era assolutamente liberatorio.Il primo numero dell’Underground Spirit andò esaurito e Kitchen lo ristampò. Ma proprio dopo avere spedito il secondo numero in tipografia, Eisner ricevette una telefonata da Jim Warren.

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dodiciIl sogno di Jim Warren

Il primo contatto di Jim Warren con Spirit fu a 11 anni, sulle pagine del Phila-delphia Record, nel 1941. Ma non lo lesse. “Conoscevo altri che lo leggevano,

ma io no” ricorda Warren. “Lo studiavo: ogni vignetta, ogni nero, ogni ombreg-giatura di china, ogni dettaglio architettonico di un’abitazione, la struttura della pagina che faceva correre l’occhio esattamente dove voleva Will. Lo trovavo asso-lutamente incredibile. Per me, e per il resto del mondo, quest’uomo, praticamen-te da solo, ha cambiato i cosiddetti fumetti trasformandoli in una forma d’arte visiva. ‘Forma d’arte visiva’ è un termine tecnico: quello che Will produceva era bellezza senza tempo”.Due decenni più tardi, Jim Warren era diventato editore di fumetti e in società con Harvey Kurtzman lanciò la rivista Help! che uscì fino al settembre 1965. In copertina comparivano comici di punta, come Sid Cesar, Jerry Lewis e Jonathan Winters, all’interno ristampe di fumetti di Winsor McCay (Little Nemo), George Herriman (Krazy Kat) e Milton Caniff (Male Call), inoltre presentava al pubbli-co americano futuri innovatori dell’underground come Robert Crumb (Fritz the Cat) e Gilbert Shelton (Wonder Wart-Hog). Era una rivista di moda e di punta in anticipo sui tempi, da cui prorompevano talento e creatività.“Avevamo un budget incredibilmente piccolo” ricorda Warren. “Un giorno, con assoluta naturalezza Harvey mi disse ‘mi è sempre piaciuto Will Eisner’. Io saltai sulla poltrona: ‘È sempre piaciuto a te? Quell’uomo mi ha cambiato la vita!’. Poco dopo Will ci diede il permesso di ristampare in Help! sette pagine di una sua classica storia di Spirit”.Facciamo un salto in avanti. Nel 1973 Jim Warren è sostanzialmente l’editore di fumetti – alternativo e al tempo stesso commerciale – di maggior successo d’A-merica. Se Marvel e DC rappresentavano il fumetto commerciale, e Kitchen Sink Press e Rip Off Press quello underground, Warren Publishing stava in qualche modo nel mezzo. Era commerciale perché le sue testate principali – Creepy, Eerie

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e Vampirella – si trovavano nella maggior parte delle edicole. Ma era alternativo per la scelta di pubblicare fumetti in bianco e nero e in formato rivista: i bagni di sangue di Warren non avevano meno probabilità di Batman o degli X-Men di finire di fianco a Time o Good Housekeeping. E se da un lato Marvel e DC resero famosi al grande pubblico i nomi di Stan Lee e Jack Kirby, e i comix misero in luce Robert Crumb e Gilbert Shelton, Warren arrivò ad avere una sua scuderia di abili professionisti, tra cui apprezzatissimi disegnatori horror e fantasy come Richard Corben, Esteban Maroto e Jeff Jones.Quello che a Warren mancava era un prodotto in grado di attirare i lettori non interessati al sangue e all’horror.

• • •Molte delle persone che in quegli anni lavoravano per Warren sono diventate colonne portanti dell’editoria a fumetti per i decenni a seguire.Dopo il servizio militare negli anni Sessanta, il primo colloquio di lavoro di W. B. DuBay come illustratore fu a New York, presso uno studio di Park Avenue a cui era arrivato rispondendo a un’inserzione sul New York Times, che stava cercando un disegnatore di layout per “una rivistina militare”.“Fu Will in persona a farmi il colloquio” ricorda DuBay. “Credo che l’avessero colpito le mie credenziali. Ero appena stato congedato dopo una ferma di due anni come redattore del maggior giornale dell’esercito e lungo la strada avevo vin-to alcuni premi. Inoltre, gli feci vedere come fossi in grado di disegnare qualsiasi cosa in qualsiasi stile volesse lui, compreso il suo. Ed ero particolarmente bravo con le sezioni tecniche dei principali motori dell’esercito”.Alla fine, il lavoro andò a un altro veterano, Mike Ploog, e fu questa la maggior delusione di DuBay in tutta la sua vita. Dopo sei mesi e un periodo presso War-ren, se ne tornò in California.Diversi anni più tardi, DuBay tornò a New York, avendo nel frattempo già scrit-to e disegnato diverse storie horror per Creepy, la rivista di Jim Warren, che lo riassunse come redattore della stessa Creepy e di Eerie. Curiosamente, l’ufficio di Warren si trovava proprio dietro l’angolo rispetto al luogo del suo ‘grande rifiuto’.“Trovandomi nei pressi,” ricorda DuBay, “sapevo che alla fine avrei dovuto fare un salto a salutare il mio eroe, anche se non si sarebbe ricordato di me. Così, un giorno passo e mi presento come il nuovo redattore di Jim Warren. Gentiluomo come sempre, Will fece del suo meglio per ricordarsi di me. Chiacchierammo insieme a lungo e gli dissi più volte che non sarei diventato l’uomo che ero se non avessi letto Spirit e senza tutte quelle storie sulla manutenzione su PS. Poi gli chie-si quando avrebbe ristampato tutte quelle meravigliose vecchie storie di Spirit”.“Non appena avrò trovato l’editore giusto” fu la risposta di Eisner, che poi citò

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Marvel e DC come possibilità.“In quel momento, nella mia mente era già cosa fatta”, ricorda DuBay. “E sapevo che avrei avuto una nuova testata della Warren da seguire”.Anche il disegnatore Carmine Infantino, per anni importante editor della DC Comics, era a caccia dei diritti di Spirit. Anzi, gli interessava non solo il personag-

gio di Eisner ma anche la sua struttura per la produzione di fumetti didattici. “Ero venuto a sapere che Will stava la-vorando per l’esercito” ricorda Infan-tino. “Ci vedemmo e ne parlammo. Ne parlai anche con la Warner – la Warner Communication, proprietaria della DC – e a loro non interessava: la produzione di fumetti didattici non avrebbe fruttato abbastanza soldi perché valesse la pena di coinvolgere la DC. Quanto a Spirit, chiesi a Will se fosse interessato a lavorare per noi, magari creando qualche nuovo per-sonaggio. Il motivo era che in quel periodo stava parlando con Stan alla Marvel esattamente della stessa cosa. Nella narrazione e nel design della pa-gina era un genio”.DuBay tornò alla Warren facendo ir-ruzione nell’ufficio del capo. “Quand’è

che mettiamo fuori quella nuova rivista?” gli chiese.“Quando ne troverò una all’altezza dei nostri standard” rispose Warren.A quel punto, il sorriso di DuBay illuminò la stanza. E divenne ancora più grande quando disse a Warren di avere appena parlato con Will Eisner.

• • •Nell’ottobre 1966 e nel marzo 1967 la Harvey Comics aveva prodotto due numeri di un nuovo comic book di Spirit. Con l’aiuto di Chuck Kramer Eisner aveva scrit-to e disegnato una nuova storia di sette pagine con le origini di Spirit per il primo numero e una seconda nuova storia per il secondo, mentre il resto erano ristampe.Ma erano state le due ristampe a grande diffusione, con nuove copertine di Ei-sner, pubblicate da Denis Kitchen nel 1973 a riportare Spirit all’attenzione del grande pubblico.

The Spirit della Super Comics era un’edizione pirata.

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Quando Warren seppe che Eisner stava discutendo con Marvel e DC della possi-bilità di ristampare gli episodi di Spirit chiamò immediatamente Eisner al telefo-no descrivendo il suo progetto e invitandolo a pranzo.“Lo portai in un posto sfavillante, credo che fosse il Friar’s Club” ricorda Warren. “Feci di tutto per fare colpo, il che non è facile. Difficile fare colpo su uno come Will. Will vede sempre al di là e attraverso qualsiasi fumo negli occhi. Gli spiegai che doveva essere la Warren a pubblicare le sue cose. E gli dissi anche che non po-tevo pagarlo quanto gli altri, ma che da me avrebbe trovato la passione, l’energia e l’amore per fare le cose nel modo migliore”.Quasi un’ora dopo, quando finalmente Warren ebbe finito con la propaganda, Eisner, l’uomo d’affari, gli chiese: “Che cosa mi stai offrendo, esattamente?”Warren si rese conto che doveva cominciare a comportarsi da editore, non da semplice lettore, e abbozzare una possibile offerta per i diritti di Spirit.“Ma non ci riuscivo” ricorda. “Semplicemente non ci riuscivo. Non riuscivo a mettermi nello stato mentale ed emotivo per trattare con Will Eisner. Quel Will Eisner. Trattare significa che qualcuno dice ‘voglio x’, tu rispondi ‘be’ posso darti x meno qualcosa’, poi dopo sei ore ci si incontra a metà strada. Con lui non riuscivo a farlo. Detestavo trattare con le persone veramente creative, ma con Will Eisner era come trattare con Dio: come si fa? Puoi solo dire ‘Cosa vuoi?’ lui risponde ‘Questo’ e tu ‘Okay’. E andò esattamente così”.Le condizioni di Eisner erano semplici; fino a un certo punto. Chiese 1000 dollari a numero, in anticipo, più una percentuale sui profitti.E questa era la parte semplice. La parte complicata era Denis Kitchen. Avendo accesso alla più ampia e più tradizionale rete distributiva delle edicole, Warren assicurò a Eisner di riuscire a distribuire senza problemi fino a 100.000 copie di una rivista mensile con storie di Spirit.Per quanto Eisner fosse in debito con Kitchen per avere rispolverato il personag-gio, erano numeri difficili da ignorare. Eisner lo chiamò immediatamente per aggiornarlo. “Mi ha davvero colpito quanto abbiano venduto bene, specialmente con quella tua assurda distribuzione” spiegò Eisner. “Ma Jim Warren mi ha appe-na fatto un’offerta che non posso rifiutare. Pensa di riuscire a distribuire 100.000 copie mensilmente. Senza offesa, davvero. Spero di continuare a fare cose insieme ma dopo che sarà esaurito il secondo numero, non rinnoverò il contratto”.Kitchen era distrutto e Eisner poteva capirlo. Ma da uomo d’affari, aveva incon-trato una persona in grado non solo di vendere molte più copie, ma anche di ven-derle secondo un piano di uscite regolari, e in punti vendita assai più rispettabili del coffee shop “Da Harold lo sballato”. Incassare diritti da Spirit dopo vent’anni era come ricevere un’eredità da uno zio dimenticato.E neppure Kitchen ci avrebbe perso del tutto.

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“Per togliermi il rimorso” ricorda Eisner, “posi come condizione che Warren ac-quistasse le copie invendute di Kitchen. Probabilmente fu questo a dare il via a un rapporto ultra trentennale”.Così, Eisner inserì come condizione nel contratto l’acquisizione da parte di War-ren delle rimanenze dello Spirit di Kitchen. “Will si sentiva in colpa perché Denis è un tipo davvero a posto” ricorda Warren. “E io tra me e me mi dissi ‘Questo Eisner è anche leale con le persone. Qualcosa di molto raro in questo settore’. Così, risposi immediatamente ‘Ma certo che le acquisteremo’. E spedii immedia-tamente l’assegno. Chi altri avrebbe fatto diversamente? E non trattai assoluta-mente il prezzo chiesto da Denis; acquistai tutto esattamente al valore che Will rappresentava per me perché sapevo di avere a che fare con due persone che non avrebbero tirato bidoni a nessuno. Sia Will Eisner che Denis Kitchen avevano una reputazione di onestà e coerenza in un ramo che non brilla precisamente per queste qualità”. (Anni dopo, Warren disse a Eisner che avrebbe detto di sì anche a 5000 o a 10.000 dollari per numero: “Avrei venduto la fattoria, avrei ipotecato la casa, avrei venduto il primogenito pur di lavorare con te; era sempre stato il mio sogno fin dalla quinta elementare”.)Warren sottolinea come non avesse mai visto l’Underground Spirit di Kitchen e che il suo interesse derivava unicamente dall’avere saputo che Marvel e DC si erano messe alla caccia di Spirit. “Non ricordo di avere visto le edizioni di Denis Kitchen e di avere detto a Will ‘Ehi, noi possiamo fare meglio’. Ma se Will ricorda diversamente, per me non c’è problema.Ricordo che sentivo molto la concorrenza con Stan Lee perché se n’era uscito con un’imitazione da quattro soldi della nostra rivista Famous Monster (quella della Marvel si chiamava Monsters Unleashed). Tutta da ridere: Jim Warren che andava a testa bassa contro il potente Stan Lee e la potentissima Marvel Comics! Naturalmente, creativamente parlando Stan è un genio, eppure si era preso una mia idea copiandola clamorosamente, e io lo avrei strangolato. Se non fosse stato alto 193 centimetri. Ho conosciuto un sacco di gente che mi diceva ‘Sono il tuo più grande ammiratore’ e io rispondevo sempre ‘Oh, no. Il mio più grande am-miratore è Stan Lee’. Quanto a Spirit, per me rappresentava qualcosa come ‘Santo cielo, devo tenerlo lontano dalle grinfie di Stan’; inoltre, c’era di mezzo il grande Will Eisner e non potevo farmelo sfuggire.Sapevo di mettermi in concorrenza con dei colossi editoriali in grado di offrire a Will molti più soldi ma ero convinto di avere un grosso vantaggio. La Warren Pu-blishing avrebbe prodotto la rivista di Spirit con tutto l’amore e la cura possibili. Inoltre, non mi importava di guadagnarci, volevo solo farla uscire. Volevo che il mondo e un’intera nuova generazione vedesse quello che avevo visto io a undici anni. Will Eisner era uno dei motivi per cui avevo fatto questo lavoro: Will mi

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aveva fatto capire come i fumetti potessero essere maledettamente più divertenti di Braccio di Ferro. Non che fosse male, ma il talento tecnico e creativo di Will era incredibile, usciva dal fumetto, lo trasportava in un’altra dimensione. In quegli anni, per me chiamare Spirit ‘solo un fumetto’ era come dire che il baseball era ‘solo una partitella tra ragazzini’. Era qualcosa di completamente diverso; due pianeti, due galassie diverse”.L’accordo prevedeva l’utilizzo in qualsiasi momento da parte di Eisner dell’ufficio di Warren come se fosse stato il suo e da lì avrebbe seguito e supervisionato ogni aspetto della produzione. “La parola di Will era legge, su questo non c’era mai stato nessun dubbio” ricorda Warren. “Non si trattava di controllo creativo, ma di controllo e basta. Se Will mi avesse detto ‘Salta dalla finestra dal settimo pia-no’, l’avrei fatto. Come pure l’intero reparto grafico e di produzione della Warren Publishing”.Un giorno, Eisner mise alla prova le parole di Warren: per un certo numero della rivista disegnò una copertina che avrebbe colorato un altro. “Con dei colori da circo”, avrebbe poi commentato. Quando la copertina gli tornò per l’approva-zione, Eisner si infuriò e si precipitò nell’ufficio di Warren pronto a fare sfracelli.“Jim era in riunione con qualcuno” ricorda Eisner. “La sua segretaria non voleva farmi entrare ma io passai lo stesso, sbattendogli la copertina sulla scrivania e urlando ‘Sul mio cadavere, Jim!’, poi uscii”.Fedele alla parola data, Warren cambiò i colori.

• • •Il primo numero della rivista di Spirit venne festeggiato in maniera insolita per una pubblicazione a fumetti, con un party offerto da Jim Warren per Eisner in una sala del celebre Plaza Hotel di New York. Tra i venti invitati, lo staff editoriale della casa editrice e alcuni invitati speciali, come il disegnatore Richard Corben. Tutti intorno a una singola, enorme tavola rotonda che alcuni paragonarono a quella di Re Artù.Il responsabile dell’hotel, un uomo sui quarant’anni, chiese di parlare con Warren in disparte.“Sì, che c’è?”“È veramente quel Will Eisner?” gli chiese.“Certo”.Il tipo lasciò partire un lungo fischio: la cosa l’aveva colpito. Dopo quella serata, il prestigio di Warren presso il Plaza uscì sensibilmente aumentato.Lo stile della copertina del primo numero non si differenziava molto da quello di Creepy o Eerie. Il secondo si avvicinava maggiormente all’idea originale di Eisner dei supplementi domenicali. “Volevamo un’immagine di Spirit con uno stile il-

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lustrativo e al tempo stesso conservare quella linearità alla Eisner. Ma non era facile, anche perché volevo che la no-stra versione di Spirit apparisse come la migliore possibile” ricorda Warren.All’interno, la rivista era, be’, abba-stanza particolare. Le prime quattro pagine (indice, lettere e un articolo), così come le ultime quattro (con la pubblicità di libri specializzati e mo-dellini di mostri), erano stampate su una carta più economica color sal-mone. Le successive 28 erano su car-ta normale, simile a quella su cui in origine venivano stampate le storie di Spirit. Seguiva un inserto di otto pagi-ne a colori con un’altra storia di Spirit, poi altre 28 su carta normale.

• • •W. R. “Bill” Mohalley fu direttore di produzione delle riviste Warren dal 1972 fino alla sospensione delle pubblicazioni, circa dieci anni dopo. Il suo capo poteva anche essere un fan incondizionato di Eisner, ma secondo Mohalley non era il momento giusto per un revival di Spirit, né era Warren l’editore adatto.“Spirit era qualcosa di diverso dalle nostre solite riviste di mostri” ricorda Mohalley. “Procedeva con un ritmo diverso. Non credo che vendesse particolarmente bene. Era roba anni Quaranta, niente di nuovo. A me sembrava datata, non adatta a un pubblico giovane. Ma era certamente interessante, anche se per me non era il momento giusto per cose del genere. Era come un vecchio classico dei tempi andati. Ma ci provammo”.Eisner sceglieva storie e illustrazioni, mentre Mohalley e i suoi collaboratori con-fezionavano materialmente la rivista per poi fargliela approvare. La produzione divenne progressivamente più complessa, dalla semplice ristampa di disegni ori-ginali di Will all’aggiunta di motivi su più livelli.“Lavoravamo sulle storie come avrebbe fatto un bambino con le matite colorate” ricorda Mohalley. “Per esempio, coloravamo una barba, o un abito, tutto a mano. Non si può spiegare quanto era complicato: dovevamo guardare tutta la storia e as-sicurarci una certa coerenza, per esempio che l’abito fosse sempre dello stesso colore. C’era talmente tanto lavoro che dovevo portarmi tutto a casa per farlo la sera e spesso ne avevo fino all’una”.

The Spirit n. 2,Warren Publishing.

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• • •Spirit lasciò immediatamente il segno sugli appassionati di fumetti. Il primo nu-mero di Warren superò l’edizione Kitchen Sink di decine di migliaia di copie: una nuova generazione di lettori scoprì il personaggio e una nuova generazione di autori e disegnatori ne restò influenzata oltre ogni possibile aspettativa.Ma col passare dei mesi, il successo diminuì.“Non vendeva bene quanto meritava, perché non c’era la possibilità di posizio-narla sul mercato in maniera adeguata” ricorda Warren.All’epoca, non esistevano le librerie specializzate in fumetti e per raggiungere gli appassionati di fumetti e vendere 50.000 copie Warren doveva piazzare le riviste in un numero di edicole sufficiente a raggiungere un milione di persone. Oggi, una società che produce un prodotto per donne incinte non lo promuoverebbe su riviste come National Enquirer, National Geographic o Playboy, ma su riviste di settore, di nicchia che si rivolgono a un pubblico di donne incinte, cioè a un pubblico di potenziali clienti. All’epoca questo approccio non esisteva, semplice-mente perché non esisteva un mercato di nicchia a cui Warren potesse rivolgersi.Gli editori di fumetti avevano i loro espositori girevoli (“Ehi, ragazzi! Fumetti!”) oppure un loro settore all’interno delle edicole, ma come casa editrice la Warren Publishing doveva lottare fino all’ultimo centimetro quadrato, perché distributori e negozianti non sapevano dove collocare The Spirit, Creepy, Eerie e Vampirella.Secondo Warren, “Il primo giorno, Dio creò il distributore. Il secondo creò l’a-meba. Poi cominciammo a salire lungo la scala evolutiva. I distributori non sa-pevano cosa diavolo fossero le nostre riviste, non volevano saperlo e non voleva-no impararlo. Dovevo lottare giorno e notte per costringerli ad ascoltarmi. Se il Commissario Dolan fosse esistito, li avrebbe arrestati per stupidità”.

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trediciE se... Will Eisner avesse diretto la Marvel?

Vent’anni dopo aver sospeso la produzione di Spirit, abbandonando l’editoria a fumetti, Will Eisner ricevette una telefonata da Stan Lee.

Creatore, o co-creatore, di tutti i principali personaggi della Marvel Comics, dall’Uomo Ragno ai Fantastici Quattro, agli X-Men e Hulk, Lee – nome d’arte di Stanley Lieber, anch’egli diplomato presso il DeWitt Clinton, lo stesso liceo di Eisner – nel 1972 era direttore generale della Marvel. In realtà, sin da ragazzino, negli anni Quaranta, Lee aveva seguito l’attività della Marvel, una casa editrice fondata e diretta per decenni dallo zio – e capo – Martin Goodman. Ogni singolo albo a fumetti Marvel dell’era moderna si apriva con la scritta “Stan Lee presenta” e Lee era stato il primo vero e proprio nome-marchio nella nascente editoria a fumetti. Ma dopo più di dieci anni di crescita e popolarità formidabili, Lee era pronto per andare avanti: avrebbe voluto che Eisner lo sostituisse alla Marvel, in modo da potersi trasferire a Hollywood e occuparsi dei film.Lee era convinto che Eisner fosse l’unico disegnatore di fumetti in circolazione ad avere sia il rispetto dei colleghi sia l’esperienza aziendale per gestire un’attività con le dimensioni e la portata della Marvel.Quando all’inizio degli anni Settanta si sentì chiamare da Lee, Eisner pensò che fosse una telefonata di cortesia: era fuori dal giro dei fumetti da vent’anni, le convention erano un fenomeno relativamente nuovo e il “mercato diretto” degli albi a fumetti era ancora di là da venire. Abbandonata da poco PS, Eisner non era ancora una “leggenda vivente”; era piuttosto un maturo professionista con una carriera alle spalle.“Ho sentito che sei a spasso” esordì Lee.Eisner si mise a ridere, e chiacchierarono per un paio di minuti. Ancora non ca-piva che cosa ci fosse sotto.“Perché non sali un attimo alla Marvel?” gli propose Lee. “Vorrei parlarti di una cosa, nel mio ufficio”.

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Quando se lo trovò di fronte, Lee smise di centellinare le parole: “Mi serve qual-cuno che mi sostituisca. Voglio andare a Hollywood. Mi piace quell’ambiente, e questo non fa più per me. Ma non mi permetteranno di andare se prima non trovo un sostituto plausibile”.Eisner fu molto sorpreso che fosse quello il motivo per cui Lee aveva chiesto di ve-derlo, convinto che volesse invece chiedergli di fare qualcosa per la Marvel. Molti disegnatori della “golden age” del fumetto spuntavano qua e là, alla Marvel, alla DC o alla Charlton, per un ultimo acuto, e Eisner aveva pensato che Lee avesse semplicemente aperto l’agenda puntando il dito a caso sulla lettera “E”. Eisner ricordava bene l’incredulità di Lee, quando si erano conosciuti, anni prima, sco-prendo che Eisner era lo scrittore delle storie di Spirit: era stupitissimo del fatto che Eisner fosse in grado di scrivere e di disegnare.“Tu sai come si conduce un azienda” gli disse Lee. “Saresti ideale per questo lavoro”. Durante la conversazione, si unì a loro il superiore di Lee, un dirigente dell’allora casa madre della Marvel e l’incontro si trasformò ben presto in un col-loquio di lavoro: voleva sapere cosa ne pensasse Eisner del fumetto, dove pensava che stesse andando il settore e che cosa avrebbe fatto.“Be’” rispose Eisner, “una delle prime cose sarebbe abbandonare il sistema di re-tribuzione una tantum degli autori in vigore attualmente”.Nella stanza si avvertì distintamente una folata d’aria. Lee rabbrividì.“Oh, questo non è possibile” rispose il dirigente. “È assolutamente impossibile, in questa azienda”.“Non vedo perché” rispose Eisner. “Tanto per cominciare, si dovrebbe permettere agli autori di conservare i diritti editoriali. Nell’editoria libraria si fa così e marcia piuttosto bene. Poi si dovrebbero restituire le tavole originali. Ecco, queste sono le cose che farei immediatamente”.Diversi disegnatori che Eisner conosceva bene nutrivano una certa animosità nei confronti di Lee. Jack Kirby, per esempio, sostenne sempre di avere dato lui a Stan l’idea per l’Uomo Ragno, e fino all’uscita del film Spider-Man, nel 2002, normalmente Lee veniva accreditato come l’unico autore. Il film attribuì invece la creazione del personaggio a Stan Lee e al disegnatore Steve Ditko.“Stan non era precisamente popolare presso gli altri disegnatori” ricorda Eisner. “Veniva considerato sostanzialmente uno sfruttatore, che è il destino di tutti gli editori. Gli autori considereranno sempre gli editori come sfruttatori: penso che sia qualcosa che potrebbero spiegare meglio gli psichiatri, ma personalmente mi è sem-pre sembrato una specie di rapporto figlio/genitore. I disegnatori hanno bisogno di qualcuno da odiare, e nel settore del fumetto i più disponibili sono gli editori”.Dopo qualche altra chiacchiera di circostanza tra Lee e Eisner, fu chiaro che la Marvel non era pronta per una politica aziendale rivolta ad autori indipendenti

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come prefigurata da Eisner. È assolutamente comprensibile che la società fosse rimasta turbata dalle idee di Eisner: l’editoria a fumetti era ancora un’attività di dimensioni relativamente ridotte e il suo punto di vista appariva decisamente rivoluzionario. In ogni caso, Eisner capiva chiaramente che piega avesse preso la discussione e, alla fine, la chiuse dicendo “Signori, non credo che faccia per me”.Lee accompagnò Eisner all’ascensore, cercando un’ultima volta di convincerlo.“Andiamo, Will. Perché no?”“Stan, questa è una missione suicida”.“Lo stipendio è ottimo” disse Lee in un ultimo, disperato tentativo.“Capisco. Ma in questo momento non sono i soldi che mi interessano. Quelli li ho già”.L’idea di lavorare per la Marvel non era particolarmente interessante per Eisner, ma non perché la Marvel era la Marvel: dopo il fiasco Koster-Dana, la prospettiva di avere a che fare con una qualsiasi grande società non lo allettava per nulla.“Non ho mai avuto l’atteggiamento giusto per il mercato del fumetto commer-ciale, a grande diffusione” ricorda Eisner. “Non riuscirei mai a lavorare bene con i super eroi: quando li disegnavo, i miei eroi sembravano sempre fatti di polistirolo. Spirit aveva uno spessore psicologico. Anche l’Uomo Ragno, naturalmente. Una volta Stan mi disse che gli piaceva l’idea che Spirit fosse un normale essere umano e non proprio un super eroe”.I ricordi di Lee su quell’incontro sono parecchio confusi, ma del resoconto di Ei-sner non mette in dubbio nulla. “Will sarebbe sicuramente stato un’ottima scelta per la gestione della casa editrice, nel caso che io non ci fossi più stato” ricorda.Ma quando Eisner espose le sue condizioni, Lee capì che non sarebbero mai state accettate dai dirigenti della Società.“All’epoca, non era prassi diffusa nell’editoria a fumetti e, chiunque fosse stato l’e-ditore, sono certo che non avrebbe accettato. Ma a me sarebbe andato benissimo; a me interessava solo che Will entrasse alla Marvel. Volevo fare qualcosa con lui perché ero assolutamente convinto che sarebbe stato un acquisto di grande valore per la Società. Può scriverlo. Sfortunatamente, non avevo voce in capitolo nella questioni gestionali. Potevo dire a chiunque se ne fosse occupato qualcosa come ‘Voglio che assumiate Will’ o ‘Vorrei assolutamente che lavorasse per noi’ ma poi avrebbe dovuto discutere i termini del contratto con qualcun altro”.Lee aggiunge anche che “Non ero mai stato un grande lettore di Spirit, perché non è mai uscito sui giornali che leggevo io. Avevo sempre abitato a New York e, per quanto ne so, a New York non usciva. Ma ne avevo sentito parlare, l’avevo sbirciato qua e là e mi aveva sempre colpito moltissimo la parte grafica e la strut-tura delle pagine, specialmente la prima, quella di apertura. Ogni settimana, il titolo era diverso e la scritta ‘The Spirit’ era una parte vera e propria del disegno.

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Questa cosa mi aveva colpito davvero moltissimo e trovavo che Will fosse un designer eccezionale.È forse davvero l’unico creativo in questo settore che è stato anche un imprendi-tore, una persona capace di fare fruttare il lavoro e abbastanza sveglia da conserva-re la proprietà di quello che faceva. E per questo l’ho sempre ammirato”.Marv Wolfman, ex direttore editoriale della Marvel, nonché sceneggiatore (Su-perman, Batman, Tomb of Dracula, Lanterna Verde, Uomo Ragno, Fantastici Quat-tro, Devil), entrò alla Marvel nel 1972 e ricorda bene l’interesse di Lee per Eisner.“Stan era un grande fan di Will e ricordo bene quando parlava di contattarlo perché dirigesse qualcosa”.Anche Roy Thomas, sceneggiatore di lungo corso per la Marvel Comics (Uomo Ra-gno, Conan, Vendicatori) e direttore editoriale dal 1971 al 1980, sapeva che Lee aveva contattato Eisner: “Lo ricordo bene. Potrebbe essere successo tra il 1972 e il 1974”.Se Eisner avesse accettato l’incarico, sarebbero cambiate un sacco di cose: “Avreb-be anticipato il mio passaggio alla DC di almeno dieci anni” afferma Thomas. “Non credo che sarei riuscito a lavorare per lui”.Quanto a un’edizione Marvel di Spirit, Thomas non pensa che avrebbe funziona-to: “Will aveva molto in comune con Stan. Ma se Stan avesse fatto Spirit, sarebbe diventato un fumetto Marvel, e quindi non sarebbe più stato Spirit”.Dopo il rifiuto di Eisner, Lee fece un tentativo con Harvey Kurtzman, ma anche lui rifiutò.Il disegnatore Batton Lash (Supernatural Law) ricorda bene quando Lee offrì a Eisner di lavorare per la Marvel. All’epoca era uno studente del primo corso di Eisner presso la School of Visual Arts di New York. Secondo Lash, Eisner non diede un’importanza particolare all’offerta della Marvel. Spesso Eisner diceva agli studenti di avvicinare le sedie e cominciava a parlare loro degli argomenti più disparati. Quel giorno, Eisner raccontò loro una storia che avrebbero ricordato: “I supereroi non vendono. Persino Stan Lee sta perdendo interesse; l’altro giorno mi ha chiamato chiedendomi se volevo il suo posto, perché lui sarebbe andato a occuparsi dei film”.Questa disinvoltura nel rifiutare la posizione più importante del fumetto ameri-cano era tipica di Eisner.“Non credo che Will si sia mai pentito di avere rifiutato l’offerta di Stan Lee” è l’opinione di Lash. “Mentre ho l’impressione che Stan ne sia rimasto sbalordito”.Eisner non disse invece ai suoi studenti che Jim Warren si accingeva a ristampare le storie di Spirit degli anni Quaranta: lo scoprirono in edicola, come tutti.Lee e Eisner conservarono sempre un rapporto cordiale, basato su uno scambio continuo di battute, sul rispetto reciproco e su un certo tentativo di primeggiare; un atteggiamento che solo Lee faceva emergere in Eisner, specialmente alle con-

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vention. “Mia moglie dice che siamo come due comici che litigano per il centro del palco” sostiene Eisner. “È possibile che Stan solletichi la mia competitività”.

• • •Ancora prima di parlare con Eisner, Stan Lee era convinto che ci fosse spazio per una rivista umoristica con un taglio Marvel, in concorrenza con MAD, Cracked e Sick.Così, disse a Roy Thomas che avrebbe voluto che a idearla e dirigerla fosse Eisner. “Credo che avesse in mente National Lampoon, che all’epoca era un successo” ricorda Thomas. “Ma non voleva niente di così spinto”. Così, per assecondare l’interesse di Lee per una rivista umoristica (titolo di lavoro: Bedlam), Thomas andò a pranzo con Eisner.“Non ricordo granché, ma parlammo sostanzialmente di quello che voleva Stan. Buttammo lì delle idee e ricordo degli schizzi che potrebbe avere fatto Will”.Eisner scrisse anche una lettera in data 20 febbraio 1973, inviandola a disegnatori e ad agenti, sollecitando contributi:

Gentile Signore,sono stato contattato da Stan Lee della Marvel Comics per collaborare al lancio di una loro nuova rivista satirica. Ben consapevole dei tanti professionisti di talento da voi rappresentati, penso che la cosa possa risultare di vostro interesse e vi scrivo nell’eventualità che voi o i vostri clienti possiate risultare disponibili per una collaborazione, o per in-viare contributi per il nostro primo numero, e possibilmente non solo.

Will Eisner

Marv Wolfman ricorda che insieme all’amico e collega sceneggiatore Len Wein (co-creatore dei personaggi di Swamp Thing e Wolverine), all’epoca entrambi più o meno intorno ai 20 anni, ricevettero una telefonata da parte di Eisner per parlare di una nuova eventuale rivista umoristica.“Sapevo cos’era stato Spirit, ma questo accadde prima delle ristampe Kitchen Sink e Warren e la cosa non si era ancora radicata nel fandom” ricorda Wolfman.Arrivando nell’ufficio di Eisner a Park Avenue, i due furono salutati con grande calore e ascoltarono attentamente la proposta di Eisner, che li aggiornò anche sul proprio lavoro, parlando di Spirit, PS Magazine e altri progetti editoriali.“Si trattava di fare una rivista umoristica nello stile di National Lampoon. Un sacco di umorismo ‘da college’” ricorda Wolfman.L’incontrò durò diverse ore e alla fine entrambe le parti si ritrovarono deluse.

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“Per quanto desideri disperatamente lavorare con lei, Mr. Eisner, non mi convin-ce” era la posizione di Wolfman. “Non funziona”.Eisner era perplesso.“Una rivista umoristica appetibile per il pubblico dei College implica una dose da cavallo di materiale anti-governativo e anti-sistema. Questo non entrerebbe in conflitto col suo contratto con l’Esercito per PS?”In tutta sincerità, Eisner non ci aveva pensato. E nella loro decisione di rinuncia-re al lavoro riconobbe non solo la ragionevolezza ma anche l’ottimo senso degli affari. “Ci restammo veramente male” ricorda ancora Wolfman. “Lavorare per lui sarebbe stato fantastico, ci avrebbe aiutato moltissimo e quella fu una riunione in agrodolce. Avremmo imparato moltissimo e molto più in fretta, invece che a spizzichi e bocconi nel corso degli anni successivi”.Ma Wolfman e Wein non se ne andarono a mani vuote: Eisner fece a tutti e due uno schizzo di Spirit.“Più avanti, quando facevo Crazy per la Marvel, acquistammo i diritti di un po’ di materiale di Will dalle sue Gleeful Guides, che ci stavano bene” conclude Wolfman. “Le sue cose mi sono sempre piaciute. E piacevano molto anche a Stan”.Intanto, tornando a fare rapporto a Lee, Thomas si accorse che si era alquanto raffreddato sull’”opzione Eisner”, il quale nel frattempo si era messo a produrre diversi volumi satirici e umoristici dai quali era chiaro che forse non sarebbe stato la persona migliore alla direzione di una rivista rivolta ai giovani dei college.“Secondo Stan non era quella la direzione in cui voleva andare. Non erano sulla stessa lunghezza d’onda” ricorda Thomas. “Era il periodo di Nixon e ci sarebbero stati dei problemi”.Dopo il rifiuto di Eisner per Bedlam, Lee ne parlò anche con Harvey Kurtzman. Kurtzman era il maestro del genere, l’inventore di MAD, e un giorno capitò nell’ufficio di Gil Kane alla Marvel, spiegando all’amico come mai si trovava lì, scuotendo la testa.“Santo cielo” si lamentò Kurtzman. “Come faccio a essere di nuovo a questo punto?”Anche Kurtzman rifiutò.Alla fine, Lee riuscì a portare in porto il progetto e chiamò la rivista Crazy. Per colmo d’ironia, offrì la direzione della testata anche a Denis Kitchen (già editor della breve serie Comix Book della Marvel), che a sua volta rifiutò. Crazy continuò a uscire dal 1973 al 1983.

• • •Un’ultima storia in stile “E se...” [in originale: “What if...”, una popolare serie di storie Marvel per storie ambientate in “realtà alternative” – NdT] su Eisner e la Marvel.

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Nel gennaio 1978 Jim Shooter era appena diventato direttore editoriale della Marvel, quando si incontrò con Eisner al Princeton Club. Shooter aveva concluso da poco un accordo con la DC per la produzione di una serie annuale di crossover, cioè albi dedicati a incontri tra personaggi Marvel e personaggi DC, e domandò a Eisner se gli poteva interessare una storia in stile “l’Uomo Ragno contro Spirit”. Prima di allora nessun personaggio si era mai intrufolato nel mondo di Spirit.“Non credo che sarebbe una buona idea” rispose Eisner, ridendo. “Spirit l’Uomo Ragno se lo mangerebbe a colazione”.Shooter invece non rise.“Prenditi un po’ di tempo per pensarci” rilanciò.“Non è necessario. Spirit gli farebbe fare la figura del fesso”.Secondo Shooter, Eisner non era scettico solo sulle modalità di interazione dei personaggi. “All’epoca quasi non sapevo cos’era Spirit e quello che sapevo veniva dal libro di Feiffer, The Great Comic Book Heroes” ricorda Shooter. “Will non ammetteva in nessun modo che qualcun altro potesse mettere mano a Spirit. Io suggerii che potesse disegnarlo lui ma rispose di no. Così, non se ne fece nulla. Inoltre, nel 1978 la Marvel era messa decisamente male e se aveva dei dubbi sulla nostra capacità di fare un buon lavoro non lo biasimo; era giustamente preoccu-pato all’idea che potessimo rovinargli il personaggio”.Ma il solito, inossidabile fascino di Eisner tolse l’amaro in bocca a Shooter per il rifiuto: “Will riuscì a essere delizioso anche mentre mi diceva di andare al diavolo. Quasi non vedevo l’ora di andarci!”.

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quattordiciLa storia di Cat

Cat Yronwode (Catherine Manfredi) era una madre single nonché appassionata di fumetti che negli anni Settanta abitava in un’area rurale alquanto isolata dei

monti Ozarks, in Missouri. Con problemi alla vista e per questo non in grado di guidare l’auto, cercò di guadagnare qualcosa collaborando a riviste su ogni possi-bile argomento, dall’artigianato al giardinaggio, all’antiquariato, fino alla storia del fumetto. Il suo passatempo fumettistico cominciò a pagare quando ottenne una rubrica settimanale per la diffusissima e prestigiosa rivista di fumetti The Buyer’s Guide di Alan Light, e un lavoro come editor per la Ken Pierce Publications.A casa, i fumetti avevano aiutato Cat a passare il tempo. Era figlia di una bibliote-caria della University of California, a Los Angeles e la sua particolarissima passio-ne era scoprire i “credits” degli albi a fumetti, cioè attribuire le storie ai rispettivi autori dove queste informazioni erano imprecise o incomplete.Cominciò identificando e catalogando i lavori di Steve Ditko, co-creatore e pri-mo disegnatore dell’Uomo Ragno e del Dottor Strange. Da Ditko, Cat passò alla colossale sfida rappresentata dai supplementi dello Spirit di Will Eisner. Conobbe un amico collezionista egualmente interessato a Spirit ma a cui mancavano dei numeri; così, Cat pensò che Eisner in persona potesse dare una mano.Alla ricerca di un pretesto per contattarlo direttamente, chiamò Gary Groth, edi-tore della rivista di informazione e critica sul fumetto The Comics Journal e chiese se fosse interessato ad assegnarle un’intervista a Will Eisner. Lo scopo recondito era scoprire chi erano stati gli inchiostratori che avevano lavorato a Spirit. Non proprio il tipo di informazione che il mondo attendesse col fiato sospeso, probabil-mente, d’altra parte Cat Yronwode non era una normale appassionata di fumetti.“Se riesci a trovarlo, fai pure” rispose Groth.Così, Cat Yronwode scrisse a Denis Kitchen chiedendogli un’intervista con Ei-sner, fornendo come referenza il nome di Groth. Kitchen chiamò Groth: “Chi è questo tipo, questo Yer-Ron-Woodie?”

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“Prima di tutto” fu la risposta di Groth, “non è un tipo. In secondo luogo, si chiama ‘Iron-wood’. È una tipa a posto”.Rassicurato, Kitchen organizzò il primo incontro.La maggior parte degli articolisti che lavorano gratis per piccole edizioni, e che a volte abitano letteralmente a migliaia di miglia dalla persona da intervistare, avrebbero concordato un appuntamento telefonico.Ma non Cat Yronwode.Lei andò a New York insieme all’amico Denis McFarling, fermandosi a casa di Ken Gale, un altro appassionato di fumetti.Per prepararsi all’incontro con Eisner, passò in rassegna i mucchi di quotidiani nella Biblioteca pubblica di New York alla ricerca di vecchi supplementi di Spirit. Molti erano già stati ritagliati e asportati dai collezionisti.Quando finalmente conobbe Will Eisner presso la School of Visual Arts – Cat era arrivata a piedi scalzi poco prima dell’inizio della lezione – lui le diede un libro da leggere, promettendole che ne avrebbero parlato dopo la lezione. Il libro era fresco di stampa e si intitolava Contratto con Dio.“Mi fece ridere, e piangere” ricorda Cat. “Ero sconvolta”.

Quando riuscirono finalmente a par-lare, lei andò dritta al punto: “In bi-blioteca i supplementi di Spirit sono scomparsi. Posso venire da lei a cata-logare i suoi?”. Il fatto che Cat si invi-tasse da sola a casa di un perfetto sco-nosciuto, e che lui accettasse, la dice lunga su entrambi.“Andai a casa sua, dove conobbi Ann” ricorda Cat. “Avevamo un sacco di cose in comune, tra cui avere avuto e perso una figlia. E siamo entrambe del Toro. Andammo d’accordo subito”.Di nuovo, arrivò a piedi scalzi, ma con una conoscenza enciclopedica del la-voro e della carriera di Eisner “più di quanto riuscisse a ricordare lui stesso” commenta Ann.Intanto, l’intervista che era iniziata

dopo il primo incontro alla SVA proseguì per un po’ e i due tornarono a incon-trarsi al Princeton Club. Fu in quelle occasioni che Cat spiegò a Eisner di essere una ragazza madre che viveva sui monti Ozarks col sussidio di disoccupazione.

La prima intervista a Will Eisner di Cat Yronwoode apparve su The Comics Journal n. 46.

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“Dovremo lavorare sodo per fare di te una brava capitalista” le disse Eisner uscen-do dal Club e pagandole la corsa in taxi.L’intervista fu pubblicata sui numeri 46 e 47 (maggio, giugno 1979) di The Co-mics Journal e aveva tre argomenti principali: Contratto con Dio, gli “anni per-duti” di Eisner come disegnatore e le identità fino ad allora mai accertate degli inchiostratori che avevano lavorato a Spirit. Lavorando all’intervista, Yronwode cominciò anche a stendere la sua ormai quasi leggendaria The Spirit Checklist, diventata un insostituibile vademecum al personaggio (in questo compito l’aiuta-rono gli appassionati di Eisner Jerry Bails, co-fondatore nel 1961 insieme a Roy Thomas della fanzine Alter Ego, nonché autore di Who’s Who of American Comic-Books; Jerry Sinkovec, redattore ed editore di The Comic Reader; Mark Hanerfeld, editor di The Comic Reader; John Benson, editor di Witzend). A Benson l’univa la passione per i lavori di Wally Wood, un altro disegnatore che aveva lavorato a Spirit, e Benson le suggerì di chiedere a Eisner dei contributi di Wood alla serie.Bails, Sincovec e Yronwode appartenevano a un’organizzazione di bibliografi di fumetti chiamata “APA-I”, cioè “Amateur Press Association for Indexing”. La col-laborazione funzionava così: Bails e Sinkovec spedivano i loro supplementi di Spirit a Cat, in Missouri. Terminata la catalogazione, lei li rispediva indietro.“Con Hanerfeld e Benson ci conoscemmo a New York, dove mi mostrarono le loro storie di Spirit, dicendomi di chiedere a Will questo e quello” ricorda Cat.

• • •L’amicizia tra Ann Eisner e Cat si consolidava e un giorno Ann la chiamò in Missouri, dov’era tornata per lavorare nella tipografia di McFarling, per chiederle se fosse interessata a catalogare l’archivio di tavole originali di Will. All’epoca, erano conservate in scatole, cartoni e schedari nella stanza-magazzino della casa di Winslow Road, dopo avere seguito Will trasloco dopo trasloco, fin dai tempi di Eisner & Iger. Ad Ann piaceva l’idea di “dare un ordine al caos. Inoltre, “Cat può fermarsi da noi” disse.“Ann mi chiese di andare a lavorare per loro” ricorda Cat. Gli Eisner venivano da una brutta esperienza col precedente assistente di Will, accusato di avere rubato degli originali e quindi licenziato. “Will aveva bisogno di una mano per organiz-zare il suo materiale e mentre catalogavo mi accorsi che c’erano degli errori nelle ristampe Harvey, e altri errori erano comparsi a stampa. Per esempio, una ristampa delle storie di Lady Luck di Ken Pierce era stata interamente attribuita a un unico disegnatore, anche se gli autori erano diversi. Pierce aveva ricevuto le lastre da Will, che aveva sbrigativamente attribuito il lavoro a Klaus Nordling. Così, scrissi a Ken: ‘Come avete potuto ignorare Fred Schwartz?’. Così, Ken mi chiede di curare la sua seconda raccolta di Lady Luck e anche tutte le altre ristampe di strisce in volume”.

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Non ci volle molto a convincere Cat: gli Eisner le avrebbero pagato il viaggio e lei non ci pensò due volte a fare le valigie e a trasferirsi nella loro camera degli ospiti per le successive sei settimane. “Fu uno dei periodi più felici della mia vita” ricor-da. “Facevo quello che ogni fan avrebbe sognato di fare, scavavo negli archivi di Will. Era come una favola dei fratelli Grimm: lui era il mio Rumpelstiltskin, che nel suo studio pieno di originali mi disse ‘Adesso fila oro dalla lana’”.Eisner lavorava su un lato della casa, una piccola costruzione che il proprietario precedente, un architetto, si era costruito come studio. L’ex camera da letto in cui Cat trascorreva i suoi giorni solitari si trovava al secondo piano. Era pieno di scaf-falature e schedari dappertutto, e c’era anche una cassetta di sicurezza ignifuga. Il suo lavoro consisteva nel catalogare, archiviare e organizzare tutto, cercando di mettere ordine in cinquant’anni di disegni, illustrazioni e affari. Cominciò da un angolo della stanza, disponendo gli scaffali per anno e cominciando a ordinarli. All’epoca non c’erano i computer e la catalogazione fu fatta su delle schede.Fu subito chiaro che Eisner era uno dei più incredibili e maniacali raccoglitori dell’intera editoria a fumetti. Aveva conservato tutto, un’abitudine che solitamen-te gli tornava parecchio utile. In quella stanza Yronwode recuperò pressoché tutti i lavori prodotti dal prolifico Eisner, da copie del giornale del liceo agli originali dei fumetti aziendali che aveva disegnato per Sears e General Motors. Ma conser-vare tutto e tenerlo in ordine sono due abitudini molto diverse.“La tavole originali erano in grosse buste marroni” ricorda Cat. “Buste e originali erano intatti, se non fosse stato per il fatto che tutte le aggiunte e le correzioni si stavano staccando perché Eisner aveva usato una colla che col tempo si era dete-riorata, producendo macchie scure sulla carta bianca. Uno dei miei compiti più importanti era raccogliere e reincollare scrupolosamente le centinaia di dettagli e correzioni che erano state attaccate nel tempo, a partire dagli anni Quaranta, e che si erano disperse all’interno di quelle buste ormai logore”.A volte Cat veniva letteralmente travolta dall’entusiasmo per il lavoro e faceva ir-ruzione dagli Eisner agitando in mano un oscuro dettaglio di un disegno, urlando “Questo è uno sballo!”.E a volte scopriva anche dei piccoli segreti di Eisner. Per esempio, quando Will aveva cominciato ad autorizzare le ristampe Harvey e Warren, non era riuscito a fare a meno di apportare delle correzioni. Così, c’erano delle pagine degli anni Quaranta con correzioni degli anni Settanta attaccate sopra. Un’altra cosa di cui si accorse era come certi personaggi dalle prime storie di Eisner continuavano a ripresentarsi da un progetto all’altro. “Tutti dicevano che disegnava spesso Lauren Bacall ma in realtà era una ragazza con cui era uscito che assomigliava un sacco a Lauren Bacall. In Spirit, il nome del ‘personaggio Bacall’ era ‘Skinny Bones’”. Una volta, Cat fece a Eisner delle domande sulle origini di quel personaggio fem-

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minile e Ann scattò subito, rimbrottando il marito: “Non voglio sentire parlare delle tue storie prima che conoscessi me!”.Cat conosceva profondamente le vecchie avventure di Will per la Centaur e la Fiction House, Spirit e il recente romanzo a fumetti Contratto con Dio, e si accor-se di qualcos’altro che riguardava le donne – o piuttosto, una donna – ritratte in diverse storie.“C’era questa donna che amava/odiava, che stava sempre con un altro e che alla fine restava sempre uccisa. Da un certo punto di vista, è assolutamente traspa-rente, e anche triste. Penso che non si rendesse conto di quanto fosse scoperto nel rappresentare le sue emozioni. Fu una di quelle cose che mi fecero veramente innamorare di lui: vi scorgevo la sua ingenuità, e quel suo innocente seppellirsi nel disegno. Quando gli chiesi chi fosse stata quella donna, qual era il suo vero nome, me lo disse immediatamente, di getto; poi, leggermente perplesso: ‘Come avrei potuto immaginare che qualcuno avrebbe messe insieme tutte le mie storie e avrebbe capito?’.L’aspetto veramente eccitante di lavorare là era la possibilità di ricevere una rispo-sta a tutte le domande”.Cat ingranò molto rapidamente, grazie all’esperienza accumulata negli anni tra-scorsi alla UCLA, al fianco della madre. La sua diventò ben presto la vita che ogni fan avrebbe sempre sognato: intere giornate trascorse a ordinare tavole originali, corrispondenza personale e oggetti vari di un’intera vita nella grafica e nell’edito-ria, oltre a fare colazione, pranzare e cenare in compagnia di una leggenda vivente (e Ann era una cuoca eccellente).Per gli Eisner, Cat non era una semplice collaboratrice.“Cat era una persona che avremmo potuto pensare di adottare” ricorda Ann. “Era intelligente, e sempre con una qualche storia o aneddoto da raccontare”.Era arrivata a riempire un vuoto nella loro vita, facendo loro capire come sarebbe potuta essere Alice se non fosse scomparsa. Un giorno, per esempio, Will e Ann erano a letto, a dormire, e Cat irruppe nella stanza, più o meno come faceva Alice, ma invece di chiedere dov’erano le scarpette, o dei vestiti, lei aveva delle astrusis-sime domande su Spirit.“Dovevo ancora superare tragedie recenti” ricorda Eisner. “Dopo un po’, Cat diventò una vera professionista e per me, be’, c’era anche qualcosa di molto pro-fondo. Credo che da qualche parte, nella mia mente, stesse prendendo il posto della figlia che avevo perso, e sembrava anche avere l’età che avrebbe avuto Alice, e io non potevo davvero farci niente. Un giorno Ann mi accusò di parlare con Cat come se fosse stata nostra figlia”.La tipica giornata di casa Eisner iniziava al mattino presto. Will e Ann si alzavano, facevano colazione e leggevano il New York Times insieme, e ben presto Cat entrò

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a far parte di questa routine famigliare.“Mi sembrava di essere a casa di mia madre” ricorda Cat. “Ottima cucina ebraica, formaggi affumicati, salmone, succo di pompelmo. Ogni mattina Will mangiava mezzo bagel e del succo di pompelmo. Intanto parlavamo delle notizie del giorno e vedere quanto fossero una coppia affiatata era davvero commovente. Litigavano, ma erano molto innamorati e felici insieme”.Ann andava tutti i giorni a lavorare come direttrice dei volontari della sede di We-stchester del New York Hospital-Cornell Medical Center. Will giocava a tennis o andava nello studio. A metà giornata dava un colpo di telefono a Cat e pran-zavano insieme, solitamente con frutta e formaggio. Lei adorava questi momenti da soli. “Mi trovavo tra una relazione e l’altra, mia figlia era presso il padre e io ero da sola. Economicamente era un periodo difficile. Will e Ann mi misero a disposizione una specie di finestra, un passaggio verso una vita migliore. La mia vita cambiò completamente per merito loro”.Un giorno, in tarda mattinata, ci fu un allarme-bomba nell’ospedale di Ann, che venne evacuato. Così, quel giorno i dipendenti tornarono a casa prima. Era rientrata da qualche minuto quando Ann vide comparire il marito, madido di sudore dopo la sua sessione giornaliera di tennis. Will aveva circa 60 anni, e Ann aveva superato la cinquantina. Nella stanza c’era anche Cat, quando Ann baciò il marito esclamando “Sei meraviglioso!”. Poi, voltando la schiena a Cat, prese Will per mano portandolo in camera da letto.“Per me rappresentavano il massimo della passione e della fedeltà matrimoniale” ricorda Cat.Nonostante le tante differenze d’età, stile, gusti e opinioni politiche, le due donne diventarono amiche. Per esempio, andarono insieme a una “fiera psichica”, diver-tendosi un sacco. Qualche volta Ann portò Cat a fare la spesa, cosa che entrambe trovavano divertente, visto che deploravano a vicenda i rispettivi gusti. Ann era un po’ trasandata e tradizionale; Cat indossava camicie e tuniche lunghe fino ai piedi. Scalzi.In un’altra occasione Eisner era a tavola e stava aprendo la posta: un’associazione europea gli aveva assegnato un premio che veniva attribuito ogni anno.“Ann, Ann!” esclamò Will rivolto verso la cucina. “Mi hanno dato un premio in Europa!”Ann entrò sorridendo: “Adesso puoi andare a dire a tua madre che riesci a guada-gnarti da vivere come disegnatore”.Eisner si mise davanti al tavolo, guardò in alto e disse a voce alta: “Mamma! Hai visto che mi guadagno da vivere come disegnatore?”

• • •

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Eisner insistette perché Cat incon-trasse di persona il suo editore De-nis Kitchen, un incontro che portò a un’altra conoscenza lunga una vita. Kitchen acquistò i diritti di serializ-zazione di “The Spirit Checklist” sui numeri 22-28 di The Spirit Magazine per 35 dollari a cartella dattiloscritta (una volta che Cat ebbe finito di dat-tiloscriverla). Ben presto Cat diventò la curatrice delle ristampe di Spirit, scrivendo la rubrica “Dept. of Loose Ends”, in cui annotava ogni storia, ri-portando dettagli e osservazioni. Fu lei a ideare e a coordinare The Spirit Jam, una storia di Spirit di cui Eisner scrisse e disegnò l’inizio e la fine e in cui le pagine intermedie furono realizzate da una serie di star del fumetto, tra cui Terry Austin, Brent Anderson, Brian Bolland, John Byrne, Milton Caniff, Chris Claremont, Richard Corben, Howard Cruse, Archie Goodwin, Denis Kitchen, Harvey Kurtzman, Frank Miller, Denny O’Neil, Peter Poplaski, Marshall Rogers e Bill Sienkiewicz (nell’ultima pagina, Eisner si disegnò in compagnia di Kitchen e Cat Yronwode).

• • •Cat era una hippie che rifiutava ogni tipo di compromesso. Il mondo poteva an-che scendere a patti con lei, ma il contrario non sarebbe mai avvenuto. Inoltre, la forza delle sue convinzioni finiva inevitabilmente per provocare forti reazioni, di invidia o di ostilità in chi le stava vicino.Kitchen ricorda quando le inviò il modulo per la certificazione dei redditi neces-sario alla dichiarazione annuale: “Me lo rimandò pieno di attacchi al governo e dichiarando che si rifiutava di pagare le tasse”.

• • •Il nuovo corso nella vita di Cat proseguì quando accettò il posto di curatrice delle ristampe di Spirit (successive a quelle Warren) da parte di Kitchen. Era ovvia-mente la scelta perfetta: nessun altro conosceva quanto lei le storie e gli archivi di Eisner. Cat si mise al lavoro immediatamente, inviando a Kitchen selezioni

La crème de la crème del fumetto americano perSpirit Jam.

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migliori di storie, meglio collegate tra loro. In passato, neanche Kitchen aveva mai avuto voce in capitolo: semplicemente, Eisner o il fratello Pete prendevano delle storie a caso dallo scaffale e gliele mandavano. Prima dell’arrivo di Cat, non esisteva una cronologia e nessuno dei due badava molto all’ordine delle ristampe: fu lei a spiegare che i lettori moderni avrebbero apprezzato ritrovare le uscite nello stesso ordine in cui le storie venivano lette negli anni Quaranta.Durante la permanenza a White Plains, Cat accettò anche di mettere mano ai testi dei libri prodotti da Eisner con la sua Poorhouse Press, tra cui un guida al calcolo delle calorie intitolata What’s in What You Eat. I disegni erano di Bob Pizzo, all’epoca studente di Eisner alla SVA, e Eisner si occupò della veste grafica, mentre Cat finì di scrivere i testi una volta tornata in Missouri.Un altro potenziale titolo Poorhouse Press di quel periodo ebbe una gestazione alquanto travagliata, a cominciare dal suo primo titolo di lavoro “Un corpicino da sballo in 30 giorni”, che Eisner cercava di mettere insieme ispirandosi alle indica-zioni dell’aviazione USA per il mantenimento della forma fisica. Will e Ann litiga-rono per il libro, che Ann non sopportava, anche se non riusciva a spiegare perché.“È tremendo!” ripeteva.“Venderà bene” protestava Eisner.Cat prese Will da parte e gli suggerì di non pubblicare il libro.“Ma perché?” insistette lui, evidentemente perplesso dalla resistenza insolitamen-te forte manifestata dalle donne di casa.“Senza offesa” gli spiegò Cat “ma è offensivo per tutte e due”. Eisner cercò un tito-lo più stuzzicante per un pubblico femminile, “30 giorni per essere più sexy” ma, ancora una volta, Ann scoppiò in lacrime. Eisner non riusciva a capire e continuò a cambiare il titolo in continuazione. Tra i tanti, “30 giorni per essere più bella”.“Ann è una donna molto sexy” gli spiegò Cat “e se pubblichi questo libro l’in-durrai a pensare che vuoi dirle che se diventa anoressica, nel giro di 30 giorni la troverai più sexy”.Ora aveva capito. E “30 giorni” non uscì mai.Terminata la catalogazione della stanza di Eisner, Cat tornò in Missouri (era il 1979; sarebbe tornata nel 1983, per organizzare la donazione dell’archivio di Ei-sner all’Ohio State University).Per i quattro anni successivi, Cat lavorò per diversi editori come articolista, redat-trice, responsabile di produzione, nonché fornitrice di progetti editoriali “chiavi in mano”, dall’idea alla tipografia.Tra i suoi clienti c’era la Poorhouse Press dello stesso Eisner (per cui scrisse e im-paginò The Art of Will Eisner) e Denis Kitchen (The Spirit Checklist, le ristampe di Spirit in formato rivista, articoli per Will Eisner’s Quarterly, supervisione di ristam-pe di Spirit in formato libro e articoli per Yesteryear, un’altra rivista di Kitchen).

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Fu anche agente per conto di Ann Eisner e, a partire dal 1980, firmò “Fit To Print”, una rubrica settimanale di novità e recensioni per The Buyer’s Guide. Fu grazie all’ampia diffusione del periodico e della relativa rubrica che lettori e ap-passionati la ricordano ancora oggi.

• • •Eisner ripeteva spesso a Cat che sperava che si risposasse, e Ann non desiderava altro che provare a trovarle un fidanzato. Per loro, era un altro fronte su cui cer-cavano di aiutarla a raggiungere una maggiore stabilità.Ann era convinta che la vita sociale di Cat avrebbe sofferto molto finché fosse rimasta con loro, così organizzò una festa apposta per lei, invitando tutti gli autori maschi di fumetti (quasi tutti) single che Eisner conosceva a New York.“Diedero questa festa con tutti questi autori di fumetti con cui più o meno mi divertivo a flirtare” ricorda Cat “ma loro erano lì per vedere Will. Uno era Dean Mullaney, uno dei titolari della Eclipse Comics, una piccola casa editrice indipen-dente. Lui era il più insistente nei miei confronti, così Ann si avvicinò e mi chiese: ‘Chi è quel bruttone?’ E io: ‘Bruttone?’ Dean aveva l’acne ma io non portavo gli occhiali e non me n’ero neanche accorta”.La festa richiamò autori di talento, tra cui Terry Austin, Jim Shooter e Denny O’Neil. Ann sperava che Cat fosse colpita da uno di quei giovanotti e così fu. Da Mullaney. Ad Ann quell’uomo non piaceva e cercò di scoraggiare Cat. Ma Cat non era donna da seguire i consigli degli altri.“Quando se ne andò, era perdutamente innamorata” ricorda Ann.Nonostante le riserve di Ann, Mullaney e Yronwode si fidanzarono e si trasferiro-no in California. Quando arrivò il giorno delle nozze, gli Eisner non mancarono e incontrarono per la prima volta la famiglia di Cat.

• • •Mentre lavorava per Will, Cat cominciò a cercare la soluzione a uno dei più an-tichi misteri eisneriani: dov’erano finiti tutti i disegni originali che per vent’anni aveva realizzato per PS Magazine?Mentre era occupata a, letteralmente, domare quella stanza zeppa di lavori di Eisner, Cat cominciò a interessarsi sempre di più ai lavori per PS e a domandarsi dov’erano finite le tavole originali che aveva disegnato per la rivista. Era l’unico corpus impor-tante di suoi lavori che Eisner non possedeva. Lo aveva trattenuto l’Esercito.Svolgendo delle ricerche, Cat venne a sapere che gli originali era finiti sotto chia-ve a Fort Knox, nel Kentucky, e – molti anni dopo – riuscì a convincere Denis a pagarle il viaggio fin là per approfondire la questione e per capire se l’Esercito potesse prendere in considerazione la possibilità di restituire le tavole a Eisner.

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Il tempo di ricordare alla redazione il lungo periodo durante il quale Eisner aveva collaborato alla rivista, e Cat scoprì l’incredibile procedura di produzione e con-servazione di PS.“C’erano queste scatole, e in ogni scatola tutte le illustrazioni per ciascun nume-ro di PS e per i manuali d’addestramento fatti da Will. Tutto perfettamente in ordine”.Finché non aprì le scatole.All’epoca, Eisner aveva scoperto la carta pergamena, un tipo di carta sottile e trasparente, simile alla carta da lucido. In un’ulteriore variante della sua celebre frugalità, Eisner aveva disegnato a matita le pagine di PS su carta di recupero, facendo poi inchiostrare i disegnatori dello studio sulla pergamena. Ma, come scoprì Cat, “la carta pergamena è deperibile. Col tempo diventa scura e deperi-sce, ossidando rapidamente. Alcune delle cose più belle fatte per l’esercito erano andate perse. Ecco quello che aveva imparato nell’esercito: come disegnare in maniera economica”.L’uso della carta pergamena si protrasse dai lavori per l’esercito fino a Contratto con Dio, che Eisner produsse nello stesso modo. Oggi quel lavoro è un classico ma la carta su cui venne realizzato e ha visto la luce ha una vita breve. Le storie di Spirit del dopoguerra sono state disegnate su delle robuste pagine di cartoncino Strathmore che hanno superato la prova del tempo e che Eisner ebbe la previ-denza di trattenere e conservare adeguatamente nel corso dei decenni, mentre l’esercito – e Eisner stesso – non hanno riservato lo stesso trattamento ai lavori per PS. Naturalmente, quando cessò di lavorare a PS il mercato dei collezionisti per questo tipo di originali era appena nato ed era quindi in un certo senso com-prensibile che Eisner lavorasse con materiali economici senza preoccuparsi della loro vita dopo la pubblicazione.“Quella sgradevolissima scoperta su PS permise a me, per una volta, di insegnare qualcosa a lui” ricorda Cat. “Se voleva poi vendere le tavole originali, doveva tor-nare alla Strathmore. ‘Non voglio sembrarti pedante ma io rappresento i tuoi fan. E loro vogliono le tue cose su della bella Strathmore, da incorniciare e appendere al muro”.

• • •Localizzate le tavole di Eisner per PS, Cat si trovò davanti a due altri problemi. Il primo era che per restituire il materiale l’Esercito doveva prima dichiararlo “materiale in eccesso” e sarebbe stato possibile se Eisner avesse avanzato un’offerta economica. Ma prima che Will potesse decidersi in proposito, comunicarono a Cat che tutti i suoi archivi e le tavole originali erano stati trasferiti alla base di Carlisle Barracks, in Pennsylvania.

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Ed è qui che si verifica uno sviluppo tragico, in perfetto stile “mia-madre-pensa-va-che-i-miei-fumetti/guantoni-da-baseball/<inserire-l’articolo-del-cuore>-fosse-ro-spazzatura-e-ha-buttato-via-tutto-quando-sono-andato-al-college”.Malauguratamente, a Carlisle l’idiota di turno aveva deciso di testa sua che – no-nostante l’accuratissimo impacchettamento da parte della redazione e la richiesta che il materiale venisse conservato – i disegni originali non servivano più a niente. E andarono tutti distrutti.“Impacchettammo tutto nel 1993, quando ci trasferimmo a Lexington”. ha di-chiarato Stuart Henderson di PS Magazine. “Buttarono tutto, dichiarando ‘Tanto avete le riviste’. E noi ‘Non vi abbiamo spedito quattrocento scatoloni di lastre ti-pografiche perché voi buttaste via tutto!’. Ci fu un’inchiesta ufficiale dell’Esercito e ancora oggi, se li trovo in vendita su eBay, faccio in modo che qualcuno finisca a spaccare sassi a Sing Sing”.“Si scusarono infinitamente perché la distruzione non era mai stata autorizzata” ricorda Eisner. “Ma si sa com’è l’Esercito”.Con quelle scatole andarono persi non solo gli originali di Eisner ma anche diver-si anni di lavori di Murphy Anderson.

• • •Non c’è alcun dubbio sul fatto che la permanenza di Cat Yronwode presso Eisner ebbe una grande influenza su di lui. Con Cat, nello studio – e anche in classe – entrò il punto di vista degli appassionati.“Lo osservavo mentre insegnava alla SVA” ricorda Cat. “Elencava senza posa tutte quelle regole e io gli dissi che avrebbe dovuto scriverle, e lo sollecitai a scrivere Fu-metto e Arte Sequenziale. Cominciava sempre con un sacco di teoria e io lo sfidai: ‘Perché fai questo? Perché fai quello?’. Lo intervistai proprio per parlare di queste cose, poi trascrissi tutto e glielo feci leggere: ‘Ecco quello che mi hai detto’. Mi presentavo sempre come la fan curiosa: ‘Da te i fan vorrebbero sapere questo, e poi questo’. Cercavo di fargli capire quanto le persone avessero a cuore il suo lavoro”.Negli anni successivi, quando Cat era l’agente esclusivo di Eisner, lui teneva al suo parere tanto da anticiparle le pagine dei nuovi lavori, sollecitando le sue opinioni sempre più che franche. “È un grandissimo narratore e su questo non ho mai avuto niente da dire” osserva Cat, che però si poteva permettere, per esempio, di criticare l’abbigliamento anni Trenta di una donna negli anni della Depressione: “Questa donna dev’essere vestita come negli anni Trenta, tu ti limiti a scimmiot-tare gli abiti. Conosci l’architettura e gli edifici, ma non gli abiti femminili”. E per sostenere quello che diceva, gli spediva una pagina da un vecchio catalogo dell’epoca, con lo stile adatto al periodo.

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• • •Ann Eisner non aveva mai letto una sola storia di Spirit, con l’unica eccezione della parodia di Sansone e Dalila pubblicata più di vent’anni prima. Fino al 1980, quando Kitchen e Cat Yronwode passarono a trovarli una sera, fermandosi a cena.Uno dei due chiese ad Ann quale fosse la sua storia preferita di Spirit e lei rispose che non ne aveva mai letta nessuna, solo quella della parodia del suo vecchio da-tore di lavoro, lasciando Kitchen e Cat a bocca aperta.Ann amava il marito per come era e, fino a quel giorno, il suo lavoro di disegnato-re e la sua influenza su intere generazioni di altri disegnatori per lei non era molto diverso dal lavoro di un ingegnere aerospaziale della NASA.“Se però scegliessi tu una storia per me” chiese più tardi Ann a Cat, “quale sarebbe?”Così, ne lesse una, per poi chiederne un’altra a Cat. “Dammene una comica e una strappalacrime”. Ann leggeva le storie direttamente sulle tavole originali. Un giorno, Eisner rientrò dalla studio per cena e Ann lo accolse con un grosso bacio: “Oggi ho letto una delle tue storie. Era divertentissima!”.Cat Yronwode ricorda di avere poi sollecitato Ann a partecipare a qualche con-vention insieme al marito, per rendersi conto di quanto fosse amato e ammirato. “Cominciava a capire che cosa vedessero gli altri in lui”.

• • •Durante il lavoro di ordinamento e catalogazione dei lavori di Eisner, Ann do-mandò al marito: “Cosa farai con tutti questi disegni?”“Li farò seppellire insieme a me in una bara speciale”.“Perché non cominci a venderne un po’?” gli chiese Ann.Dopo numerose esitazioni all’idea di separarsi dai suoi lavori, Will accettò, insi-stendo però nel vendere solo storie in blocco. In questo modo, era convinto che gli acquirenti le avrebbero conservate intere. Naturalmente questo non accadde, ma era il momento giusto per mettersi in questo tipo di mercato. Il nuovo pub-blico di appassionati aveva fame di pezzi originali e dopo la ristampa delle prime storie di Spirit da parte di Kitchen e Warren la notorietà di Eisner come il risco-perto maestro del settore cresceva di giorno in giorno.C’era però una complicazione. Alla morte di Walt Kelly, l’autore della striscia Pogo, alla moglie Selby venne notificata una tassa di successione spaventosa, a cau-sa dell’enorme valore degli originali ereditati. Eisner e altri membri della National Cartoonists Society indirono persino una raccolta di fondi per aiutare Selby a pagare il fisco e a non vendere gli originali.Più o meno nello stesso periodo in cui gli Eisner decisero di cominciare a vendere tavole originali, passarono a trovarli Harvey Kurtzman e Klaus Nordling, insieme

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alle rispettive mogli. Cat Yronwode chiese a Kurtzman cos’avrebbe fatto del suo materiale se fosse stato nei panni di Eisner.“Bisogna morire senza possedere più alcun disegno” rispose Kurtzman (per un uomo non celebre per il senso degli affari, si trattò di un raro momento di lucidità).Ricorda ancora Ann Eisner: “Dissi a Will ‘Hai un sacco di disegni, a chi li lascerai? L’Ohio State University?’. Diamo parecchi soldi in beneficenza, e abbiamo una piccola fondazione. Probabilmente nasce tutto da Alice, ma gli dissi ancora ‘Usia-mo i soldi (della vendita degli originali) per fare qualcosa per le cose in cui crediamo”.Così, Eisner conferì formalmente la vendita degli originali a Ann, ma senza alcu-na fretta. Erano talmente tanti che inondare il mercato avrebbe causato un crollo dei prezzi. Inoltre, dopo avere conservato tutto per decenni, Will non aveva nes-suna fretta di separarsi dalle sue tavole.“Che i suoi disegni possedessero un valore era per lui una fonte di piacere e di orgoglio” ricorda Cat.Ann volle subito nominare l’assistente di Will sua agente ufficiale per la vendita degli originali. Dopo tutto, chi poteva conoscere i suoi lavori meglio della donna che li aveva catalogati? Cat si mise al lavoro e quotò tutte le storie. Le prime a essere vendute furono le storie incomplete, oltre ai bozzetti a matita che Eisner aveva l’abitudine di buttare.“A chi vuoi che interessino degli schizzi a matita?”“Oh, vedrai”.Aveva ragione Cat, naturalmente. I primi schizzi furono venduti tra i 20 e i 40 dollari ciascuno. Piccole cifre forse, ma quegli schizzi avrebbero avuto più valore incorniciati e appesi alle pareti dei collezionisti che come spazzatura. E la circolazione degli schizzi portò in breve a illustrazioni e disegni a matita com-missionati appositamente.

• • •Nel 1978, preparandosi al trasloco in Florida (prima su base stagionale, poi defi-nitivamente nel settembre 1983), gli Eisner desideravano anche liberarsi dei resti di una vita piena e ricca.Nell’estate 1983, quattro anni dopo quelle prime sei settimane come loro ospite, e due anni dopo la stesura di The Art of Will Eisner, Cat Yronwode era ancora al lavoro per loro e per altri editori, quando Ann la chiamò per dirle che a causa del trasloco in Florida avrebbero gettato un sacco di oggetti e ricordi personali. Non erano certi di che cosa potesse avere un valore e che cosa no: intanto, avevano riem-pito un intero cassonetto della spazzatura, che però non era ancora stato prelevato. Will, incapace di buttare alcunché, era a pezzi e sperava che Cat potesse aiutarli. Lei accettò immediatamente, suggerendo a Will di recuperare subito il cassonetto.

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Ann e Will sapevano che la madre di Cat era stata una bibliotecaria specializzata in lasciti speciali presso la UCLA, a contatto con carte e documenti di autori famosi, e che Cat stessa aveva contatti con numerose biblioteche universitarie. Sapevano anche che nel corso degli aveva già donato migliaia di albi e molte scatole di oggettistica sul fumetto alla biblioteca della Michigan State University di East Lansing. Così, si domandavano se la stessa MSU potesse essere interessata alle loro carte.“Per quanto personalmente mi piacessero molto i tipi della MSU” ricorda Cat, “dissi ad Ann che secondo me l’Ohio State University sarebbe stato un soggetto molto migliore per la loro donazione. Lucy Caswell aveva costituito da poco un fondo di tavole originali presso la biblioteca di giornalismo dell’università, in se-guito al generoso lascito di disegni e documenti di Milton Caniff, il grande autore originario dell’Ohio la cui striscia ‘Terry e i pirati’ era stata una delle prime e mag-giori influenze nell’approccio di Will alla narrazione a fumetti. Sapevo che a Will sarebbe piaciuta moltissimo l’idea di avere le sue cose archiviate fianco a fianco di quelle di uno dei suoi maestri, e che l’acquisizione della collezione Eisner avrebbe dato lustro alla nascente collezione dell’OSU”.Gli Eisner chiesero così a Cat di contattare Caswell in via privata, per verificare il suo interesse. Dire che fu entusiasta è dire poco e chiarito questo punto, gli Eisner pagarono le spese di viaggio di Cat fino a New York, per riaverla nuovamente al lavoro sia nella stanza degli originali che nello studio di Will. Ci trascorse circa tre settimane, raccogliendo, archiviando, annotando, inscatolando ed etichettando la donazione degli Eisner. Col permesso di Ann scelse anche Hurricane, una storia completa di Spirit che, in originale, andò a costituire il cuore della collezione.Tra gli articoli salvati da Cat c’era una scatola di pellicole mute della famiglia e di vari amici, negli anni Trenta e fino ai primi anni Quaranta, girate da Will e Pete.“Sollecitai Will a fare una storia su come era diventato autore di fumetti” ricorda Cat, “su come da fresco di diploma era diventato un professionista, catapultato dalla condizione di modesto ragazzino a imprenditore con un socio più anziano di 13 anni. Ero anche stanca di vedere che non realizzava mai qualcosa di seria-mente autobiografico, rifugiandosi in trucchetti da commedia yiddish”.Uno dei romanzi a fumetti più noti di Eisner, Il sognatore, nacque per le insistenti richieste di Cat Yronwode a Eisner di applicarsi un po’ di più e di mettere su carta i suoi ricordi. “All’inizio, aveva cominciato a raccontarmi questa storie perché ero affascinata dalla sua vita. Aveva la stessa età di mio padre, figlio di immigrati sici-liani. Mio padre era un pittore che, come Will, aveva frequentato l’Art Students League. Entrambi erano cresciuti in quartieri promiscui con irlandesi, italiani ed ebrei. Will mi raccontava storie meravigliose su persone che anche io conoscevo e potevo immaginare come le avrebbe disegnate. Ed era quello che gli dicevo:

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‘Perché non le disegni?’, ma lui rispondeva di no. E io insistevo: ‘Disegna la storia di Buck e della barca!’”.Uno dei filmati salvati da Cat riguardava una barca che al liceo Eisner aveva co-struito insieme all’amico Buck.“Il filmato era molto più triste della storia come l’aveva raccontata Will” ricorda Cat. E in generale, i film suggeriscono che Eisner fosse un ragazzo molto più emarginato di quanto risulti dalle sue storie. “Quando la macchina da presa la usa Will, vediamo che riprende tutti i dettagli di quella bellissima barca, ma quando passa a Buck, Will quasi non si vede, ed è tutto sfuocato”.

• • •Cat Yronwode fu l’agente ufficiale di Eisner per il materiale originale per diversi anni, fino a molto tempo dopo il trasferimento in California insieme a Dean Mullaney e il trasloco degli Eisner in Florida. Stando ai suoi resoconti, il rapporto cominciò a sfaldarsi quando “Will cominciò ad anticipare i rialzi del mercato: allora tutto si vendeva più lentamente e anch’io guadagnavo meno. Fu allora che andò tutto a rotoli. Se l’ultima storia completa era stata venduta a 8000 dollari, Will prezzava la successiva a 10.000. Io non riuscivo a venderla e a incassare la commissione”.Inoltre, con Cat in California e gli Eisner in Florida, le comunicazioni ne soffriro-no. L’accordo aveva funzionato bene per diversi anni: Will e Ann non solo erano felici di fare parte della vita di Cat ma anche di darle una mano economicamente. Nel frattempo, Cat era diventata direttrice editoriale dell’Eclipse Comics di Mul-laney, una delle prime case editrici indipendenti di fumetti, nonché, per un po’, una di quelle di maggior successo.A un certo punto, Cat aveva smesso di vendere originali: tra le due donne i rap-porti precipitarono e Cat si sentì offesa quando Ann le tolse la rappresentanza.“Ann mi tagliò fuori” ricorda Cat. “Avevo pubblicato un catalogo vendendo quasi tutto, pensavo che fosse andato bene. Ann voleva che ne facessi subito un altro. Poi Will chiese un aumento rispetto al catalogo precedente. Probabilmente tardai a farlo, perché Ann mi spedì una lettera molto arrabbiata, che mi ferì personal-mente. Ancora oggi, non riesco a spiegarmela”.Gli Eisner contestano la versione di Cat sulla fine del loro rapporto, documentan-do la loro versione con lettere speditele da Ann e Pete, in cui chiedevano ripetu-tamente dei rendiconti sulla sua attività, senza ricevere nessuna risposta. Alla fine, Ann scrisse dichiarando che evidentemente le altre attività di Cat le impedivano di rappresentare Will.In un’ultima lettera, Ann spiegava a Cat che non voleva che i loro rapporti perso-nali ne risentissero per una questione economica. Non seppe mai più nulla da lei.

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Ann incaricò poi Mark Cohen di Santa Rosa, California, di gestire la vendita de-gli originali. Lo avevano conosciuto attraverso Cat ed era famoso per la sua vasta collezione di tavole originali della rivista MAD. Aveva commissionato una serie di autoritratti a numero cartoonist – tra cui Will – e insieme a Jeannie Schulz aveva fondato il museo Charles M. Schulz di Santa Rosa.Cohen rappresentò Eisner fino al 1999, quando morì per tumore e l’incarico passò a Denis Kitchen.“Finì tutto in modo orribile e non so perché” ricorda Yronwode. “Mi piaceva tantissimo stare con loro, erano persone meravigliose”.L’ultimo contatto tra Cat Yronwode e gli Eisner fu nel 1997, quando Ann spedì un invito per una festa a sorpresa per l’ottantesimo compleanno di Will presso l’International Museum of Cartoon Art.“Ricevetti una risposta dalla sua segretaria” ricorda Ann. “Diceva ‘Cat Yronwode non sarà in grado di partecipare. Augura a Will buon compleanno.’, tutto qua! Un biglietto dalla segretaria?”.“Probabilmente per lei non sono più importante” commentò Eisner. “Peccato. Chi l’avrebbe mai detto, forse non conosce ancora abbastanza se stessa”.Quella stessa estate, al San Diego Comic-Con, Ann vide Ivy, la moglie di Scott McCloud (Capire il fumetto, Reinventare il fumetto), mentre parlava con Cat Yronwode (i McCloud avevano partecipato alla festa a sorpresa per Will). Cat sorrise ad Ann ma Ann non ricambiò.“Per ognuno ci sono cose da cui non si torna indietro. Se qualcuno ferisce mio marito, allora ha passato il segno”.

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quindiciKitchen Sink

Parte II

La rivista da edicola di Spirit prodotta dalla Warren era bella, elegante e all’i-nizio vendette bene, ma dopo un po’ la tiratura cominciò ad assottigliarsi e i

rapporti commerciali di Eisner con Warren si fecero sempre più limitati.Dopo sedici numeri, Eisner decise di non rinnovare il contratto (anche se i due restarono amici) e chiamò Kitchen: “Ci sono ancora un sacco di storie inedite ma non sono certo che possano funzionare. Tu cosa ne pensi?”“Vuoi scherzare, Will? Sarei felice di continuare”.Se all’inizio Kitchen aveva socchiuso la porta a Spirit, Warren l’aveva abbattuta a calci come l’incredibile Hulk, accertando chiaramente che il mercato era in grado di assorbire senza problemi 50.000 copie mensili di una rivista di Spirit.Convinto che ci fosse un certo numero di collezionisti disposti a continuare ad acquistare la rivista nel formato Warren, Kitchen proseguì nella numerazione: l’edizione Warren terminò col numero 16 e quella Kitchen Sink Press riprese la serie col 17.La pubblicazione in questo formato andò avanti fino al numero 41, quando Kitchen divise in due la rivista. Per la prima volta, le storie di Spirit vennero pub-blicate in formato comic book, in ordine cronologico e a colori. A questa edizione venne affiancata una nuova rivista, Will Eisner’s Quarterly, su cui compariva il nuovo materiale di Eisner, oltre ad articoli e servizi sulla sua carriera.“Da quello che riuscivo a capire del pubblico e del mercato” ricorda Kitchen, “si era arrivati a una divisione tra appassionati di Spirit e fan dei nuovi lavori di Will, quelli che oggi chiamiamo romanzi a fumetti. Era una polarizzazione piuttosto forte. Quando sulla rivista di Spirit pubblicavamo le nuove cose di Will, ricevevo un sacco di lamentele da lettori che volevano più storie di Spirit. Così, alla fine decidemmo di dare loro entrambe le cose: The Spirit per i lettori delle storie clas-siche e il Quarterly per i nuovi lavori e gli articoli storici su Busy Arnold, Quality Comics e PS”.

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Eisner, entusiasta di avere il suo nome nel titolo di una rivista, sul trimestra-le proseguì anche la popolare serie di interviste Chiacchiere di bottega (“Shop Talk”), che anni dopo verranno raccolte nel volume omonimo. Erano interviste approfondite, rivelatrici e a volte persi-no aspre condotte da Eisner con alcu-ni grandi del fumetto e della striscia, tra cui Milton Caniff (Terry e i Pirati, Steve Canyon), C. C. Beck (Captain Marvel), Jack Kirby (Fantastic Four, Silver Surfer) e Neal Adams (Lanterna Verde/Freccia Verde, Batman). A Eisner piaceva lo scambio professionale delle Chiacchiere di bottega e parlava spesso di riprendere la serie.Col tempo, Kitchen Sink ristampò tut-ti gli episodi di Spirit del dopoguerra

(quando Eisner era tornato dall’esercito, riassumendo il controllo creativo), fino alla conclusione della serie nel 1952. A quel punto, i progetti legati ai lavori di Ei-sner avevano sostituito i comix underground come principale attività della Kitchen Sink e altre vere e proprie leggende viventi, come Harvey Kurtzman, Milton Ca-niff e Robert Crumb avevano raggiunto Eisner nel suo prestigioso catalogo.

• • •Nonostante la conoscenza comune di Denis Kitchen in qualità di editore e fan numero uno, Eisner incontrò Robert Crumb una sola volta, a una cena nel Gre-enwich Village in compagnia di Harvey Kurtzman. Crumb era un grande ammi-ratore di Kurtzman e quella sera indossava il suo caratteristico cappello con la tesa girata all’insù.A un certo punto, Kurtzman si alzò per andare in bagno e Eisner cercò di attac-care conversazione con il riluttante Crumb, ma non fu semplice. Poi fu Crumb a porre una domanda a Eisner: “Conosci delle ragazze con le gambe grosse?”

• • •Nel corso degli anni la relazione tra Eisner e Kitchen si trasformò, passando da un rapporto commerciale a uno realmente personale. Si facevano visita spesso, diventando ciascuno parte integrante della vita dell’altro.

La copertina di Will Eisner’s Quarterly n. 4.

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Il legame tra Will Eisner e l’under-ground era Kitchen, ed era Kitchen a colmare il gap generazionale tra i grandi del fumetto come Eisner, Ca-niff e Kurtzman e le star dei comix underground come Robert Crumb, Skip Williamson e Jay Linch. A dif-ferenza di altri editori alternativi, per gustare il fumetto underground Kitchen non trovava necessario esclu-dere a priori autori e personaggi più popolari, o “mainstream”.“Alla Kitchen Sink mi sentivo più a mio agio perché nessuno mi chiede-va di guardare dall’alto in basso gente come Al Capp” ricorda l’autore Howard Cruse. “Individui come gli Air Pirates (Dan O’Neill, Bobby London, Ted Richards, Shary Flenniken e Gary Halgren) in realtà apprezzavano la tradizione degli anni Trenta, ma quasi tutti pensavano che da oltre vent’anni non fosse successo praticamente niente finché non erano arrivati loro, i grandi rivoluzionari. Personalmente, trovavo tutto ciò estrema-mente arrogante anche se, in definitiva, l’underground aprì nuove possibilità al cartooning e penso che Eisner ne fosse ben consapevole”.Eisner aveva capito che a Kitchen interessava espandere l’ambito del cartooning, e gli underground erano un chiaro segno dell’apertura del fumetto al tipo di cose che interessavano a lui.L’incontro di Eisner coi i comix underground costituì un punto di non ritorno: cominciò non solo a lavorare con Kitchen per adattare e presentare Spirit a nuove generazioni, ma anche a produrre nuovi lavori.“Will parlava in continuazione degli underground” ricorda l’ex studente e as-sistente John Holmstrom. “ Era entusiasta di lavorare in quell’ambiente, senza limiti e senza censura. Harvey Kurtzman e Will cercavano sempre di valorizzare e far accettare il fumetto come qualcosa che non era solo roba per bambini. Il fatto che in altri paesi fossero lettura per adulti e che da noi non fossero tenuti in considerazione era per loro una grande frustrazione”.Holmstrom porta a esempio il numero del febbraio 1977 della rivista Screw di Al Goldstein. In quel numero comparivano quattro pagine di Holmstrom, un profi-lo di Andy Warhol e vignette di Bill Griffith (“Zippy the Pinhead”), Art Spiegel-man e le quattro pagine di Eisner “Will Eisner’s Gleeful Guide to the Quality of Life”. “Per gli standard di Will c’era roba parecchio forte, tra cui un paio di donne

Denis Kitchen e Will Eisner(1983).

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a seno nudo” ricorda Holmstrom. La cosa paradossale, era che secondo Eisner gli underground rappresentavano il futuro. “Su questo, era d’accordo con Kurtzman. Ma ormai l’underground era arrivato al capolinea”. Quando Eisner scoprì i comix, gli anni Settanta cominciarono ad avviarsi alla fine, lasciando il posto a una nuova atmosfera culturale.

• • •Nel 1985 Dave Sim coordinò Cerebus Jam, un albo a fumetti in cui il suo per-sonaggio Cerebus interagiva con altri celebri personaggi a fumetti. La formula del “jam” era un modo per Sim di lavorare con autori che ammirava, cercando di promuovere la serie regolare di Cerebus. Alla fine si risolse in un’esperienza per lui alquanto snervante. Ma c’era almeno una persona con cui sognava di lavorare: Will Eisner.Chiamò Eisner, di cui era già amico, spiegandogli che avrebbe voluto fare una storia di Cerebus in cui compariva Spirit. “Will reagì come avrei fatto io: ‘Anche se cerchi di farlo sembrare una cosuccia, sarà un lavoraccio e non credo proprio che mi interessi’”. Sim gli presentò un bozzetto a matita delle quattro pagine della storia, la più completa possibile.“Abbozzerò io Spirit e il Commissario Dolan” gli disse “e se ti va, basterà che tu finisca e corregga le matite; poi alle chine penserò io”.Sim spedì quindi una bozza con la sua migliore approssimazione di Spirit e Do-lan, disegnati il più possibile nello stile di Eisner. “Più riuscivo a imitarlo, in modo che dovesse solo correggere le matite e maggiori sarebbero state le proba-bilità di riuscire a convincerlo” pensava Sim. Alcune settimane dopo, quando le pagine gli tornarono indietro, fu un vero colpo: Eisner aveva ridisegnato e inchiostrato tutte le figure.“Spero che non ti dispiaccia se ho anche inchiostrato” gli disse Eisner. “Ma è stato come quando il cavallo dei pompieri sente l’odore del fumo: il tempo di finire le matite e non ho potuto fare a meno di inchiostrarle”.“Will, va benissimo” fu la risposta di Sim, trattenendo a stento la gioia. “Chiude-rò un occhio. Sono un po’ arrabbiato ma visto che sei Will Eisner lascerò correre”.Fino ad allora, Eisner aveva scritto e disegnato solo due nuove storie di Spirit e alcune copertine per il breve ciclo della Harvey, una storia a sfondo politico per il New York Herald Tribune nel 1966, e copertine per Warren e le prime due ristampe Kitchen (dove comparivano anche alcune pagine nuove). “Fu una cosa meravigliosa” ricorda Sim della loro collaborazione. “Era come se non fosse stato via neppure venti minuti, figuriamoci trent’anni”.

• • •

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Will Eisner al lavoro per la storia “speciale” di Spirit per il New York Herald Tribune del 9 gennaio 1966.

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Christopher Couch ha lavorato per Kitchen Sink dal 1994 al 1999 ed è uno dei due autori di The Will Eisner Companion, una sorta di introduzione ai romanzi a fumetti e agli Archivi di Spirit di Eisner. Ha insegnato l’opera di Eisner alla Uni-versity of Massachusetts di Amherst e alla School of Visual Art di New York. Per la Kitchen Sink Press è stato editor di Eisner, nonché cognato di Dave Schreiner, l’editor “indipendente” di Eisner (assumendolo, Kitchen aveva detto a Couch “Ti prendo perché hai un buon pedigree”).Schreiner aveva seguito e supervisio-nato diversi romanzi di Eisner per ol-tre vent’anni, da Vita su un altro pia-neta (il secondo) a Fagin the Jew, ed è scomparso nell’agosto 2003, la stessa settimana dell’uscita di Fagin. Secon-do Couch, il rapporto di Schreiner con Eisner era “molto stretto”.“Dave mi raccontò che quando co-minciò a lavorare con Will, gli spedi-va delle lettere e che Will rispondeva ‘Dave, sei troppo educato’. Da allora, non esitò mai a esprimere un’opinio-ne. E Will la rispettò sempre, anche quando non seguiva i suoi consigli”.Schreiner passava ogni storia a un vaglio finissimo, riga per riga, analiz-zando accuratamente la struttura della storia. Quello che lo distingueva, facendo di lui un editor estremamente efficace, era la sua cultura: non si limitava a sapere un po’ di tutto, sapeva un bel po’ di tutto. Aveva una buona cultura in letteratura americana classica e moderna, oltre che in cultura popolare e persino nello sport. E aveva una profonda comprensione dei meccanismi della narrazione.Contratto con Dio viene sempre descritto come un romanzo a fumetti ma si tratta della raccolta di quattro racconti brevi, un formato narrativo di cui Eisner è uno dei massimi maestri contemporanei. Ma quando si trattò di passare a veri e propri romanzi, a storie lunghe come Dropsie Avenue, entrò in un ambito di cui non aveva ancora esperienza.“Si affidava molto a Dave” ricorda Couch. “Su Verso la tempesta lavorarono ve-ramente sodo. Fu l’apice della loro collaborazione: Dave, l’esperto di letteratura, che aiutava Will a padroneggiare il formato del romanzo. Will ce l’avrebbe fatta anche da solo ma probabilmente fu un po’ come il rapporto tra Maxwell Perkins

Prima pagina della storia “speciale” di Spirit per il New York Herald Tribune del 9 gennaio 1966.

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e Ernest Hemingway. Dave era esattamente quel tipo di editor in grado di indurre gli autori a tirare fuori quello che avevano dentro nel modo migliore possibile”.

• • •Verso la metà degli anni Novanta, alla Kitchen Sink Press tirava una brutta aria. Sia per Denis Kitchen che per i suoi dipendenti.“Fu un periodo da incubo” ricorda Couch.Il coinvolgimento di Eisner era aumentato, e oltre a essere amico, consigliere e anima creativa, Will era entrato nel consiglio d’amministrazione della casa editrice.“Will si impegnava e lavorava molto per aiutarci a restare a galla” ricorda Couch. “Veniva periodicamente in Massachusetts per incontrarsi con Denis e pianificare il da farsi. Gli diceva di stare su, nonostante le difficoltà finanziarie, e di non mollare. Lo chiamavamo tutti ‘zio Will’, lo adoravamo. Ogni volta che capitava a Northampton cercavamo di passare più tempo possibile con lui”.Dopo il 1994, la Kitchen Sink Press era diventata una società molto diversa da quella che Denis Kitchen aveva lanciato in un appartamentino di Milwaukee alla fine degli anni Sessanta. Il I di aprile del 1993 Kitchen fuse la società con la Tun-dra di Kevin Eastman, uno dei co-autori delle Teenage Mutant Ninja Turtles e an-che se da un punto di vista tecnico fu la Kitchen Sink Press ad assorbire la Tundra, fu Kitchen a trasferirsi a Northampton, in Massachusetts, la sede della Tundra.La nuova società ebbe subito un grande successo artistico ed editoriale, ma quello economico tardava. L’anno stesso della fusione l’intero mercato del fumetto andò a gambe all’aria: alla fine del 1994 le librerie specializzate indipendenti stavano chiudendo a centinaia e i potenziali punti vendita per i volumi della KSP comin-ciavano a scarseggiare.Nel 1995 Kitchen e Eastman cedettero il controllo della KSP alla Ocean Capital Corporation di Los Angeles. Kitchen restò presidente e membro del consiglio d’amministrazione ma rendeva conto agli azionisti e a un consiglio di ammini-strazione. Stavolta non erano hippies ma manager di Hollywood che vedevano nella società una fonte di idee da adattare per il cinema e la TV, come Il Corvo di James O’B arr e Cadillacs and Dinosaurs di Mark Schultz.Del consiglio facevano parte Robert Rehme, produttore “A-list” (cioè di film con un budget maggiore, come Patriot Games, Beverly Hills Cop III, Lost in Space), che ogni anno apriva gli Academy Awards in qualità di presidente dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences; e Larry Kuppin (produttore “B-list” di Jimmy The Kid, Evita Peron, nonché comparsa in Hellraiser III). Kuppin era anche stato vicepresidente della New World Entertainment quando questa era proprietaria della Marvel.“Non era più il mio lavoro” ricorda Kitchen. “Tecnicamente, ero ancora parte

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della società ma si trattava di una mutazione della KSP. Nel Consiglio avevo due o tre alleati, ma la Ocean controllava una maggioranza di nove. Avevano un certo rispetto per me e quando si trattò di eleggere il consiglio mi chiesero molto chia-ramente: ‘Secondo te chi dovrebbe bilanciare la presenza di tutti questi signori di Hollywood?’ Io risposi ‘Will Eisner’. Riconobbero che la cosa aveva senso da qualsiasi punto di vista e che potevano vantarsi di avere in consiglio tre generazio-ni di cartoonist: Will, me e Kevin. Kevin Eastman era già nel consiglio, in quanto vecchio azionista di riferimento. Apprezzavano anche il fatto che Will si fosse già occupato di editoria”.Oltre a mungere la KSP per ricavarne idee da sfruttare commercialmente, l’Oce-an Capital aveva in mente una IPO [“Offerta Pubblica Iniziale”: offerta di titoli sul mercato, contestualmente alla quotazione in borsa – NdT[ che avrebbe rico-perto tutti d’oro. Ma l’Ocean non effettuò gli investimenti promessi, lasciando la KSP nell’incertezza finanziaria. Le prospettive della società si oscurarono ulterior-mente quando Joel Reader, presidente della Ocean, nonché principale architetto del progetto di offerta, si impiccò il giorno di Natale 1996 (nel febbraio 1990 Reader lavorava per la banca d’investimenti Oppenheimer & Co. e aveva portato in Borsa la società di produzione di Mel Brooks, il regista di Frankenstein Junior e Per favore non toccate le vecchiette. Secondo il Los Angeles Business Journal “L’Of-ferta Pubblica Iniziale della Brooksfilms è stata un flop”. Un anno dopo, Reader lavorava per L. F. Rothschild e la rivista Forbes riferì di come avesse accollato alla catena Divi Hotels ogni possibile debito, facendo saltare la società).“Durante il nostro ultimo consiglio d’amministrazione” ricorda Kitchen, “Will, io e altri eravamo in teleconferenza con Kuppin, che continuava a ripetere ‘Perché diavolo continuo a sprecare tempo? Ormai il capitale è perso, è solo una perdita di tempo.’ Dopodiché si dimise e riagganciò. A quel punto, Will osservò che la minoranza dei cartoonist stava per prendere il controllo del Consiglio: ‘Se un altro molla il controllo passa a noi!’ Io ero a pezzi perché Kuppin aveva mollato e Will lo vedeva come un vantaggio strategico!”.

• • •Denny O’Neil, sceneggiatore ed editor di lungo corso di Batman per la DC, aveva sempre ammirato la caratterizzazione che nel corso degli anni Eisner aveva dato di Spirit, soprattutto per la sua coerenza: invece che limitarsi al personaggio principale, la serie diventò uno strumento per raccontare storie. “Il motivo per cui ho sempre avuto una preferenza per Batman è che è sempre stato un ottimo strumento per raccontare storie, e che c’erano più storie raccontabili attraverso Batman che attraverso un personaggio appena meno onnipotente di Dio. Potreb-be essere qualcosa che mi è rimasto attaccato leggendo Eisner da piccolo”.

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Quando l’editore di Eisner era la KSP, O’Neil e Eisner parlarono della possibilità di una storia in cui Spirit incontrava Batman. “Non avremmo lavorato diretta-mente insieme: io avrei scritto una storia in cui comparivano Batman e Spirit” ricorda O’Neil. “La cosa mi intimidiva: avrei fatto lo Spirit di Will Eisner? Già. Ma a lui sembrava andare bene”.O’Neil si incontrò una volta con un editor della Kitchen Sink e parlarono dei possibili formati: poteva essere una miniserie, piuttosto che un singolo episodio direttamente in volume, e cose del genere. Alla chiusura della KSP, la DC acquisì i diritti dei romanzi a fumetti di Eisner e delle ristampe di Spirit, e i contatti ri-presero. Era uno di quei progetti di cui tutti dicono che è un’ottima idea ma senza che esista un motivo impellente per farlo” commenta O’Neil (durante l‘edizione 2004 del San Diego Comic-Con Eisner incontrò il presidente della DC Comics Paul Levitz; parlarono di diverse questioni e tra le altre cose diede il permesso di utilizzare Spirit insieme ai personaggi dell’universo DC, a partire dalla fine del 2005; naturalmente, Eisner fece inserire nel contratto una clausola che gli conce-desse il controllo creativo).

• • •La Kitchen Sink Press cessò le pub-blicazioni, vittima di vendite sempre minori e di una struttura azienda-le disfunzionale, e i diritti su tutte le opere di Eisner tornarono all’autore che, a quel punto, si ritrovava libero di fare quello che preferiva. Per De-nis Kitchen, invece, si trattava di un brutto colpo, che lo lasciava stordito e confuso per la perdita della società che aveva fondato e curato per trent’anni.

Ma dove Kitchen vedeva un epilogo tragico, ancora una volta Eisner vide una nuova occasione e chiamò Kitchen: “Ti va di diventare il mio agente?”. Kitchen ci rimase di sasso ma per Eisner non c’era cosa più ovvia: “È l’evoluzione naturale della nostra collaborazione. Vorrei che mi aiutassi a trovare nuovi editori per i miei libri”.Non ci fu neppure una pausa di riflessione e Kitchen passò direttamente da edi-tore ad agente di Eisner, formando l’agenzia letteraria Kitchen & Hansen insieme a Judy Hansen, già vice presidente della KSP nonché consulente legale per Simon & Schuster e del marchio Doubleday del colosso Random House. Kitchen accet-

Da sinistra a destra: Will Eisner, Alexa Kitchen,Denis Kitchen e Pete Eisner.

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tò anche di occuparsi degli originali di Eisner, attraverso un’altra sua agenzia, la Denis Kitchen Art Agency, fondata nel 1991 e che rappresentava già autori (o i loro eredi) come Harvey Kurtzman, Russell Keaton, Al Capp e altri.

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UNA VITA PER IL FUMETTO

BIANCO E NERO

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sediciLa riscoperta di un artista

“A Jules quel che è di Jules” potreb-be essere il motto di Jules Feiffer.

“Posso dire che è stato The Great Co-mic Book Heroes a reinventare Will Ei-sner?”. È quello che pensa l’autore di questo volume, che aprì una nuova era per gli appassionati di fumetto, facen-done un’attività rispettabile per una nuova generazione di autori. “Era sta-to dimenticato. Ero fermamente con-vinto che i due autori più importanti fossero Milton Caniff e Will Eisner. A Caniff incensi e riconoscimenti non mancavano, mentre nessuno conosce-va Will”.Naturalmente Feiffer ha ragione; come una generazione di futuri autori di fumetti conobbe Spirit negli anni Settanta grazie alle ristampe in bianco e nero di Jim Warren, la generazione precedente, negli anni Sessanta, aveva

scoperto Eisner grazie al libro di Feiffer e a un suo estratto pubblicato su Playboy. Scriveva Feiffer:

Gli albi della Quality portavano la sua firma, le sue impaginazioni, il suo modo di raccontare una storia. Eisner scriveva praticamente tutto da solo, un’autentica rarità tra gli autori di fumetti. La sue storie aveva-

The Great Comic Book Heroes, di Jules Feiffer.

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no la stessa importanza dello stile grafico nel coinvolgimento del lettore, nella definizione dell’ambiente, nel rendere plausibile il più improba-bile dei colpi di scena.L’apice del suo lavoro è stato Spirit, un albo a fumetti creato come sup-plemento domenicale per i giornali. Esordì nel 1939 (sic) e proseguì fino al 1942, quando Eisner partì militare e dovette affidare la serie ad altri autori.

Nonostante il rapporto a tratti scontroso e sarcastico degli anni successivi, Feiffer non ha mai negato il piacere di riportare all’attenzione e al rispetto del pubblico il suo mentore di un tempo.“Uno degli aspetti più irresistibili e gratificanti della carriera di chiunque è l’in-fluenza che si può avere sugli altri” commenta Feiffer. “Quando qualcuno mi dice che un mio libro o una mia vignetta l’ha aiutato, o ha aiutato suo figlio, ecco, queste cose per me sono enormemente importanti. GCBH ha contribuito a ri-dare importanza al fumetto in un periodo in cui stava morendo. Non ero più un appassionato o un lettore da molto tempo e non sono mai diventato un fan della cosiddetta ‘Era Marvel’. Con quel libro speravo anche di fare qualcosa per Will ma in realtà è andato molto al di là di ogni aspettativa. In maniera entusiasmante. Costrinse Will a ripensare alla carriera di cartoonist che aveva abbandonato. E il fenomeno delle fanzine e dell’underground che seguì contribuì a rilanciarlo”.La causa di Feiffer ricevette sicuramente impulso anche dal fatto che l’attività di imprenditore in editoria non aveva avuto il successo che Eisner aveva sperato.“Se Will fosse diventato l’Henry Luce [celebre editore, fondatore di numerose ri-viste storiche, come Time, Fortune e Life – NdT] dei manuali del Genio Artiglieri, forse non avremmo mai visto la rinascita di Will Eisner come autore di fumetti. Come tanti altri di noi, sospetto che nell’ultima parte della sua vita abbia scelto il fumetto come una specie di ripiego” sostiene Feiffer.

• • •Maggie Thompson, editor del Comics Buyer’s Guide, era stata amica di Eisner fin dagli anni Sessanta, quando insieme al fu marito Don curava Comic Art (1961-1968), una delle prime fanzine ciclostilate sul fumetto. Rintracciarono Eisner e, con orgoglio, lo inserirono nella loro lista di contatti, avviando un rapporto che sarebbe durato per tutta la vita di Eisner.Era stato Don a far conoscere le storie di Spirit a Maggie: “Mi lasciarono letteral-mente senza fiato, e cominciammo a collezionarle con rispetto quasi religioso”. ricorda Maggie.Nel suo libro del 1973, The Comic-Book Book (curato da Don Thompson e Dick

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Lupoff), Maggie Thompson dedica un capitolo a Eisner e all’importanza e in-fluenza di Spirit, presentandolo e facendolo conoscere a migliaia di persone. Du-rante le sue ricerche, Maggie si accorse di una questione polemicamente già solle-vata da Jules Feiffer in GCBH:

Dal punto di vista sartoriale, Spirit era lontano anni luce da altri eroi mascherati. Non aveva una calzamaglia ma solo un abito abbondante, un cappello a tesa larga che tendeva costantemente a perdere e, come ‘costume’, una mascherina disegnata come se fosse attaccata alla pelle. Per qualche motivo, raramente indossava calzini; e se li aveva, erano color carne. Mi sono sempre chiesta perché.

Nel suo capitolo di The Comic-Book Book (“Giacca blu, maschera blu, guanti blu... e niente calze”) Maggie non poteva non risollevare la questione parlando del breve e inatteso ritorno di Spirit sul supplemento domenicale del New York Herald Tribune del 9 gennaio 1966:

Spirit indossava una giacca, un cravattino sottile e un colletto sempre abbottonato. Per il resto, era il solito Spirit di sempre; tranne che per le calze. Molte persone avevano notato che Spirit non portava calze: nei vecchi episodi, il pezzo di gamba che si intravvedeva tra l’orlo e la scarpa era invariabilmente color “carne”. La questione è sempre rimasta misteriosa almeno quanto il motivo per cui Spirit indossava sempre i guanti, anche a letto. Ma quella domenica, sull’Herald Tribune, Spirit sfoggiava calzini abbondanti, che sporgevano dalle scarpe e per un breve istante apparve anche senza guanti. Era come se Eisner avesse deciso di sfidare la tradizione in quella sua ultima apparizione.

Eisner rispose alla Thompson con uno schizzo di Spirit che dichiara “Era tutto uno scherzo! Certo che ho le calze!”.

• • •Negli anni Settanta l’influenza passata e presente di Eisner sulla scena fumet-tistica crebbe in maniera esplosiva. Occasioni ed esperienze di ogni tipo co-minciarono ad arrivargli da tutte le parti, sia in ambito professionale che dal “mondo reale” (come i grandi quotidiani, o mostre e convention di ogni tipo, a cui Eisner era invitato sempre più spesso), rendendo difficile un inquadramento immediato della sua figura. Circostanze che cominciarono a definire l’uomo e il mito che lo circondava.

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Per esempio, i lavori di Eisner erano stati notati e rispettati a lungo nell’ambito dell’e-ditoria e della narrativa a fumetti, ma ora si riconosceva che l’importanza dei suoi sorprendenti esiti creativi aveva avuto ricadute su tutti i mezzi di comunicazione.Scott McCloud, autore di Capire il fumetto e Reinventare il fumetto, cita l’influenza di Eisner in qualsiasi cosa che vada dalla letteratura al cinema, ricordando che au-tori come Michael Chabon (romanziere, vincitore del Premio Pulitzer con Le stra-ordinarie avventure di Kavalier e Clay), Frank Miller (autore di fumetti e regista, autore di Il ritorno del Cavaliere Oscuro e Sin City), Art Spiegelman (vincitore del Premio Pulitzer con Maus), Steven Spielberg (regista di E.T., Incontri ravvicinati del terzo tipo, Lo squalo), Quentin Tarantino (sceneggiatore e regista, autore di di Pulp Fiction) e Matt Groening (autore de I Simpson) hanno riconosciuto pubbli-camente l’influenza di Eisner. Brad Bird, sceneggiatore e regista del film d’anima-zione vincitore del premio Oscar Gli Incredibili, ha reso omaggio a Eisner nel suo film Il gigante di ferro, dove un ragazzo mostra al gigante uno dei suoi fumetti di Spirit. E ne Gli Incredibili le maschere dei protagonisti ricorda-no deliberatamente quella di Spirit. Quella che segue è una dichiarazione rilasciata da Bird a Joseph Szadkowski del Washington Times in un articolo pubblicato nell’ottobre 2004:

Cominciai a interessarmi a Spirit dopo avere letto un’intervista a Wil-liam Friedkin, stupito per come quel personaggio fosse cinematografico. Il mio primo amore è sempre stato il cinema e per me era come una versione a strisce di Quarto Potere.Le inquadrature erano incredibili e l’illuminazione eccezionale. Persi-no la disposizione sulla pagina era cinematografica. Non si limitava a squadrare le vignette in maniera geometrica: le allungava e le accorcia-va, con un senso del tempo e un ritmo assolutamente cinematografici.Credo che fosse una delle prime serie a fumetti a fare una cosa del genere e ritengo eccezionale il fatto che non solo Will Eisner avesse le capacità tecniche necessarie, ma anche che non avesse paura di ricorrere a espres-sioni esagerate, o grottesche.Ho fatto un piccolo omaggio a Mr. Eisner ne Il Gigante di Ferro, quando il ragazzo dà al gigante qualcosa che lo diverte, ed è una copia di Spirit. Ho pensato che non fossero in tanti a conoscerlo, e che andava fatto.

Scott McCloud (Capire il fumetto) e Neil Gaiman (Sandman) festeggiano Will Eisner in occasione dei

suoi 80 anni.

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Secondo me Will Eisner è un genio...

“Tra gli appassionati di fumetti c’è storicamente un numero sproporzionato di lettori precoci orientati alla comunicazione che crescendo hanno fatto cose ec-cellenti” commenta McCloud. “Per questo il nome ‘Will Eisner’ è di casa negli studi di grafica e nelle case di produzione, e molti registi importanti sanno chi è Will. Come Quarto Potere, Spirit ha contribuito a codificare il linguaggio della narrazione secondo modalità di cui hanno poi approfittato altri disegnatori. E se il nome fatica a uscire dal nostro ambito specializzato, lo fanno i suoi lettori. Ed è così da molti decenni. I talenti che lavorano nei media e che creano i media sanno bene chi è Will Eisner”.La differenza tra Eisner e gli autori di personaggi più noti come Superman e Batman, spiega McCloud, “è la differenza tra chi ha costruito il primo motore a combustione e chi ha progettato gli alettoni della fortezza volante Thunderbird. Will ha costruito il motore che montano tutti i modelli”.Svolgendo ricerche per il suo documentario Will Eisner: The Spirit of an Artistic Pioneer, il cineasta Jon B. Cooke ha scoperto con suo grande stupore che Eisner aveva creato il sistema di produzione di albi a fumetti in serie alla fine degli anni Trenta. “Parlava dell’importanza del fumetto al Philadelphia Record nel 1941. 1941! Sconvolgente. Praticamente, un chiaroveggente. In quel periodo, era l’u-nico a esserne consapevole. Non ha avuto maestri, non c’era nessuno a indicargli la strada. A vent’anni si rese conto che il fumetto era una forma d’arte, quando probabilmente nessuno pensava che fosse nient’altro che una forma di intratteni-mento usa e getta. Come disegnatore, poi, è un dio”.Nel 2001 Eisner ricevette lo Sparky Lifetime Award assegnato dal Cartoon Art Museum di San Francisco (intestato all’autore dei Peanuts Charles Schulz), primo tra i vincitori non originario della Costa Ovest.“Il consiglio ritenne maturi i tempi per allargarci oltre la Costa Ovest” dichiara la curatrice del museo Jenny Dietzen. “Il primo nome a essere fatto fu quello di Will Eisner, che è stato premiato non solo per la sua opera di autore ma anche per la sua attività di promotore del fumetto come forma artistica, che è stata instan-cabile. Ha attraversato l’editoria a fumetti per tutta la vita e quello che ha fatto è assolutamente fenomenale”.Tra gli altri vincitori troviamo lo stesso Charles Schulz, il primo a riceverlo, il creatore di Bugs Bunny Chuck Jones, l’autore di Toy Story John Lasseter, il dise-gnatore di MAD Sergio Aragonés, l’autore Disney Carl Barks, il cartoonist Dale Messick (“Brenda Starr”) e la leggenda vivente della Marvel, Stan Lee.“Un insieme di nomi decisamente illustri” commenta Dietzen.La fama di Eisner è persino maggiore al di fuori degli Stati Uniti, come testi-

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monia la professoressa Lucy Caldwell, curatrice della Cartoon Research Library dell’Ohio State University: “La sua fama internazionale testimonia del valore del-la sua opera. Abbiamo ospitato troupe da tutto il mondo, venute qui per girare documentari su Will. Le richieste che riceviamo per Will sono soprattutto inter-nazionali. È qualcosa che non cessa di stupirmi”.

• • •Essere stato riscoperto a cinquant’an-ni, con già due intere carriere alle spalle, insieme alla soddisfazione per i risultati sia artistici che economici del suo lavoro, hanno fatto sì che la terza primavera di Will Eisner fosse la più entusiasmante.“La cosa davvero meravigliosa” dice Ann Eisner della carriera del marito, “è che Will è sempre riuscito a guada-gnarsi da vivere facendo quello che gli piaceva. Non ha mai fatto nient’altro”.Nel corso degli anni, come tutte le persone normali, gli Eisner hanno co-nosciuto momenti economicamente meno floridi di altri, ma la cosa non li ha mai preoccupati. Eisner diceva sempre alla moglie: “Troverò qualco-

sa per fare soldi”. E immancabilmente ci riusciva. Era una persona di principi elevati, che non di rado rifiutava lavori che non gratificavano abbastanza le sue esigenze creative.“Ero orgogliosissima di Will” ricorda Ann. “E soprattutto ero orgogliosa di come gestiva tutta l’ammirazione che riceveva ai festival di fumetto. Non aveva bisogno di fare come tutti gli altri per attirare l’attenzione: ‘Ho fatto questo, ho fatto quel-lo’. Era sufficientemente sicuro di sé da essere gentile, da comportarsi in maniera cordiale. Era un uomo meraviglioso”.Spesso gli appassionati cercavano di raggiungere Will attraverso Ann: “Special-mente i più giovani mi chiedevano ‘Mr. Eisner li firma gli autografi?’ Dicevo sempre di sì”. ricorda Ann.Al tempo stesso, Eisner aveva smesso di fare disegni in pubblico. La giustezza della decisione fu confermata diversi anni fa, dopo una sua conferenza presso un’università. Un bambino di dieci anni si avvicinò chiedendogli con fare inno-

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cente: “Lei è il migliore, Mr. Eisner, mi fa un disegno?” E naturalmente Eisner lo fece, per poi rimettersi a parlare con altre persone. Uscendo dalla sala conferenze, vide una piccola folla raccolta intorno al bambino che, in piedi su una sieda, stava mettendo all’asta il disegno di Eisner al miglior offerente.“Questo è troppo!” scattò Eisner, disgustato.

• • •Un altro incidente, anche se con esiti diversi, si verificò nel 1973, quando Eisner partecipò al Cosmocon, una convention di fumetti presso la York University di Toronto. Là conobbe un ragazzo di nome Dave Sim, che nel 1977 avrebbe dato vita a un proprio universo fumettistico indipendente, incentrato sul personaggio di Cerebus, l’“aardvark”.Ma nel 1973 Sim era ancora il tipico fan e pubblicava una fanzine dal titolo Now & Then insieme a un amico. In un numero, avevano intervistato l’eccentrico T. Casey Brennan, sceneggiatore di storie per le riviste Creepy e Eerie. Nell’intervista Brennan parlava della violenza e del fatto che se in un fumetto la si mostra, si do-vrebbe mostrarne anche le conseguenze: secondo Brennan, non dovevano esistere fumetti in cui non si vedesse il sangue. Nel tentativo di differenziarsi dalle solite fanzines, Sim estrasse questa citazione dall’intervista è andò in giro per il Cosmo-con mostrandola ai vari disegnatori, chiedendo la loro opinione.“Vidi Will Eisner mentre stava parlando con qualcuno” ricorda Sim, “e pensai: ‘Cavolo, se riesco a farlo leggere a Will Eisner e lui mi rilascia una dichiarazione sarebbe un colpaccio!’”.Con la citazione di Brennan in mano, su un pezzo di carta, Sim si avvicinò a Eisner. Ma Eisner, pensando che Sim stesse per chiedergli un disegno, ritrasse subito la mano dentro la manica della giacca dicendo “Ho lasciato la mano destra a casa”. Era deciso a non fare mai più disegni.“No, no, no!” reagì subito Sim, spiegando che cosa aveva dichiarato Brennan e chiedendo l’opinione di Eisner. “La cosa divertente fu che prese il foglio con la sinistra e si mise a leggere talmente assorto che non si accorgeva di avere ancora il braccio destro ritratto nella manica. Sono certo che almeno una dozzina di persone saranno passate e si saranno chieste ‘Ehi, ma quello è Will Eisner. Perché diavolo se ne sta lì in piedi col braccio dentro la manica?’ O magari ‘Speriamo che Will non abbia perso la destra’”.Un paio d’anni dopo, Eisner tornò al Cosmocon. Stavolta fu lui a vedere Sim per primo, in una scenetta tipicamente eisneriana: “Salve, sono Will Eisner” disse tendendo la mano destra. “Si ricorda di me?”

• • •

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Per certi versi, Bob Chapman deve a Will Eisner il successo della sua società Graphitti Designs, oggi specializzata nella produzione di oggettistica e memo-rabilia ispirati al fumetto. La sua prima maglietta con soggetto fumettistico uscì nel 1982 e per quanto oggi sia difficile da credere, all’epoca questo tipo di capo era abbastanza raro. Il soggetto di una delle t-shirt di Chapman era il Rocketeer di Dave Stevens, mentre su un’altra c’era lo Spirit di Will Eisner: il meglio del nuovo e il meglio del vecchio.“Non avevo la benché minima idea di quello che facevo” ricorda oggi Chapman. “Imparavo lungo la strada e, a un certo punto, ho telefonato a Will spiegandogli quello che volevo fare. Era molto incuriosito ed estremamente ricettivo: Spirit era un personaggio con quarant’anni di vita e non aveva mai avuto una t-shirt tutta sua. Avevo conosciuto diverse persone nell’ambito del fumetto e nessuna mi aveva colpito particolarmente per il suo senso degli affari. Will era molto, molto più sveglio. Non ci fu nessuna contrattazione: Will mi disse come voleva condurre la cosa, e io gli andai dietro”.Le prime mille magliette di Spirit andarono esaurite a 8,95 dollari ciascuna gra-zie a un inserto promozionale disegnato da Stevens nella rivista di Spirit della Kitchen Sink Press.Ma... i disegni che Eisner aveva inviato a Chapman non erano tra le sue cose mi-gliori. “Will mi mandò tre o quattro immagini che a me non piacevano”, ricorda Chapman. “Ma io non ebbi le palle di dirglielo. Sembravano usciti da un libro per bambini da colorare! Il tratto nero era troppo spesso e non rappresentava mi-nimamente lo stile migliore di Will. Tutto partì da Dave Stevens: gli feci vedere quello che mi era arrivato e lui sentenziò: ‘È robaccia’. Erano adattamenti delle cose per la Warren e probabilmente Will non aveva capito di che cosa avevo biso-gno. Così, mi ritrovavo nell’imbarazzante posizione di dovere fare una specie di slalom attorno al materiale che mi era arrivato. Per fortuna, insieme a Dave trovai una via d’uscita in una rivista della Kitchen Sink: una bella immagine di Spirit, un vero classico. Riuscimmo a riprenderlo, a ricavarne una pellicola e a ripulirla. Poi dissi a Will che secondo me sarebbe stata meglio dal punto di vista grafico, senza dirgli la verità sul resto. Ma a Will andava bene, non aveva mai pensato di produrre qualcosa di nuovo, voleva usare immagini già esistenti”.Firmando un contratto con Eisner, Chapman fece un salto di qualità professionale.“Aveva tutto il diritto di non parlarmi neppure e ancora oggi non so perché Will mi diede questa occasione, ma lo fece. Avevo trent’anni e fu Will a decidere tutto, a spiegarmi che è possibile fare affari in cui ambo le parti ricavano un vantaggio e sono soddisfatte. Fu un inizio meraviglioso. Inoltre, da un giorno all’altro mi ritrovai implicitamente legittimato a contattare altri autori, come Milton Caniff o Jack Kirby: lavoravo con Will Eisner!

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• • •Non è difficile trovare dei motivi per ristampare le avventure di Spirit: il disegno è stupefacente, unico nel suo genere, mentre le storie reggono ancora oggi, a ses-sant’anni dalla prima pubblicazione.Più difficile da giustificare è la ricomparsa di un personaggio minore di Eisner che la maggior parte dei lettori semplicemente chiama Spirit.Eisner ha sempre riciclato qualsiasi cosa ogni volta che se ne presentava l’occasio-ne e aveva creato il personaggio di John Law a immagine e somiglianza di Spirit. A tal punto che quando le prime quattro storie – prodotte nel 1948 per la sua linea di fumetti dalla vita brevissima – restarono inedite, cancellò il distintivo di Law, gli incollò la mascherina di Spirit sulla benda e nessuno se ne accorse. La storia Meet John Law diventò Sand Saref, una storia di Spirit in due parti, dell’8 e del 15 gennaio 1950; Ratt Gutt diventò Ratt Trapp del 29 gennaio 1950; The Half-Dead Mr. Lox fu pubblicato il 19 febbraio 1950, trasformando il personag-gio di “Nubbin the Shoeshine Boy” in William Waif; infine, l’ultima trasforma-zione di una storia di Law fu The Jewel of Gizeh del 12 marzo 1950. Nel 1983 Cat Yronwode e Dean Mullaney raccolsero le storie originali nel volume John Law, Detective dell’Eclipse Comics.Nel 1998, cinquant’anni dopo la prima pubblicazione di John Law, al fumettista australiano Gary Chaloner fu commissionata una storia che sarebbe apparsa sul nono numero di The Spirit: The New Adventures. Ma la testata fu sospesa dopo l’ottavo numero e Chaloner ebbe un’idea che sarebbe piaciuta molto a Eisner: trasformò una storia di Spirit in una di John Law.La telefonata con cui chiese a Eisner il permesso di rispolverare John Law fu solo la prima di molte. I due disegnatori erano amici da anni, dopo la partecipazione di Eisner a una convention di fumetti australiana alla Sydney Opera House, nel 1986. Chaloner, che all’epoca stava lanciando la propria etichetta Cyclone Co-mics, diventò casualmente l’accompagnatore di Eisner. E anni dopo, autorizzan-dolo a resuscitare John Law, Eisner chiuse la cosa dicendo: “Occhio, Gary, se non stiamo attenti finiremo col combinare qualcosa di buono”.Perché recuperare un personaggio che quasi nessuno aveva praticamente cono-sciuto neanche a suo tempo?“Mi interessava la possibilità di riprendere le cose dove Will le aveva lasciate nel 1948” dichiara Chaloner. “C’erano tutte le premesse per un buon personaggio, tutto qua. Will aveva prodotto quattro storie di Law che poi erano state trasfor-mate in episodi di Spirit. Tra l’altro, narravano le origini di Law/Colt ed erano diventate dei classici, alcune delle storie di Spirit più amate.Oggi sono storie di Spirit a tutti gli effetti ma all’inizio erano di John Law... dei

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classici di John Law! Inoltre, non si può negare che quando Will le fece era al suo apice. A guadagnarne fu la serie di Spirit ma il fatto che ancora oggi siano ricordate con tanto affetto dimostra quanto l’idea originale alla base di John Law fosse buona”.Inoltre, agli occhi di Chaloner trasformare le sue storie per The New Adventures in episodi di John Law era una specie di poetica giustizia. Un karma fumettistico che chiude un cerchio.“Proprio come Will tanti anni prima” ricorda Chaloner. “Non avevo alcuna in-tenzione di sprecare una storia che funzionava benissimo”.Il nuovo John Law fu pubblicato su un supporto nuovo, un’altra mossa assolu-tamente tipica per un personaggio di Eisner. Chaloner lanciò così il “suo” perso-naggio su Internet, leggibile dietro abbonamento a www.ModernTales.com, per arrivare alla stampa solo dopo essersi costruito un fedele seguito online.“Non credo che sarebbe mai arrivato da nessuna parte se non fosse stato per in-ternet e la posta elettronica: la posta elettronica ha reso le comunicazioni con Will molto, molto più semplici, mentre la rete ha consentito un’ottima partenza per la

serie. Senza, non so come avrei fatto”.Durante lo sviluppo della serie, sem-brava che ogni volta che Chaloner avanzava un’idea, qualche altro edito-re o autore lo battesse sul tempo. Per esempio, a un certo punto John Law doveva essere una serie noir ambien-tata ai giorni nostri con un elemento sovrannaturale. Ma in quel periodo, per dirla con Chaloner, “cani e porci pubblicavano fumetti con investigato-ri paranormali”.Scoraggiato, Chaloner scambiò qual-che mail con Eisner. La sua risposta fu “Non devi preoccuparti di queste cose: abbi fiducia nelle tue idee e sarà il risultato a parlare da sé. Non puoi controllare quello che fanno gli altri, quindi non perdere tempo a pensarci”.È interessante osservare che l’unica in-dicazione per John Law su cui Eisner insistette fu che fosse il più possibile diverso da Denny Colt e Spirit. Il re-

Contro il parere dell’editore, nel 1976 Robert Overstreet commissionò a Will Eisner la copertina

della sua guida Overstreet Comic Book Price Guid, che raddoppiò le vendite rispetto all’anno precedente.

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sto lo lasciava sostanzialmente a Chaloner, visto anche lo scarso background del personaggio. Chaloner mantenne la benda sull’occhio sinistro ma l’abito diventò grigio, per distinguerlo da quello blu di Spirit. Law diventò inoltre più alto e più robusto di Denny Colt. Infine, la sua città diventò Los Angeles.“Will non si faceva problemi a dare giudizi su scene o bozzetti che secondo lui po-tevo migliorare” ricorda Chaloner. “Era sempre pronto con consigli e, quando ne avevo bisogno, un’e-mail non tardava mai. E io sarei stato un pazzo a non appro-fittare delle idee di un maestro della narrazione come Will. Will mi disse di fare storie ‘umane’ e io mi sforzai moltissimo di costruirle sulle persone... sull’uomo Law... in modo che non diventasse un ‘police procedural’. Raccontare storie di esseri umani è il marchio di garanzia di Will Eisner e non potrei essere più felice di portare avanti questa tradizione con John Law”.

• • •Nel corso degli anni Settanta il nome più noto tra gli appassionati di fumetti era quello di Robert Overstreet, autore ed editore di Official Overstreet Comic Book Price Guide, la più completa e autorevole fonte di informazioni su prezzi e quo-tazioni di albi a fumetti.E Overstreet era un grande fan di Eisner. Talmente grande che per l’edizione 1976 della sua guida Overstreet commissionò a Eisner la prestigiosa copertina, secondo disegnatore professionista in assoluto ad avere questo onore (il primo era stato Joe Kubert, antico protégé di Eisner).“Quando ero giovane e stavo cominciando a imparare a disegnare, andai a scuola da Eisner” ricorda Overstreet. “Lo chiamai chiedendogli quanto sarebbe costato. Non sapevo se potevo permettermelo, e lui: ‘Di solito quanto paghi?’, ed è quello che pagai anche lui: 300 dollari”.L’edizione del 1976 fu la sesta della guida Overstreet e la prima a essere distri-buita nelle librerie. Per pura coincidenza, Overstreet e Eisner avevano in comu-ne l’editore, Crown, che in quel periodo pubblicava le Gleeful Guides di Eisner. “Quando videro la copertina della nuova guida mi chiamarono subito per dirmi che i manuali di Eisner non vendevano” ricorda Overstreet. “Erano preoccupati che con la copertina di Will anche la guida non avrebbe venduto. Mi chiesero di chiamarlo e mi domandarono se si potesse togliere il suo nome dalla copertina: compariva due volte e volevano che una venisse tolta. Così, lo chiamai. Era la vigilia di Natale 1975 e Will non fece problemi: ‘Fai pure, non preoccuparti’. Io però non lo feci e la guida vendette benissimo. Anzi, raddoppiammo la tiratura, vendendo più di quarantamila copie, quell’anno. Fu allora che la guida si affermò in maniera definitiva”.

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• • •Anche l’uomo più potente dell’editoria a fumetti stava dalla parte di Eisner. Ma prima dell’affermazione del suo grup-po (di cui fanno parte Diamond Co-mics Distributors, Gemstone, Alliance Game Distributors, Diamond Galle-ries), e prima di acquisire una quota della squadra dei Baltimore Orioles, Steve Geppi aveva lavorato per sei anni (1969-1975) come postino.Geppi era nato nel 1952, lo stesso anno in cui Eisner aveva smesso di produrre Spirit, e durante i suoi primi anni di lavoro nell’editoria a fumetti gli capitò per le mani una grossa col-lezione di supplementi originali di Spirit, che acquistò subito. Poi, in-spiegabilmente, la rivendette a Robert Overstreet, per ricomprarsela (insieme a un secondo lotto). Ma gli albi ori-ginali erano troppo preziosi per essere usati per la lettura, così, insieme all’a-mico Kim Weston cominciarono a produrre due blocchi di fotocopie a colori di ogni storia, in modo che ciascuno potesse leggere la sua. Ogni settimana, Weston prelevava qualche originale dalla casa di Geppi nel Maryland, per portarseli a Washington e copiarli.“C’è voluta una vita!” ricorda Geppi. “Volevo gli originali, ma anche qualcosa che potessi effettivamente sfogliare. Così moltiplicammo Spirit per due! Ecco quanto amavo Will”. (Verso la fine di questa storia, la DC cominciò a stampare gli Archi-vi di Spirit, rendendo il tutto un esercizio abbastanza inutile).Col tempo, Geppi sposò l’idea di Phil Seuling, negoziante nonché organizzatore di convention, di un canale diretto per la vendita dei fumetti – portando gli albi dagli editori ai punti vendita specializzati e presso i servizi di vendita per corri-spondenza – facendo della sua Diamond una specie di monopolista. Nessun altro distributore è confrontabile per forza e penetrazione distributiva a Diamond, che dalla distribuzione si è allargata all’editoria e allo sport.Cosa c’entrava tutto ciò con le Poste statunitensi?

Omaggio di Eisner a Steve Geppi, titolare diDiamond Comics Distributors.

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Dopo anni di successi nella distribuzione dei fumetti, i dipendenti di Geppi – ben sapendo della sua preferenza assoluta per Eisner – commissionarono al grande di-segnatore un’illustrazione speciale per il capo. Eisner sfornò un’immagine a colori di Geppi nei panni di un super-postino che fa irruzione per salvare Spirit, legato dalla testa ai piedi (come al solito) dai cattivoni di turno.“Ascoltami bene, Spirit” esclama Geppi nell’acquerello di Eisner. “Ti salverò se mi aiuti a mettere in piedi una rete di distribuzione!”Geppi fece avere una stampa a ciascun dipendente, mentre l’originale fa bella mostra di sé nell’ingresso della Diamond.

• • •Naturalmente, non tutto quello che Eisner toccava nel periodo in cui veniva ri-scoperto dal pubblico si trasformava in oro.Nel 1977 aveva illustrato un articolo sul tennis per Esquire e fu avvicinato da un syndicate interessato a una striscia su una famiglia appassionata di sport. “The Joggs” assomigliava più ai suoi lavori per il dipartimento del lavoro che a Spirit: era forzato, rigido e, in definitiva, assolutamente dimenticabile.

• • •Appioppare a chiunque, in qualsiasi ambito, la qualifica di “più influente” non dovrebbe essere fatto alla leggera. Quando nel maggio 2002 la rivista Wizard decise che era arrivato il momento di stabilire chi fossero “I 10 disegnatori di fumetti più influenti di tutti i tempi”, un comitato di sei editor e articolisti co-minciò mettendo insieme cinquanta nomi, passando rapidamente a circa la metà.“Poi passammo alla classifica” ricorda Jim McLauchlin, redattore della rivista per dieci anni prima di diventare direttore editoriale della Top Cow nel 2003. “La cosa su cui ci accordammo immediatamente fu che il primo sarebbe stato Will Eisner o Jack Kirby. Dopo altri trenta minuti, avevamo stabilito che il numero uno era Eisner. Questa fu la parte facile. Eisner. Bam! Avanti il prossimo!”Ecco come la rivista giustifica la scelta:

Alla nascita del fumetto la ricetta era semplice: “Mettete su carta parole e immagini”. Più o meno tutto il resto l’ha inventato Will Eisner.

Il paradosso del nome di Eisner in testa a quell’elenco, e del titolo di “nonno del romanzo a fumetti” affibbiatogli successivamente, era che raramente su Wizard i suoi ultimi lavori ricevevano lo spazio e le recensioni riservate all’ultimo progetto di Frank Miller o Alan Moore. Secondo alcuni, la rivista non si è mai interessata a ciò che era stato, solo a ciò che è, e in particolare a quanto viene pubblicato da Marvel e DC.

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“Ho perso il conto delle volte che mi è toccato ascoltare stronzate del genere” dichiara McLauchlin. “Basta leggere. C’è ogni mese un articolo di dieci pagine sulla grandezza di Will Eisner? No, non c’è. Ma c’è il suo nome in testa all’elenco dei dieci autori più importanti di tutti i tempi. C’è di nuovo nei ‘50 grandi mo-menti’, tre o quattro volte”.McLauchlin è decisamente contrariato e mostra una pila di lettere di Eisner scrit-te a mano, inviate nel corso degli anni in risposta agli articoli di McLauchlin su Wizard. Si premurava sempre di segnalare recensioni positive o commenti su questo o quell’autore, spedendo loro delle copie. Alcuni rispondevano, la maggior parte no. Eisner sempre.“Will era una persona che avrebbe potuto permettersi di restarsene nel passato e non lo fece mai. Le sue idee erano sempre fresche, i suoi ragionamenti brillanti, innovativi. Parlandogli al telefono, non si poteva dire se avesse venti, quaranta o sessant’anni. E superava se stesso a ogni nuovo progetto” ricorda McLauchlin. “Nel mondo del fumetto, mi sono sciolto come un fan solo due volte. La pri-ma volta che parlai con Gil Kane e con Will Eisner. Quelli furono veramente momenti da pelle d’oca. Era evidente l’incredibile esperienza di vita che aveva. Potremmo mettere insieme la mia, la vostra, moltiplicarle e non raggiungere la

sua. Ogni volta che parlavo con Will Eisner non potevo fare a meno di sor-ridere e di riagganciare con un’espres-sione ebete: ‘Che figata!’”.Un altro grande fan di Eisner era Ga-reb Shamus, l’editore di Wizard. Ma la cosa che lo stupì di più, nei primi tem-pi della rivista, fu scoprire che Eisner era un suo fan.“Will era un tipo incredibilmente acu-to e lungimirante” ricorda Shamus. “Ha dedicato tutta la sua vita alla pro-mozione del fumetto, della narrazione per immagini e a interessare, coinvol-gere la gente in questo linguaggio. Poi arriva Wizard: in giro non c’è niente del genere e lui stima subito e apprez-za Wizard per il suo sforzo di attrarre il pubblico verso questo settore. Will Eisner e Stan Lee apprezzavano quel-lo che facevamo perché accendevamo

Nel 1989 Bob Jones inviò questa foto a Will Eisner: qualcuno aveva dipinto The Spirit sul Muro di Berlino.

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l’entusiasmo dei lettori. Will... adorava percepire, vedere con i suoi occhi quanto questo settore potesse essere attivo e vitale. Non avevo mai pensato che uno come lui avrebbe potuto avere tanta considerazione per noi. Io cercavo di inchinarmi a lui, di rendergli omaggio, e lui faceva lo stesso. Fu veramente gratificante”.

• • •Verso la fine degli anni Ottanta, la DC Comics organizzò un seminario interno per i professionisti del settore e incaricò Eisner di tenere una sessione di due ore in una sala conferenze del giornale Time su come si fanno i fumetti. Così, Eisner si trovò a fare schizzi su un proiettore, davanti a un pubblico di oltre duecento persone , spiegando in che modo lui disegnava. Mike Gold, uno degli organiz-zatori, lo ricorda così: “Fu uno di quei momenti magici in cui ti rendi conto di essere davanti a un tipo che ne sa molto ma veramente molto più di quanto tu possa mai sperare di imparare”.

• • •La regista brasiliana Marisa Furtado de Oliveira fece la conoscenza di Spirit nel 1986, grazie a un fidanzato, quando il personaggio tornò a essere pubblicato sulle pagine di Gibi, una rivista in bianco e nero con copertine di autori brasiliani. “Adoravo le storie, e poi le ombre e la scioltezza del disegno: era eseguito tutto in maniera superba, davvero unica” ricorda Marisa. “In seguito, per me fu una

Ottobre 1999: Will Eisner partecipa alla prima di un documentario brasiliano su di lui.

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grande sorpresa quando scoprii che l’edizione originale era a colori. Ancora oggi, lo preferisco in bianco e nero”.Cinque anni dopo, acquistò una rivista con una storia di Eisner sull’astrologia: riconobbe lo stile di Eisner e si identificò nella descrizione del proprio segno zodiacale, l’Ariete. Il testo di accompagnamento diceva: “Le ragazze dell’Ariete adorano diventare parrucchiere”. e in un disegno un po’ ridicolo si vedeva una ragazza che dava fuoco alla capigliatura di una signora. All’epoca, Marisa faceva la parrucchiera.Più tardi quello stesso anno, Marisa produsse un’installazione in un bar di Co-pacabana, un murales integrale che si estendeva a tetto, mura e porte. Il soggetto comprendeva un colossale collage di trecento personaggi del fumetto, che aveva ripreso da numerose riviste prestatele dall’amico Heitor Pitombo. Lo stesso Pi-tombo stava lavorando a un altro grande progetto fumettistico: la prima Biennale Internazionale dei Comix, un festival che avrebbe coinvolto diciassette musei di Rio de Janeiro.

“Ci sarà anche Will Eisner!” le riferì Pitombo, entusiasta. “E Mœbius e Bill Sienkiewicz!”“Chi si occupa dell’accoglienza degli ospiti stranieri?” chiese Marisa.“Nessuno, per ora”.Marisa colse la palla al balzo: parlava fluentemente francese, spagnolo, in-glese e portoghese ed era la persona più ovvia per l’incarico.“La sera prima dell’arrivo di Eisner

non riuscii a dormire. Ero così emozionata!” ricorda. “Naturalmente, come re-sponsabile dell’accoglienza, mi riservai il compito di accogliere e accompagna-re Will e Ann durante la visita. Passammo insieme quattro giorni incredibili: il tempo di stringerci la mano ed era già nata non solo la mia amicizia con Will ma anche quella con Ann”.Eisner era ben noto in Brasile, dove i suoi lavori erano stati pubblicati regolar-mente fin dagli anni Quaranta. Al Festival di Rio del 1991 Eisner trascorse tre in-tere ore a firmare per i suoi ammiratori, affascinandoli tutti col suo atteggiamento affabile e cordiale. Ciascuno ricevette un autografo personalizzato, una parola di ringraziamento e una stretta di mano.“Avevo ventotto anni e mi stancai molto prima di lui” ricorda Marisa.Alla fine del Festival, la Furtado e gli Eisner restarono in contatto per posta e Ann la invitò a fare loro visita in Florida. L’anno successivo Marisa accettò l’invito e

Terza da sinistra: Ann Eisner, Will Eisnere Marisa Furtado de Oliveira.

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passò anche da Denis Kitchen nella sua fattoria nel Wisconsin, che allora era la sede della Kitchen Sink Press (Kitchen aveva divorziato da poco e la visita della Furtado costituiva, da parte di Ann, un malizioso tentativo di farli conoscere; ma il tempismo era sbagliato: Kitchen aveva appena conosciuto Stacey Pollard, che avrebbe poi sposato). Marisa approfittò del colossale archivio di Kitchen e della sua collezione di memorabilia eisneriani, un contatto col suo lavoro più stretto e personale di quanto lo stesso Will avrebbe potuto darle.Più o meno all’epoca dell’ottantesimo compleanno di Eisner, nel marzo 1997, Marisa decise di produrre un episodio pilota sul fumetto per la TV brasiliana e il suo compagno dell’epoca, lo sceneggiatore Paulo Serran le suggerì di lavorare a un documentario su Eisner. Il maggio successivo, per pura fortuna, Eisner l’in-formò che sarebbe tornato in Brasile per un festival internazionale di fumetti a Belo Horizonte.“Arrivammo là dieci giorni prima di Will e Ann, costruendo due set per l’inter-vista principale che condussi con Will. Intervistai anche molti altri disegnatori presenti al festival, sia brasiliani che europei, sull’importanza del lavoro di Will e la sua influenza sul loro”.Questo materiale – tra cui un’intervista con Art Spiegelman, girata durante un suo passaggio da Rio – fu sufficiente per la produzione del pilota e, non appena furono reperiti i fondi necessari, Marisa e Serran si recarono negli Stati Uniti per intervistare autori americani come Jerry Robinson, Bill Sienkiewicz, Denis Kitchen, Lucy Caswell (responsabile della Cartoon Research Library dell’Ohio State University), Thomas Inge (docente in Massachusetts), Pete e Ann Eisner. Il documentario in tre parti – uscito negli USA in DVD nel 2005 col titolo Will Eisner Profession: Cartoonist – costituisce un documento notevole per le interviste, i set di ispirazione eisneriana e il modo in cui Marisa Furtado ha prodotto scene animate a partire da un’ampia selezione di lavori di Eisner, il che le ha valso un premio della Società Brasiliana dei Cartoonist . È davvero uno sguardo particola-re e profondo nel mondo di Eisner.Molti autori brasiliani – non solo di fumetti, ma anche drammaturghi, musicisti e cineasti – hanno riconosciuto pubblicamente l’influenza di Eisner sul loro lavo-ro. Quello che segue è un estratto da un saggio di Mauricio de Sousa, un celebre autore brasiliano di fumetti per bambini:

La prima volta che ho avuto per le mani i fumetti di Will avevo otto anni. I fumetti cominciavano a piacermi, e stavo imparando a leggere... fu la storia ad attirare la mia attenzione, il modo assolutamente diverso in cui Will raccontava le storie di Spirit. Era un poliziesco e non era certo per bambini, ma mi piacque moltissimo lo stesso.

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Le storie apparivano su Gibi, un trisettimanale venduto in tutte le edicole del paese. E sull’ultima pagina di Gibi c’era una storia di Spirit.Mi piaceva a tal punto che ritagliavo quelle pagine con grande cura e le raccoglievo in un album. Poi feci da solo una copertina di carta, e la cucii a mano. Ci disegnai sopra un titolo e quella diventò la mia collezione speciale di storie di Spirit.

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diciassetteLa SVA (School of Visual Arts)

Will Eisner cominciò a prendersi cura della sua famiglia e a mantenerla all’e-tà di 13 anni. Quando faceva qualcosa per gli altri, a modo suo non si

aspettava mai niente in cambio e sono leggendari i racconti di quanto, nel tempo, ha fatto per i giovani autori. Come pure quelli dei suoi studenti durante i 17 anni di insegnamento presso la prestigiosa School of Visual Arts (SVA)di New York.

• • •All’inizio degli anni Settanta, la SVA era un istituto commerciale noto per ave-re formato generazioni di direttori artistici, grafici e designer tecnicamente assai preparati.“Mi iscrissi là perché da ragazzo, leggendo le biografie dei disegnatori e degli ar-tisti che mi piacevano, dicevano tutti di averci studiato”. ricorda l’autore Batton Lash (Supernatural Law), già studente di Eisner presso la SVA.“Fabulous” Flo Steinberg, la segretaria storica della Marvel, nel 1974 raccomandò a John Holmstrom di iscriversi alla Rhode Island School of Design oppure alla School of Visual Arts, che era stata fondata da Burne Hogarth e Silas Rhodes. La scelta cadde sulla SVA quando Holmstrom scoprì che l’avevano frequentata anche due dei suoi eroi, Steve Ditko e Wally Wood.Una volta iscrittosi, però, Holmstrom si rese conto che in realtà la scuola non insegnava né gli aspetti artistici né quelli commerciali del fumetto.“C’erano un paio di tipi, tra cui io, che richiesero alla scuola di attivare dei corsi di fumetto. Non ce n’era nessuno e gli scontenti erano parecchi” ricorda Holmstrom.Così, parlarono con Tom Gill, il responsabile dei rapporti con gli studenti, un disegnato-re di fumetti con una lunghissima carriera alle spalle che fu lieto di dare loro una mano.“Che cosa vi interessa?” chiese agli studenti.Pomerance, Holmstrom e gli altri, con a disposizione qualsiasi nome nel colossale bacino dell’area metropolitana di New York, presentarono una loro “dream list”

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di possibili docenti. In cima all’elenco c’erano Will Eisner e Harvey Kurtzman.“Quando la scuola accettò ne restammo sbigottiti. E riuscirono anche ad avere i due più grandi cartoonist di tutti i tempi!” ricorda Holmstrom. “Eravamo tutti al settimo cielo”.Più o meno in quel periodo Holmstrom conobbe Lash, che era originario di Bro-oklyn, e diventarono grandi amici.“Batton era un tipo delizioso. Mai incontrato uno più simpatico di lui. Fu uno dei primi che conobbi arrivando a New York da Cheshire, Connecticut. Non conoscevo un’anima e diventammo subito amiconi perché eravamo tutti e due schizzati per il fumetto e in particolare per Steve Ditko”.Entrambi non riuscivano a credere alla fortuna di ritrovarsi in una scuola dove avrebbero avuto come insegnanti Will Eisner e Harvey Kurtzman. “Sapevo cosa voleva dire” ricorda Lash. “Conoscevo Kurtzman e MAD; all’epoca Spirit non circolava ma sapevo dell’importanza di Eisner e di quale fosse la sua influenza. Leggendo le biografie degli altri cartoonist, tutti lo citavano”. (Eisner ricordava in maniera leggermente diversa la successione degli eventi: Silas Rhodes lo aveva invitato a pranzo e quindi a insegnare alla scuola. Più tardi quello stesso semestre, avrebbe chiesto anche a Harvey Kurtzman di unirsi al corpo docente).Quel mese di luglio Eisner fece una cosa che colpì molto Lash e Holmstrom: indi-rizzò personalmente una lettera a tutti i suoi studenti, invitandoli a una riunione nel suo ufficio di Park Avenue.“Ricordo questo grande ufficio con una scrivania enorme e il rivestimento in le-gno” racconta Holmstrom. “Fu la persona più cordiale che avessi mai conosciuto”.“Non avevamo la benché minima idea di che cosa aspettarci” ricorda Lash. “La cosa che lasciò malissimo me e John fu che vennero solo cinque o sei persone, quando noi ce ne aspettavamo almeno 25-30! Restammo nell’ingresso, poi Eisner uscì dall’ufficio, prese una sedia, la girò e si sedette come un allenatore che parla alla sua squadra. Disse che voleva riprodurre uno studio in cui avrebbe super-visionato il nostro lavoro di produzione di storie a fumetti, dandoci consigli e mostrandoci come si lavora.“Ci colpì moltissimo che fosse disponibile fino a questo punto”. ricorda Lash. “Quando il corso partì, fu tutto molto amichevole, pacche sulle spalle e così via ma fu subito chiaro che la cosa finiva lì. L’atteggiamento di Will era ‘Sono con-tento che siate venuti, ma adesso mettiamoci al lavoro’. C’era come una specie di cortina. Non era possibile andare mai più in là di tanto con la confidenza”.Secondo Holmstrom, parte della freddezza di Eisner era una forma di autodifesa resa necessaria dalla necessità di vedersela tutte le settimane con un branco di artistoidi scalcagnati: “Credo che sia Will sia Harvey fossero molto nervosi. Era la prima volta per entrambi”.

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La sede della SVA in cui Eisner insegnava era quella centrale sulla 23esima stra-da; l’aula era al secondo piano, in cima alle scale e a pochi metri dalla sala degli studenti. Milton Glaser, il leggendario grafico e designer, teneva i suoi corsi serali nella stessa aula.Il primo corso di Eisner aveva 30 studenti e dopo la prima settimana si era ridotto a 19. “Non avevo esperienze d’insegnamento, né una formazione accademica” ricordava Eisner. “Silas Rhodes mi disse ‘Non ci interessano gli insegnanti. Tu sei famoso perché avevi uno studio e tiravi su la gente’. Ed è così che ho gestito il cor-so. Non ho mai dato voti ai miei studenti, l’unico possibile risultato era passare oppure no. Chi mancava per tre o quattro volte non passava. Finché frequentava-no, in gamba oppure no, purché lavorassero, passavano”.Il corso di Kurtzman era l’esatto contrario di quello di Eisner.“Harvey invitava alcuni degli studenti a casa sua” ricorda Lash. “Rispetto a Will, era un po’ più esposto alle manipolazioni. Lo dico con tutto il rispetto possibile: ho visto Will al lavoro, e sapeva come isolare i furbastri e mettere tranquillo il rompiscatole di turno. E in classe era uguale. Penso che tutti gli studenti tendono a essere indisciplinati, chiassosi e irriverenti. Ma nei confronti di Will c’era sem-pre questo rispetto di fondo: quando parlava, lo ascoltavi. Le lezioni di Harvey, a volte, si trasformavano in una specie di Animal House dove parlavano tutti insie-me. Posso immaginare come fosse uno studio di Will: c’era sempre qualcuno che sparava stronzate, ma quando Will arrivava, tornavano tutti sulla pagina”.Gli ospiti esterni erano la regola e il primo anno fu il turno di Mike Ploog, Gil Kane e l’allora vice-Presidente della DC Comics Sol Harrison. Anni dopo, il cor-so ospitò anche Frank Miller e il celebre autore francese Jacques Tardi.Uno studente davvero indimenticabile del corso di Lash e Holmstrom “era con-vinto di essere Batman” come ricorda Holmstrom. “Se ne andava in giro con una Bat-cintura dove teneva tutti gli strumenti per disegnare. Si era disegnato il simbolo di Batman sulla maglietta e ogni volta che doveva fare qualche lavoro o qualche compito per il corso, disegnava Batman”.Mise anche in croce Sol Harrison per il modo in cui la DC gestiva il personaggio.“Scrivi una lettera” gli disse Eisner.La maggior parte degli studenti del corso di Eisner voleva lavorare per la Marvel o la DC, qualcosa che a Eisner non interessava per niente. Parlava sempre dei fumetti e degli autori europei, e di un futuro in cui gli autori di fumetti sarebbero stati i padroni del loro lavoro. La cosa era un po’ esasperante per alcuni studenti, quelli con un atteggiamento del tipo “Dacci un taglio e spiegaci come si disegna Superman!”.Un giorno parlò del “mezzo in quanto messaggio”.“La tecnica non è importante” ripeteva. “Per me, un Robert Crumb vale dieci

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Frank Frazetta, anche se naturalmente ammiro Frazetta”. (Frank Frazetta, che aveva iniziato disegnando fumetti rosa, è noto come illustratore di soggetti fan-tasy).“Per poco, il ragazzo di fianco a me non sveniva. Will aveva pronunciato un’au-tentica bestemmia! Aveva infranto il suo idolo e la settimana dopo il ragazzo non si presentò”.Il punto di Eisner – evidentemente non chiaro a tutti – era che a rendere im-portante Crumb era quello che diceva col suo lavoro. La sua opinione era che Frazetta fosse un ottimo pittore.“La gente pensa che col talento si nasca” osserva Holmstrom. “Ma la SVA era un po’ come un campo militare e Will era il sergente istruttore. Io e Batton facevamo il doppio del lavoro che ci assegnava perché volevamo sfruttare l’occasione al massimo”.Eisner era un istruttore duro. Era molto critico, specialmente quando a fare acqua era la tecnica narrativa, e fargli dire qualcosa di positivo sul proprio lavoro poteva essere molto, molto difficile.

• • •Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta la SVA era un ba-stione del pensiero underground, pie-no di tensioni creative. Nel corso degli anni la scuola aveva formato punte di eccellenza creativa come Chris Stein, uno dei fondatori della band Blondie, e l’artista pop Keith Haring. Negli anni della frequentazione di Lash e Holmstrom, c’erano grandi fermenti e commistioni di moda punk, musica punk e comix underground, oltre alle tendenze artistiche più consolidate, e fino a pochi anni prima alcuni dei docenti avevano con ogni probabilità conservato cartine e marijuana negli armadietti del laboratorio d’arte. “A ti-tolo dimostrativo, insegnavano anche tecniche di combattimento di strada”

ricorda Holmstrom. “Era una scuola strana. Il primo anno, quando io e Batton ci iscrivemmo a un corso di Inglese, il professore ci fece vedere un film stranissimo dove alla fine c’era l’inquadratura di una vulva e i Three Stooges. Fu allora che le

La Will Eisner’s Gallery of New Comics del 1974.

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cose cominciarono a cambiare: il docente fu licenziato e alcuni degli studenti più conservatori cominciarono a dire ‘Siamo qua per imparare, non per questa roba’”.Ma che cosa si faceva, esattamente, durante una lezione di fumetto di Eisner?C’era un motivo ben preciso per cui la classe era stata organizzata come uno stu-dio di produzione. Ogni semestre, agli studenti veniva assegnata la realizzazione di un’antologia di storie a fumetti. La prima edizione di Will Eisner’s Gallery of New Comics presentava storie e disegni di Lash, Ken Laager, Bob Wiacek (che diventò uno dei più pagati inchiostratori di fumetti, arrivando poi a lavorare con Neal Adams) e molti altri.“Era fantastico” ricorda Holmstrom. “Io ero l’editor del secondo numero e finii io il disegno che Will fece per la copertina: feci tutti i mattoni e i neri. Una vera emozione”.Lungo la strada, Eisner dava indicazioni agli studenti mettendo le pagine su un proiettore e indicando i difetti e le possibili correzioni.“Rivoltò come un guanto tutto quello che sapevo del fumetto” ricorda Lash. “Mi resi conto di come il fumetto richiedesse un duro lavoro. Alcuni in classe ne uscirono parecchio intimiditi: erano convinti che avrebbero imparato a disegnare l’Uomo Ragno. Quanto a me, qualsiasi cosa gli portassi, me la distruggeva: ‘L’a-natomia è debole’, ‘Qui sei troppo ambizioso’, ‘Insisti sui tuoi punti di forza!’. Po-teva sembrare eccessivamente severo ma è così che funzionava, e io e Holmstrom eravamo quelli bravi! Eravamo 19 e quando Will arrivava al decimo, i commenti si facevano molto scarni. Ci accorgemmo che le critiche migliori le avevano i pri-mi quattro o cinque e cercavamo di essere sempre secondi o terzi.Era come essere di guardia in caserma, anche se non vorrei che Will ne uscisse come il Generale Patton: teneva tutti estremamente in riga ma restava comunque informale”.Lash non ricorda che Eisner abbia mai disegnato Spirit durante le lezioni, anche se le sue figure stilizzate erano quasi sempre meglio di quelle di chiunque altro. Lash ne tenne persino una come ricordo: “Non perché valesse qualcosa, ma già allora pensavo Un giorno mi guarderò indietro e penserò che sono stato fortuna-to a trovarmi qui (Quando Gil Kane fece una lezione dimostrativa nel corso di Kurtzman, schizzò un disegno a scopo dimostrativo, ma alla fine lo infilò nella valigetta dicendo agli studenti: “Questo me lo tengo io!”).

• • •Anche se alla SVA Eisner aveva in qualche modo ripreso la struttura produttiva orientata alla produzione in serie di Eisner & Iger, non gli interessava trasformare i suoi studenti in operai di una fabbrica. “Sono qui per insegnarvi a raccontare e a confezionare una storia nel miglior modo possibile. Non per farvi assumere dalla Marvel o dalla DC” era il suo Vangelo. Dal suo punto di vista, i principali autori di fumetti producevano salsicce, non arte. Aveva sempre pensato che i fumetti

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avessero una missione più alta e non si stancava mai di predicare ai suoi studenti dove il fumetto stesse andando: “La nostalgia è per i fessi, voi dovete guardare avanti. Quando mi guardo alle spalle l’unica cosa che vedo è quanto oggi sia mi-gliore la qualità dei bagni!”.“Parlava di quelli che oggi chiamiamo romanzi a fumetti: libri più lunghi, con più pagine” ricorda Lash.Come un po’ tutti in quegli anni, Lash e Holmstrom erano alternativi e “anti-sistema” ma non potevano negare quanto fossero entusiasmanti i corsi tenuti da Eisner e Kurtzman, una venerazione che provocava però due reazioni diverse. Ei-sner vedeva in Holmstrom qualcosa di speciale e anche se non era nella sua natura favorire uno studente rispetto agli altri, certamente Holmstrom si era guadagnato il suo rispetto.Con Lash, la reazione di Eisner fu decisamente diversa.“Nei corsi di Eisner io e John eravamo pappa e ciccia, o se volete come Gianni e Pinotto. John faceva tutto bene, io sbagliavo tutto. Will era molto paziente con me e cominciavo a capire che non ero destinato alla gloria”.Lash frequentava il corso di Eisner tutti i giovedì mattina, e tutti i giovedì po-meriggio seguiva un corso di produzione video. Alla fine di ogni semestre, Will programmava un incontro personale con ciascuno studente, chiedendogli che cosa volesse fare, quali fossero le sue intenzioni, per poi esporgli le sue critiche. Quando toccò a Lash, aveva già la risposta pronta.“Voglio fare il cartoonist”.La reazione di Eisner fu: “Be’, so che stai lavorando a questo filmetto comico (un musical studentesco tratto dal cult di George Romero La notte dei morti viventi). Potrebbe essere la tua strada; forse la tua vocazione non è il cartooning”.Va da sé che Lash uscì distrutto dal colloquio. “Durante l’anno avevo capito che le mie cose non entusiasmavano Will: vedeva che lavoravo sodo ma anche che ero migliore in altri settori. Mi disse una volta ‘Hai sempre delle idee, ma forse la tua strada è nel cinema, o nel teatro’”.Ma la storia di Lash ha un lieto fine: le critiche costruttive di Eisner lo incoraggia-rono a concentrarsi in altre direzioni. “I consigli di Will mi costrinsero ad allar-gare i miei orizzonti, e quell’estate smisi di comprare fumetti. Tranne le ristampe di Spirit. Non dovendo più trovarmi Will davanti tutti i giovedì, apprezzavo di più il suo tratto, e come raccontava le storie. Ogni storia era diversa e anche le più piccole sapevano diventare grandi”.Per i sei anni successivi Lash stette alla larga dai fumetti: dopo il diploma fece diversi lavori legati all’illustrazione, tra cui ritocchi per un’agenzia pubblicitaria e l’assistente per il disegnatore Howard Chaykin. Come illustratore, lavorò per la rivista Garbage, per un libro di esercizi per bambini, per il libro Rock ‘n’ Roll

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Confidential, per uno studio di chirurgia plastica ricostruttiva e altro ancora. Fu anche illustratore per udienze processuali e assemblò grafici e tabelle per il reparto promozione del The New York Daily News (presentazioni e riunioni commerciali).“Col senno di poi, quei sei anni furono la cosa migliore che potesse capitarmi” ri-corda Lash. “Con l’editoria a fumetti parte del problema è che solitamente un fan finisce a fare l’assistente di un editor, poi diventa editor oppure collabora dall’e-sterno. E tutta la sua vita ruota intorno al fumetto, producendo una prospettiva estremamente ristretta su ciò che il fumetto può essere. Sono come politici di pro-fessione che studiano legge, diventano portaborse per un deputato e poi deputati o senatori a loro volta. Sono totalmente isolati dal mondo reale”.Nel 1979 Lash si ritrovò al tavolo da disegno, nuovamente al lavoro su un fumet-to suo: “Wolff & Byrd, Counselors of the Macabre” fu un successo immediato e venne pubblicato su The Brooklyn Paper fino al 1996 e su The National Law Journal dal 1983 al 1997. Eisner non era mai molto lontano, almeno nei suoi pensieri.“Cominciando a lavorare alla mia striscia, adottai un approccio in stile Spirit, e ogni storia era diversa dall’altra”.Dal maggio 1994 Wolff & Byrd risolvono i loro casi sulle pagine della serie bime-strale Supernatural Law autoprodotta da Lash e dalla società della moglie Jackie Estrada, la Exhibit A Press. Lo stesso anno Lash disegnò anche una delle storie a fumetti più bizzarre di tutti i tempi, Archie Meets the Punisher, un incredibile “crossover” tra la Archie Comics e la Marvel Comics.Uno degli esempi più clamorosi della strada fatta da Batton Lash da quando, nel 1974, Eisner gli disse che avrebbe dovuto pensare di lavorare in un campo diverso dal fumetto sono le due nomination agli Eisner Award per la versione comic book di Wolff & Byrd, Counselors of the Macabre (una nomination, a dire la verità, che già di per sé costituiva una piccola anomalia, visto che Jackie Estrada, la moglie di Lash, è non solo la responsabile degli Award ma anche co-editore, editor e per-sino letterista del fumetto in questione. Come ricorda la stessa Estrada “Sarebbe stato un conflitto d’interessi. Ma quell’anno i giudici mi esclusero dalle selezioni, decidendo di nominare Batton nelle due categorie ‘Autore umoristico’ e ‘Talento da tenere d’occhio’. Erano indirizzate specificamente a lui, non alla serie”.).“Quando uscì la prima raccolta” ricorda Lash, “ero nervoso ma poi mi decisi a spedirlo a Will, che mi mandò un biglietto davvero gentile, e una citazione per aiutare a promuovere il volume. Diceva: ‘Sono felicissimo per te. E per il fatto che non hai mollato’. Da quel momento mi ha sempre incoraggiato molto, moltis-simo. Quando mi dice ‘Mi piace quello che fai’ per me è sempre un’iniezione di energia. Mi sembra di essere ancora a lezione da lui, a mostrargli i compiti a casa”.

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• • •Anche la vita di John Holmstrom non fu più la stessa dopo l’incontro con Will Ei-sner. Dopo il secondo semestre con Eisner e Kurtzman, Holmstrom ebbe problemi economici e lasciò la SVA. Convinto che fosse già in grado di lavorare professional-mente come cartoonist, Kurtzman gli procurò anche un colloquio di lavoro. “In questo settore nessuno ti verrà mai a chiedere se hai preso il diploma da cartoonist” ricorda Holmstrom. “A me bastava dire che lavoravo con Will e Harvey”.Alla fine, Eisner lo assunse come assistente: “Will mi pagava il minimo sindacale e, sostanzialmente, mi aiutava a non finire sulla strada. Non era granché ma mi permetteva di conservare un appartamento a Brooklyn. In effetti, ero quasi un senzatetto e stavo per accettare un altro lavoro quando mi chiamò lui. Anzi, cre-do che si fosse inventato del lavoro per farlo fare a me. Spazzavo il pavimento, portavo fuori la spazzatura. Trasformai anche un ripostiglio in un locale per le spedizioni e quando confezionavo male qualcosa Will mi spiegava come dovevo fare, e dove avevo sbagliato. E faceva bene, perché il modo in cui si presentano i pacchi alle poste è importante”.Inoltre, ricorda Holmstrom, era un posto stimolante.“Diventai anche amico della sua segretaria, che si prendeva cura di me. Una volta che passavo di lì era tutta esaltata perché Pete Hamill [celebre giornalista, amico di Robert F. Kennedy e noto per essere stato uno degli uomini che disarmarono il suo assassino – NdT] stava intervistando Will. Mentre un altro giorno c’era William Friedkin che stava discutendo di un film su Spirit”.Pur diventando sempre più importante nella vita di Holmstrom, e nonostante la frequentazione giornaliera, Eisner continuò a restare un enigma. “Non sapevo niente della sua famiglia” ricorda Holmstrom. “Con Will si parlava sempre di tecnica e di come raccontare storie, di lavoro o di affari. E di tennis. Era un bravo giocatore, un fanatico del tennis”.Dopo un anno, per Holmstrom era arrivato il momento di cambiare. Sotto la costante sorveglianza di Will le sue capacità erano decisamente cresciute ed egli stesso era convinto di avere un futuro da illustratore; inoltre, era uno dei pochi ad avere incrociato il cammino con un’autentica leggenda vivente ed esserne uscito migliore, letteralmente ispirato dal suo approccio imprenditoriale. Holmstrom si prese una pausa estiva, insieme a due amici di Chesire, Ged Dunn e Legs Mc-Neil. Quella parentesi, incoraggiata da Eisner, senza volerlo portò alla creazione di Punk Magazine.“Così, in un certo senso il punk l’ha inventato Will!” ricorda Holmstrom.“Spirit è una specie di Iggy Pop del cartoon” rincalza McNeil, il cui curriculum comprende alcune brillanti inchieste per la rivista Spin e il volume Please Kill

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Me: The Uncensored Oral History of Punk Rock [Please kill me. Il punk nelle parole dei suoi protagonisti – Dalai Editore, 2006]. “E poi ci occupavamo di fumetti, come un po’ tutti, all’epoca. Chris Stein aveva la sua collezione di Plastic Man e ciascuno aveva il suo fumetto preferito. Io non conoscevo Spirit, fu John a farmi conoscere Eisner, come pure Lenny Bruce e un sacco di altre cose. Mi insegnò anche a scrivere”.McNeil conferma la convinzione di Holmstrom che, in una qualche maniera, Will Eisner ispirò la scena punk.“(Eisner) non era inquadrato nel Sistema, pensava in un altro modo” ricorda Mc-Neil. “Come il Punk usò il Rock ‘n’ Roll per parlare di certi argomenti, così Will usò il fumetto per parlate di temi adulti. Era quello che facevamo anche noi”.Più o meno quando nacque Punk Magazine chiuse la sede dell’American Visuals e Eisner stupì ancora una volta il suo ex assistente regalandogli la sua scrivania personale: “Se vuoi fare una rivista, ti servirà una scrivania robusta”.“John era orgogliosissimo di questo. E credo che ci appoggiammo anche all’avvo-cato di Will” ricorda McNeil.Punk aveva un contratto di distribuzione con la rivista High Times che, a sua volta, era distribuita da Larry Flynt, l’editore di Hustler. Erano tempi diversi da oggi, naturalmente. “Punk era un modo per trovare da trombare, andare con le sbarbe e farsi offrire qualche birra gratis” ricorda McNeil. “All’epoca abitavo con Joey Ra-mone, oppure me ne stavo fuori tutto il tempo. Di solito andavamo dai Kurtzman per il Ringraziamento. E Liz Kurtzman lavorava come cameriera al CBGB”. (anni dopo, McNeil fu incaricato di fare un’intervista a Eisner per High Times: “Non credo di averla mai finita, perché ero troppo ubriaco” ricorda in tipico stile McNeil. “Era un’ottima intervista, mi dispiace, mi sento un autentico coglione”).Holmstrom vedeva la sua creatura come qualcosa di diverso da Rolling Stone quanto il Punk lo era dai Beatles. “Stavo cercando di mettere insieme un rivista-ibrido, una direzione nuova per l’underground, qualcosa che parlasse di musica, fumetti e fotografia” ricorda. “Will ci incoraggiò sempre. Una delle sue frasi prefe-rite era ‘Non potete mettere il copyright a un’idea. E se avete un’idea sola finirete sul lastrico’. E anche Harvey diceva che ‘I soldi, quelli veri, sono nelle nuove idee’. Erano felicissimi di Punk e che fosse partita bene”.Holmstrom non si limitò a documentare la scena punk, ne fu parte integrante. Disegnò il retrocopertina e gli interni dell’album dei Ramones Rocket To Russia, nonché la copertina del successivo Road To Ruin: “Avevano trovato uno di quei fotografi di grido e costosissimi per la foto della copertina del primo album, che a loro non piaceva” ricorda Holmstrom. “Così organizzammo una seduta con la fotografa Roberta Bailey, mentre Legs McNeil e io pensavamo al tipo di scatto: ne uscì l’immagine che usarono per la copertina del primo album e fu quello a

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definire l’immagine dei dischi punk. Quello che il punk era. Fummo noi a chia-marlo ‘punk rock’ e il nome attecchì, cambiando il modo stesso in cui il mondo guardava alla scena dell’epoca. Tutti pensavano che i Ramones fossero un fuoco di paglia. Solo quando uscì la rivista la gente cominciò a dire che avevano innovato un certo tipo di suono”.Punk chiuse nel 1979, dopo quattro anni di pubblicazioni.“Fu un giorno triste, quando chiamai Will per dirgli che stavamo chiudendo la rivista” ricorda Holmstrom. “Mi trovò qualcuno a cui dare la scrivania, poi mi regalò una piccola libreria. Ce l’ho ancora, in cucina”.Dopo la chiusura della rivista Holmstrom attraversò un periodo difficile ma nel 1987 era di nuovo in pista, prima come coordinatore e poi come direttore esecu-tivo di High Times.“Un sacco di gente sa chi è Will Eisner e io non mi faccio scrupolo a dare in giro il mio curriculum. Avere frequentato la scuola di Eisner e Kurtzman e avere lavora-to con tutti e due è uno dei miei maggiori successi” ricorda Holmstrom. “Harvey mi trovò un lavoro presso la casa editrice Scholastic con cui ho mangiato per dieci anni, e mi aveva anche raccomandato come disegnatore di una striscia su Woody Allen, ma era appena uscito il primo numero di Punk. Davano un sacco di soldi e forse avrebbe salvato la rivista, perché con Punk eravamo sempre sul lastrico.Eisner era come un allenatore di football: quando la squadra vinceva, lui era criti-co ai massimi livelli. Io e Batton eravamo più nel mirino degli altri perché sapeva che volevamo fare questo lavoro. E lavorare per lui non era più semplice. Era un tipo difficile, abituato ad addestrare la truppa in modo che rendesse al massimo. Ma non l’ho mai visto perdere la pazienza o essere esageratamente duro. Da Will e Harvey ho imparato moltissimo su come si lavora professionalmente e si gesti-scono i rapporti con le persone. Non è che madre natura mi avesse dotato di tutto fin dall’inizio, credetemi”.

• • •Geoffrey Notkin era nato a New York ma era cresciuto a Londra, frequentando “un posto orribile, quasi dickensiano, una scuola della Chiesa d’Inghilterra” chia-mata Whitgift, dove gli studenti indossavano uniformi militari. Nel 1972, all’età di 11 anni, Notkin fece amicizia con l’unico altro studente della scuola a cui piacevano i fumetti, un ragazzo di nome Neil Gaiman.“Neil seguiva la DC, Creepy e un po’ di tutto il resto. Io invece ero un ‘Marvel guy’. Ero convinto che il migliore di tutti fosse Jack Kirby e volevo fare il fumet-tista. Diventammo amicissimi” ricorda Notkin.I due arrivarono anche ad assomigliarsi, in qualche modo: stessa altezza, stessa corporatura e capelli scuri. Tutti pensavano che fossero cugini e sedevano sempre

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vicino, negli ultimi banchi della classe: Gaiman a scrivere fumetti e Notkin a disegnarli. Nell’ora di educazione artistica, il tipico compito era un acquerello e i due cercavano di scimmiottare Jim Steranko (Nick Fury: Agent of S.H.I.E.L.D.).“Non combinerete mai nulla!” li rimproverava l’insegnante, frustrato. “I fumetti sono solo spazzatura”.Notkin ricorda che l’amico era sempre avanti in tutto, e sempre assorto nella lettura. Mentre Notkin si concentrava su Fantastici Quattro e X-Men, Gaiman cercava di trascinarlo nella fantascienza di Robert Heinlein. “Devi leggerti questo, Geoff! Spirit di Will Eisner! E poi Esteban Maroto!”.Un giorno, durante l’ora di applicazioni tecniche, il professore sorprese Gaiman a leggere il numero due di Howard the Duck e lo fece a pezzi, cosa che riempì i due ragazzi di orrore: era un numero prezioso e in Inghilterra i fumetti non erano né facili né economici da trovare.I numeri di Spirit (nell’edizione Warren) ricordavano a Notkin la serie inglese Tales of the Unexpected, Roald Dahl e i racconti di Edgar Allan Poe: c’era sempre un colpo di scena finale. E fu anche così che le ristampe Warren spostarono l’at-tenzione dei lettori più giovani dai supereroi al mondo underground di Harvey Kurtzman e Art Spiegelman.Ogni volta che trovavano il coraggio, i due amici marinavano la scuola per andare a Soho, dove in un negozio chiamato “Dark They Were and Golden-Eyed” li aspettava la loro dose di fumetti americani. Si trovava dietro il mercato di Berwick Street, una zona proletaria e un po’ malfamata, popolata da venditori ambulanti di verdura con i loro carretti. Una sera, dalla soglia di una porta, una “lavoratrice” del posto mise gli occhi su Gaiman e Notkin, che se ne stavano tornando verso la stazione della metropolitana. Avevano quindici o sedici anni e indossavano l’uniforme della scuola. La ragazza fece loro l’occhiolino: “Ehi, tesorucci, vi va di divertirvi un po’?”.Nel 1976 Gaiman e Notkin fondarono un gruppo punk, con Gaiman alla voce. All’inizio si chiamava Chaos poi diventò The Ex-Execs. Un paio d’anni dopo il nome cambiò nuovamente in Phazers on Stun e Gaiman ne uscì, pur continuan-do a scrivere canzoni come The Flash Girls e Folk Underground. Col tempo, i due amicissimi di un tempo cominciarono ad allontanarsi. Notkin tornò negli States nel 1980 e per qualche tempo frequentò un istituto d’arte a Boston. Si spostò poi a New York suonando in vari gruppi punk, cominciando a uscire con una ragazza che frequentava la SVA.“Andai a vedere uno spettacolo in cui c’era anche lei” ricorda Notkin. “Il tempo di entrare e pensai: ‘Questo fa per me!’. Lessi chi erano gli insegnanti: c’erano Will Eisner, Harvey Kurtzman e Art Spiegelman. Capite? Insegnavano nello stesso po-sto, tutti insieme. Erano stati loro, ciascuno a modo suo, a tirare fuori il fumetto

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dal ghetto. Harvey lo fece con la satira, Art con il suo acume intellettuale e Will diede al linguaggio dei tratti cinematografici”.Da quel momento, Notkin fece tutto quello che era necessario per essere ammesso al corso di Eisner. La procedura prevedeva l’esame di un portfolio e un colloquio. Fresco di matricola, prese tutto il suo coraggio ed entrò in classe mentre Eisner stava insegnando. “Vorrei iscrivermi al suo corso, può darmi un appuntamento per il portfolio?” disse tutto d’un fiato.“Guardiamolo adesso” replicò Eisner, aprendo la sua cartella davanti a tutta la classe.Alcuni studenti storsero il naso di fronte ai contenuti ma Eisner guardò tutto, dalla prima all’ultima illustrazione, e infine disse: “Ti posso ammettere al pros-simo anno, ma devi lavorare sull’anatomia”. Poi, come faceva praticamente con tutti quelli di cui valutava il portfolio, consigliò a Notkin il volume di Bridgman Constructive Anatomy.Nell’autunno del 1983 Eisner si trasferì in Florida e diventò un pendolare, vo-lando a New York una settimana sì e una no per portare avanti le sue lezioni del giovedì (un ritmo che mantenne per otto anni). Al mattino aveva il corso di Fumetto e Arte Sequenziale; al pomeriggio, tre ore di lezione sui portfolio per studenti anziani di cartooning (gli altri giovedì lo sostituiva Andre LeBlanc, il vecchio amico dai tempi della striscia The Phantom).Quell’autunno, il corso di Fumetto e Arte Sequenziale era seguito esclusivamente da maschi – 22 in tutto – metà dei quali interessati unicamente ai supereroi, gli altri a satira, caricatura o fumetti alternativi/underground. Solo pochi di loro, ogni semestre, erano consapevoli dell’importanza di quel loro insegnante in camicia e cravatta. Erano vere e proprie lezioni con alcune dimostrazioni, non dei laboratori.“Chi vuole fare il cartoonist deve essere un bravo narratore” ripeteva sempre Ei-sner. “Se leggete solo fumetti e guardate solo la TV non avrete mai delle storie solo vostre”. E li incoraggiava a leggere O. Henry ed Edgar Allan Poe.Tipicamente, il primo compito era abbozzare una storia di quattro pagine a ma-tita. Poi Eisner sedeva con ogni singolo studente, discutendo la storia con lui e facendo osservazioni come “funzionerebbe se cambiassi l’inquadratura”. (Venuto a sapere di questa sua abitudine, Notkin collocò sulle sue pagine della carta da lu-cido, in modo che Eisner disegnasse su quella. In questo modo, Notkin si ritrovò non solo con indicazioni e suggerimenti ma anche con dei ricordi assolutamente unici che conserva ancora oggi).“Un giorno, guardando le pagine mi disse ‘Fai grandi progressi, ragazzo’. Grandi progressi! Mi sembrava di camminare su una nuvola!” ricorda Notkin.Eisner infondeva molto di se stesso nel proprio lavoro, nonché una profonda bellezza, e cercava di fare in modo che fosse così anche per i suoi studenti. Oltre e fornire loro una formazione tecnica, sottolineava l’importanza di narrare una sto-

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ria per immagini. “Prendete per esempio l’Uomo Ragno. Sta inseguendo Goblin lungo una strada urlando ‘Adesso ti prendo, Goblin!’, parole e immagini dicono entrambe la stessa cosa, mentre voi dovreste elaborare gli eventi, non ripeterli”. Un altro dei suoi compiti era spesso la creazione di una storia di una sola pagina in cui due persone si incontrano senza dialoghi.A volte riusciva a stupire i suoi studenti, come quando portò la classe di cartoonist nel dipartimento cinematografico dove l’insegnante e regista Roy Frumkes (Stre-et Trash, Document of the Dead) stava guardando uno dei primi cortometraggi di Charlie Chaplin. Alla fine, Eisner si alzò davanti a entrambe le classi e improvvisò alcune osservazioni. “Questo è un esempio tipico delle analogia tra cinema e fumet-to. Avete visto come fosse magistrale la rappresentazione dell’azione: abbiamo capi-to tutti quello che è successo, e senza sonoro. Immaginate di riuscire a narrare una storia a fumetti bene quanto Chaplin e – in più – di avere a disposizione i balloon”.Come ogni anno, Eisner spiegò agli studenti del corso che per la fine del semestre avrebbero dovuto progettare, scrivere, disegnare e produrre una loro raccolta delle migliori storie a fumetti. Quando domandò se qualcuno avesse già esperienze edi-toriali, l’unico ad alzare la mano fu Notkin. Da adolescente, in Inghilterra aveva pubblicato insieme a Neil Gaiman la fanzine Metro.“Okay, Geoff, tu sarai l’editor” concluse Eisner. “Spetta a te selezionare un assi-stente e tutta la redazione”.L’unico altro studente che Notkin aveva notato era Florian Bachleda, che gli se-deva sempre vicino. Peraltro, si conoscevano solo per nome.“Ehi, Flo, perché non mi fai tu da assistente?”“No” fu la risposta.“Dai, sarà divertente!” cercò di rispondere Notkin.Bachleda era pieno di dubbi ma Notkin lo trovava un tipo a posto, aveva i suoi stessi gusti musicali ed era tranquillo.Eisner spiegò poi alcune cose: “La cosa funziona così: la scuola paga la stampa. Voi metterete a punto il progetto della rivista e contratterete col tipografo. Io farò la copertina e sceglierò le illustrazioni da usare, in modo che non vi siano favori-tismi”. Gli studenti dovevano fare tutto: dovevano imparare tutti gli aspetti della produzione editoriale.Da quel momento, il corso si fece impegnativo e si mise sempre di più l’accento sugli aspetti tecnici della riproduzione a colori e perché la si utilizzava per la stampa dei fu-metti. “Se volete riuscire, dovete conoscere bene i procedimenti industriali che porta-no alla produzione di un albo a fumetti” spiegava Eisner. Non si limitava a insegnare come disegnare strisce e vignette, ma spiegava loro come preparare adeguatamente il lavoro per la stampa. Gli studenti imparavano a usare le reprocamere e il goniometro, i due oggetti più importanti nelle mani di un art director dell’era pre-computer.

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“Un sacco di disegnatori e di cartoonist si arrabbiano quando commettono un errore” spiegava Eisner. “Dio però non ha creato solo la china, ma anche il bian-chetto, affinché voi possiate correggere”.Il giorno in cui Notkin portò la rivista in tipografia insieme a Bachleda, restando a guardare mentre mille copie uscivano dalla stampatrice, resta ancora oggi uno dei più entusiasmanti della sua vita: “Era l’esercizio pratico più efficace che un insegnante potesse pensare per degli studenti d’arte” ricorda. “Facemmo un sacco di errori e io dovetti chiamare Will in Florida un sacco di volte, ma alla fine sa-pevamo bene come mettere insieme le pagine di una rivista, produrla la rivista e fare un po’ di promozione”.Fu un’esperienza talmente entusiasmante che entrambi tornarono a iscriversi al corso, con la differenza che il secondo anno la SVA non avrebbe finanziato la stampa e la responsabilità aumentava.Bachleda e Notkin scrissero al direttore David Rhodes e ottennero un incontro con lui e Marshall Arisman, celebre illustratore e responsabile del programma del master in Belle Arti della scuola.“Avevamo il permesso di Will ma facemmo tutto da soli” ricorda Notkin. “Secon-do Will, Gallery aveva fatto il suo tempo ed era inutile scontrarsi con la scuola su questo, ma non era giusto perché Will aveva un accordo con la SVA secondo cui gli studenti avrebbero dovuto avere la loro rivista come parte del suo ingaggio e del suo onorario”.Notkin e Bachleda erano fermamente convinti che la produzione annuale della rivista fosse uno dei fattori più importanti del corso di Eisner e non avrebbero permesso che morisse in questo modo senza lottare.“È una delle cose più importanti della scuola” sostenne Notkin davanti a Rhodes e Arisman. “Serve a imparare tutti i dettagli della produzione di una rivista a stampa. Se provassimo a ridurre drasticamente i costi?”Rhodes e Marshall erano ben disposti verso la loro proposta e decisamente stupiti da tanta passione.“Se riuscite a contenere i costi entro i 1000 dollari possiamo continuare” fu la loro risposta. La SVA accettò di accordare un finanziamento ridotto: meno di metà di quello originale.Notkin e Bachleda accettarono la sfida: da una ricca quadricromia su carta pati-nata, l’edizione 1986 di Will Eisner’s Gallery of New Comics passò a una bicromia su carta da giornale. In questo modo, nonostante il budget ridotto, furono addi-rittura aggiunte delle pagine e un numero maggiore di studenti vide stampato il proprio lavoro.Per molti di loro l’uscita di Gallery significava pubblicare per la prima volta in assoluto. “Anch’io avevo pubblicato qualcosa su delle fanzine e avevo fatto un

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certo numero di poster rock ‘n’ roll e copertine di dischi per le mie band, e cose del genere, ma ricordo bene quanto fossi totalmente entusiasta all’idea di vedere i miei fumetti uscire col nome di Will Eisner in copertina. Era qualcosa di davvero importante anche per me” ricorda Notkin.Le esperienze con Eisner gli valsero poi un lavoro sulla rivista degli studenti di Harvey Kurtzman, Kartunz.Gli studenti di Kurtzman dovevano procurarsi per conto loro i fondi per la ri-vista, vendendo spazi pubblicitari agli esercizi e alle imprese locali. Siccome il finanziamento non veniva erogato dalla scuola, gli studenti avevano in cambio un controllo editoriale totale su contenuti, distribuzione e tiratura. Tradizional-mente, Kartunz aveva più pagine del Gallery di Eisner ma era stampata su carta da giornale e con copertina in bicromia.“Oggi può sembrare sciocco” ricorda Notkin, “ma credo che allora un po’ tutti noi considerassimo Gallery come la rivista di fumetti studentesca ‘ufficiale’ della SVA, mentre Kartunz era la nostra pubblicazione alternativa/underground. Di solito i contenuti di Kartunz erano anche molto più ruspanti. Will era una persona di gran classe e non avrebbe mai permesso che su Gallery apparisse materiale poco opportuno. Non vorrei che sembrasse una specie di censura: Will aveva il diritto di esercitare un controllo editoriale, perché alla SVA alcuni studenti facevano roba davvero offensiva e di cattivo gusto, e niente di tutto ciò finiva mai su Gallery”.Quando un altro docente della SVA, Art Spiegelman, ebbe bisogno di un as-sistente di produzione per la sua nuova rivista RAW, Kurtzman raccomandò Notkin, che per due anni lavorò con Spiegelman mentre questi era al lavoro sul suo pionieristico romanzo a fumetti Maus.Notkin e Bachleda lavorarono insieme per due anni alla rivista del corso, un’espe-rienza che, letteralmente, cambiò loro la vita. Bachleda avviò una straordinaria carriera come art director del Village Voice Entertainment Weekly e Vibe, arrivando anche a insegnare corsi serali presso la stessa SVA.Dopo il diploma, e dopo il lavoro per RAW, Notkin lavorò per l’American Ex-press e nel 1989 aprì un suo studio di grafica, lo Stanegate Studios, che ancora oggi si occupa di grafica editoriale, sviluppo di siti web, fotografia e divulgazione scientifica.“Io e Flo avevamo le stesse esperienze” ricorda Notkin. “Volevamo fare i cartoo-nist e siamo finiti nel design. Con nostro grande stupore abbiamo scoperto che ci piaceva di più progettare riviste che disegnare fumetti. Non avevo mai pensato di fare l’art director, dovevo fare fumetti, è stato il corso di Will a instradarmi in questa direzione e sono molto felice che sia andata così”.

• • •

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Notkin e Gaiman si rividero nel 1987, quando Gaiman era un giovane giornalista e si vide mostrare da Geoff uno schizzo di Spirit eseguito espressamente da Eisner per Gallery, di cui Notkin era allora il direttore.“Fui incredibilmente invidioso!” ricorda Gaiman. “E continuava a ripetermi che persona incredibile fosse Will”.Non molto dopo Gaiman conobbe Eisner di persona durante una convention inglese, e regalò al suo idolo una copia del suo libro Violent Cases. “Fu uno di quei momenti incredibili... e parlando con lui trovai pazzesco che sapesse chi fossi, e che avesse letto alcune delle mie cose, che gli erano piaciute” ricorda Gaiman. “Rappresentava la possibilità, stupefacente, che stessi facendo qualcosa di buono”.Una delle prima cose che Gaiman disse a Eisner fu “Uno dei miei migliori amici è stato un suo studente”.“Trovavo pazzesco che due scolaretti inglesi non solo fossero riusciti a fare questo lavoro ma fossero diventati entrambi amici di Will Eisner”.

• • •Un diplomato del corso di Eisner alla SVA che proseguì lavorando nel fumetto (e che ha chiesto di restare anonimo) ricorda che tra gli iscritti c’era anche il celebre caricaturista Drew Friedman.“Il padre di Drew era Bruce Jay Friedman” il celebre scrittore autore di Stern e The Dick, “perciò arrivò al corso preceduto da un’aura di privilegio e deciso a esercitarlo” ricorda l’ex compagno. “Era letteralmente perfido con alcuni degli altri studenti, cosa che ogni tanto trovavo divertente perché almeno non se la prendeva con me. Drew è il tipo che considera dei venduti me e alcuni altri del corso perché facciamo supereroi”.Oggi Friedman è un illustratore molto noto per riviste come New York Times, MAD, The Weekly Standard e Time, ma all’epoca Eisner doveva ancora capire se la sua vita sarebbe stata guidata dalla sua parlantina o dal suo talento.“Era un ragazzino irascibile e cattivo” ricorda Eisner, “che tirava un sacco di brutti scherzi.Un giorno doveva dare un passaggio ad alcuni altri con la sua auto fino al Carto-on Museum di Rye, New York, ma non si fece vedere. Vedendo che non arrivava chiamai il padre e gli dissi ‘Lei sa dov’è suo figlio?’, e lui ‘No. Sono settimane che cerco di scoprirlo!’Un giorno Drew riuscì a fare piangere Harvey Kurtzman, che uscì dalla classe. Poi cominciò a fare questi scherzi anche nel mio corso e io lo presi di petto: ‘Vattene fuori! Qua è pieno di gente che paga fior di soldi per seguire il corso e tu stai rompendo le scatole a tutti. Ti credi un furbastro, vero? Fila!’. Non gli andavo a genio e neanche lui mi è mai piaciuto”.

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(Friedman non ha voluto rilasciare dichiarazioni sul corso di Eisner frequentato alla SVA).

• • •Fu grazie a Eisner che l’ex studente Mike Carlin riuscì a trovare il primo lavo-ro pagato nel mondo fumetto. All’epoca, Will produceva libri di barzellette per Scholastic, disegnando da solo la maggior parte delle illustrazioni ma acquistando le battute dagli studenti del corso. “Se la battuta gli piaceva, la pagava un dollaro” ricorda Carlin. “Gliene vendetti 300. Una volta ero un tipo divertente”.I libri di Eisner per Scholastic (e talvolta attribuiti a Poorhouse Press o Stanowill Pub. Co.) non furono tra i suoi più memorabili, ma i ragazzini dell’epoca se li di-voravano (tra i titoli, ricordiamo Star Jaws, 101 Outer Space Jokes [1979], Superhero Jokes [1980], Spaced Out Jokes [1979], Funny Jokes and Foxy Riddles [1979], Star Nuts [1980], 300 Horrible Monster Jokes [1980], Bringing Up Your Parents [1980], Dates & Other Disasters [1980], Classroom Crack-ups & School Disasters [1980] e TV Jokes [1980], molti dei quali curati e/o scritti da Keith Diazun, con contributi attribuiti a Carlin, Joey Cavalieri, You Noon Chow, Robert Pizzo e Barry Cal-dwell). Inoltre, per i suoi studenti erano occasioni preziose per arrotondare.“Avere qualcosa di pubblicato era una bella sensazione” ricorda Carlin. “Era ro-baccia ma Will pagava in contanti: ogni volta che venivo pagato andavo subito da Blimpie a comprarmi un sandwich. Non lavoravo con Will per i soldi, non mi interessavano. Volevo una copia del libro. E quando leggevo ‘scritto da’ era una figata”. (Anni dopo, Carlin vinse un Eisner Award e ringraziando il suo vecchio insegnante gli disse sottovoce “Adesso costano 2 dollari”).Quando si trattò di fare Gallery, Carlin collaborò con Drew Friedman: “Drew era un grande. Era il tipo che sapeva sempre esattamente cosa fare quando noi altri cercavamo ancora di capirlo. All’epoca, in TV a New York c’era questa coppia di appassionati di giardinaggio, marito e moglie, Stan e Floss Dworkin. Io feci un terribile disegno dei due, Drew lo prese e ci mise su le sue facce. La parte disegna-ta da me si riconosceva facilmente, tanto era orrenda”.Eisner si rese conto abbastanza presto del talento narrativo di Carlin. “So anche che secondo lui dovevo lavorarci su un sacco” ricorda Carlin oggi, ridendo. “Era forte quando esprimeva le sue critiche. Harvey Kurtzman era più diretto.Quell’anno, mentre insegnava nel nostro corso, Will stava pubblicando Contratto con Dio. Fu un periodo grandioso”.

• • •La maggior parte dei disegnatori che frequentavano il corso di Eisner erano inte-ressati ai fumetti e ai supereroi, ma nell’annata 1975 ci furono anche due futuri

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autori di strisce, Ray Billingsley (Curtis) e Patrick McDonnell (Mutts).Billingsley aveva solo diciassette anni ma a New York era già un disegnatore noto. Aveva anche un aspetto da fumetto: un’enorme capigliatura afro, baffi e pizzetto al mento. Usando le sue stesse parole, sembrava il membro cattivo dei Jackson Five.Billingsley aveva cominciato a disegnare professionalmente a 11 anni, quando fu notato dall’editor della rivista Kids. “Ero nato nel Sud ed ero cresciuto ad Harlem” ricorda. “Mi consideravano tutti un po’ balordo, perché non mi occu-pavo delle cose che interessavano agli altri”. Si iscrisse alla SVA per via dei corsi di cartooning e gli fu persino accordato un permesso speciale per frequentare da matricola il corso di Eisner, normalmente riservato agli studenti del secondo anno (in realtà, lo frequentò diverse volte, dal 1975 al 1979).Eisner, per quanto brevemente, cercò di raffreddarlo: “Tutto qui quello che sai fare?” gli disse quando il nuovo studente gli mostrò il portfolio.Billingsley non sapeva ancora nulla di Eisner ma dopo avere letto dei suoi lavori e del suo curriculum nella biblioteca della SVA ne fu colpito abbastanza da decidere di mettere da parte il suo ego e cercare di capire cosa poteva imparare.“Mi mise sotto. Cominciai a migliorare solo per dimostrargli che potevo fare di meglio. Cominciando talmente giovane com’era successo a me, è difficile dimo-strare alla gente quello che sai fare. Will mi lanciò una vera e propria sfida. Ho conosciuto gente che mollava il corso perché era troppo duro e per strada ne restavano parecchi. Era già molto impegnativo, poi un giorno Will andò un po’ più in là e pubblicò Will Eisner’s New York: The Big City. Un libro che mi ispirò tantissimo. ‘Curtis’ è ambientato nella stessa città e disegnare scene di strada mi è sempre piaciuto. E per trovare ispirazione guardavo Eisner”.

Stando a Billingsley, quando Eisner ar-rivava in classe la maggior parte degli studenti erano già a disegnare al tavolo da lavoro, e continuavano tranquilla-mente mentre lui parlava.“Will valutava le cose molto obiettiva-mente e ci chiedeva quale mercato ci interessava raggiungere. Voleva creare dei professionisti. Non importava se ti interessava l’underground o disegnavi con i pennarelli, purché riuscissi a tra-smettere la tua idea. Voleva che creas-simo un’immagine efficace e ciascuna immagine doveva avere un senso di per sé, e preparare la strada all’altra.

Uno schizzo di Will Eisner per l’ex studenteRay Billingsley, autore di Curtis.

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Will voleva anche che ci rendessimo conto di come ci saremmo trovati nel mon-do reale, dove nessuno sarebbe stato dalla nostra parte e non avremmo avuto una seconda possibilità. ‘Se una battuta non funziona, scartatela’. È una cosa difficile per un sacco di autori. E, di nuovo, anche il suo corso non era facile”.Nel 2000 Billingsley ha ricevuto il President’s Award dall’American Lung Asso-ciation per come il suo personaggio Curtis insisteva perché suo padre smettesse di fumare. Con sua grande sorpresa, sul palco insieme a lui, a consegnargli il premio, trovò Eisner e Mort Walker.“Fu un colpo! Avevo le lacrime agli occhi. I miei due maestri, le persone che avevano ispirato il mio lavoro che premiavano me. Fu un momento incredibile, li ringraziai moltissimo”.

• • •Un altro cartoonist molto influenzato dai corsi della SVA fu Patrick McDonnell, la cui striscia Mutts compare su più di cinquecento quotidiani.“Quando mi iscrissi alla SVA cercai di approfittarne e di fare un po’ di tutto” ricor-da McDonnell. “Quello di Will fu l’unico corso di cartooning e la cosa che ricor-do di più è il suo entusiasmo, che era assolutamente contagioso. Adorava questo linguaggio, e anch’io lo amavo molto. Gli studenti del suo corso erano soprattutto interessati ai comic book mentre io preferivo le strisce, o cose più underground”.Spesso Eisner portava con sé fumetti europei commentandoli insieme agli stu-denti. Quello che attirò di più l’attenzione di McDonnell fu una ristampa svedese dei vecchi fumetti di “Krazy Kat”. In precedenza McDonnell l’aveva visto una volta sola, all’età di 13 anni.“Mi aveva aperto la mente” ricorda.Così, quando Eisner arrivò col Kat svedese, vide illuminarsi gli occhi di McDon-nell. “Me lo lasciò, così ancora oggi ho un bellissimo Krazy Kat straniero di Will”.McDonnell imparò anche la tecnica delle incisioni giapponesi su legno, che Ei-sner usava per discutere delle radici del fumetto.“Vedeva nel fumetto un potenziale enorme e credo che pensasse che fosse un linguaggio ancora nella sua infanzia. In classe parlava molto dei suoi fumetti di-dattici per l’esercito e io pensavo che il modo in cui aveva unito formazione e intrattenimento fosse meraviglioso”.Quelli erano giorni inebrianti per gli studenti della SVA, da ricordare. Anche se McDonnell non frequentava il corso di Kurtzman, un giorno si intrufolò mentre stava parlando Robert Crumb e riuscì ad allontanarsi con un suo schizzetto come ricordo.Diventato amico del compagno di classe Joe Coleman, un cartoonist under-ground che avrebbe poi seguito la carriera di pittore, formarono la band (“piut-tosto nota”) dei Steel Tips: F.T.D. (che sta per “for the dick”), che una volta aprì

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persino per i Ramones.“Negli anni Settanta la SVA era un posto molto libero” ricorda oggi.McDonnell era uno degli studenti preferiti di Eisner, e non c’è da stupirsene. Nella sua popolarissima striscia Mutts McDonnell omaggia spesso Krazy Kat, una delle prime influenze dello stesso Eisner. Senza contare che ogni tanto nelle sue pagine domenicali utilizza lo stile delle incisioni su legno giapponesi.Nel 1998 McDonnell e Will erano entrambi in corsa per il premio Reuben. L’in-segnante e lo studente si incontravano da eguali. Più o meno. “Naturalmente, vinse Will” esclama ridendo McDonnell. “Andai da lui a dirgli ‘Non mi hai inse-gnato abbastanza bene!’. Io contro Will Eisner, santo cielo!”McDonnell vinse lo stesso premio nel 1999.

• • •Non tutti gli studenti di Will Eisner ebbero successo appena usciti dall’aula. Anzi, alcuni non passarono neppure.“Mi bocciò” ricorda Joe Quesada, che nell’agosto 2000 è stato nominato direttore editoriale della Marvel Comics. Quesada si era fatto notare come eminenza grigia (insieme a Jimmy Palmiotti) della linea Marvel Knights, che presentava storie adulte e piuttosto cupe di Devil, il Punitore e altri personaggi Marvel.“Non mi ero iscritto per fare fumetti. Li leggevo da ragazzo e come un sacco di altri ragazzi li mollai quando scoprii l’esistenza delle ragazze”.Durante il periodo della SVA Quesada trafficava in tanti settori. Aveva senti-to parlare di Eisner ma non lo percepiva con la reverenza di Lash, Holmstrom, Notkin, Bachleda, Billingsley e McDonnell. Per un ragazzo non particolarmente motivato era solo un corso come gli altri.“Will risaltava sempre come una persona particolarmente bene informata ed esperta” osserva Quesada. “Scartai molte, moltissime lezioni di storytelling. E, come dico sempre a tutti, quello che ho imparato alla SVA è il business dell’arte. So fare bene un sacco di cose e se c’è una cosa di cui posso vantarmi è che ho saputo gestire bene la mia carriera. Da questo punto di vista, Will è stata una delle persone più importanti. Secondo me Will preparava gli studenti al lavoro su commissione, al lavoro svolto secondo le modalità di uno studio. Oggi ten-go anch’io incontri nelle scuole d’arte e spiego agli studenti che è sicuramente possibile apprendere gli aspetti tecnici ma quello che nessuno insegnerà loro è l’approccio economico al lavoro”.I lavori di Quesada non furono pubblicati su Gallery di quel semestre e finirono sul Kartunz di Harvey Kurtzman.“Non ce la feci perché non mi impegnai. Non mi facevo vedere abbastanza, non svolgevo i compiti e Will fece la cosa più giusta, mi segò. Per la cronaca, quel

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semestre non passai neanche il corso di Harvey Kurtzman”.Quesada cominciò poi a lavorare come disegnatore di fumetti e uno dei suoi primi lavori fu la colorazione di Super Mario Bros. per la Valiant Comics di Jim Shooter.“Se avessi saputo che Joe era uno dei ragazzi di Will mi sarei stupito” commenta Shooter. “Quando ero direttore alla Marvel, ogni tanto Eisner mandava studenti alla ricerca di lavoro. Ma anche quando eravamo veramente disperati erano ben lungi dall’essere pronti. E quando mi ritrovai alla Valiant, dove non potevo per-mettermi i nomi migliori, usavo un sacco di gente dalla scuola di Joe Kubert. Mi arrivava un flusso regolare di studenti anche da Will ma il problema di studiare con un genio è che pensavano tutti di essere dei geni! Io ripetevo ‘voglio una griglia con sei vignette. Qua lavoriamo alla Jack Kirby’. Ma nessuno obbediva e mi risponde-vano ‘Ho studiato con Will Eisner. Cosa vuoi saperne?’, e io: ‘So che gli assegni li stacco io’. Arrivavano con degli ego spropositati. Da noi nessun ragazzo di Eisner ha mai ingranato. Secondo me, Will avrebbe dovuto inculcare con le cattive un po’ di buon senso a questi ragazzi, insegnare loro a essere un po’ più professionali”.Anni dopo, Quesada, ormai diventato direttore editoriale della Marvel, si ripresentò a Eisner a una convention di fumetti. Durante la conversazione, Quesada lasciò ca-dere casualmente “Per la cronaca, avevo seguito il suo corso e non l’avevo passato”.E Eisner rispose: “E adesso ti trovo qua!”.

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diciottoDio, Will Eisner e la nascita del romanzo a fumetti

Will Eisner era nato in una famiglia timorata di Dio. La madre ne parlava in continuazione, assicurando che se Will si fosse comportato bene, Dio lo

avrebbe ricompensato.Personalmente, però, Eisner aveva una scarsa opinione della religione in quanto istituzione. Una convinzione nata durante gli anni della Grande Depressione.“Alla vigilia di un Rosh Hashanah mio padre voleva seguire lo Yizkor, il servizio ebraico per i defunti, ma non avevamo abbastanza denaro per pagare l’ingresso festivo alla sinagoga” ricorda Eisner. “Andammo lo stesso e restammo fuori, sugli scalini, ascoltando dall’esterno; la porta era aperta.Non ho mai dimenticato l’umiliazione di quel giorno: eravamo troppo poveri per partecipare insieme al resto della comunità ebraica. La rabbia fu tale che non entrai mai più in una sinagoga fino al giorno del mio matrimonio.Cominciai a pensare che l’errore fosse nell’istituzione, non nelle basi del giudai-smo in sé: non era un problema filosofico o culturale. Ero rimasto deluso dall’i-stituzione, dal fatto che la fede venisse gestita come un business. Un’istituzione che alimenta miti che potrebbero essere veri oppure no e a questo scopo la classe dominante si comporta come un regime dittatoriale. Basta guardare ai problemi della Chiesa Cattolica: difende un’istituzione che dipende da idee sostanzialmen-te enunciate a partire da miti. I capi della chiesa si comportano in modo da ri-servare a sé un potere assoluto. E come sappiamo bene un potere assoluto genera una corruzione assoluta”.Quando Eisner conobbe sua moglie, Ann frequentava un Tempio Riformato, il Temple Emanuel di Manhattan. Dopo il matrimonio, nel 1950, e il traslo-co a White Plains, diventarono membri di un altro Tempio Riformato. Non lo frequentarono mai regolarmente ma ne restarono membri per via dei due figli. Quando si trasferirono in Florida, nel 1978, cominciarono a frequentare una sinagoga: partecipavano allo Shabbat del venerdì sera, ma niente di più.

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“Mi piacerebbe credere che esiste una suprema intelligenza che ci guida e si pre-occupa delle nostre esistenze” osservava Eisner. “In conseguenza di ciò, avremmo tutti un contratto con Dio stipulato da noi stessi, ma il problema è che nessuna delle due parti ha rispettato gli impegni presi. Perciò, proprio non saprei. Mi piacerebbe che esistesse un Dio, davvero.Mia moglie Ann è una credente convinta. Crede fermamente in Dio, nell’esisten-za di Dio. Io non sono così certo. Non riesco ad attribuire la natura della mia vita alla mano di Dio, anche se mi piacerebbe poterlo fare, mi piacerebbe che esistesse una mano che la guida. Sarebbe di enorme conforto. Ma non riesco a trovare alcun motivo per crederlo”.E fu questo, per quanto era dato di sapere prima dell’uscita del libro che state leg-gendo, a preparare il terreno per la nascita del fondamentale romanzo a fumetti di Eisner, Contratto con Dio e altre storie. Era il 1978 e Eisner aveva 61 anni.

• • •All’inizio degli anni Settanta l’American Visuals era in procinto di fallire, dis-sanguata da uno dei suoi dipartimenti, e Eisner ne uscì nel 1972. Restava il pro-blema di che cosa fare. Aveva da parte del denaro e prese la coraggiosa decisione di rinunciare al contratto con l’Esercito per PS Magazine. Negli anni successivi, ispirato dalla scena dei comix underground investì tempo e denaro in un ritorno a tempo pieno al tavolo da disegno. Fu un commento di Ann a farlo decidere: “Perché finalmente non fai quello che hai sempre voluto fare?”.In effetti, ne parlavano spesso e alla fine Eisner si decise a pensarci seriamente: davvero voleva tornare ai fumetti? La base solida e in rapida crescita del mercato degli appassionati e le ristampe di Spirit della Kitchen Sink avevano rinnovato l’interesse per i suoi vecchi lavori. Eisner aveva già rifiutato l’offerta di Stan Lee della direzione editoriale della Marvel: il lettore di fumetti medio o quello dei fumetti underground avrebbero mostrato interesse per lavori di Will Eisner più impegnativi dell’ultimo numero di Devil?“Mi resi conto di una cosa ovvia” ricordò in seguito Eisner, “e cioè che il pub-blico stava cambiando e che era necessario un nuovo approccio al contenuto dei fumetti. Ancora più ovvio, secondo me, era che il momento giusto per farlo era proprio quello. Il lettore di fumetti pre-adolescente degli anni Quaranta si stava avvicinando rapidamente ai quarant’anni. Era cresciuto con quel tipo di linguag-gio ma che cosa avrebbe potuto leggere un adulto in quel formato? Si trattava di un occasione colossale”.Eisner concluse quindi che poteva esistere un nuovo pubblico di lettori di fumetti formato da persone adulte a cui nessuno si era ancora rivolto e decise che avrebbe fatto ritorno al suo linguaggio preferito se fosse riuscito a trovare un soggetto e

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un argomento potenzialmente interessante per dei lettori adulti. Quel soggetto era Dio.“Tutti sono interessati al proprio rapporto con Dio, in un modo o nell’altro. Così, scrissi e disegnai una serie di racconti brevi, nello stile del famoso film Grand Hotel”.Cercando di dare una maturità espressiva al linguaggio dei fumetti, per due anni Eisner lavorò a quattro racconti di “arte sequenziale”, vicende ambientate in un caseggiato del Bronx degli anni Trenta, racconti morali di vita quotidiana con cui tornò alle sue radici scoprendo nuove potenzialità del mezzo: il romanzo a fumetti, o graphic novel.Il titolo originale del libro era A Tenement in the Bronx (“Un caseggiato nel Bronx”). Un rappresentante di Baronet, il primo editore di Eisner, gli disse però: “Non lo venderà mai a ovest del Mississippi; nessuno a ovest del Mississippi sa cos’è un tenement”. Così, scelsero come titolo quello del primo dei quattro rac-conti: Contratto con Dio.Dal punto di vista di Eisner, Contratto con Dio era la parte più importante del vo-lume e rifletteva i suoi convincimenti personali su Dio. Per tutta la vita le persone si sentono promettere che se rispetteranno il loro cosiddetto accordo con Dio, saranno ricompensate. E attorno a questo tema Eisner costruì Contratto.“Quando lavoravo su argomenti molto emotivi, com’era il caso di Contratto, in cui il personaggio parla con Dio, dovevo sentirlo dentro di me” ricordava Eisner. “Seduto al tavolo da disegno, lo recitavo nella mia mente con tutta la mia parte-cipazione, dentro di me”.

• • •Alla morte della figlia Alice, Eisner lottò duramente per decidere cosa fare di se stesso.“Salivo di sopra, dove allora c’era lo studio, e non riuscivo a dormire fino alle tre, alle quattro del mattino, e talvolta tutta la notte, e disegnavo, disegnavo immagi-ni, figure” ricorda. “Fu l’unico modo in cui riuscii ad andare avanti”.La prima cosa che fece fu tornare immediatamente al lavoro. Nessuna pausa, nessuna veglia: non avrebbe saputo che fare di se stesso. In anni più recenti, alla morte del fratello Pete, Eisner ricadde nel medesimo stato. Insieme ad Ann par-tecipò al funerale per poi tornare a casa di Pete per la veglia e per confortare la moglie Leila, i figli e i nipoti. Ma non appena gli fu possibile, con la benedizione di Ann Eisner, si scusò e tornò in ufficio a lavorare.“Tendo sempre a cercare di aggrapparmi alla vita, e ad andare avanti. Ricordo che alla morte di Alice mia moglie era distrutta. Diceva di volere morire, e io le risposi ‘No, non morirà nessuno, andremo avanti e ce la faremo’. Dal punto di vista emotivo, per me il disegno è stato una specie di salvezza. Sono riuscito a usarlo come uno strumento per superare momenti molto difficili. Con Pete fu

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una cosa diversa, non fu un trauma come per Alice, naturalmente, ma continuare a lavorare è per me un modo per affrontare e gestire il dolore, un tipo diverso di dolore in questo caso.Quando era successo ad Alice mi ero rivolto a Dio chiedendogli ‘Perché io?’. Con-tratto con Dio è la conseguenza della morte di Alice: la sua morte mi aveva riem-pito di una grande rabbia. Ero furibondo. Era morta nel fiore degli anni. E poi, quei momenti strazianti, a vegliare quella povera ragazza mentre moriva. Quelle scene provengono dalla mia vita”.Ann sapeva che Contratto con Dio parlava di Alice “ma non ne discutemmo mai” ricorda. “Un amico direbbe ‘mai versare sale sulla ferita.’”.Negli anni, gli Eisner videro i figli degli amici sposarsi e avere figli, furono sempre felici per i loro amici ma feriti e addolorati per quel vuoto nella loro vita.“Abbiamo cercato di colmarlo in tanti modi, ma non è la stessa cosa” ricorda Ann.

• • •Normalmente, Eisner scriveva i suoi romanzi sotto forma di dummy, pagine ab-bozzate a matita e già con i dialoghi. Una volta completato il dummy di Contratto con Dio, cominciò a domandarsi a chi avrebbe potuto venderlo. Non voleva affi-darlo a una casa editrice di fumetti, convinto che i suoi potenziali lettori avessero smesso di leggerli da tempo, preferendo frequentare le librerie.Così, chiamò Oscar Dystel, allora presidente di Bantam Books, descrivendogli l’idea. Non solo Dystel conosceva Eisner ma pare che fosse un fan di Spirit. Come tutti gli editori, era comunque un uomo molto impegnato, e anche se si ricordava di lui era estremamente impaziente: voleva sapere esattamente che cosa Eisner aveva in serbo per lui. Eisner fissò il dummy e l’istinto gli suggerì Non dirgli che è un fumetto, o riaggancerà subito.Così, dopo un rapido ripensamento, Eisner disse: “È una graphic novel”.E Dystel: “Oh, sembra una cosa interessante; non ne ho mai sentito parlare”.Su invito di Dystel, Eisner gli portò il dummy, che l’editore guardò con attenzio-ne, prima di tornare a fissare Eisner, incredulo, poi nuovamente i bozzetti. Poi scosse la testa.“Puoi chiamarlo come vuoi” disse alla fine, “ma questo è un fumetto! La Ban-tam non pubblica fumetti. Sono stupito, Will. Dovresti trovarti un editore più piccolo”.Con tanti saluti al grande salto.Nonostante il suo rapporto con la Kitchen Sink Press, che nel 1978 si era ormai fatto strettissimo, Eisner pensava che per il suo primo libro fosse necessaria una casa editrice di New York. “Mi serve un indirizzo di Park Avenue, non il 2 di Swamp Road”, disse a Kitchen con una tipica espressione editoriale.

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Così, Eisner chiamò Stan Budner, figlio di Max Budner, titolare dell’Independent News Distribution di Wilmington, Delaware, che una volta distribuiva Spirit, e addirittura lo leggeva. Budner conosceva un editore che poteva essere interessato al libro e presentò Eisner a Norman Goldfine, titolare della Baronet Books, una piccola etichetta di New York nata da poco. Pubblicava narrativa d’avventura e decise di rischiare con Contratto con Dio.Successivamente, Goldfine ebbe problemi finanziari e Eisner gli prestò 25.000 dol-lari, suggerendo al tempo stesso di confezionare titoli più popolari e commerciali.“All’epoca, la cosa più forte in circolazione era il film Jaws (“Lo Squalo”)” ricorda Eisner. “Subito seguita da Star Wars. Così proposi di fare Star Jaws”.Star Jaws – completamente agli antipodi rispetto a Contratto con Dio e rispetto a praticamene qualsiasi altra cosa mai fatta da Eisner – diventò alla fine una raccolta di vignette e battute acquistato da Scholastic, che ne fece un successo. Fu solo il primo di una fortunata serie di volumi analoghi che Eisner ha prodotto nel corso degli anni Settanta con la sua etichetta Poorhouse Press.Con poche migliaia di copie di Contratto con Dio vendute nel primo anno, nulla lasciava presagire che fosse in atto una rivoluzione editoriale. Anzi, scrivere e dise-gnare un secondo romanzo a fumetti poteva sembrare un’idea bizzarra, ma Eisner era convinto di avere per la mani qualcosa di nuovo.Due settimane dopo l’uscita di Contratto, Goldfine chiamò Eisner: “Volevo dirti che Brentano’s, sulla Quinta Strada, ha ordinato delle copie”.“Ma è fantastico!” esclamò Eisner. “È esattamente quello che speravo che accades-se. Trovarmi in una libreria prestigiosa!”.Eisner aspettò altre due settimane. Infine, non riuscì a resistere e andò da Bren-tano’s a vedere con i propri occhi. Per lui, il solo fatto di ritrovarsi sugli scaffali di Brentano’s era qualcosa di incredibile. Era convinto di andare nella direzione giusta e che, se questo libro non avesse veramente sfondato, ce l’avrebbe fatta un altro.Si presentò al direttore della libreria dicendo di essere l’autore di Contratto con Dio (che la libreria aveva ordinato) e che era interessato a sapere come stesse an-dando. Era anche un po’ preoccupato perché non lo vedeva esposto.“La prima settimana ha venduto piuttosto bene” fu la risposta del direttore. “Era esposto su un tavolino a parte, all’ingresso. Poi ho dovuto esporre un altro libro, il nuovo romanzo di James Michener, e il suo l’ho messo nel reparto ‘Religione’”.Poi però, proseguì il direttore, si era lamentata una signora anziana, la tipica vec-chietta in scarpe da tennis e i capelli blu elettrico: “È una cosa tremenda, nei libri religiosi c’è questa... questa cosa. Questi fumetti!”.Il direttore ci aveva pensato su un po’, concludendo che forse aveva ragione.Così, mise Contratto con Dio tra i libri a fumetti, come le raccolte dei Peanuts, di Garfield e il famoso How To Draw Comics The Marvel Way di Stan Lee.

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Ma anche questa sistemazione era risultata un problema.Un padre col figlioletto a rimorchio era stato il secondo a presentarsi al direttore: “Tra i libri di Beetle Bailey ce n’è uno con delle donne nude!”“È davvero terribile” concordò il direttore.“Non voglio che il mio bambino si ritrovi davanti agli occhi roba come quella, sbuffò stizzito il genitore, uscendo a lunghi passi.Così, il direttore aveva tolto Contratto con Dio dallo scaffale, riponendo le copie in una scatola.“E adesso dove sono?” chiese Eisner.“In cantina” rispose il manager. “Non so dove metterle”.Ma, cantina o no, Eisner ne uscì rinfrancato.Il suo libro era da Brentano’s – da qualche parte – e Contratto aveva persino ricevu-to delle buone recensioni. Inoltre, sentiva che non c’era altro modo di procedere. Non avrebbe ricominciato a fare Spirit: grazie a lunghi decenni di duro lavoro e buoni investimenti era economicamente indipendente. Certo di avere per le mani qualcosa di valore, cominciò a lavorare a un secondo romanzo, Signal from Space (in seguito pubblicato come Life on Another Planet). Fino al 2005, ne avrebbe pubblicati altri diciotto.

• • •Quando Eisner scriveva un romanzo a fumetti, era una specie di segreto di stato. Persino Denis Kitchen veniva tenuto all’oscuro dei contenuti del nuovo libro, finché non fosse stato sostanzialmente definito e scritto sono forma di dummy.La conversazione tipica era qualcosa del genere: “Sto lavorando a un romanzo nuovo” iniziava Eisner. E Kitchen: “Di cosa parla, Will?”“New York durante la Depressione. Non voglio parlarne”.“Uh, okay”.Un mese dopo, poteva capitare che Eisner accennasse con nonchalance al fatto che stava lavorando al progetto misterioso.“Mi puoi dire qualcosa di più?”“Be’, è ambientato a New York negli anni Trenta. Ma preferirei non parlarne”.Eisner era convinto che parlare di un progetto troppo presto avrebbe interferito col processo creativo: “Voglio prima pensarlo fino in fondo, e prendere tutte le decisioni sui personaggi e sulla trama. Una volta arrivato al punto in cui la storia è sotto forma di bozzetto con un inizio, uno svolgimento e una fine, allora sono il primo a non vedere l’ora di spedirlo a Denis per ricevere il suo parere più spas-sionato. Una prima lettura la fa anche mia moglie Ann, che ha il punto di vista del lettore esterno”.Chiedere un giudizio spassionato e riuscire ad averlo sono due cose diverse. Al-

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meno, era così all’inizio del rapporto con Kitchen. E questo valeva non solo per Kitchen ma anche per Dave Schreiner, la persona che seguiva la maggior parte delle pubblicazioni di Eisner. Schreiner fu direttore editoriale di Kitchen Sink per anni e anni e alla fine lo stesso Eisner lo assunse pagandolo di tasca propria, anche quando si ritrovava a lavorare con l’editor di turno.“Tenevo molto alla sua opinione e lui mi capiva bene”. ricorda Eisner. “Da parte mia, incoraggiavo le critiche”.Ma all’inizio sia Kitchen che Schreiner nutrivano una certa soggezione nei con-fronti di Eisner, il quale a un certo punto si rese conto che quando si imbattevano in qualcosa che a loro non piaceva, tendevano a non dirglielo per una malintesa forma di rispetto.“Non ricordo che libro fosse – probabilmente Il sognatore – ma tra di loro Denis e Dave concordavano sul fatto che ci fossero una serie di falle importanti” ricor-dava Eisner, “ma non riuscivano a trovare il modo di dirmelo. Uno di loro mi chiamò, girando intorno al problema. Era chiaro che non si stavano esprimendo liberamente.Così dissi che dal mio editore mi aspettavo critiche, e anche dal mio editor. Mi aspettavo che fossero totalmente onesti nei miei confronti, e niente di meno, perché loro facevano le veci del lettore”.Da quel momento, le cose andarono esattamente così. Eisner li ringraziò, apportò al libro le modifiche del caso e la cosa giovò molto al rapporto tra di loro. Kitchen e Schreiner si resero conto che pur rispettando moltissimo Eisner, ovviamente, il loro lavoro e la loro responsabilità era quella di dargli pareri affidabili.

• • •Quando cominciò a produrre lavori nuovi, nello spirito di Contratto, Eisner di-ventò un vero e proprio modello per una nuova generazione di aspiranti autori.“Quindi... si può fare qualcosa di diverso dai supereroi!” ricorda di avere pensato il cartoonist underground Howard Cruse (Figlio di un preservativo bucato, Gay Comix, Wendel). “Il fatto che fosse interessato a storie maggiormente collegate al mondo reale era ciò che, a sua volta, interessava me. Anche i comix underground stavano allargando la percezione che avevo delle possibilità del mezzo e il fatto che Eisner non avesse l’atteggiamento di chi si abbassava a frequentare l’underground mi colpì moltissimo”.Che Will Eisner, il decano del fumetto moderno, concedesse il suo Spirit alla Kitchen Sink Press e arrivasse persino a disegnare una copertina di Snarf (in cui, letteralmente, sbatteva Spirit in una redazione in preda al caos e circondato da car-toonist underground), lasciò una traccia indelebile su Cruse e la sua generazione.

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• • •Nel corso degli ultimi trent’anni, il coinvolgimento e l’interesse di Ann Eisner per il lavoro del marito erano andati aumentando, rispetto a quando aveva ammesso di conoscere ben poco di Spirit.Alcuni anni dopo quell’episodio, Denis Kitchen si trovava nuovamente nel loro soggiorno. Eisner gli aveva spedito da poco A Sunset in Sunshine City, che sarebbe apparso sul numero successivo di Will Eisner’s Quarterly.“L’ultima storia mi è piaciuta davvero molto” osservò Kitchen.“La prima parte è merito mio” disse subito Ann, divertita dall’espressione stupita di Kitchen. “Ho letto la storia e ho detto a Will che c’era bisogno di qualcosa all’i-nizio, in modo che come lettrice potessi identificarmi nel personaggio principale”.“Ma è fantastico, Ann! Quella è la mia parte preferita” rispose Kitchen.Così, Ann era passata da non leggere i lavori del marito a suggerirgli un’ottima idea. Poi Kitchen fece un’osservazione maliziosa: “Forse dovremmo cambiare il titolo in Will and Ann Eisner’s Quarterly”.Prima di rendersi conto che stava scherzando, Eisner aveva sollevato le sopracci-glia, assai contrariato.Ann fu anche la responsabile della censura di una vignetta di Will in Vita su un altro pianeta. Uno dei personaggi si chiamava “Bludd” e a pagina 81 Eisner aveva disegnato una scena in cui la pioggia scendeva a dirotto, una vera e propria Eisner-shpritz. Nella vignetta centrale dell’ultima striscia, si intravvedeva Bludd urinare, e il tutto si confondeva con l’Eisnershpritz. Quando Ann lo vide, esclamò “Will! Questo non è da te!” e Will lo cambiò.La prima persona a leggere i dummy di ogni nuovo romanzo a fumetti di Eisner non era Kitchen, ma Ann. Eisner si fidava molto del suo parere perché i suoi ragionamenti e il suo modo di leggere non erano quelli di una lettrice di fumetti. Ann prima leggeva il te-sto, poi guardava le immagini, mentre i lettori di fumetti fanno esattamente il contrario.“Batton Lash vide una versione dummy di Piccoli Miracoli” ricorda Eisner. “ed era entusiasta delle espressioni e delle posture dei personaggi, ma non disse una sola parola della storia. I disegni non mi preoccupano, devi dirmi quello che pensi della storia! Ann dà sempre buone critiche e ha anche imparato a fare un buon editing. Non mi dice come devo fare questo o quello ma solo quello che non va, poi lascia che sia io a capire come aggiustare le cose”.

• • •Dal 1978, molti hanno salutato Will Eisner come il padre del romanzo a fumetti e ne sono scaturite diverse discussioni sul fatto che sia stato il primo oppure no a usare il termine graphic novel.

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Da parte sua, Eisner non ha mai reclamato la paternità del termine, mentre cri-tici, storici e disegnatori gliene hanno attribuito il merito perché è stato sicura-mente lui a renderne popolare l’uso. Il primato appartiene probabilmente all’assai poco noto Beyond Time and Again di George Metzger.Lo storico del fumetto – nonché amico di Eisner – R. C. “Bob” Harvey ha di-chiarato chiaramente che ad Eisner vanno attribuiti molti primati nella storia del fumetto, ma non questo.“La natura ‘pionieristica’ del suo contributo al romanzo a fumetti è stata am-piamente esagerata. Lo hanno sempre chiamato ‘inventore’ ed è stato detto che avrebbe inventato il termine, ma Contratto non è un romanzo, è una serie di racconti brevi e non soddisfa una qualsiasi possibile definizione di ‘romanzo a fumetti’. Will ha semplicemente preso l’idea che un fumetto potesse dare origine a una forma di letteratura e l’ha esplorata con grandissima perizia. Quando dico che è un ‘pioniere’, utilizzo questo termine assegnandogli un significato profon-do e importante. Ma non ha inventato il romanzo a fumetti e non ha inventato questa specifica espressione. Non per questo la sua reputazione va ridimensionata: con tutto quello che ha fatto, sarebbe davvero difficile esagerarla. Semplicemente, il suo rapporto col romanzo a fumetti come viene solitamente evocato è vero solo in parte e spesso viene deformato al punto da diventare storicamente impreciso per i pignoli come me”.Lo stesso Eisner rabbrividiva quando si sentiva chiamare ‘pioniere’ di qualcosa: “Tendo a guardare al di là del mio naso e sospetto che l’abbiano fatto anche altri. Ogni volta che penso di avere fatto qualcosa per primo, scopro che l’ha già fatto qualcun altro”.L’espressione “a Graphic Novel by Will Eisner” appare effettivamente sulla co-pertina della prima edizione di Baronet di Contratto con Dio. E il 10 settembre 1968, in un’intervista rilasciata a John Benson per la sua fanzine Witzend, Eisner accenna per la prima volta al lavoro che avrebbe svolto dieci anni dopo:

WILL EISNER Ogni tanto cerco di leggere... Graphic Story Magazi-ne. E ti dirò che se dovessi tornare indietro (in realtà, non si tratta di tornare indietro, ma di andare avanti), se avessi il tempo di dedicar-mici a tempo pieno, probabilmente sarebbe quella la direzione in cui andrei.

JOHN BENSON Quale direzione?

WILL EISNER La cosiddetta “graphic story”. È qualcosa che secondo me la striscia a fumetti ha sempre potuto fare... ma a meno che non

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interpreti male il pubblico, non credo che in questo momento il mezzo, così com’è, possa reggere una simile accelerazione in quell’ambito. Credo che oggi il pubblico sia costituto da lettori estremamente impazienti. E in definitiva, raffinando sufficientemente la tecnica, quello che si ottie-ne è sostanzialmente cinema.

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Diciannove*Il film di Spirit

Chris Browne, il disegnatore delle strisce Hagar il terribile e Raising Duncan conobbe Will Eisner presso il primo International Museum of Cartoon Art

di Greenwich, Connecticut. Aveva diciotto anni e accompagnava il padre Dik, cofondatore del museo, creatore di Hagar e co-creatore della striscia Hi and Lois. Eisner li stava aspettando in compagnia di Cat Yronwode.I quattro si sistemarono nella cucina dell’edificio, a gustare un pranzo molto sem-plice in piatti di carta.“Non riuscivo a capacitarmi del fatto che stavo mangiando un sandwich con Will Ei-sner!” ricorda Browne. “Così, gli chiesi: ‘Will, ci sarà mai un film di Spirit?’ E lui si mise a ridacchiare! A quanto pare, ogni tanto saltava fuori qualcuno che chiedeva di fare un film di Spirit, ne opzionava i diritti e gli staccava un assegno. L’opzione durava per un certo periodo, durante il quale si davano da fare e diventavano matti cercando di riusci-re a mettere insieme la produzione prima che scadesse l’opzione. Che alla fine scadeva. Passava un altro po’ di tempo e poi saltava fuori qualcun altro con un altro assegno”.Nel corso degli anni, diversi personaggi ben noti a Hollywood hanno fatto un loro tentativo di girare un film di Spirit, tra cui William Friedkin (L’Esorcista), Gary Kurtz (Guerre Stellari, Dark Crystal) e, nel 1994, Michael Uslan e Ben Mel-niker, attraverso la loro Batfilm Productions Inc. (Batman, Batman & Robin, Cat-woman, Batman Begins, Swamp Thing). Nel corso della sua opzione, Friedkin aveva commissionato e rifiutato soggetti di Jules Feiffer (Popeye, Conoscenza car-nale), del giornalista Pete Hamill, dello scrittore Harlan Ellison (The Man from U.N.C.L.E., Star Trek, Outer Limits, Ai confini della realtà) e dello stesso Eisner.“Will ha sempre avuto questo atteggiamento, come se di un film su Spirit non potesse importargli di meno” ricorda Denis Kitchen. “Non gli dispiaceva incas-sare gli assegni delle opzioni e mi diceva sempre ‘Vogliono fare un film; potrebbe darti una mano a vendere i libri’. Ricordo che io ero molto più entusiasta di lui”.Un solo produttore riuscì a girare il film di Spirit, ma pochissimi l’hanno visto.

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• • •Paul Aratow conosceva Will Eisner per via di un lavoro del 1984, una sua produ-zione del film Sheena, un’altra creatura di Eisner adattata per lo schermo. Anche se al momento della sua uscita dallo studio Eisner aveva ceduto a Iger tutti i diritti del personaggio, questi erano poi passati di mano diverse volte, prima che Aratow li opzionasse nel 1975, per poi girarli alla Columbia cinque anni dopo. A un certo punto, ebbe l’occasione di rivolgersi a Eisner per districare l’intera faccenda, e i due diventarono amici.“Conoscevo Spirit e lo trovavo stupendo” ricorda Aratow. “Presentai l’avvocato di Will alla Warner Bros., con cui all’epoca ero in contatto per via di certi di-ritti che li avevo convinti ad acquistare. Eravamo nel 1986 e già fantasticavo di girare un film di Spirit ma, come tanti progetti, occorsero anni per portare in porto una produzione”.Va inoltre detto che all’epoca non si parlava neppure di film tratti da fumetti.“Ero convinto che Spirit fosse un soggetto strepitoso per un film noir” osserva Aratow. “E le immagini di Will ricordano molto Orson Welles. O è il contrario? Ma è come parlare di Caravaggio, no?, con quelle campiture di colore. Spirit por-tava con sé un’atmosfera assolutamente misteriosa”.Fu coinvolto anche Frank Von Zerneck, produttore di film televisivi come Poli-cewoman Centerfold, The Elizabeth Smart Story e Reversible Error: “Ero un fan di Will già da un bel po’ e a un certo punto pensammo che Spirit potesse diventare una buona serie per l’ABC, che accettò”.Steven E. de Souza fu incaricato di scrivere il soggetto di un film pilota per la serie di novanta minuti, coprodotto dalla Warner Bros. Television. Appassionato di fumetti di lunga data, de Souza era già riuscito a dare vita a una buona dose delle sue fantasie. Tra i suoi lavori, successi come 48 Hours (1982), Commando (1985), L’implacabile (1987) e Die Hard (1988), oltre a film di genere come Judge Dredd (1995), I Flinstones (1994), Vault of Horrors (1994), Street Fighter (1994), Lara Croft: Tomb Rider – La culla della vita (2003) e sceneggiature mai prodotte per The Phantom e Flash Gordon. Per la televisione, ha prodotto Knight Rider (1982) e sceneggiato L’uomo da sei milioni di dollari (1974), La donna bionica (1976), “V” (1984) e la serie animata Cadillacs and Dinosaurs (1993).De Souza era da sempre un fan del grande cartoonist Alex Raymond (Flash Gor-don, Agente Segreto X-9, Rip Kirby) e dei fumetti della Silver Age, così, nel 1987, il suo nome sembrò la scelta naturale per portare sullo schermo il film di Spirit.“Tutto il mio curriculum in TV e al cinema è riassumibile con la parola ‘azio-ne’” dichiara de Souza. “Mi interpellarono perché volevano azione e avventura, e quando scoprirono che me ne intendevo di fumetti, per loro fu una specie di

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bonus. Quando Paul Aratow venne a trovarmi in ufficio si stupì trovandoci già le ristampe di Spirit della Kitchen Sink”.“È uno sceneggiatore fantastico e, andando a scavare un po’” ricorda Von Zer-neck, “si scopre che è un fan di Eisner. Era assolutamente indicato e infatti il soggetto fu eccellente”.Il film, a cui venne assegnato un budget di tre milioni di dollari, fu girato a Los Angeles su un set della Warner Bros. e diretto da Michael Schulz, costretto su una sedia a rotelle da un incidente di sci. I produttori cercarono di catturare l’atmo-sfera della striscia di Eisner giocando sulle luci di scena e la fotografia, visto che all’epoca la tecnologia CGI (immagini generate dal computer) non era sufficien-temente sviluppata, o economica.L’approccio di de Souza per le sue trasposizioni dal fumetto al film era molto semplice: leggeva l’originale e poi cercava di essergli il più fedele possibile, pur con un approccio contemporaneo.“Sul set avevamo sempre con noi le edizioni Kitchen Sink e credo che dal punto di vista del look sia riuscito molto, molto fedele. Per quanto riguarda la direzione artistica, ci siamo ispirati al lavoro di Will. Diciamo pure che abbiamo copia-to: inquadratura dopo inquadratura, scena dopo scena, è tutto copiato. Quando Denny Colt va dalla polizia, la prima volta che diventa Spirit, è molto fedele. Era una vera e propria sfida perché volevamo che fosse il più semplice e fedele pos-sibile, e non bisogna dimenticare che allora i fumetti non godevano del rispetto che hanno oggi. Dissi subito dal primo momento che “comic book” non vuol dire necessariamente che è buffo o che fa ridere. Alla fine c’era una certa forma di sincerità e ingenuità, da non confondersi col ‘camp’”.La doppia parte di Denny Colt e Spirit andò a Sam Jones, che nel 1980 era sta-to protagonista di quel Flash Gordon cinematografico stroncato dalla critica. La parte di Ellen Dolan andò a Nana Visitor, che anni più tardi sarebbe diventata molto popolare in TV per Star Trek: Deep Space Nine. Garry Walberg interpretò il Commissario Dolan e Daniel Davis (il maggiordomo di La Tata) era Simon Teasdale. Ebbe una piccola parte anche Robert Pastorelli, che l’anno seguente fece parte del cast della serie Murphy Brown nei panni del personaggio di Eldin l’imbianchino. La controversa spalla di Spirit, il ragazzino Ebony con i labbroni enormi e la parlata tipica della gente di colore dell’epoca, nel film venne sostituito da un personaggio adolescenziale più convenzionale denominato Eubie interpre-tato da Bumper Robinson.“Dovevamo cambiargli nome” ricorda de Souza. “Per un ragazzo nero, ‘Ebony’ era troppo provocatorio! Era davvero un relitto, un fossile di quarant’anni prima. Eubie parlava come un ragazzo di oggi ma credo che fossimo comunque riusciti a ricostruirgli un carattere, una personalità autentica, non una spalla ma uno sti-

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molo: ‘Coraggio, Spirit, ce la puoi fare!’ E spronava Spirit, che in certe situazioni era troppo credulone”.Aratow ricorda come Sam Jones fosse “un tipo normale”, un tipo atletico, ma semplicemente non era una scelta particolarmente ispirata.“Era un tipo dolce, cordiale. Mi piaceva” ricorda Aratow. “Il punto è che recitare è un’attività impegnativa. E lui era certamente un uomo attraente ma questo non bastava a farne un bravo attore. Gli mostrammo tutto il materiale, le storie originali, e sul set c’era sempre un insegnante di recitazione: riprendevamo una battuta alla volta. Era un vero lavoro. Per reggere un film, per portarlo avanti, per essere un divo, devi possedere un certo tipo di carisma e Sam non aveva quel tipo di presenza”.Ciononostante, Von Zerneck era entusiasta del suo interprete: “Davvero di bell’a-spetto. E anche estremamente indicato, in un certo senso, a nasconderlo. Stava-mo cercando qualcuno in grado di sostenere una serie e all’epoca tutto dipendeva da chi avrebbe occupato il video. Non si trattava dell’ambiente nel suo complesso o degli altri personaggi, solo del protagonista”.Secondo de Souza “L’ABC insistette per Sam. La cosa non era negoziabile: per un qualche motivo, volevano lui. Chi l’ha visto in Flash sa che non era il tipo capace di una recitazione magari semplice, ma onesta. Tendeva sempre a scivolare nel ridicolo, nel camp. Come look era grandioso ma, alla fine, mi resi conto che il nostro anello debole era lui”.Anche se gli appassionati che hanno visto il film di Spirit lo collocano più o meno allo stesso livello del Fantastici Quattro mai distribuito di Roger Corman, una delle produzioni più insensate nella storia degli adattamenti cinematografici di fumetti, de Souza lo difende a spada tratta.“Per il budget con cui abbiamo lavorato, funzionava. Volevamo ambientarlo negli anni Quaranta ma non potevamo permettercelo, così abbiamo scelto questo pe-riodo vago e indistinto. Anni dopo, fecero la stessa scelta per Batman (1989). E lo stesso staff grafico di Spirit lavorò poi per Batman. Volevamo degli anni Quaranta senza tempo: se si inquadrava un telefono, era a rotella; tutti gli uomini indossa-vano cappelli. Abbiamo deliberatamente evitato auto recenti, creando una sorta di auto dalla linea indistinta, senza tempo. Quella che ne usciva era un’America indistinta, di metà secolo. E poi quel blu: per riuscire a ottenerlo fu necessario trovare un tessuto speciale. Lo Spirit di Eisner finiva sempre in un sacco di scaz-zottate e noi facemmo un certo numero di “breakaway suits”, abiti fatti apposta per strapparsi nei punti giusti: in pratica, bastava guardarli”.La fotografia si limitava a una palette cromatica limitata, più o meno come il film Dick Tracy (1990) di Warren Beatty, anni più tardi. Per esempio, c’è un solo rosso. “È interessante come nel decennio successivo altri fecero le stesse scelte, dopo che

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noi eravamo stati i primi” osserva de Souza.Ci furono anche problemi e ostacoli del tutto al di là del controllo dello staff. Per esempio, a metà delle riprese l’ABC cambiò proprietà.“Ci presentammo col film terminato: li avevano licenziati tutti ed erano tutti nuovi” ricorda de Souza.Una delle più consolidate e popolari tradizioni di Hollywood è che quando un nuovo management si insedia in uno studio o in una rete televisiva, tutto quan-to c’era prima viene letteralmente buttato a mare, indipendentemente dal costo dell’operazione. I nuovi capi dell’ABC non avevano alcun rapporto personale o economico con il film di Spirit e lo mandarono in onda d’estate senza alcuna pro-mozione, garantendogli così il minor pubblico possibile e non lasciando scampo al pilota: non sarebbe mai diventato una serie.“Fu davvero frustrante” ricorda de Souza. “Scrivere un film per la TV richiede esattamente il lavoro che richiede un ‘vero’ film. Ma è molto, molto meno grati-ficante. Io, poi, ero anche ‘supervising producer’ e in quanto tale l’avevo seguito non solo sul set ma anche durante il montaggio. Non avevo fatto altro per cinque mesi, era stato il mio lavoro a tempo pieno. Con la vendita del network, le perso-ne con cui ero stato in contatto se ne andarono e fu chiaro che eravamo nei guai. I nuovi arrivati dissero subito che non erano interessati a sviluppare il progetto. E per me questo era davvero un lavoro di passione, perché ero un grande fan di Spirit, e delle sue storie”.Come tanti altri, il risultato finale non piacque per nulla ad Aratow: “Ero convin-to che sarebbe stato molto meglio di quello con cui ci ritrovammo alla fine. E fu molto, molto frustrante. Aveva richiesto anni, davvero molto tempo, e dal punto di vista della sceneggiatura e della produzione mi era sembrato eccellente. Ma il casting lasciava a desiderare e forse con un altro attore avrebbe avuto più successo. L’ABC lo aveva voluto a tutti i costi: per qualche motivo, si erano innamorati di Sam. A volte è difficile capire perché la gente prende certe decisioni. Lo staff e il regista erano ottimi e probabilmente siamo stati vittime di qualche dirigente che voleva esercitare il suo potere. Di certo, non fu una decisione ponderata.Steve de Souza aveva fatto un ottimo lavoro: conosceva bene il fumetto e la War-ner ci mise a disposizione scenografie eleganti, di gran classe. Avevano tenuto come riferimento il lavoro di Eisner e il design del set aveva lo stile giusto Anzi, per l’epoca, in televisione era addirittura avant-garde. Costruimmo persino un cimitero! Ogni dollaro del budget finì sullo schermo, poco ma sicuro. Mancava solo un elemento: lo spessore del protagonista”.The Spirit stava assolutamente a cuore a Von Zerneck, che alla messa in onda, il 31 luglio 1987, nutriva grandi speranze.“Quando si lavora per tanto tempo su qualcosa non si può non amarlo. Ti chiedi

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com’è venuto, se hai lavorato bene... piacerà al pubblico?”La risposta fu un assordante NO.Che cosa era andato storto?“Lo stile di Eisner richiedeva una cerca radicalità, un approccio più ‘dark’” con-clude Von Zerneck. “La cosa difficile era stata restare fedele alle sue idee e ai suoi personaggi, senza farne un cartone animato. Questo è difficile, specialmente con sfondi e abbigliamento, cose che richiedono un sacco di tempo per riuscire a ottenere un look particolare. Spirit non è Batman, ma è egualmente un personag-gio molto interessante. La televisione non era ancora pronta e, personalmente, trovai tutto molto deludente. Ero convinto che si trattasse di qualcosa di unico. Comunque, quando qualcosa ti piace e ti appassiona, lo porti fino in fondo, ti lecchi le ferite e riparti”.Il pilota di Spirit non andò mai più in onda e non venne mai distribuito nel cir-cuito home video.Perché?“La durata era balorda” spiega Von Zerneck. “Un pilota di novanta minuti. E i pilota, se non riescono a fare partire la serie, poi difficilmente escono”.Quale fu la reazione di Eisner alla proiezione del “final cut”?“Faceva drizzare i capelli. Tremendo. Spazzatura” (un po’ come il Fantastic Four di Roger Corman mai distribuito, il film di Spirit appare a volte in edizioni pirata su eBay e alle convention di fumetti).

[*] Un film “ufficiale” è uscito nel 2008 per la regia di Frank Miller, col titolo The Spirit. Tra gli interpreti: Sa-muel L. Jackson, Scarlett Johansson ed Eva Mendes (v. intervista a Deborah Del Prete a pagina @@@).

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VentiLe Nuove Avventure

Per anni Denis Kitchen aveva importunato Eisner perché riportasse in vita Spirit.

“Il fan dentro di me era curioso” ricorda Kitchen. “Spirit fu chiuso nel 1952 e non fu concluso con le attenzioni che le persone che lo amavano avrebbero spera-to. Così, insistevo con Will: ‘Devi fare un’ultima puntata. Dove si troverà, ora?’. All’inizio, cercai di indurre Will a fare con Spirit quello che Frank Miller aveva fatto con Il ritorno del Cavaliere Oscuro, la memorabile storia che a metà degli anni Ottanta ha raccontato una possibile versione degli ultimi giorni di Batman. Gli ripetevo ‘Perché non andarsene in gloria, con un ultimo hurrà?’, ma Will opponeva resistenza”.Kitchen non solo trovava interessante l’idea; era anche convinto che avrebbe venduto bene.“So perché lo vuoi” rispondeva Eisner, “ma ormai me lo sono lasciato alle spalle. Non ho nessuna necessità personale di fare una cosa del genere”.A un certo punto riportare in vita il personaggio diventò una battuta ricorrente; se Kitchen non l’avesse tirata fuori almeno una volta all’anno Eisner ne sarebbe rimasto deluso. Dopo anni di sollecitazioni, un giorno Eisner capitolò: “Okay, d’accordo, ma non la sento come una cosa mia”.Così, scrisse una storia intitolata The Spirit: The Last Hero. Ma forse Eisner non aveva un’altra storia di Spirit da raccontare: il trascorrere del tempo e il suo inte-resse sempre maggiore in lavori più personali come i romanzi a fumetti lo avevano reso incapace di ricatturare la magia del personaggio.E l’ingrato compito di dirglielo ricadde su Kitchen: “Non c’è ispirazione. Assomi-glia a qualcosa che hai dovuto e non che hai voluto fare”.“Esatto. Non pubblicarlo” rispose Eisner.“No, infatti. Non pensavo che l’avrei mai detto, ma non è tra le tue cose migliori”.E ancora una volta, l’idea di resuscitare il personaggio venne archiviata.

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Nel 1997 la Kitchen Sink Press si trovava in grosse difficoltà ed era alla ricerca di una soluzione. E Eisner – che questa volta si trovava nel consiglio d’amministra-zione e conosceva bene la situazione dell’amico – fu assai più ricettivo. “Inoltre, non ero l’unico a chiederglielo” ricorda Kitchen. “Ma un sacco di altri autori e professionisti: Neil Gaiman, Frank Miller e Alan Moore. Tutti mi chiedevano ‘Perché non ci dai un nuovo Spirit?’”.Così, Kitchen suggerì a Eisner un approccio diverso.“Senti Will, Spirit chiuse nel 1952, all’apice dell’era McCarthy, durante la caccia alle streghe”.“Dove vuoi arrivare?”“E se fosse stato messo nelle liste nere? Costretto a ritirarsi?”“Vai avanti, mi interessa” fu la reazione di Eisner.Kitchen proseguì parlando di vigilantes, di delitto e castigo. Ma ancora, alla fine, gli interessi di Eisner restavano altri. Un po’ tutto quanto riguardava i comic book lo annoiava, e per lui i romanzi a fumetti erano più importanti. Così, Kitchen non riuscì a convincerlo a ripercorrere vecchie strade.Ma fu la stessa intransigenza di Eisner ad aprire la strada a nuove possibilità. E se a essere interessati a vedersela con Spirit fossero stati i maggiori autori del fumet-to contemporaneo? Questo, e la possibilità di contribuire a risolvere i guai della Kitchen Sink Press, poteva interessare ad Eisner.Così, accordò a Kitchen il permesso di ingaggiare una nuova generazione di auto-ri per seguire le orme di Lou Fine, Jack Cole, Waly Wood, Jules Feiffer nonché le sue, per produrre una nuova serie di storie di Spirit. Stabilì anche che la maggior parte delle royalties restassero alla Kitchen Sink, garantendosi semplicemente la proprietà e un compenso simbolico.A Kitchen e all’editor Katy Garnier Eisner impose due sole regole fondamentali: “Spirit non può sposarsi e non può essere ucciso”.

• • •La scelta dello sceneggiatore e del disegnatore per il primo numero di Will Eisner’s The Spirit: The New Adventures fu sia azzeccatissima che assolutamente improbabile.Dopo la pubblicazione di Watchmen nel 1986, una delle storie a fumetti più cele-brate di tutti i tempi, Alan Moore e il disegnatore Dave Gibbons erano all’apice della popolarità.Fu quindi una specie di sorpresa quando Moore e Gibbons annunciarono che la collaborazione successiva sarebbe stata il primo numero di Will Eisner’s The Spirit: The New Adventures.“Fu un piacere tornare a lavorare con Dave” ricorda Moore. “E sicuramente fu gradito a tutti coloro a cui era piaciuto Watchmen; dev’essere stato divertente

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vedere che tornavamo a lavorare insie-me, cosa che ci è sempre piaciuta. In questo caso fu abbastanza accidentale. Ero certo che Denis avrebbe trovato un ottimo disegnatore e quando sep-pi che era Dave ne fui entusiasta. Io e Dave siamo molto diversi. Lui era un Mod, io un Hippie, ma entrambi abbiamo grande rispetto per i gusti dell’altro e quando si tratta di fumetti i nostri gusti sono simili. Conosciamo entrambi quella cosa intangibile che ci piace e amiamo in questo o in quel-lo, e quanto a Spirit, avevamo le idee abbastanza chiare su cosa ce lo facesse piacere, ed eravamo abbastanza sicuri di riuscire, per così dire, a infonderlo nella storia... Io e Dave siamo tutti e due degli incredibili fan di Spirit, e di Will in generale”.Tecnicamente, Moore salì a bordo del

progetto perché era in debito con Kitchen e Kevin Eastman per un non meglio specificato anticipo già ricevuto da tempo. “C’era un accordo per cui avrei fatto un certo numero di pagine di qualcosa. Kevin voleva che lavorassi con (il dise-gnatore) Simon Bisley su qualcosa che all’epoca poteva forse diventare La lega degli Straordinari Gentlemen. Probabilmente è un’ottima cosa che non se ne sia fatto niente: Simon avrebbe fatto un lavoro ottimo, ma a lavorare su quella serie riesco a immaginare solo Kevin O’Neill. Kitchen decise che parte dell’anticipo sarebbe stato impiegato meglio se avessi scritto quelle tre storie di Spirit per la nuova serie”.Per lanciare nel modo migliore il titolo – che nel corso dei suoi otto numeri li avrebbe visti al fianco dei migliori autori del mondo – Moore e Gibbons comin-ciarono dall’inizio, rinarrando le origini di Spirit.Preso atto delle varie origini narrate da Eisner nel corso del tempo, selezionarono gli elementi comuni e che si erano mantenuti coerenti nel corso della storia della serie, trovando il modo di catturare diversi aspetti del personaggio con ciascuna delle loro tre storie.“Riuscimmo in qualche modo a collegarle” ricorda Moore. “Riprendere tutti quei tormentoni di Eisner fu incredibilmente divertente: ‘Come lo facciamo il titolo di

La copertina del n. 1 diWill Eisner’s The Spirit: The New Adventures (1998).

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questa storia?’, ‘Che riferimenti facciamo alle storie di Eisner?’ e così via. Cerca-vamo di instillare il più possibile di quanto avevamo umilmente imparato ai piedi di Will. Fu un divertimento da fan, da adolescenti, ma pur sempre divertimento”.

• • •Eisner aveva conosciuto Gibbons più di vent’anni prima che quest’ultimo venisse invitato a partecipare a The New Adventures. All’epoca, si trovava in Inghilterra, ospite della Society of Strip Illustration (oggi sciolta), intorno al 1975. Gibbons era appena all’inizio della carriera e negli USA i suoi lavori non erano ancora apparsi. Trovò Eisner in un pub, ad ammazzare il tempo in attesa di presentarsi alla Society, e lo salutò.“Lei non mi conosce, ma volevo ringraziarla per tutte le sue storie”.Mai incline a compiacersi del rispetto che gli veniva tributato, Eisner deviò im-mediatamente la conversazione verso il lavoro: “Hai qui qualcosa di tuo a cui dare un’occhiata?”.“Uh, certo” rispose Gibbons.Per i trenta minuti successivi, Eisner si dedicò a Gibbons come se fosse stato l’unica persona presente nel pub: gli mosse delle critiche e gli fece dei compli-menti. Trattò il futuro principe del fumetto come se si conoscessero da anni. “Fu una cosa incredibilmente rincuorante” ricorda Gibbons. “L’opinione che ne avevo come uomo raggiunse subito quella che ne avevo come disegnatore. Mi sarebbe bastato anche soltanto stringergli la mano, ma lui mi diede un sacco di ottimi consigli su come avrei potuto impostare diversamente il mio lavoro. Fu una specie di corso avanzato estemporaneo, ma non misurò certo le parole: aveva un suo modo estremamente cordiale di farlo, ma non avrebbe mai alimentato false speranze”.L’incontro successivo fu più o meno nel periodo in cui veniva pubblicato Watch-men e, insieme a Moore, Gibbons era ormai diventato l’eroe del fumetto moder-no. “Ricordo che mi stavano intervistando sul palco di una convention, quando in mezzo al pubblico vidi Will e Ann. La prima volta che l’avevo incontrato ero uno sconosciuto, la seconda cominciavo a raccogliere un po’ di notorietà perso-nale. Poco dopo, gli ricordai di come mi aveva incoraggiato: era orgogliosissimo del mio successo”.A mano a mano che la fama di Gibbons cresceva, si incontrarono più spesso, alle convention in Inghilterra, a Grenoble, in Francia, e al Comic-Con di San Diego, l’evento più grande e importante dell’editoria a fumetti.Un anno, Gibbons, Frank Miller e diversi altri autori, oltre a un manipolo di fan con gli zaini pieni di fumetti, stavano facendo una piccola escursione su una collinetta di San Diego, e l’unica cosa a cui riuscivano a pensare era la birra fresca

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che avrebbero trovato in cima. A un certo punto, lungo la salita udirono dei passi che li stavano superando. Era Will Eisner, che li salutò, espansivo come sempre: “Ehilà! Scusate, non posso fermarmi a fare due chiacchiere, ho un incontro tra cinque minuti”. Ciò detto, diede rapidamente la polvere a quegli uomini molto più giovani di lui.Gibbons e Miller restarono a guardarlo stravolti: “Non sarebbe il massimo se riuscissimo a fare una cosa del genere tra 30 o 40 anni?”.Per Eisner non poteva esserci niente di più normale: aveva un appuntamento e non voleva arrivare in ritardo.

• • •L’incarico per The New Adventures fu proposto a Gibbons dopo che Moore aveva già accettato e, da fan accesissimo di Spirit, non avrebbe mai potuto dire di no. Un’occasione che considerò “al di là di ogni possibile mio sogno di ragazzino, di qualsiasi cosa che potesse realmente avverarsi. Ancora oggi, quando non ho idee o mi sento stanco, torno a leggere le cose di Will”.Così, mentre l’opinione pubblica fumettistica si stupiva del riformarsi della squa-dra Gibbons-Moore per un personaggio apparso per l’ultima volta più di 45 anni prima e che non era mai stato tra i più popolari, i due non vedevano l’ora di partire.“I soggetti di Alan erano assolutamente superbi” ricorda Gibbons. “In quelle tre storie andò veramente al cuore di tutto ciò che rende grande Spirit. Pagina dopo pagina, vi ha condensato tantissime cose. Inoltre, dal punto di vista personale io e Alan andiamo d’accordissimo, e quando facciamo squadra scatta sempre qual-cosa. Ci avevano offerto molte cose e avremmo potuto dire alla DC che volevamo fare Watchmen 2. Ma Spirit era un’altra cosa, era la possibilità di spuntare un’altra voce nella nostra personale lista dei sogni di quando eravamo ragazzini.Per me, in una storia di Eisner parole, immagini e personaggi sono indivisibili. È il modo in cui Will racconta una storia di Spirit a essere importante, non necessa-riamente il personaggio in sé. Volevamo rendere omaggio all’abilità di Will come narratore, al modo in cui faceva funzionare insieme parole e immagini. Alan disse subito ‘Voglio che nella prima storia ogni pagina sia incorniciata da un elemento diverso: tubi, fiori, fumo e sangue. L’immagine di apertura è quella di una prima colazione e scrivemmo la parola ‘Spirit’ con sale e pepe. Nella seconda storia, il motivo ricorrente era il tipo sulla panchina, mentre nella terza era il blocco degli appunti. Il tipo di storia lo sceglieva Alan: il genio pazzo nella prima storia, l’uo-mo della strada nella seconda e la quasi-fantascienza per la terza. Volevamo fare il tipo di storia che piaceva di più a noi”.Mentre lavorava a The New Adventures Moore non parlò mai con Eisner ma Gib-bons sì. Anzi, Eisner gli chiese di salutare l’amico da parte sua.

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Una mattina, in occasione del Comic-Con che seguì l’assegnazione dell’incarico a Gibbons e Moore, ma prima che cominciassero a lavorarci, Gibbons e Eisner presero il caffè insieme: “Sono proprio contento che tu e Alan siate a bordo” disse subito Eisner. “Ma vi prego solo di una cosa, e per favore dillo ad Alan: che Spirit non diventi un tossico”.Gibbons non riuscì a trattenersi e rise sonoramente.“Promesso!” giurò.“Non sarebbe stato necessario” commenta Moore. “So di avere fatto un po’ di cose spiacevoli ad alcuni personaggi ma, in realtà, nutro un rispetto assolutamen-te infantile per i personaggi con cui sono cresciuto. Le mie storie di Superman sono una sorta di omaggio a Mort Weisinger, lo storico editor del personaggio. The Killing Joke invece non mi è mai piaciuto, a parte gli stupendi disegni di Brian Bolland. Era troppo crudele e non avremmo dovuto farlo. Ma a parte quello, credo di avere preso i personaggi degli altri cercando di trattarli con tutto l’amore e il rispetto possibili. Non mi è mai passato per la testa di mostrare Denny Colt mentre si prepara le dosi di eroina”.Moore scrisse una seconda storia per il terzo numero di The New Adventures, in-titolata Last Night I Dreamed of Dr. Cobra, disegnata da Daniel Torres. La tipica storia à la Moore: innovativa, sovversiva, e assolutamente perfetta.“Era una storia su Spirit postuma” ricorda Kitchen. “Così, dissi tra me e me ‘Uh-oh! S’era detto che Spirit non poteva morire!’ La mandammo a Will, sapendo che la storia violava una delle sue regole auree. Ma a lui piacque e alla fine concludem-mo che si potevano violare anche tutte le regole, se lo facevamo nel modo giusto”.

• • •Denis Kitchen aveva chiesto a Neil Gaiman di scrivere una storia per The New Ad-ventures, ma Gaiman aveva rifiutato. Poco dopo, Gaiman e Eisner si ritrovarono entrambi a una convention di fumetti a Gijon, in Spagna.“Neil, voglio che tu scriva una storia di Spirit”.Di nuovo, Gaiman rifiutò: “Non ne ho alcuna intenzione, perché la cosa migliore che potrei fare sarebbe una storia di Spirit di second’ordine”.Ma Eisner non era tipo da arrendersi facilmente: invitò Gaiman a una lunga pas-seggiata lungo la spiaggia e, chilometro dopo chilometro, ascoltò con attenzione le sue ragioni per non scrivere una storia di Spirit. Quando finalmente smisero di camminare – e Gaiman smise di parlare – entrarono in un caffè, dove Eisner spiegò gentilmente perché voleva che Gaiman scrivesse una storia di Spirit: “Mi piacerebbe moltissimo leggerla”.Gaiman sapeva riconoscere la sconfitta: “Okay, okay”.Così, oggi ricorda: “Spero che quella storia (The Return of Mink Stole) sia eisne-

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riana su due livelli. Il primo è per l’idea che da qualche parte, sullo sfondo, si sta svolgendo una storia di Spirit che si interseca continuamente con la nostra, con tutti i soliti classici temi di Spirit, come per esempio lui che finisce legato. E poi quella meravigliosa pagina di chiusura. Inoltre, una delle cose che adoravo in una buona storia di Spirit era che si faceva la conoscenza di qualcuno a pagina uno e a pagina due gli si era già affezionati”.

• • •Eisner, ormai ottantenne, fece le matite della maggior parte delle copertine di The New Adventures, che furono inchiostrate da altri autori. Per lui fu un modo per collaborare con i giovani leoni. Per loro stessa ammissione, alcuni dei disegnatori che inchiostrarono le copertine, fotocopiarono le matite inchiostrando la copia, in modo da conservare una matita originale di Eisner.

• • •A segnare la fine di The New Adventures non fu il progetto in sé o la qualità delle storie ma l’implosione del suo editore, la Kitchen Sink Press. All’epoca, ben po-che delle sue uscite potevano considerarsi un successo.Moore rimpiange il fatto che né a lui né a Gibbons fosse possibile continuare a lavorare alla serie, cosa che forse avrebbe mantenuto a galla la casa editrice, ma per loro la richiesta era tale da rendere la cosa impossibile.“Quando Will faceva Spirit, sapevo che si occupava in continuazione anche di altre cose ma si ha la netta impressione che dedicasse a lui la maggior parte delle sue energie” ricorda Moore. “Non si può fare una storia di Spirit senza ‘nerbo’, tradendo la fiducia di Will, e tradendo il personaggio. Ma se io e Dave avessimo avuto la possibilità di continuare e di dedicargli tutte le nostre energie, allora sì, forse saremmo riusciti a portarlo avanti”.Ma dovendo assumersi la responsabilità per un unico numero di Spirit di tutta la sua vita, Moore dichiara di essere decisamente orgoglioso di quello che ha fatto insieme a Gibbons.“Personalmente, sono sempre stato estremamente felice di avere fatto quella storia che, dal mio punto di vista, è pressoché perfetta. Se fossi andato avanti, be’, non sono Will Eisner. Nel migliore dei casi sarebbe stata solo una pallida imitazione e credo che alla fine sia stato questo a fare chiudere la serie. Io e Dave abbiamo lavorato molto, molto ma molto duramente perché quelle storie di Spirit fossero come le avrebbe fatte Will, o almeno il più possibile vicine a come noi pensavamo che le avrebbe fatte, perché è questo il miglior modo di scrivere Spirit. Tra Will Eisner e Spirit c’è qualcosa di talmente inscindibile che, sì, certo, anche altri pos-sono creare buone storie, e farle è anche molto, molto divertente, ma probabil-

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mente era un’avventura irragionevole fin dall’inizio, destinata ad avere una certa durata, e non di più”.La reazione del pubblico al primo numero di The New Adventures fu ottima, ma dopo l’entusiasmo iniziale la serie declinò rapidamente. Gibbons però non aveva rimpianti: “A chi è piaciuta, è piaciuta davvero molto” ricorda. “E ci siamo riusciti senza fare di Denny Colt in un tossico!”.

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ventuno“The Will Eisner Library”

Un giorno, nel 2000, Will Eisner scoprì che la sua lunga e produttiva attività creativa aveva prodotto più materiale di quanto potesse gestirne un solo

editore.Subito dopo la chiusura della Kitchen Sink Press la DC aveva acquistato i diritti di una serie di sue opere, tra cui Spirit e la maggior parte dei romanzi a fumetti. La DC mise anche in produzione una ristampa di grande qualità e prestigio, The Spirit Archives, nella quale ogni volume raccoglie sei mesi di storie originali, in un’edizione cartonata con sovracoperta. Istituì poi “The Will Eisner Library”, sotto cui raccogliere e mantenere in catalogo tutti i romanzi a fumetti del Mae-stro. Marchio e logo erano stati creati dalla Kitchen Sink Press, la DC compì un ulteriore passo, facendone un’etichetta.Nel frattempo, Mike Richardson, fan di Eisner da tutta una vita ed editore della Dark Horse, voleva entrare anche lui nella “partita Eisner”. Era deciso ad acca-parrarsi tutto quanto non si fosse già assicurata la DC, mettendo insieme una serie eclettica e variegata di titoli, come Racconti di guerra, Chiacchiere di bottega, Eisner/Miller, The Will Eisner Sketchbook e questa stessa biografia.Tra gli altri editori di Eisner troviamo NBM (Moby Dick, L’ultimo cavaliere, The Princess and the Frog, Sundiata: A Legend of Africa), Doubleday (Fagin the Jew) e W. W. Norton (Il complotto).Fumetto e Arte Sequenziale (1985) e Graphic Storytelling & Visual Narrative (1996), entrambi pubblicati dall’etichetta di Eisner Poorhouse Press, avevano copertine alquanto dimesse prima di un drastico rinnovamento nel 2004. “All’inizio volevo che fossero deliberatamente austere perché erano libri di testo” ricordava Eisner. “L’austerità trasmette un senso di autorevolezza. Non volevo che fossero piene di figure sgargianti”. Ma quella stessa austerità che aveva contribuito ad affermarli come testi fondamentali per i corsi di cartooning e illustrazione in tutto il mon-do, cominciavano a scoraggiare dall’acquisto i dilettanti e i collezionisti di fumet-

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ti, e come compromesso Eisner accettò delle copertine graficamente più vistose.Ma i maggiori bestseller di Eisner sono libri che raramente gli vengono attribuiti. Tra questi, titoli assolutamente improbabili come The Complete World Bartender’s Guide e Robert’s Rules of Order: The Standard Guide to Parliamentary Procedure (Bantam Books). Il primo dei due, da solo, fino a oggi ha fruttato al suo illu-stratore più di mezzo milione di dollari di royalties. E anche se il secondo era nel cosiddetto “pubblico dominio” quando Eisner cominciò a lavorarci, la nuova edizione ebbe un successo enorme, perché nessuno aveva mai pensato di illustrar-lo. Anche se non ha mai venduto quanto The Complete World Bartender’s Guide, ancora oggi produce regolarmente, ogni anno, una discreta somma in royalties. Anche un altro libro confezionato da Eisner, What’s in What you Eat (Bantam Books, 1983) seguiva la medesima ricetta di aggiungere illustrazioni a informa-zioni e testi di pubblico dominio. Prodotto con l’aiuto di Cat Yronwode e Robert Pizzo, venne però ben presto superato da libri con dati più precisi e aggiornati.Gli unici libri di Eisner usciti di catalogo sono probabilmente i suoi libri di bat-tute e barzellette per bambini pubblicati da Scholastic, noti come Gleeful Guides, e i suoi volumi di Artiglieria (A Pictorial Arsenal of America’s Combat Weapons

Alcuni volumi meno noti di Will Eisner.

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[1960]; America’s Space Vehicles: A Pictorial Review [1962]; The M16A1 Rifle Ope-ration and Preventive Maintenance [1969]; Freedom’s Edge: The Computer Threat to Society [1974]).

• • •Paul Levitz, presidente della DC Comics dal 1989, conobbe Will Eisner quando Jim Warren pubblicò le sue ristampe, all’inizio degli anni Settanta.Fu Levitz che nel 2000, per la prima volta, mise al servizio di Eisner la forza di una grande struttura aziendale, decidendo di rilevare il corpus dei suoi romanzi a fumetti. La Kitchen Sink aveva ideato il marchio “The Will Eisner Library” e per la DC la sfida consisteva nel rendere il tutto più standard, visti i formati più disparati con cui la KS aveva pubblicato i vari libri.“Ma avere in catalogo una pietra miliare come Contratto con Dio fu davvero gra-tificante, e anche con tutti gli altri cercammo di fare il possibile” ricorda Levitz. “Ogni anno ciascuno vendeva un certo numero di copie”.Karen Berger era stata l’ideatrice e la maggiore animatrice della coraggiosa e anticonvenzionale linea Vertigo, e in quanto tale fautrice di lavori di altissimo profilo da parte di autori come Eduardo Risso (100 Bullets), Neil Gaiman (The Sandman), Brian Azzarello (100 Bullets e Hellblazer) e Bill Willingham (Fables). Ma era comunque nervosa all’idea di supervisionare Piccoli Miracoli, il suo primo romanzo a fumetti di Will Eisner, e di aggiungere alcuni dettagli finali dopo Dave Schreiner, l’editor personale di sempre di Eisner.“Ovviamente”, ricorda Berger, “la carriera di Will parla da sola. Ero leggermente intimidita ma superai subito la cosa, perché Will era fantastico nel farti sentire a tuo agio”.Dopo Piccoli Miracoli, Berger si incontrò a colazione con gli Eisner al Comic-Con di San Diego. L’argomento era il successivo lavoro di Will, che cominciò a descrivere Le regole del gioco, aggiungendo però che per il momento l’aveva accan-tonato. Berger gli spiegò che le sarebbe piaciuto vederlo.“Ci penserò” rispose Eisner.La settimana successiva, Eisner la richiamò.“Abbiamo fatto bene a parlarne: ho deciso di riprenderlo in mano e di finirlo”.Lavorare su Le regole del gioco fu molto più semplice per Karen Berger: “La prima volta avevo chiamato Denis per chiedergli qualche consiglio. E lui disse sempli-cemente ‘È sufficiente che parli con Will’. Nel caso di Le regole del gioco avevo alcune domande sulla vicenda, soprattutto sulla rappresentazione che Will dava degli ebrei del sud degli Stati Uniti. Per esempio, ero perplessa per un menu non-kosher a un pranzo di nozze. Will mi spiegò che gli ebrei del sud erano più liberali e meno rigidi. Ovviamente, Will racconta quello che gli interessa raccontare e il

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mio compito è unicamente essere certa che quello che vuole dire arrivi in maniera chiara. Se qualcosa non mi sembrava plausibile, o la storia aveva delle falle logiche o non mi convinceva, glielo dicevo”.Un argomento su cui Berger e Eisner discussero a lungo fu la copertina di Le rego-le del gioco. “Volevamo uno stile da libro prestigioso, con un taglio maggiormente da libreria”. ricorda Berger. “Mettemmo a punto un look fotografico e con sapore ‘d’epoca’. A Will piaceva ma temeva che il pubblico avrebbe associato le foto di-rettamente a lui, così non proseguimmo in quella direzione”.Berger ricorda Eisner come “una stupefacente forza della natura”, perennemente giovane di spirito. “A ogni libro, era nervoso e continuava a chiedersi se fosse abbastanza buono. Un atteggiamento incredibilmente umile, se si pensa a quan-to aveva già fatto. Lo spirito, il suo modo di esprimere la creatività, la sua etica personale, la sua professionalità facevano di lui un essere umano meraviglioso, e lavorare con lui era un autentico piacere”.L’annuncio di Levitz che la DC avrebbe raccolto in un’edizione di prestigio e da libreria ogni singolo episodio di Spirit dal 1940 al 1952, innalzò il personaggio allo status di vera e propria icona editoriale, insieme ai più popolari supereroi della DC, Batman e Superman.“Gli Archivi rappresentano un punto d’incontro tangibile e importante tra mer-cato e arte” afferma Levitz. “Col programma editoriale degli Archivi, imparando a gestire il nostro parco di storie e personaggi e mettendo a punto il giusto modello economico, abbiamo scoperto che è possibile ottenere un margine ragionevole, pagare royalties eque e mettere libri di questo tipo a disposizione di un piccolo numero di lettori.Alla chiusura della Kitchen Sink, Levitz trovò irresistibile la prospettiva che il corpus dei lavori di Eisner fosse tornato disponibile.“Quella settimana avevo un incontro con Bob Wayne, il nostro vice direttore commerciale, presso il distributore Diamond”. ricorda Levitz. “In quel momento eravamo due semplici appassionati di fumetti, occupati a sparare cavolate: ‘Non sarebbe fantastico ristampare Spirit nel formato dei cartonati degli EC Comics di Russ Cochran?’. Volevamo assolutamente averlo in catalogo e, in generale, ci pia-ceva che alcuni dei fumetti più importanti restassero costantemente disponibili a studiosi e appassionati”.Come tanti appassionati di fumetti, Levitz aveva scoperto Spirit negli anni Ses-santa, sulle pagine del libro di Jules Feiffer The Great Comic Book Heroes. Alcuni anni dopo, Mark Hanerfeld, redattore della fanzine The Comic Reader, vendette a Levitz una serie di copie tratte della sua collezione di inserti settimanali di Spirit, più o meno la metà di tutte le storie. Da lì, cominciò a riempire i buchi cercando le storie mancanti presso collezionisti come Steve Geppi e Walter Wang, senza

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però riuscire mai a completare la collezione, cosa che lo frustrò sempre non poco.“Sono il classico fan anal-ritentivo che semplicemente non può avere solo metà di una collezione”. afferma Levitz. “Così, vendetti la mia metà e quando a San Die-go presentammo la serie The Spirit Archives ai dettaglianti, la prima cosa che dissi fu ‘È la mia ultima possibilità di finire qualcosa a cui sto dietro da trent’anni’”.The Spirit Archives sono un formato che Eisner non avrebbe potuto immaginare quando per la prima volta aveva scritto e disegnato le sue storie, più di mezzo se-colo prima. In quel periodo i fumetti erano qualcosa di transitorio, assolutamente deperibile e nonostante ciò aveva avuto la previdenza di conservare i diritti, e anche la maggior parte del materiale originale, sia disegni che copie. La stessa Detective/National Comics non faceva nulla del genere, cosa che ha portato alla distruzione o allo smarrimento di migliaia e migliaia di tavole originali.Per quanto il progetto degli Archivi si presentasse come assolutamente prestigioso e promettesse di consegnare definitivamente l’eredità di Eisner alle generazioni a venire, il grande autore gestì questa occasione con la stessa trepidazione e cautela che aveva sempre contraddistinto tutte le sue decisioni.“Will nutriva diverse preoccupazioni” ricorda Levitz, “tutte ragionevoli e deri-vanti dal fatto che non aveva mai affidato la sua creatura più preziosa a un grande editore. Fece diverse considerazioni davvero particolari nella discussione del con-tratto: in fondo, è sempre stato lungimirante in tutto ciò che ha fatto. Era forse

questa una differenza chiave tra lui e la maggior parte degli autori: scommet-teva sempre su se stesso”.Eisner era abituato a discutere in ma-niera realistica e le sue preoccupazioni per Spirit erano creative più che eco-nomiche, proprio come con Warren e Kitchen prima della DC.Lungo la strada, si accorse che Levitz, il quale seguì personalmente il proget-to, era l’uomo giusto.“Si tratta di libri molto importanti per me, come lettore” dichiara Levitz. “Libri del tutto distinti da qualsiasi al-tra pubblicazione in una delle nostre altre linee. Se qualcosa può ragione-volmente rientrare tra i titoli Vertigo, o del DC Universe, viene in maniera naturale affidato alla persona che segue

Will Eisner era orgoglioso delle edizioni dei suoi lavori nella collana “Archivi” della DC Comics.

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quella linea. Per gli Archivi non avevamo mai acquistato nulla da altri e non c’era nessun precedente ovvio. Conoscevo Will, conoscevo Denis, conoscevo il mate-riale, così fu semplice, e assolutamente divertente occuparmene di persona”.I redattori della DC sono stati particolarmente felici del successo di The Spirit Archives: “Per noi quei libri sono una specie di fiore all’occhiello artistico” è l’opi-nione di Dale Crain, responsabile della DC per le edizioni in raccolta. “Quando si chiuse il contratto, eravamo tutti elettrizzati. È materiale assolutamente classi-co, meraviglioso e importante”.Crain aveva curato la grafica e supervisionato ristampe per la Kitchen Sink Press prima di entrare alla DC, ed era toccato a lui l’incarico di lavorare con Eisner al look degli Archivi e a un dettaglio molto importante: la tecnica di colorazione. Per tutti i primi dodici volumi, ciascuna pagina è stata ricostruita dalle edizioni originali a stampa e Crain e Eisner hanno effettuato diversi tentativi e approcci al colore, prima di trovare quello giusto.“Fortunatamente, ci trovavamo sulla stessa lunghezza d’onda” ricorda Crain. “Vo-levamo la maggior fedeltà possibile all’originale. Per effettuare dei tentativi e tro-vare la configurazione giusta, si cominciava scansionando le pagine. Il problema, quando si scansiona qualcosa, è che – al massimo – il risultato ha la qualità dell’o-riginale, e occorre poi una discreta quantità di lavoro. Il primo passo era prendere le pagine a colori dei giornali e ricavarne “i neri” cioè il disegno in bianco e nero, senza i colori. Il secondo passo era ricostruire i colori utilizzando il computer. È un procedimento abbastanza intricato: si cerca di riportare tutto al punto di par-tenza, per poi ricrearlo. Spesso un tratto nero viene ‘bruciato’ ed è necessario un sacco di lavoro di ritocco e ripulitura. I primi undici volumi sono stati prodotti così. Con il dodicesimo, il primo con le storie di Eisner del dopoguerra, abbiamo cominciato a lavorare a partire dagli originali di Will, o da sue copie”. Alcuni mesi dopo l’uscita del primo degli Archivi, Levitz chiamò Eisner: a quanto pareva, la prima edizione degli Archivi aveva venduto più del primo numero dei Superman Archives e dei Batman Archives; questo nonostante un vantaggio di dieci anni di Superman e Batman.“È uno dei nostri maggiori successi” gli disse Levitz. “Forse, complessivamente, potremmo avere venduto più Superman, ma non è detto. A volere tutti i volumi di Spirit, per apprezzarne l’evoluzione, sono molti più lettori di quanti siano in-teressati all’evoluzione di Superman. Tutti conoscevano solo ristampe discutibili e c’era un sacco di domanda inevasa e insoddisfatta”.Quanto a Eisner, era decisamente soddisfatto: “Era la prima volta che Spirit si scontra-va con questi venerabili personaggi ad armi pari. Non potrei esserne più orgoglioso”.

• • •

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Quando Mike Richardson, editore della Dark Horse, cominciò a occuparsi di fumetti, a uno dei party di San Diego venne presentato a Denis Kitchen. Ri-chardson si era fatto un certo nome per molti motivi, ma aveva avuto un successo particolare nelle riduzioni cinematografiche di personaggi a fumetti come The Mask, Barb Wire, Mystery Men e Hellboy. Ma dal punto di vista di Kitchen il nuovo arrivato, decisamente, non era ignorabile in quanto era il primo in assoluto a sfidare il suo tradizionale primato nel settore.Kitchen era alto 198 cm, ma con oltre 203 cm Richardson lo guardava dall’alto in basso.I due editori si trovavano ai lati opposti della stanza, quando Eisner si avvicinò a Kitchen.“Tu sei più alto di quel Richardson, vero?” gli chiese.“Scordatelo” rispose Kitchen. “Perché?”“Perché ho scommesso 5 dollari su di te”.Kitchen sapeva che a Eisner non piaceva affatto perdere soldi, ma un dato di fatto è un dato di fatto.“Hai perso cinque sacchi” lo informò l’amico di una vita, mentre Eisner si faceva decisamente corrucciato.

• • •L’editor della Dark Horse Diana Schutz aveva conosciuto Will Eisner ancora pri-ma di lavorarci. Era il 1999 e si trovava davanti a migliaia di persone, al salone del Comic-Con di San Diego. Eisner era sul palco, a consegnare i premi dell’editoria a fumetti che portano il suo nome, e la Dark Horse ne stava infilando un buon numero.Quell’anno era stato pubblicato 300 di Frank Miller, che aveva vinto tre Eisner Awards. Tra gli altri vincitori Dark Horse c’era Usagi Yojimbo di Stan Sakai, e Grendel: Black, White and Red di Matt Wagner, una serie di quattro antologie di racconti curata da Diana Schutz. Quando la serie di Matt Wagner vinse il premio come migliore antologia, Miller spinse sul palco a ritirarlo una Diana Schutz terrorizzata.“Ero terrorizzata” ricorda Diana. “Però avevo in testa una cosuccia o due da dire al microfono. Ma quando sul palco Will mi consegnò il premio, si sporse verso di me baciandomi sulla guancia... be’, in quel momento la testa mi si è completa-mente svuotata! L’unica cosa che sono riuscita a dire al pubblico è stato ‘Oh, mio Dio, Will Eisner mi ha baciata!’. Giuro”.Nel giro di pochi mesi, quel bacio sbocciò in un rapporto professionale a tutto tondo. In quel periodo la Kitchen Sink Press aveva cessato le pubblicazioni e Denis Kitchen, in qualità di agente di Eisner, si stava occupando della vendita dei diritti dei suoi romanzi a fumetti e delle ristampe di Spirit. La DC comics non si lasciò sfuggire l’occasione e nella primavera del 2000 si aggiudicò l’intero catalogo.

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Con una eccezione: il romanzo che Eisner aveva appena completato, Racconti di guerra, non rientrava nel contratto. Il libro era pronto ma ancora inedito e Eisner voleva che uscisse per l’edizione di San Diego di quell’anno, in luglio. L’editoria a fumetti non è assolutamente in grado di lavorare a questa velocità: tutto si basa su una tempistica ferrea che regola la comunicazione delle nuove uscite ai negozianti e ai lettori attraverso Previews, la rivista del distributore Diamond. Un albo in uscita a luglio deve comparire sul numero di maggio di Previews. Un romanzo a fumetti dev’essere annunciato un mese prima.Incapace di soddisfare la richiesta di Eisner, la DC rinunciò al suo diritto di pre-lazione, permettendo a Kitchen & Hansen di offrirlo ad altri editori. La prima scelta fu la Dark Horse di Richardson, che non solo comunicò a Eisner che la sua casa editrice avrebbe pubblicato Racconti di guerra ma l’avrebbe anche promosso su Previews in tempo per San Diego, anche se la Dark Horse aveva già chiuso e spedito a Diamond le sue schede per quel mese.“Faremo l’impossibile” dichiarò Richardson.“Fu una follia” commentò in seguito Diana Schutz: “Fummo costretti a chiedere favori a tutti, in Diamond. Saltavo da una base dell’esercito all’altra per trovare le foto giuste da inframezzare alle storie. Questo consolidò il mio rapporto con Will, perché alla fine ci riuscimmo e il libro uscì a San Diego. Fu uno dei mag-giori vanti di Mike: pubblicare Will Eisner. Mentre io pensai che a quel punto potevo anche ritirarmi. Voglio dire, dopo essere stata l’editor di Will Eisner non è che potessi sperare di andare più in là!”.La Dark Horse proseguì pubblicando “The Will Eisner Collection”, un marchio simile al “The Will Eisner Library” della DC, comprendente la ristampa comple-ta della serie degli anni Trenta Hawks of the Sea, The Will Eisner Sketchbook, un lussuosissimo libro d’arte che raccoglie le tavole e i bozzetti a matita di Spirit e di numerosi romanzi a fumetti. Si è anche assicurata i diritti per ristampare Will Eisner’s The Spirit: The New Adventures della Kitchen Sink.

• • •Nel 2000 il Comic Book Legal Defense Fund organizzò una crociera per la rac-colta di fondi durante la quale i lettori e gli appassionati potessero frequentare e socializzare con alcuni dei maggiori autori di fumetti. Tra i partecipanti c’erano Neil Gaiman, Frank Miller, Neal Adams, Chris Ware, lo sceneggiatore Kurt Bu-siek e Will Eisner.In un momento di calma, Miller e Charles Brownstein del CBLDF ragionavano sul fatto che sarebbe stato interessante se Miller e Eisner si fossero incontrati per una discussione approfondita sulla storia e la filosofia del fumetto. Si concordò quindi che una discussione del genere doveva sicuramente diventare un libro ed

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essere messa a disposizione di cultori e appassionati. La cosa interessò molto Ei-sner, che disse che ci avrebbe pensato. Brownstein scrisse un invito formale, a cui Eisner rispose. La Dark Horse si impegnò a pubblicare il libro e il progetto sembrava bene avviato.“Ci accordammo tutti per il settembre 2000” ricorda Brownstein. “Ma a quel punto per Frank cominciarono un sacco di problemi e scomparve letteralmente per un bel po’ di tempo. Insieme a Will, speravamo di chiuderlo entro il 2001 ma Frank si eclissò per tutto l’anno, lavorando a The Dark Knight Strikes Again”.Miller finì la serie nel 2002, e Eisner scalpitava impaziente: “Sono in lotta contro il tempo e posso solo perdere” si lamentava con Brownstein.Su richiesta di Eisner, i tre programmarono l’incontro per il primo periodo utile per tutti, un fine settimana del maggio 2002. Ma con ogni probabilità, col senno di poi, fu un errore.“Frank era mentalmente esaurito e Will, diciamo, non aveva fatto i compiti” ricorda Brownstein. “Concordammo di parlare di fumetto contrapponendo un romanzo di Frank (Sin City) e uno di Will (Contratto con Dio) e chiaramente Will non aveva letto il libro di Frank. Il risultato fu assai inferiore alle aspettative: io e Frank speravamo in una discussione nello stile di Alfred Hitchcock/François Truffaut. Will invece era estremamente contrariato e cominciò insultando il lavo-ro di Frank. Disse che al suo lettore interessava solo la vendetta, mentre il lettore tipo di Will, secondo lui, era più interessato ‘all’istituto famigliare’. ‘Il tuo lettore non ha il tempo di pensare a cose del genere’ gli diceva Will. Fu come agitare un drappo rosso davanti al toro”.Questo è un estratto della conversazione che seguì:

EISNER: Su questo non ti seguo, perché tu sei molto più aggiornato su quello che succede. Io sono sempre occupato dalle mie “inchieste”, a raccontare storie del passato...

MILLER: Anch’io racconto storie, Will.

EISNER: Sì, lo so, lo so. [Miller ride] Ma quello che voglio dire è che tu sei sintonizzato col grande pubblico. Io parlo del passato.

MILLER: Probabilmente nelle mie storie ci infilo più scene di vita di strada. Osservo quello che succede, un po’ di tutto, un po’ dappertutto. Non so... Penso che vi siano delle domande chiave che tutti noi ci ritro-viamo ad affrontare in merito a quali siano le nostre intenzioni.

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EISNER: Be’, io per esempio parlo alla gente dell’istituto famigliare. A te non interessa, non ne hai il tempo, perché le persone a cui parli tu non hanno questo problema. Sei immerso nella grande comunicazione, ti piace e ne sei consapevole. In Contratto con Dio io parlo del rapporto dell’uomo con Dio. A quelli che leggono le tue cose non gliene frega niente del rapporto dell’uomo con Dio. Vogliono sapere perché Marvin ammazza o non ammazza quel figlio di puttana o chiunque sia quel tipo che vogliono far fuori o che vogliono pestare. Parliamo a persone diverse. E tu lo sai bene.

MILLER: Ehi, questo discorso è un po’ ingiusto. Anch’io parlo di cose diverse, non è solo ruffianeria. Solo che le mie storie sono più teatrali di quelle che tu racconti adesso. Non mi imbarcherò in una lunga difesa della complessità del mio lavoro, ma le mie storie non si esauriscono in gente che ammazza altra gente.

“Da quel momento, fu tutto in discesa” ricorda Brownstein. “Il confronto tra Will e Frank fu estremamente polemico e, molto francamente, quel fine settima-na nessuno dei due era al massimo della forma. Will era irritato con Frank perché organizzare tutto aveva preso più del previsto. E Frank aveva letteralmente finito DK2 poche ore prima, ed era esausto. Tutto questo portò a uno scambio di idee quasi ostile”.Persino Denis Kitchen riconosce che non si trattò di uno dei momenti migliori del suo vecchio amico: “Will non dimostrò alcun rispetto per Frank. Non si era documentato: se avesse letto Sin City avrebbe capito che era molto diverso da quello che faceva Todd MacFarlane (Spawn). Frank fa quello che fa Will: pensa molto, moltissimo alla vignetta, alla griglia della pagina. È un autore estrema-mente rigoroso e Will non gliel’ha riconosciuto”.Eisner, un eccezionale giudice della natura umana, riconobbe immediatamente il suo faux pas.“L’esito naturale di una conversazione tra due tipi come noi è un confronto tra i nostri lavori e i rispettivi lettori” aggiunge diplomaticamente. “Io ero convinto che a quelli di Frank interessasse solo vedere Marvin, il personaggio principale, suonarle a più non posso al cattivone di turno. Frank trovò che fosse una valutazione troppo superficiale e si arrabbiò. In seguito, ho ammorbidito molto il mio giudizio”.Oltre a trascrivere la conversazione (pubblicata nel 2005), il ruolo di Brownstein durante il fine settimana fu quello di mediare tra i due grandi artisti, ponendo domande in grado di provocarli e riportandoli in argomento quando tendevano a divagare. Per Brownstein, che da anni conosceva i due, fu un’esperienza illumi-

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nante: “Da quei giorni ho imparato che esistono due Will. C’è il Will l’Astuto e Will il Sognatore. Il sognatore è il fondatore amorevole e paterno del nostro settore editoriale, a cui dobbiamo i grandi successi del fumetto come linguaggio e del romanzo a fumetti, e che per tutta la sua carriera ha sempre pensato che fosse importante occuparsene.Poi c’è l’altro Will, l’uomo d’affari. Will adora gli affari, ci si crogiola. Ed è astuto, e li sa fare. Non permette che questo suo lato venga fuori spesso e non parla del ruolo che questo aspetto ha avuto nella sua carriera. Una delle cose che ha fru-strato di più sia me che Frank è che avremmo voluto occuparci di più dell’aspetto editoriale e commerciale del fumetto, ma Will era più interessato a parlarne come forma espressiva, e a discutere i suoi contributi da questo punto di vista, e come altri siano partiti da lì. Stiamo parlando di un tipo che a vent’anni o giù di lì è stato abbastanza scaltro da tenersi stretti i diritti di Spirit, che non sarebbe mai diventato il fumetto che è diventato se non fosse rimasto in mano a Will. È una persona che ha venduto fumetti all’Esercito e alla General Motors. È un suo aspetto che ammiriamo ma che non conosciamo, qualcosa che quel fine settima-na ha fatto capolino ma che Will non ha voluto approfondire”.Seduti intorno alla piscina di Eisner nella sua casa in Florida, col registratore ac-

Da sinistra a destra: Art Spiegelman, Will Eisner, Scott McCloud e Neil Gaiman a una convention di Chicago.

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ceso, Brownstein e Miller cercarono di blandire Will inducendolo a scoprirsi un po’: “Diana Schutz dice sempre che dovrei aprirmi di più..”.“Non hai nulla da nascondere, Will” lo incoraggiava Ann.Ma non è così che Eisner conduceva il gioco. Alle convention, durante le inter-viste o alle feste era in grado di parlare per ore dell’importanza del disegno, della storia, della gabbia, della pagina e di cogliere l’umanità dei personaggi attraverso le parole e le immagini. Ma quando si trattava degli aspetti non creativi del la-voro, non riusciva a capire perché qualcuno li trovasse interessanti. Paradossal-mente, era proprio questo aspetto imprenditoriale che gli veniva più naturale e spontaneo, piuttosto che la fatica della creazione, ma come argomento di conver-sazione non poteva importargliene di meno.“Ma sarebbe giusto saperne di più” commenta Brownstein. “Semplicemente, Will è troppo importante”.

• • •Alla fine del 2004 la casa editrice W. W. Norton ha acquistato dalla DC i diritti della Will Eisner Library: un colpo non da poco per Eisner e i suoi agenti, Denis Kitchen e Judith Hansen, convinti da tempo di come un grande editore gene-ralista potesse riuscire a portare le opere di Will a un nuovo pubblico adulto, irraggiungibile da un editore di fumetti.Gli ultimi libri di Eisner – a suo tempo relegato in quello che chiamava “il ghetto dei fumetti” – gli fruttarono il rispetto e il prestigio a cui aveva aspirato per tutta la vita. Per esempio, era orgoglioso del fatto che i suoi lavori venissero acquistati da grandi editori come Doubleday (Fagin the Jew) e W. W. Norton (Il complotto).Diceva: “È una forma di affermazione. Sono arrivato anch’io ‘in cima alla collina’, dove ho sempre pensato di dovere arrivare. So che può sembrare egotistico, sono cose che di solito non si dicono. Ma il pubblico per cui scrivo è il loro pubblico, non scrivo più per il diciottenne che legge supereroi. È come dire che sono stato accettato al cospetto dell’aristocrazia culturale”.W. W. Norton pubblica molti dei maggiori scrittori americani, tra cui Faulkner, e. e. cummings, Arthur Schlesinger, Henry Roth, David Mamet, nonché l’italiano Primo Levi.“Trovo che Will appartenga a questo gruppo di autori” dichiara Robert Weil, l’editor della Norton che ha acquistato Il complotto. “Lavorare con Will per noi è stato un grande onore”.

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ventidueLe straordinarie avventure di Kavalier e Eisner

Michael Chabon sapeva che una delle cose più difficili al mondo è scrivere una lettera con cui si domanda un favore a un proprio eroe personale. Nel

caso della lettera che scrisse a Eisner, il giovane romanziere in ascesa affidò la con-segna a un intermediario, dopo avere scelto le parole e organizzato la sua prosa con attenzione persino maggiore del solito.

10 ottobre 1995Gentile Mr. Eisner,la prego di perdonare l’intrusione nella sua privacy e il tempo che questo le costerà, soprattutto perché le scrivo nella speranza di ottenere da lei un altro po’ di entrambi. Sono l’autore dei romanzi The Mysteries of Pittsburgh (Morrow, 1988) e Wonder Boys (Villard, 1995) e del-la raccolta di racconti A Model World (Morrow, 1991). La maggior parte delle mie cose sono state pubblicate su The New Yorker nel corso degli ultimi otto anni. Mi permetto di esibire in questo modo le mie cre-denziali non certo nel tentativo di fare colpo su di lei ma semplicemente per chiarire che, almeno sulla carta, sono mosso da intenzioni serie e che con la presente sto cercando di parlarle, se posso prendermi la libertà di considerarmi tale, da artista ad artista.Sono un suo grande ammiratore e appassionato sin dall’età di 11 anni, quando mi capitò di imbattermi in The Great Comic Book Heroes di Jules Feiffer, nella biblioteca pubblica della mia città. Come eviden-ziato dal titolo del mio primo libro, il mio lavoro si ricollega secondo strade misteriose alla città di Pittsburgh, e una delle proprietà di cui sono più orgoglioso è una copia originale dell’inserto di Spirit allegato al Pittsburgh Post-Gazette del 17 aprile 1949.Ma, venendo al punto di questa lettera, senza ulteriori vanterie o adu-

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lazioni: ho iniziato di recente a lavorare al mio terzo romanzo, dal titolo provvisorio di The Golden Age. È ambientato a New York im-mediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale e racconta le avven-ture di una coppia di autori di fumetti immaginari e delle loro creature in costume doppiamente immaginarie. Possiedo un buon numero di volumi – di taglio storico ed enciclopedie – da cui ricavare fatti, eventi e una cronologia generale di quel periodo nella storia del fumetto, oltre a ottimi libri sulla New York del periodo. Ma quando si tratta di det-tagli, di particolari – di cosa si provava a vivere allora, a lavorare in quella città perduta, in quello strano ambiente – posso solo affidarmi all’immaginazione. E proprio non vorrei rischiare di sbagliare tutto.Il che mi porta a quanto segue: sarei felice di poterle parlare, di scam-biare lettere, come minimo di poterle porre alcune domande sui suoi ricordi di quel periodo, di quei luoghi e di quella sua attività. Voglio cercare di capire l’aspetto commerciale e produttivo del fumetto di allo-ra; voglio sapere dove voi autori abitavate, cosa mangiavate, se prende-vate la metropolitana, quale musica ascoltavate, e così via.Certo potrei inventarmi tutto, ma sono convinto che il libro, con tutti i suoi eventuali voli pindarici, colpirà il bersaglio solo nella misura in cui si radicherà nell’effettiva natura delle cose di allora.Mr. (Marv) Wolfman è stato estremamente protettivo nei confronti del-la sua privacy e non conosco neppure la destinazione finale di questa mia lettera ma se lei risiede negli Stati Uniti continentali e per qualche remotissima eventualità è disposto a incontrarmi, sarò felice di raggiun-gerla ovunque, in qualsiasi momento a tale scopo. Se preferirà limitare i contatti alla posta, le sarò ovviamente più che grato di questo. So di chiederle molto e capirò benissimo la sua eventuale mancanza di interesse, nel caso decidesse di non perdere tempo per me e questo mio progetto.In ogni caso, anche se non dovessi risentirla, le sono grato per la semplice occasione avuta di dirle, ancora una volta, quante ore e anni di gioia mi abbia regalato la lettura e la contemplazione delle sue incredibili storie.Grazie

Cordialmente,Michael Chabon

“All’epoca avevo pochissimi contatti e possibilità nel mondo del fumetto” spiega Chabon, autore del romanzo partito col titolo di The Golden Age ma pubblicato e

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aggiudicatosi il Premio Pulitzer 2001 per la narrativa con quello di Le straordina-rie avventure di Kavalier e Clay.Quando Chabon iniziò a cercare Eisner, il suo Wonder Boys era già uscito ed era stato accolto bene ma non era ancora diventato un film con Michael Douglas e il futuro Uomo Ragno, Tobey Maguire, e il suo autore non era particolarmente noto al di fuori di alcuni ambienti letterari alla moda.“All’inizio della lettera, cercavo di convincerlo che non ero il primo Mister Smith che passava di lì. Era molto probabile che pensasse ‘Non so di cosa stia parlando, ma comunque no, grazie’, e non mi sarei stupito più di tanto. E questo lo pensavo anche di Stan Lee e Gil Kane ma, al contrario, tutti e tre furono estremamente disponibili. Gil Kane parlò con me per tre ore e Stan mi concesse un’ora al tele-fono. Era troppo occupato per un incontro di persona ma fu egualmente molto espansivo. Mi aspettavo di essere liquidato così, su due piedi, e invece dissero di sì tutti e tre”.Se cominciasse a scrivere il suo libro oggi, Chabon sarebbe in grado di parlare praticamente con chiunque per raccogliere la documentazione necessaria, ma nel 1995 era totalmente al di fuori dell’editoria a fumetti: era semplicemente un ra-gazzo cresciuto leggendo e amando i fumetti.“Non conoscevo nessuno” disse Chabon “se non un paio di persone che ne co-noscevano delle altre, inoltre avevo un amico, Cy Voris, che faceva lo sceneggia-tore cinematografico, e conosceva Marv Wolfman. Così, il mio amico chiese a Wolfman: ‘Conosci dei vecchi leoni che potrebbero fare quattro chiacchiere con un tipo che ha avuto questa idea stupidissima per un romanzo?’ e lui: ‘Be’, sì, conosco Will Eisner.’”.Eisner rispose a Chabon per posta, comunicandogli di avere in programma un viaggio a Oakland, dove sarebbe stato ospite d’onore alla convention annuale Wondercon. Sarebbe stato un piacere concedere un’ora del suo tempo al giovane scrittore, e qualsiasi altra cosa potesse essergli utile.Per Eisner, era solo un’altra intervista nel corso di una vita intera di risposte a domande sul suo lavoro e la sua carriera, nonché una delle migliaia di volte in cui avrebbe anteposto la carriera di qualcun altro alla sua. Così, con Ann al suo fianco, trascorse un’ora rispondendo a tutte le domande di Chabon.“Riempii numerose pagine del mio blocco di appunti” ricorda Chabon. “Per me si trattava di un incontro cruciale: non solo ero elettrizzato all’idea di incontrarmi e di parlare col grande Will Eisner, ma alla fine mi aiutò molto a consolidare certe mie idee che prima, probabilmente, erano molto deboli”.Ogni tanto Will chiedeva conferma ad Ann, oppure lei, di sua iniziativa, amplia-va cose dette dal marito. Uno dei dettagli più oscuri delle ricerche di Chabon fu uno schema su cui annotò tutti i codici delle aree telefoniche di Manhattan e di

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Brooklyn in cui si imbatteva. “Ogni volta che ne scoprivo uno, me lo segnavo. A volte era semplicemente una sigla, un’abbreviazione, come AL-6, per esempio in annunci o pubblicità sui giornali. Ma restavano un sacco di vuoti, così mi misi a ragionarci su insieme a Will e Ann, che buttavano lì tutti i codici che riuscivano a ricordare. Si guardavano in faccia e poi dicevano: ‘Sì, questo era Gramercy, o Butterfield’. Lei ne ricordava un sacco.Ci furono poi molte altre domande, la maggior parte delle quali non avevano a che fare con l’editoria a fumetti. Che tipo di musica ascoltava Eisner? L’ascoltava alla radio o dai dischi? Ascoltava musica mentre lavorava? Fumava? E se sì, quale marca?Anche gli altri dello studio fumavano al lavoro? Se la stanza diventava molto fu-mosa, apriva la finestra? Dove pranzavano? Al banco, in un ristorante o si faceva-no portare qualcosa in studio? Perché secondo lui talmente tanti dei primi autori erano ebrei? C’era qualcosa di specificamente ebraico nel fumetto?“Mi interessavano i particolari, i dettagli, non semplicemente del lavoro in sé, an-che se certamente mi servivano anche quelli, ma anche i dettagli della vita di tutti i giorni” ricorda Chabon. “Ricordo il momento fantastico in cui ha evocato l’idea del Golem, il Golem di Praga, in particolare, più o meno citandolo come esem-pio del tipo di figura tradizionale che poteva forse trovarsi sepolta in profondità in ciò che poi portò alla creazione dei supereroi, e di Superman in particolare. E quando citò il Golem, avevo appena cominciato a scriverne nel mio libro. Bingo! Sentirglielo menzionare... citarlo in quel modo! Poi proseguì dicendo questa cosa meravigliosa che scrissi subito, e che diventò l’epigrafe dell’intero romanzo: ‘Ab-biamo questa storia di soluzioni impossibili per problemi insolubili’. Volevo che il libro parlasse esattamente di questo. Per me fu un momento rivelatore”.L’atteggiamento di Eisner nei confronti dell’interrogatorio di Chabon fu di so-stanziale tolleranza. “Fu sempre signorile, gentile e cordiale” ricorda Chabon. “Sinceramente, non saprei dire se abbia espresso una qualche forma di scettici-smo, del tipo ‘Cos’è quest’assurdità che vuoi mettere insieme?’ o se sia stata solo una mia impressione, qualche vibrazione captata sul momento”.Chabon non si sbagliava. A un certo punto dell’intervista, mentre Chabon abbas-sava gli occhi verso il taccuino, gli sfuggì Eisner che bisbigliava discretamente la parola “fanboy” all’orecchio di Ann.Quello fu l’unico incontro tra i due prima della pubblicazione di Kavalier e Clay, ma la sua importanza è evidente non solo dalle precedenti dichiarazioni di Cha-bon, ma dalle sue note in appendice al romanzo, che iniziano con le parole “La mia riconoscenza a Will Eisner”. e dopo Eisner seguono tutti gli altri (Chabon ha poi dichiarato che i ringraziamenti erano in ordine alfabetico, ma dopo Eisner troviamo Stan Lee, poi Gil Kane).“Mi premurai che ne ricevesse una copia” ricorda Chabon. “Poi, se ricordo bene,

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non sentii nulla da lui. Credo che la copia che avevo chiesto non gli fosse stata effettivamente spedita, perciò non ero certo che l’avesse ricevuta. Poi, una persona che conosco e che lo conosceva mi disse ‘Oh, sì. L’ha ricevuto, e l’ha letto. Gli è piaciuto molto, era tutto elettrizzato’”.Il desiderio di Chabon di intervistare Eisner sgorgava da una fortissima aspira-zione alla precisione storica. E c’è una grossa differenza tra una serie di resoconti e una storia orale. “Il mio sogno era che qualcuno vivo in quei giorni e che ri-cordava la New York di quel periodo dicesse ‘Non ci sono grossi errori’” ricorda Chabon. “Poi, in secondo luogo, anche che qualcuno che avesse lavorato effet-tivamente nell’editoria a fumetti verificasse che non avevo frainteso troppe cose. Perciò, anche solo avere la sua approvazione sui semplici fatti, quello fu davvero il massimo che potessi sperare”.Molti hanno riconosciuto aspetti di Will Eisner nel personaggio di Joe Kavalier, anche se certamente l’autore di Spirit non era in alcun modo un’anima in pena quanto il co-autore dell’Escapista.Ma solo in due punti nel corso del romanzo Chabon riconosce effettivamente che la sua arte imitava la vita, o almeno imitava Eisner.“Quando incontrai Will avevo appena cominciato e quando fu il momento di capire quale sarebbe stato l’atteggiamento di Joe verso gli albi a fumetti, e verso i suoi lavori come disegnatore, decisi consapevolmente di conferirgli quello che immaginavo potesse avere Will, e l’impressione fu confermata quando lessi un ar-ticolo del 1941 sul Philadelphia Record (“The ‘Spirit’ of ‘41”, di Norman Abbott). Quell’articolo testimonia chiaramente la sua convinzione – sorprendentemente precoce – che i fumetti costituissero una forma di arte, o che lo potessero diven-tare, almeno potenzialmente. Fu quella l’idea che decisi di dare a Joe Kavalier.Più avanti nel libro, poi, molto più avanti, quando venne il momento di descri-vere il colossale fumetto di duemila pagine che Joe aveva disegnato sul Golem, c’è una specie di prestito assolutamente consapevole dai lavori di Will nel modo in cui spiego come ciascun capitolo di questo colossale romanzo a fumetti si apre con una ‘splash page’ in cui le parole ‘Der Golem’ si trasformano in ogni sorta di oggetti. Un riferimento assolutamente trasparente al classico espediente di Eisner con i titoli delle storie”.Prima che Chabon si rivedesse con Eisner trascorse un altro paio d’anni. Ma quando si ritrovarono, al Comic-Con di San Diego del 2000, il termine “fanboy” non circolò più sottovoce.“Will fu calorosissimo e affettuoso, riempiendomi di pacche sulle spalle e chia-mandomi ‘ragazzo mio’” ricorda Chabon. “Si comportava come se non pensasse di meritare l’omaggio che gli avevo tributato dedicandogli l’epigrafe del romanzo, e così via. Gli dissi che Herb Trimbe, per tanti anni uno dei classici disegnatori

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di Hulk, mi aveva spedito un fantastico rifacimento della copertina di Amazing Midget Radio Comics #1 spacciandola per un acquisto in un mercatino! Will fece quella sua buffa espressione e mi disse, ‘Mi sento in colpa, avrei dovuto fare qual-cosa per te. Non ti ho mai detto quanto mi è piaciuto il libro. Dovevo mandarti qualcosa’. Dopo qualche settimana ricevo questo adorabile disegno di Spirit se-duto con gli occhiali sul naso e davanti Kavalier e Clay. La didascalia dice ‘Gra-zie, Michael, allora era davvero così’. Una cosa meravigliosa: l’ho incorniciata e appesa in ufficio”.

Will Eisner e Michael Chabon al Comic-Con International di San Diego.

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ventitreI Premi Eisner

Will Eisner ricevette la notizia della nomination con sentimenti ambivalenti. Ricevere l’apprezzamento di amici e colleghi è una cosa, ma come vi sen-

tireste ritrovandovi in corsa per la massima onorificenza del settore... se portasse il vostro nome?Era questo il dilemma di Eisner nel 2002. Di nuovo. Alla tenera età di 85 anni, nel quattordicesimo anno di assegnazione degli Eisner Award, una giuria indi-pendente di esperti aveva incluso per la decima volta Eisner tra le nomination al suo stesso premio.La cronaca dimostra come nel caso di Eisner queste nomination non siano sem-plicemente un omaggio al grande vecchio del fumetto: nel 2002 Eisner vinse in quattro categorie su nove. La sua influenza sull’intera editoria a fumetti non solo era rimasta inalterata nel corso di una carriera di oltre sessant’anni, ma a partire dal 1978 era in realtà aumentata.

• • •Uno degli eventi cruciali che portarono il nome di Eisner alla ribalta nell’indu-stria del fumetto e all’attenzione di una nuova generazione di disegnatori e di lettori, fu la decisione nel 1988 di intitolare a lui uno dei due principali premi di settore: i Will Eisner Awards. Quest’onore mise leggermente a disagio Eisner ma lo tranquillizzava sapere che l’altro grande premio, gli Harvey, era intitolato al suo vecchio amico.Nel 1985, esisteva un solo premio, il Kirby Award, intitolato a Jack Kirby, il “Re” dei comic book. Dagli inizi nello studio Eisner & Iger, Kirby aveva raggiunto i massimi risultati nella sua professione come co-creatore dei personaggi Marvel, come Capitan America, i Fantastici Quattro, Hulk e Silver Surfer, oltre che idean-do numerosi altri personaggi per la DC, come Kamandi e i Nuovi Dei.I Kirby Award furono istituiti dalla casa editrice di Gary Groth, la Fantagraphics

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Books e venivano gestiti dal redatto-re Dave Olbrich. Nel 1987 Olbrich ruppe con la casa editrice e ne uscì portando con sé i premi. La Fanta-graphics si oppose con forza e ne se-guì uno scontro feroce, nonché una buona dose di pessima pubblicità per ambo le parti, coinvolgendo lo stesso Kirby, all’epoca ancora in vita. Insie-me alla moglie Roz, era molto legato a Olbrich, ma capiva la posizione del-la Fantagraphics. Stando a Eisner, alla fine la loro posizione fu “Non voglia-mo dovere scegliere, quindi lasciamo perdere tutta la faccenda”.Fu allora che Olbrich si presentò ad Eisner.“Ascolti” gli disse, “Abbiamo già orga-nizzato tutta la procedura per i premi e per motivi diplomatici Jack non vuole più che portino il suo nome. Potrem-mo intitolarli a lei?”.Eisner non dovette pensarci a lungo e rispose di sì senza alcuna esitazione.“Un premio autorevole eleva gli standard dell’intero settore” era la sua opinione. “Sono felice di essere coinvolto”.Nel frattempo, la Fantagraphics si rivolse a Harvey Kurtzman, chiedendogli la stessa cosa: “Possiamo dare il tuo nome ai premi?”.Sotto molti aspetti la carriera di Kurtzman era simile a quella di Eisner: attraver-sava numerosi decenni e comprendeva un periodo di lavoro per gli EC Comics, la creazione della rivista MAD, poi Trump per Hugh Hefner, quello di Playboy, nonché Humbug, un progetto indipendente. Per Jim Warren creò Help!, un’al-tra pietra miliare delle riviste. Nella rubrica “Public Gallery” esordì una nuova generazione di cartoonist underground come Jay Lynch, Robert Crumb, Skip Williamson e Gilbert Shelton. In quel periodo, in collaborazione col disegnatore Will Elder, Kurtzman creò Goodman Beaver, che in seguito diventò Little Annie Fanny, uno dei pilastri di Playboy, di cui Kurtzman scriveva i testi e abbozzava a matita le tavole. Kurtzman accettò l’offerta della Fantagraphics e fu così che gli Eisner e gli Harvey nacquero in contemporanea.Il sistema degli Harvey adottò “i Kirby” come un premio a parte nel proprio am-bito e, per molti anni è stato attribuito il Jack Kirby Hall of Fame, che all’inizio

Il numero di maggio/giugno 1999 di The Cartoon!st annuncia l’assegnazione a Will Eisner dell’ambito

Reuben Award.

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venne vinto dallo stesso Eisner (questo premio non viene attribuito ormai da diversi anni).Contemporaneamente, gli Eisner “sposarono” la convention annuale di San Die-go, il Comic-Con International.“Nel 1990 Olbrich lasciò la gestione dei premi, che quell’anno non vennero asse-gnati” ricorda l’amministratrice dei premi Jackie Estrada. “Il problema stava nella procedura delle nomination e nel fatto che Dave cercava di gestire i premi nel tempo libero. Alla San Diego del 1990 Denis Kitchen e Will Eisner parlarono con me e col direttore esecutivo del festival Fae Desmond sulla possibilità di subentrare nella gestione dei premi. Secondo loro sarebbe stata una buona accoppiata, vista la natura non-profit del Comic-Con; inoltre prima i Kirby, poi i nuovi Eisner erano stati assegnati a San Diego, anche se durante la giornata e nelle sale incontri, senza una procedura particolare. Will mi chiese espressamente di occuparmi di persona della loro amministrazione e ho subito cambiato le procedure, dalle votazioni palesi – usate dagli Harvey – alla giuria di esperti. È questa la differenza principale nella selezione dei candidati, oltre ai diversi criteri di scelta delle categorie.Col tempo, ho trasformato gli Award in una serata di gala, introducendo tutta una serie di elementi, tra cui uno slide show interattivo, un discorso di apertura e così via. Gli Eisner di oggi assomigliano molto poco a quelli di Olbrich”.Per molte ragioni gli Eisner e gli Harvey si sono intrecciati a lungo, nel tempo. Per esempio, Eisner ha vinto premi di entrambi i tipi. Nel 2001 ricevette com-plessivamente, quattro nomination, due per ciascun premio: due per un lavoro nuovo, Racconti di guerra, e due per il primo volume di The Spirit Archives, che ristampava lavori del 1940. Eisner perse entrambi gli Eisner ma vinse entrambi gli Harvey. “Con tanti saluti ai premi truccati!” scoppiò a ridere Eisner.Quell’anno, gli Harvey venivano assegnati a Pittsburgh e in assenza di Eisner, al suo posto li ritirò Denis Kitchen: “Accetto il premio a nome di Will Eisner che, ne sono certo, sarà felice di ricevere un premio che porta il nome del suo grande amico Harvey Kurtzman. Non è sorprendente che Will abbia vinto due premi per lavori...” e qui Kitchen fece una pausa “...creati a 60 anni di distanza?”.

• • •Nel 1996 il libro di Howard Cruse Figlio di un preservativo bucato (“Stuck Rubber Baby”, ed. Paradox Press/DC) vinse un Eisner come miglior nuovo romanzo a fumetti sconfiggendo lo stesso Eisner, il cui nuovo libro Dropsie Avenue era stato nominato nella stessa categoria.“Sul podio ero agitatissimo” ricorda Cruse. “Feci una battuta su come fosse strano battere Eisner agli Eisner. Poi avrei dovuto dire qualcosa in onore di Will ma me ne dimenticai completamente”.

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• • •Al Feldstein è noto soprattutto per i suoi lavori come sceneggiatore e disegnatore per gli EC Comics e la rivista MAD, di cui è stato editor per quasi trent’anni. Ancora adolescente, aveva cominciato a lavorare nello studio Eisner & Iger, poco prima di essere arruolato e poco dopo la fuoriuscita dello stesso Eisner. “Persino allora, era già un mito, una leggenda” ricorda Feldstein.L’ombra gettata dal fondatore dello studio non fece che allungarsi, grazie a uno dei tratti caratteriali più inamovibili di Jerry Iger: “L’unico motivo per cui conti-nuavano a chiamarsi ‘Eisner & Iger’ è che Jerry era troppo tirchio per buttare tut-te le pagine di Strathmore già intestate, perciò lavoravamo tutti su tavole ‘Eisner & Iger’”. ricorda Feldstein.Più o meno 35 anni dopo, nel 1977, con sua grande sorpresa, al Comic-Con di San Diego Feldstein ricevette un Inkpot Award e poco prima, quella sera, Eisner aveva raccontato in pubblico il celebre episodio della tirchieria del socio in fatto di asciugamani. Quando vennero annunciati i premi di quell’anno, Feldstein salì sul palco, esterrefatto: non sapeva che dire e presto fu chiaro perché.“Devo la mia carriera a Will Eisner. Non ero abbastanza in gamba da trovare un lavoro come disegnatore così allo studio Eisner & Iger mi presero per cancellare le ditate dalla pagine finite. Perciò, il motivo per cui mi diedero da lavorare, a 3 dollari alla settimana, dopo la scuola, era che non c’erano gli asciugamani per pulirsi le dita: Jerry voleva risparmiare”.Nel 2003 Feldstein e Eisner si ritrovarono a San Diego, dove Feldstein venne eletto nella Will Eisner Hall of Fame.“Will” disse nel discorso d’accettazione, “ho chiuso il cerchio. Ho cominciato nel tuo studio e adesso sono nella tua Hall of Fame”.

• • •Al San Diego Comic-Con del 2002 la richiesta a Eisner di disponibilità fu asso-lutamente eccezionale: a 85 anni compiuti, il suo programma era intensissimo.“Ogni anno mi mandava una bozza di programma, che confrontavamo col mio” ricorda Denis Kitchen. “Ci sono sempre certe riunioni a cui andiamo insieme, perciò cerchiamo sempre buchi nelle rispettive giornate per questioni di lavoro, buchi che, avvicinandosi al festival, diventano sempre più radi”.Kitchen aveva individuato due ore libere nel programma di Eisner proprio prima della cerimonia degli Eisner Award.“È proprio prima della premiazione, immagino che non vorrai impegni” gli chiese.“Be’, perché no?” rispose Eisner.“Non preferiresti riposare? Un po’ di tempo per...”

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Per Eisner non voleva dire granché, solo un altro impegno in programma.“La sua scaletta avrebbe steso un quarantenne” ricorda Kitchen. “Alla fine, quell’anno mi confessò per la prima volta che l’anno successivo sarebbe stato meglio ridurre gli impegni. Stava finalmente arrivando al limite, ma non disse di no a nessuno”.Eisner prendeva appuntamenti fin dal mattino a colazione, con editori e ammi-ratori, fino alle cene e alle feste in tarda serata con gli amici autori. In mezzo, conferenze, incontri con lettori e negozianti, sessioni di autografi.I giovani volevano conoscere l’autore di John Law, il personaggio di Will Eisner riportato in vita da Gary Chaloner proprio quell’anno, dopo 54 anni a prendere polvere sugli scaffali.L’organizzatore di un festival di fumetti lo invitò come ospite nel 2003 ma a causa di un impegno precedente Eisner declinò, promettendo però di esserci nel 2004, quando avrebbe avuto 87 anni.E naturalmente non poteva mancare alla cerimonia annuale per l’assegnazione dei Will Eisner Comic Industry Awards, la sera di venerdì 2 agosto 2002.Per gli autori e i professionisti dell’editoria a fumetti la massima onorificenza consiste in un Eisner o in un Harvey Award. Kurtzman, scopritore di talenti così diversi tra loro come Robert Crumb e Gloria Steinem, era scomparso nel 1993, lasciando il solo Eisner a resistere, “sul fronte”.In piedi.Ogni anno in cui gli Eisner Award erano stati assegnati (tranne il 1990, quindi), fino al 2004 compreso, ogni premiato ha sempre ricevuto il riconoscimento per-sonalmente dalle sue mani.Nel 2000 sul palco fece la sua comparsa una grossa poltrona rossa.“Mi aveva chiamato Jeff Smith” ricorda Jackie Estrada “suggerendo di trovare il modo di permettere a Will di sedersi durante la cerimonia, almeno ogni tanto. Prima dell’inizio del festival, mi misi d’accordo con un operaio del Comic-Con che lavorava anche con l’Opera di San Diego perché prendesse in prestito questa specie di trono da una delle sale di rappresentanza. All’inizio della cerimonia degli Eisner, Jeff e Kurt Busiek lo portarono sul palco, con gran divertimento di tutti”.Eisner ci si sedette sopra, si fece una risata, ma poi tornò ad alzarsi, restando in piedi per tutto il resto della serata. Fu una vera dimostrazione di carattere e di energia fisica: restò sul palco per tutto il tempo della presentazione, stringendo mani e congratulandosi personalmente con i vincitori. Ciascuno dei presentatori assegnò tre premi ma nessuno restò in piedi quanto Eisner.“Sapete” disse nel suo discorso d’accettazione nel 2002 Michael J. Straczynski, sceneggiatore di Amazing Spider-Man, “se vinci un Emmy non te lo consegna ‘Emmy’. Se vinci un Oscar non te lo consegna ‘Oscar’. Non è una figata?!”.

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“Will era una specie di capo di stato anziano per tutti noi” ricorda Maggie Thom-pson, editor del Comics Buyer’s Guide. “Non conosco nessun altro caso in cui il premio più prestigioso in un certo settore viene intitolato a un vivente. Nel fumetto, siamo stati abbastanza svegli da accorgerci quanto questo fosse un rico-noscimento ampiamente meritato”.La Thompson notò che per quanto ammiratori e colleghi tendessero a mettere Will sul piedistallo più altro, per riportarlo a terra bastava un’occhiata storta della moglie.“Dovunque andasse, riceveva normalmente applausi a scena aperta ma durante gli Eisner c’era sempre anche Ann, seduta in prima fila con quella sua espressione che voleva dire ‘Andiamo, è solo Will’. Erano una coppia affascinante e non so se senza di lei lui ce l’avrebbe mai fatta. La forza e l’aiuto che ne ha sempre ricevuto – per quanto sardonico, disincantato – credo che siano stati importanti per tutti noi”.

“Era in tutto e per tutto un artista per artisti” afferma Neil Gaiman. “Per questo siamo così orgogliosi di riceve-re un premio intitolato a Will”.Quell’anno, oltre al premio per il mi-glior romanzo a fumetti, Eisner fu gratificato anche da altri riconosci-menti. L’amico Art Spiegelman – che il mese precedente (3 giugno 2002) aveva tenuto un discorso al Plaza Ho-tel di Manhattan, presentando Eisner in qualità di vincitore del premio alla carriera assegnato dalla National Foundation for Jewish Culture – aveva ricevuto tre nomination. Il suo ex stu-dente alla School of Visual Arts, Bat-ton Lash, fu premiato per la miglior pubblicazione umoristica (Radioactive Man). Jon B. Cooke, sceneggiatore del

documentario del fratello Andrew D. Cooke sulla vita di Eisner (Will Eisner: The Spirit of an Artistic Pioneer) vinse un Eisner per il miglior periodico di informa-zione sul fumetto (Comic Book Artist). Infine, il suo caro amico Max Allan Collins presentò la serata, cavalcando la popolarità dell’adattamento cinematografico del suo romanzo a fumetti Road to Perdition (“Era mio padre”).I circa trecento invitati, il gotha dell’editoria a fumetti (presentatori, ospiti e sponsor dei premi), sedevano a una trentina di grossi tavoli vicino al palco, con alle loro spalle circa 1200 appassionati di fumetti, la folla più grande nella storia

Jack Davis, lo storico autore di MAD premiato con un Eisner Award, considera un onore ricevere un riconoscimento che porta il nome dell’amico Wil.

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degli Eisner. Eisner salì sul palco insieme a Jackie Estrada. Ann era seduta in mez-zo al pubblico insieme a Denis e Stacey Kitchen e a Sergio Aragonés, già membro della Eisner Awards Hall of Fame (nonché autore di pietre miliari della cultura pop come MAD, Plop, Groo the Wanderer e lo show televisivo Laugh-In).Salendo sul palco per leggere le nomination per la categoria “miglior nuovo ro-manzo a fumetti”, Eisner fu pervaso da un misto di entusiasmo e di paura, mentre afferrava la statuetta del premio senza sbirciare il nome sulla targhetta e preparan-dosi a consegnarla al vincitore.Le nomination erano:The Book of Leviathan di Peter Blegvad (Overlook Press)Fallout di Jim Ottaviani, Janine Johnston, Steve Lieber, Vince Locke, Bernie Mi-reault e Jeff Parker (GT Labs)The Golem’s Mighty Swing di James Sturm (Drawn & Quarterly)Hey, wait... di Jason (Fantagraphics)Mail Order Bride di Mark Kalesniko (Fantagraphics)The Name of the Game di Will Eisner (DC)Pictures That [Tick] di Dave McKean (Hourglass/Allen Spiegel Fine Arts)Il lato competitivo di Eisner voleva vincere. Quello realista cominciava a doman-darsi se quell’anno non sarebbe nata qualche altra stella, mentre la sua sarebbe definitivamente tramontata. Come avrebbe dovuto reagire al nome di qualcun altro? Sorridendo, naturalmente, con una cordiale stretta di mano e facendosi da parte. E se avesse vinto? Be’, era decisamente improbabile che alla sua età acca-desse di nuovo.“E il vincitore è...” Aragonés fece la consueta pausa a effetto. “Le regole del gioco di Will Eisner!”.Per la quinta volta in dieci anni, Will Eisner passò il premio da una mano all’altra, avvicinandosi al microfono, scosse la testa, sorrise e rimproverò il pubblico in visibilio. Era orgoglioso ma anche, in qualche modo, imbarazzato.“Ahhh... dovreste proprio darci un taglio, sapete?” disse ridendo e arrossendo. “Una volta era divertente. Adesso dire qualcosa comincia a diventare difficile... grazie, grazie infinite”.

• • •Gli Eisner Award avevano ispirato al loro titolare un profondo senso di appaga-mento, come pure un secondo premio che portava il suo nome, i Will Eisner Spirit of Comics Retailing Award, una sua idea, assegnato ogni anno a partire dal 1993.“Sia emotivamente che personalmente è stato davvero gratificante sapere che c’era il desiderio di intitolarmi un premio” ricordava Eisner. “Vederlo affermarsi, poi, è stata la cosa più importante. Vedere gli autori che lo vincevano, sentire qual-

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cuno dire ‘Ho vinto un Eisner’ come il marchio del suo successo. Mi ispira una profonda soddisfazione. E alimenta il mio ego. È quasi come andare a un matri-monio: me ne resto lì in piedi per tutto il tempo e stringo le mani ai vincitori. Poi, quando tutto è finito, molti di loro mi chiedono di firmare il premio, il che è davvero bello.Se oggi Pulitzer fosse ancora vivo, probabilmente si sentirebbe come me”.

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ventiquattroEpilogo

All’età di 85 anni, la spalla destra di Eisner finì col tradirlo. Il resto dell’or-ganismo del grande autore negava tutto ciò, ma all’inizio del 2002 la spalla

destra non poteva continuare a tacere: Eisner, sei vecchio! Sembrava sussurrargli. Devi smettere di giocare a tennis!E per i tre anni successivi, pur mancandogli moltissimo la partitella giornaliera, Eisner la sostituì con 30 minuti di vigorose bracciate in piscina e di marcia sul ta-pis-roulant. Ann, sua moglie ormai da 54 anni, gli acquistò persino una poltrona reclinabile con imbottitura termica incorporata per alleviare il dolore alla spalla.“A fine giornata mi fa male. Non potrei più dipingere a olio o fare dei murali. Ma riesco a lavorare al tavolo da disegno. Uno dei problemi è che ho sempre usato il braccio intero. Quando invece comincio a inchiostrare, uso solo il polso”.Il dolore tornò nella primavera 2004.Eisner, si stava impuntando la spalla, hai 87 anni! Piantala di letterare tutto a mano! Usa il computer!Per l’anno che seguì, Eisner e la sua spalla raggiunsero un armistizio. Lui continuò a scrivere e a raccontare le sue storie in quel linguaggio che aveva contribuito a rendere popolare, e la sua spalla, ormai esausta, cominciava a dolergli se avesse continuato a lavorare oltre le 16.00.

• • •L’ultimo giorno che ho visto Eisner di persona fu una giornata per lui elettrizzan-te del maggio 2004. Sul tavolo da disegno c’era l’ultima pagina originale del suo ultimo libro, ormai completato, Il complotto: la storia segreta dei protocolli dei Savi di Sion, e Eisner era entusiasta all’idea di inviarlo all’editore e di vederlo stampato.“Sarà un libro controverso” mi disse anticipando il dibattito e le polemiche.Il complotto rappresenta una nuova dimensione della narrativa di Eisner. Mentre il precedente Fagin the Jew era partito da un personaggio di contorno dell’Oliver

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Twist di Charles Dickens, creandogli una vita e vicende personali, Il complotto rappresentata il suo primo attacco diretto e giornalistico, con una vicenda non di fantasia, all’antisemitismo storico. Il libro è il risultato delle ricerche di Eisner sulle origini di I Protocolli dei Savi di Sion, un volume che Amazon.com catalo-ga come “controverso”, ponendolo nella stessa categoria di volumi sugli UFO e sulle cospirazioni. Il contenuto è noto: si tratta di una rappresentazione ostile e falsa del giudaismo che ha peraltro circolato per decenni nel mondo arabo, ali-mentando l’odio contro gli ebrei e Israele. Il “complotto” del titolo di Eisner è la perpetrazione di questo falso come una verità.“Trovo assolutamente eccezionale che Will fosse pronto ad affrontare in maniera diretta e accessibile uno degli episodi di propaganda più perniciosi e mostruosi” ha dichiarato Neil Gaiman. “Il complotto è quello che avrebbe fatto Spirit, se avesse saputo disegnare”.Dopo l’anticipazione del New York Times sui “lavori in corso” del libro, Eisner venne contattato da un responsabile dell’Anti-Defamation League, interessato ad aiutarlo a realizzare il suo sogno di pubblicare un’edizione speciale del Complotto, in arabo.“Le persone a cui voglio fare leggere il mio libro sono quelle per cui sono stati scritti I protocolli dei savi di Sion” chiariva Eisner. “L’unico scopo del Complotto,

Will Eisner al lavoro su Il complotto(maggio 2004).

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l’unico motivo di scriverlo è che in questo linguaggio ha qualche possibilità di farsi leggere dalle persone per cui erano stati scritti i Protocolli. Esistono almeno dieci volumi che sbugiardano i Protocolli, tutti scritti da studiosi, per un lettore sofisticato. Non certo le persone a cui è necessario spiegare che quel libro è un fal-so. Ma con un romanzo a fumetti ho la possibilità di arrivare a dei lettori che non ne hanno mai sentito parlare. La possibilità che leggano un libro con immagini, un libro illustrato, è maggiore di quella che si ritrovino a leggere una stroncatura in prosa da parte di un accademico”.Un libro di questo tipo avrebbe sicuramente una maggiore probabilità di essere accettato da un pubblico arabo se venisse scritto da un Gentile, ma Eisner – all’a-pice di una carriera iniziata negli anni Trenta producendo fumetti con cinque nomi diversi – non ha mai preso in considerazione l’eventualità di celare la sua identità su questo libro.“L’introduzione inizia con le parole ‘Sono ebreo’” ha dichiarato. “Ma posso imma-ginare che non sarebbe stato male se fosse stato firmato con un nome non ebreo”.Contratto con Dio era stata per Eisner la prima occasione di produrre consapevol-mente lavori che lo identificavano come ebreo e ormai la diga era caduta, non si poteva tornare indietro. Verso la tempesta era uno sguardo autobiografico non solo alla sua vita ma anche ai genitori immigrati e al pregiudizio e all’antisemitismo che li aveva accolti negli Stati Uniti all’alba del XX secolo. In Le regole del gioco aveva raccontato attraverso più generazioni la storia di una famiglia ebrea – mo-dellata in parte su quella della moglie Ann – e delle sue resistenze all’assimilazione durante l’ascesa negli ambienti sociali di New York.Benjamin Herzberg ha collaborato con Eisner svolgendo ricerche e fornendo spunti e suggerimenti sia per Fagin sia per Il complotto. È stato lui a garantire ai libri documentazione e affidabilità storica, lavorando nel tempo lasciato libero dal suo lavoro di consulente per lo sviluppo del settore privato per la Banca Mondia-le, a Washington, nonché titolare delle edizioni Gasp!“Nella sua forma definitiva, Il complotto è parecchio diverso da come era all’inizio” ricorda Herzberg. “Fui io a dire a Will di raffigurarsi nel libro: non voleva, ma riuscii a convincerlo; nell’ultima parte del libro era necessario un espediente per fare procedere la narrazione.All’inizio Will cominciò senza sapere dove sarebbe andato a finire. All’inizio, il libro parlava dei suprematisti bianchi negli Stati Uniti, e di come usassero i Proto-colli per alimentare vecchi stereotipi. Ma sentivo che questo si scontrava con quel-lo che secondo me lui voleva fare veramente e a questo serviva il nostro rapporto: a parlare e a chiarire quello che gli interessava.In quella prima introduzione si concentrava sui suprematisti bianchi e non teneva in considerazione l’enorme diffusione dei Protocolli nel Medio Oriente. Certo,

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aveva istintivamente chiaro ciò che voleva fare, così riorganizzammo il tutto verso qualcosa di più costruttivo. In quel periodo, inoltre, in Europa e specialmente in Francia si verificavano numerosi episodi di antisemitismo”.Così, insieme ridefinirono introduzione e conclusione del volume, conferendogli un’impostazione morale adeguata, oltre ad alcuni capitoli destinati a raggiungere un pubblico più vasto, quello soggetto alla propaganda fondamentalista negli Stati Uniti, ma anche la maggioranza silenziosa del tradizionale antisemitismo europeo e, non ultime, le popolazioni della comunità araba.Un altro punto su cui Eisner si scontrò con Herzberg fu il suo desiderio di esporre semplicemente il contenuto dei Protocolli, in una forma nuda e cruda, mettendo da parte ogni coinvolgimento.“Era necessario convincere il lettore che i Protocolli avevano procurato grandi sof-ferenze” ricorda Herzberg. “Non voleva scrivere un pamphlet contro l’antisemiti-smo, e non voleva che il libro fosse una specie di predica. Voleva che fosse un fu-metto didattico: voleva comunicare la verità sui Protocolli, restare aderente ai fatti e guadagnarsi la massima credibilità possibile. Will era ossessionato dalla credibilità.Era una questione complicata, perché voleva descrivere cose e fatti a cui non aveva partecipato e, al tempo stesso, voleva essere preciso e affidabile”.Come dichiarato dallo stesso Eisner, lo scopo principale del Complotto era la ne-cessità di portare i suoi argomenti esattamente a quelle persone che in Medio Oriente credevano alle menzogne dei Protocolli. Producendo un libro distaccato, una storia puntuale e verificabile dei Protocolli, piuttosto che un pamphlet poli-tico, Eisner sperava di ottenere un impatto maggiore sui lettori di quell’area, che avrebbero potuto considerarlo storicamente corretto e non ostile agli arabi.“Will era convinto che chi credeva ai Protocolli non fosse necessariamente antise-mita” ricorda Herzberg. “Gli antisemiti esisteranno sempre e non cambieranno idea con un film, un romanzo a fumetti o un processo. Ma il restante 80% della popolazione semplicemente non ha accesso ad altri tipi di informazione. Per que-sto Will stava accuratamente alla larga dalla propaganda, che non sarebbe stata accettata come un documento plausibile. Non voleva rispondere alla propaganda con la propaganda: voleva raggiungere il grande pubblico”.Negoziando il contratto con W. W. Norton per la pubblicazione del Complotto, accordò alla casa editrice i diritti per tutto il mondo, tranne che per i paesi in lingua araba, che conservò per sé.La scelta di pubblicare con Norton assicurava rispettabilità, credibilità dei con-tenuti e una strategia di vendita presso gli editori europei che potesse assicurare la possibilità di pubblicazione in altre lingue” ricorda Herzberg. “La Francia è il paese in cui nel 1989 un ricercatore scoprì la verità su Mathieu Golovinski, un russo esiliato autore dei Protocolli. E in Francia l’editore del Complotto è Grassette

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& Fasquelle, lo stesso che negli anni Venti aveva pubblicato i Protocolli. Uno sber-leffo della storia che piaceva moltissimo a Will”.In quest’ultimo capitolo di una carriera eccezionale, la figura di Eisner emerge come un esempio di vita e di valori giudaici, pur continuando a sottolineare che ogni suo apparente atteggiamento da “crociato” era assolutamente accidentale. Era pur sempre un uomo il cui ultimo ingresso deliberato in una sinagoga risaliva ai tempi del bar mitzvah.“Non è il mio mestiere promuovere la cultura ebraica” rivendicava apertamente Eisner. “Scrivo di ciò che conosco e conosco gli ebrei. Non mi considero diverso da Faulkner, che scriveva di ciò che conosceva. Scrivo della vita e della cultura degli ebrei e se fossi irlandese scriverei della vita e della cultura irlandese. Mi con-sidero una specie di Frank McCourt ebreo”.

• • •Will e Ann Eisner erano i più entusiasti sostenitori l’uno dell’altro, nonché la compagnia favorita di ciascuno. Più di mezzo secolo dopo quel passaggio un po’ burbero che Will aveva dato ad Ann da New York fino al Maine su richie-

sta del suo migliore amico, la coppia era ancora inseparabile. Di più: dopo la morte del fratello e assistente Pete, nel dicembre 2003, per la prima volta Ann era diventata una presenza fissa e giornaliera nella vita lavorativa del ma-rito. Insieme alla segretaria di Eisner, Florence Simpson, gestiva lo studio, scrivendo personalmente le scritte e i dialoghi del suo ultimo libro, usando un font al computer sviluppato appo-sitamente a partire dalla caratteristica calligrafia del marito.Durante gli ultimi anni insieme, la giornata nella loro casa in Florida co-minciava con una nuotata a turno in piscina (a lui piaceva fare alcune va-sche con calma, mentre lei ascoltava audiolibri). La sua colazione preferita,

da decenni, era un pompelmo, cereali o il classico “soul food” ebraico: un bagel con “lox”, salmone affumicato. Nella veranda coltivavano orchidee ma la cosa di cui era più orgoglioso era un piccolo albero di pompelmo: non dava molti frutti

Will e Ann Eisner.

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ma Will sperava che un giorno ne avrebbe fatti di più.Sabato e domenica di Ann: nel fine settimana Will non poteva assolutamente andare in ufficio, che si trovava a circa un chilometro da casa, ma riusciva ugual-mente a portarsi dietro un po’ di lavoro. A volte, glielo si leggeva in faccia.“Adoro il mio lavoro” mi disse Eisner quel giorno di maggio. “All’inizio, era un mezzo funzionale a uno scopo. Ora è un fine a sé. Il punto è anche che sono an-cora in grado di farlo, cerco consenso, approvazione. E poi, c’è ancora così tanto da fare”.

• • •Il 4 gennaio 2005 sto preparando mia figlia per la scuola quando, alle 7.30 del mattino suona il telefono. Come in tante altre famiglie, in casa nostra di solito a quell’ora del giorno il telefono non suona. E quando suona così presto al mattino, non porta mai buone notizie.Controllo il nome del chiamante e provo una sensazione di disagio. Il numero mi è famigliare e mentre lampeggia la scritta “Will Eisner” mi rendo conto che non è possibile. Deve trattarsi di Ann.Alcune settimane prima, Eisner era andato dal medico, lamentando difficoltà di respirazione. Il medico lo aveva fatto ricoverare immediatamente in ospedale, dove il giorno dopo era stato sottoposto a un quadruplo by-pass cardiaco. L’in-tervento era andato bene: a quasi 88 anni d’età, le condizioni di salute fisica e mentale di Will erano eccezionali, e già si parlava per la settimana successiva di un ritorno a casa, dove avviare convalescenza e riabilitazione.Ma Will non lasciò mai l’ospedale.La settimana dopo, Eisner si era alzato dal letto, cadendo. Era quindi stato sot-toposto a un nuovo intervento per l’asportazione di liquido cardiaco. Di nuovo, l’operazione era stata dichiarata riuscita ma la sera del 3 gennaio, durante un controllo di routine, l’infermiera lo aveva trovato morto: era spirato nel sonno.Nei giorni successivi alla scomparsa di Eisner accaddero diverse cose assoluta-mente notevoli. L’amore e il rispetto tributatigli in vita lo seguirono nella morte e i mezzi di comunicazione presentarono la sua morte come una grave perdita per il mondo delle lettere e delle arti. Tra i vari necrologi, mezza pagina sul New York Times, articoli con foto su Entertainment Weekly, Newsweek, Time, The Eco-nomist e un richiamo in prima pagina su The Wall Street Journal. Fu ricordato da National Public Radio e dalla trasmissione This Week with George Stephanopoulos di ABC-TV.Non fu un fenomeno solo statunitense. Resoconti della vita e delle opere di Ei-sner apparvero in tutto il mondo, da The Times of London e The Economist al Jerusalem Post e Manila Times, che pubblicò un editoriale in suo ricordo.

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Assai significativamente, le ultime settimane di vita di Will Eisner coincisero con la chiusura dei suoi due ultimi progetti, Il complotto e un’apparizione di Spirit sulle pagine dell’Escapista, la serie a fumetti derivata da Le straordinarie avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon.“Il suo ultimo lavoro è stata la storia dell’Escapista” ricorda Diana Schutz, editor della Dark Horse. “Era una storie di sei pagine e solo dopo avermele spedite se ne andò dal medico, lamentandosi per la mancanza di fiato”.Diana Schutz parlò con Eisner la sera prima del primo intervento, chiedendogli “Perché hai aspettato tanto?”. Era preoccupata per lui, che le disse di non preoc-cuparsi, anche se non negò di essere egli stesso leggermente in ansia. Era la prima volta che dalla sua voce traspariva un senso di vulnerabilità. La cosa non doveva essere sfuggita neanche a lui, che subito recuperò il suo naturale entusiasmo, par-lando di quanto fosse stato fortunato ad avere vissuta una vita come la sua, ad ave-re lavorato e ad avere amato, ad avere una moglie meravigliosa e i suoi tanti amici.“Sono arrivate le pagine di Spirit con l’Escapista?” chiese, cambiando argomento. “Non sono andato dal medico finché non le ho finite. E lui mi ha immediatamen-te infilato in macchina portandomi al pronto soccorso”.“Non dovevi aspettare tanto” cercò di replicare Diana Schutz, ma lui non voleva saperne neppure di ascoltarla.“Ma Will era così: professionista fino in fondo. Semplicemente, era così che face-va tutto. E le pagine erano meravigliose. È quasi paradossale che l’ultima cosa che abbia fatto sia stata una storia di Spirit”.

• • •Robert Weil, editor di Eisner presso W. W. Norton per Il complotto e l’intera Ei-sner Library, è stato l’ultimo editor a parlare con lui.“Gli ho parlato due volte il giorno in cui è morto” ricorda Weil. “La prima poco prima di mezzogiorno, per augurargli buon anno. Non avevo chiamato prima per non disturbarlo. Aveva la voce di chi, letteralmente, sta prendendo il sole in terrazza: era in forma smagliante e parlammo un po’ di lavoro. Era su di tono, e allegro. Non era assolutamente giù. Era un uomo che pensava di essere dimesso da lì a pochi giorni”.Più tardi, Weil chiamò nuovamente con buone notizie: i diritti spagnoli per Il complotto erano stati venduti a Norma Editorial e, col consueto interesse per le questioni commerciali, Eisner chiese tutti i dettagli dell’accordo. Weil, la cui casa editrice stava pensando a un piano promozionale ambizioso per Il complotto du-rante la primavera e l’estate 2005, dalla vitalità della voce dell’autore si convinse che si poteva ricominciare a pensarci.“Avevo appena editato il suo pezzo per l’introduzione alla trilogia di Contratto con

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Dio” ricorda Weil. “Le ultime parole che mi disse furono ‘Fallo vedere a Denis’”.Quando la mattina dopo Weil seppe della morte di Eisner mi chiamò agitatissi-mo, quasi sotto shock, raccontando l’ultima conversazione.“Will adorava il suo lavoro. Ed è morto lavorando, letteralmente. Era il John Wayne del fumetto, voleva andarsene in sella”.

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appendice aJerry Iger: post scriptum,

Nel 2001, più di dieci anni dopo la morte del suo ex socio Jerry Iger, Will Eisner ricevette una breve lettera, che tra le altre cose diceva:

Gentile Mr. Eisner,mi chiamo Robert Iger e sono presidente della Walt Disney Company. Ho appena letto di lei sul Los Angeles Times e mi ha incuriosito il fatto che sia stato socio del mio pro-zio, Jerry Iger.

Robert Iger

Robert Iger spiegava che suo padre era il nipote di Jerry.“È davvero strano” commentava Robert Iger nella lettera, “che oggi esista un legame tra un Eisner e un Iger – Michael Eisner, direttore della Walt Disney, e il sottoscritto – così come c’erano un Eisner e un Iger allora. Una coincidenza davvero curiosa”.Anche Eisner – che non era parente di Michael Eisner – trovava curiosa la cosa. Così, rispose a questo più giovane Iger, raccontandogli quanto ricordava su Jerry. Robert rispose immediatamente.Quando alla fine si sentirono al telefono, Robert disse candidamente a Eisner “La mia famiglia non ha mai avuto una grande opinione di Jerry, che era uno spaccone”.“Be’” commentò Eisner, “non è che si sbagliassero. Jerry si comportava come capitava a tanti piccoletti come lui. Avere a che fare con lui era sempre faticoso, perché continuava a ripetermi sarcasticamente ‘Cos’è, vuoi vincere il premio per il miglior art director?’ perché io parlavo sempre di qualità mentre lui insisteva sul fatto che noi vendevamo salsicce: ‘Fai uscire la roba e basta!’”.“Avevo anch’io una cosa o due da dire su Jerry” ricorda Robert. “Tutti e due con-cordavamo sul fatto che Jerry fosse sostanzialmente un cialtrone. E che avesse la tendenza a infiorettare le cose. Sono cresciuto negli anni Cinquanta e Sessanta, e

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Jerry era un tipo sempre ben tirato. Una specie di dandy, con abiti a righe, sempre molto ben vestito. Abitava a New York, usciva con belle donne. Era un tipo sua-dente e probabilmente spendeva più soldi di quelli che aveva. Si era costruito questa fama da playboy. Certo, amava le donne, lo si vedeva dai suoi disegni. Era più facile vederlo in un night che in qualsiasi altro posto, e certamente non allo stadio”.Robert ricordava che Jerry veniva alle sue feste di compleanno e disegnava fumetti per i suoi amici. Era stato disgustato dal libro uscito nel 1985, The Iger Comics Kingdom (Blackthorne Publishing), una biografia del prozio scritta da Jay Edward Disbrow. “È una specie di apologia di Jerry, è anche possibile che l’abbia finanzia-to lui” sostiene. “Insieme a Will ci abbiamo fatto sopra quattro risate”.Quando vide suo zio l’ultima volta, Robert Iger era ancora adolescente.

• • •Jerry Iger non esce bene dalla storia della vita del suo ex socio.Il pro-nipote Robert ha accettato di essere intervistato per questo libro e ha an-che organizzato un’intervista al padre Arthur (nipote di Jerry e ispirazione per il personaggio a fumetti dello zio “Bobby”). Né Arthur né Robert avevano mai conosciuto Will Eisner ma erano più che disponibili a condividere i loro ricordi su Jerry, un’occasione per riequilibrare il ritratto che ne aveva dato il suo vecchio socio. O, almeno, questa era l’intenzione originale. In realtà, Jerry risultò essere tutto quanto aveva detto Eisner, e non solo.Samuel Maxwell Iger – in seguito universalmente conosciuto col suo nomignolo di Jerry – era nato in Oklahoma nel 1903, nei pressi della riserva indiana di Choc-taw, a Isabel, il minore di quattro figli. Stando ad Arthur, il padre di Jerry era un venditore ambulante australiano che viveva sulla riva di un fiume col suo cavallo e il suo carro. “Jerry aveva avuto la poliomielite e tutte le settimane mia nonna Rosa lo portava al fiume per bagnargli le gambe”.Gli Iger erano poverissimi e quando Joe, il padre di Arthur, partì militare, rispar-miò un po’ di soldi per trasferire la famiglia a New York, dove avviò il padre al mercato immobiliare.Arthur era nato nel 1926 ed era il favorito perché era il primo nipotino della famiglia. “Jerry mi aveva adottato molto prima di avere figli lui stesso” ricorda Arthur. “Il sabato, andavo in città in metropolitana da Brooklyn, dove abitavamo, e andavo da Jerry nel suo studio, il S. M. Iger Studio. Era un edificio enorme e io passavo tutto il pomeriggio con i disegnatori che lavoravano per Jerry, e lui mi faceva fare qualcosa. Sembrava orgoglioso di me e aveva un atteggiamento paterno. A modo suo, era molto affettuoso. Uno dei disegnatori aveva una barca che Jerry usava quando pareva a lui e io imparai a navigare su Sheepshead Bay su quella barchetta. Ma dopo che Jerry diventò padre, non ebbi più nessun contatto

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con lui”.Gli Iger impararono le varie storie su Jerry nel corso degli anni. “Un avaro, che usava le persone... chi può dire che cosa fosse vero, chi diavolo lo sa?” ricorda Arthur.Durante la guerra, quando Arthur tornava a casa in permesso, la famiglia Iger – compreso Jerry – festeggiava uscendo nei migliori ristoranti. “Jerry c’era sempre ed era sempre mio padre a pagare il conto” sostiene Arthur. “La parola per Jerry è schnorrer, che in Yiddish significa pezzente, questuante, scroccone”.Un giorno Jerry ottenne dall’amico drammaturgo Canada Lee dei biglietti omag-gio per uno spettacolo di Broadway, e come ospite portò Arthur. L’unico dono durevole che fece ad Arthur fu la musica: “Suonava il banjo e mi insegnò delle canzoni. Gli sono sempre stato grato per questo, perché poi la musica diventò la mia passione”. Arthur è anche autore di due volumi molto apprezzati sul jazz.All’inizio degli anni Cinquanta, Jerry chiamò Arthur dicendo che avrebbe dise-gnato in diretta in un programma televisivo per ragazzi e di sintonizzarsi. Dopo avere disegnato un po’, Jerry si girò verso la telecamera: “Vorrei salutare mio nipo-te, il piccolo Artie Iger, in convalescenza dopo un incidente d’auto. Gli facciamo tutti tanti auguri!”Arthur non si era mai sentito così imbarazzato in vita sua.“Grazie per gli auguri” disse poi a Jerry più tardi al telefono, “ma sono un uomo adulto! Sono sposato! Ho fatto la guerra, santo cielo! Dacci un taglio!”.Per lavoro Arthur si occupò di pubblicità e diritti, cose non molto lontane dal ramo d’attività di Jerry.“In famiglia Jerry Iger non era molto benvoluto” ricorda ancora Arthur. “Non era un personaggio simpatico. Non si comportò bene con le sue due sorelle ma mio padre era messo abbastanza bene quando ebbero problemi finanziari e riuscì ad aiutarle. Anche Jerry era in grado di farlo, ma a un interesse elevato. Mio padre non riusciva a crederci. Secondo le mie zie, Jerry era un miserabile narciso, falso e borioso”.Arthur e sua madre Ruth erano affezionati alla prima moglie di Jerry, una donna adorabile di nome Louise Hirsch, quando divorziò da Jerry il padre di Arthur disse a Ruth che doveva smettere di vedere Louise. Era il suo modo per pretendere lealtà nei confronti della famiglia.Arthur ricorda che la relazione più duratura di Jerry fu con la sua assistente, una donna attraente e coi capelli rossi di nome Ruth Roche. Stando ad Arthur, aveva un figlio avuto da un matrimonio precedente l’incontro con Jerry: “Era innamo-rata di Jerry, che non la sposò mai”.Col passare degli anni, Jerry parlò di molte mogli – né Robert né Arthur sono certi del numero esatto – che però non presentò mai alla famiglia.

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Il padre di Arthur era una persona ospitale e insieme alla moglie invitava spesso a pranzo la sua famiglia estesa. “Tutti portavano qualcosa” ricorda Arthur. “Jerry portava cioccolata e una soubrette. Le sue spacconate erano patetiche; una volta sosteneva di essere uscito con Bea Arthur, l’attrice. Era un tipo così”.Appena nato, Robert diventò subito il pupillo di Jerry, più o meno come lo era stato Arthur. “Ci regalò un sonaglietto d’argento. Per Jerry era qualcosa di incre-dibile, rispetto, per esempio a una barretta di cioccolata”.Con il trascorrere degli anni, Jerry si alienò dalla famiglia. Non fece mai nulla di terribile, o scandaloso nei nostri confronti” ricorda Arthur. I problemi economici contribuirono ad allontanarlo ma, in generale, semplicemente gli altri Iger tro-vavano sgradevole la presenza di Jerry. “Era capace di litigare al telefono con la madre e dire che le sorelle l’avevano fregato” afferma Arthur. “Non mi piaceva. Non riuscivo a farmelo piacere. Non era un tipo simpatico, davvero. Per nulla”.Nel 1962, alla morte del padre di Arthur, Jerry partecipò al funerale e per diversi anni restò in contatto con la madre di Arthur.Arthur non fu particolarmente entusiasta della biografia di Jerry; non più del figlio, comunque. “Era piena di errori sulla famiglia, l’ho messa giù disgustato” ricorda Arthur.L’ultima volta che vide Jerry fu nella prima metà degli anni Settanta, nel suo ufficio presso Mcmillan Publishing, a New York, dove Arthur era vicepresidente ed editore della divisione didattica. “All’epoca, Jerry abitava a Sunnyside, nel Queens”. ricorda. “Era passato a trovarmi. Lo portai a pranzo nel mio ristorante preferito e, naturalmente, offrii io. Fu la prima domanda di mia moglie quando tornai a casa quella sera: ‘Jerry ha provato a prendere in mano il conto?’ Natu-ralmente no!”.Gli Iger non sentirono più parlare di Jerry fino al settembre 1990, quando lessero il suo nome nella pagina dei necrologi.

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Appendice bUn influenza mondiale

ALAN MOORE (scrittore e sceneggiatore, tra gli altri, di Watchmen, From Hell, La lega degli straordinari Gentlemen)

Stando a Will Eisner, la cosa più lusinghiera mai detta su di lui è dovuta ad Alan Moore, che una volta rilasciò la seguente dichiarazione, riportata sul volantino di una convention di fumetti scozzese: “Eisner è il singolo individuo maggiormente responsabile dell’esistenza di un pensiero a fumetti”.Moore conferma di sottoscrivere ogni singola parola.“I maestri delle strisce quotidiane americane dell’inizio del XX secolo misero a punto strumenti narrativi stupefacenti, un lavoro realmente mozzafiato” spiega Moore. “Secondo me, ciò che Will Eisner ha apportato al fumetto è una sorta di intelligenza sistematica. Non ha semplicemente escogitato alcuni trucchetti visivi, qualche espediente narrativo, per poi sfruttarli meravigliosamente, come si può forse dire solo dei pionieri che l’avevano preceduto. Will mise a punto un’intera filosofia del fumetto applicabile quasi a ogni suo dettaglio: il disegno, la scrittura e, soprattutto, la narrazione, ciò che si colloca tra il disegno e la scrittura”.Il primo contatto di Moore con Eisner avvenne con le due ristampe di Spirit della Harvey, negli anni Sessanta. In seguito, Moore fu “sconvolto” da una storia apparsa su Will Eisner’s Quarterly, dal titolo Hamlet on a rooftop.“Will stava facendo esperimenti per capire se fosse possibile utilizzare il linguaggio del fumetto per comunicare in maniera adeguata un monologo Shakespeariano” ricorda Moore. “Qualcosa che funziona stupendamente sul palco con la presenza fisica di un attore; ma era possibile farlo semplicemente tramite l’espressività del disegno e della narrazione? Era questo che ammiravo in Will, il fatto che il suo cervello non si fermasse mai. Non si limitò mai a escogitare una serie di espedienti assolutamente spettacolari, per poi riposare sugli allori. Mise a punto un metodo, un vero e proprio approccio al fumetto che dischiuse dimensioni prima neppure sospettabili da uno come me”.

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All’inizio della sua carriera di sceneg-giatore di fumetti, per Moore il lavo-ro di Eisner costituì un riferimento a cui puntare: “Anche se il riferimento è inarrivabile, nel tentativo di rag-giungerlo può capitare di riuscire ad allungarsi un po’ di più, e secondo me è questa una delle cose davvero ine-stimabili di cui Will Eisner ha fatto dono al linguaggio del fumetto. Will ha definito uno standard elevato, per il quale – e di questo sono praticamente certo – è stato in egual misura ammi-rato e maledetto dalla maggior parte delle persone che ci lavorano. Perso-nalmente, non lo cambierei con nulla al mondo”.Moore ha dichiarato espressamente che le storie di Grayshirt, nella sua se-rie Tomorrow Stories del marchio Ame-

rica’s Best Comics, erano omaggi ai lavori e all’influenza di Eisner.“Non cercavo di riprodurre le sue tecniche narrative, o semplicemente di scrivere la parola ‘Grayshirt’ usando dei palazzi che crollavano, o altri ovvi riferimenti ei-sneriani di questo tipo; cercavo di colmare il vuoto che secondo me aveva lasciato sulla scia di Spirit. Spirit era lo strumento perfetto per produrre brevi, piccole sto-rie incredibilmente compatte in cui era possibile costruire l’intera vicenda intorno a un determinato espediente narrativo. Era questo che volevo fare insieme Rick Veitch, il disegnatore di Grayshirt”.Nel secondo numero di Tomorrow Stories, vediamo un palazzo, quattro vignette in ciascuna pagina, e ogni pagina è un’inquadratura del palazzo in cui vediamo quattro piani, in modo che ciascuna vignetta costituisce l’inquadratura di uno dei piani del palazzo, messi uno sull’altro. La narrazione abbastanza complessa all’ul-timo piano è ambientata nel 1999. Al piano sottostante ci troviamo nel 1979 e a quello ancora sotto nel 1959. Le vicende possono essere lette sia orizzontalmente – scorrendo una singola linea temporale alla volta – sia in verticale o in qualsiasi altra direzione preferita dal lettore.“Di per sé, non era una cosa che Will avesse mai fatto, ma dietro c’era sicuramente la sua influenza. Cercavo di essere brillante quanto Eisner, tentativo solitamente destinato al fallimento. Quella che cercavamo di fare era una storia compatta, di

L’autore underground Jay Linch fa la parodia diThe Spirit in questo fumetto dei suoi personaggi

Nard n’ Pat (da Bijou Funnies n. 2, 1968).

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otto pagine, costruita su un espediente narrativo bene impostato e che in un certo senso avrebbe potuto essere una storia di Spirit se Eisner ci avesse pensato prima che ci pensassi io. O quasi. Era quello il massimo, la vetta a cui puntavamo”.

CARMINE INFANTINO (disegnatore di Flash ed ex direttore generale della DC Comics)“Da ragazzo, i miei idoli erano Bill Eisner e Lou Fine. Quando leggevo The Ray, Black Condor e tutte quelle cose che buttava fuori Busy Arnold, avevo sedici o diciassette anni. Per un po’, Bill e Lou furono quasi intercambiabili. Le storie, così particolari, erano di Bill; Lou era un designer strepitoso. Bill era ed è uno dei migliori narratori del mondo. Alcune delle mie copertine per la DC potrebbero sicuramente rivelare un’influenza di Eisner. Una, per esempio, una copertina di Batman, The House of the Joker. Era il tipo di cosa che avrebbe fatto Will, alla metà degli anni Cinquanta. E ne feci una in cui il criminale, Blockbuster, sfonda le lettere della testata ‘Batman’. È il tipo di cosa che avrebbe fatto Will”.

DENNY O’NEIL (sceneggiatore di Lanterna Verde/Freccia Verde ed ex sceneggia-tore ed editor di Batman)“Nel mio lavoro, il personaggio più influenzato da Will è stato The Question. The Question non è diversissimo da Spirit: un personaggio umano, vulnerabile. Non ha il fascino di Superman, quello di una forza enorme. Naturalmente non sono io il creatore di The Question, che è un personaggio di Steve Ditko. L’approccio, in generale, fu quello di chi desidera trattare temi adulti. Ricordo che Frank Miller passò per il mio appartamento di SoHo e gli mostrai un paio di pagine che avevo scritto per il primo numero. Era molto verboso e gli chiesi un consiglio: avrei do-vuto forse metterci più azione? Frank disse di no. Ma per uno abituato a scrivere di personaggi semidivini, quello di lasciare emergere e predominare i dialoghi e il fatto umano fu uno stacco non da poco”.

HOWARD CRUSE (autore di Figlio di un preservativo bucato e Barefootz)“Per un po’ ho insegnato alla School of Visual Arts e dei lavori di Will si parlava sempre, per quanto riguarda l’approccio alla composizione della pagina. Il suo era un modo particolare di disegnare le figure in maniera compatta, mentre io sono più anal-ritentivo, o formalista di lui, se vogliamo. Tendo a usare unica-mente rettangoli e ne esco solo occasionalmente. Ma so riconoscere una tecnica stupefacente, quando la vedo, e sono disegnatori come Eisner che mi sfidano in continuazione a essere più audace.Quando nei miei disegni qualcuno piega il braccio, e io disegno il panneggio della manica, lì c’è Eisner. Per l’esecuzione uso dei puntini invece che il tratteggio. Il

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Omaggi a Will Eisner da parte di altri autori.

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modo in cui ombreggiava le pieghe di un abito era diverso da quello di Milton Caniff. Da Milton Caniff a Neal Adams, passando per alcuni altri, ci si avvicina verso una forma di realismo nella rappresentazione degli abiti. Eisner riusciva a fare apparire tutto semplice; l’ho sempre trovato affascinante”.

JERRY CRAFT (“Mama’s Boyz”, New Kids on the Block, Sweet 16)“Avevo sempre sentito dire che avrei dovuto leggere Fumetto e Arte Sequenziale” ricorda Craft. “L’unico libro simile che conoscessi all’epoca era How to Draw Co-mics the Marvel Way. Avevo dieci anni.Il libro di Will mi sconvolse, letteralmente, per la quantità di elaborazione e di pensiero consapevole che c’era dietro il fumetto. Capii in che modo vignette più sottili trasmettessero un senso di costrizione e disagio, o quelle aperte calma e rilassatezza. Così, cominciai a integrare questo tipo di cose nel mio lavoro. A fare certe parole in grassetto, per esempio: se una frase andava calando di volume, la facevo scendere verso il basso, letteralmente. Eisner sosteneva che tutto ha una sua vita e questo mi ispirò moltissimo.Le tecniche nuove tendono a farti impazzire quando le devi imparare. Nel libro c’è un capitolo da cui ho imparato a rallentare e a non esagerare. È a pagina 98, le otto vignette in basso. Prima di leggere il libro avrei fatto tutto come a pagina 99, cercando di ottenere la vignetta più spettacolare. Ma leggendo quello che scriveva Eisner mi resi conto che è necessario fare solo ciò che è meglio per la storia. C’era questa pagina fantastica perché il disegno ti induceva a pensare che si trattava di un tipo qualunque (The Story of Gerhard Shnobble). Quando alla fine della storia vola fuori dalla finestra, restai sconvolto. Non lo dimenticherò mai”.Come tutti i disegnatori, spesso Craft si sente domandare dai giovani come ha cominciato la sua attività e che cosa potrebbe aiutarli. La sua raccomandazione è sempre di comprare una copia di Fumetto e Arte Sequenziale.Craft incontrò per la prima volta Eisner a un incontro sui romanzi a fumetti pres-so l’università del Massachussetts di Amherst. Alla fine, Craft gli diede una copia del suo libro e in seguito Eisner gli scrisse dicendogli che la storia gli era piaciuta. “Nessuno scrive più storie” gli scriveva Eisner.“L’ho preso come uno dei maggior complimenti che abbia mai ricevuto” ricorda Craft.

MIKE CARLIN (sceneggiatore e disegnatore, nonché editor per la DC Comics)“Will conta, eccome. Il mio primo lavoro nel fumetto l’ho ottenuto facendo il nome di Will. Avevo chiamato Crazy, la rivista della Marvel. L’editor era Larry Hama e gli dissi che avevo studiato con Eisner e Kurtzman. Fu questo ad aprirmi la porta”.

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JERRY ROBINSON (sceneggiatore e disegnatore di Batman)“Quando cominciai a fare le mie storie di Batman, mi ricordavo le splash page di Will per Spirit. Erano grandiose, e usavano sempre tecniche e idee diverse. Per la mia prima, avevo in mente le sue cose. Fare copertine simboliche e splash page mi piaceva e forse il motivo era Will.Fare il Joker mi è sempre piaciuto e c’è una storia del Joker che si intitola Slay ‘em with Flowers, dove il Joker gestisce un negozietto di fiori come copertura. Per la copertina, a simboleggiare il Joker, avevo disegnato un vaso grande quanto Bat-man e Robin, e da cui usciva un fiore che si arrotolava ed esplodeva, rivelandosi il Joker, che spruzzava insetticida addosso a tutti e due. Nella storia non succedeva ma l’approccio era quello di Spirit. Cercavo di fare un poster, che per una coper-tina era più interessante, di maggiore maggiore. A quei tempi, nelle edicole c’era un sacco di concorrenza e per cose del genere l’ispirazione è sempre stata Will”.

JIM KEEFE (ex autore di Flash Gordon)“Tengo sempre le ristampe di Spirit della Warren sulla scrivania, per ispirazione. Per la luce, per l’atmosfera. È come un film noir. Sono il disegnatore della pa-gina domenicale di Flash Gordon e il 30 luglio 2000 feci una sequenza che era sostanzialmente una storia di Spirit su un’evasione. Alla fine, feci sette settimane di storie in cui Flash non appariva del tutto. Dale era stata trasportata sulla Terra, rinchiusa in una prigione segretissima. L’agente segreto X-9 sa di chi si tratta e da dove viene, così accorre al salvataggio. È il tipo di storia in cui è maestro Eisner, per l’uso della luci, e l’atmosfera. Il mio piccolo omaggio a Eisner è nell’ultima vignetta, con la fuga dell’agente segreto X-9”.

JOHN HOLMSTROM (sceneggiatore, disegnatore e co-fondatore di Punk Magazine)“Il numero 3 di Punk Magazine fu il mio tributo a Will. Un sacco di mattoni. E anche nel numero 6 la sua influenza era evidente. Legs McNeil era un suo gran-dissimo ammiratore e voleva che quel numero fosse un misto di Damon Runyan (Guys & Dolls), Will Eisner e un film di gangster con James Cagney”.

MARK CHIARELLO (direttore artistico della DC Comics)In qualità di direttore artistico della linea DC Universe, Mark Chiarello ha il compito di scegliere i disegnatori a cui assegnare le copertine più importanti.“Quando cerco di spiegare a un disegnatore giovane quali sono gli elementi che concorrono a una copertina efficace, dico sempre ‘Guarda le splash page di Ei-sner’. È un corso completo. Spirit risale a tantissimi anni fa ma ci dice come dovrebbero essere i fumetti oggi. Negli ultimi quindici anni, nel bene e nel male il fumetto è maturato molto. Le storie sono più efficaci e le immagini più effi-

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caci affondano le radici nei lavori di Eisner, Alex Toth (Space Ghost, Josie & the Pussycats, Zorro, The Heculoids, Super Friends), Jack Kirby e Harvey Kurtzman. Ho insegnato Milton Caniff nei college, e i ragazzi mi dicevano ‘Questo non lo capisco’. E io ‘Risalite a ritroso, a partire dal vostro disegnatore preferito, per esempio Jim Lee, e vi ritroverete dalle parti di Caniff. Andate da Frank Miller, fate un passo indietro e finirete da Jim Steranko. Il punto dove converge tutto è Will Eisner e il suo approccio cinematografico alla narrazione’. È così che i lettori giovani posso apprezzare cosa significa Will Eisner.Un mese ho proposto l’idea di fare solo volti di personaggi su tutte le copertine del DC Universe. I disegnatori dovevano in qualche modo integrare nella testata il nome dell’immagine. Era un’idea molto eisneriana. Quando parlavo a un dise-gnatore e non capiva, bastava dirgli ‘Guarda le splash page di Eisner e fai qualcosa del genere’. Abbiamo chiamato l’operazione ‘Icons of the DC Universe’ e fu una specie di omaggio a Will”.

MARV WOLFMAN (sceneggiatore, ex direttore editoriale della Marvel e cocre-atore di The New Teen Titans)“Io e Mike Ploog abbiamo reso omaggio a Will Eisner in Licantropus. La splash iniziale usciva dritta dritta delle cose di Will: una bella donna che attraversava una tenda a perline”.

MIKE PLOOG (disegnatore per PS Magazine Man-Thing nonché film designer)“Io, Neal Adams e alcuni altri facemmo delle illustrazioni satiriche per la rivista Esquire. Nella mia c’era un personaggio tipo Spirit e Will mi scrisse una lettera più o meno così: ‘Spero che non avrai intenzione di continuare il personaggio. In caso contrario, temo che ti vedrai contattare dal mio avvocato’. L’ho conservata per un sacco di tempo, me la portavo sempre dietro. La tenevo nel cruscotto dell’auto e volevo conservarla ma quando ho venduto l’auto l’ho dimenticata là dentro”.

PATRICK MCDONNELL (autore di Mutts)“La vignetta d’apertura della domenica è sempre un omaggio a qualcuno. Non ho fatto mai niente pensando a Spirit. Ancora. Ma una certa domenicale (28 settembre 1997) era decisamente eisneriana. Parlava dei misteri. Nella vignetta d’apertura mi sono rifatto a Shadow ma il resto è assolutamente Eisner, un vero tributo a Will. È stata ristampata nel primo volume con le domenicali di Mutts.

RAY BILLINGSLEY (autore di Curtis)“Una paio di cose della mia striscia vengono da Will. Per esempio, ogni Kwanzaa faccio una storia di Curtis con una morale e di solito la disegno in uno stile diver-

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so dal mio solito. È una cosa che attribuisco a Will: diceva sempre che dovremmo dimostrare che siamo capaci di fare cose in maniera diversa, per renderci più ‘appetibili’ professionalmente. La prima volta che festeggiò Kwanzaa, l’idea non mi piacque da subito. Il modo in cui l’avevo sviluppata mi sembrava leggermente ottuso: un fatto, niente di più. Poi pensai: ‘Invece di qualcosa di così rigido, per-ché non invento un mio racconto africano?’. Di solito, dopo questo tipo di storia ricevo un sacco di posta in cui mi si chiede chi era il disegnatore-ospite.Ho anche cercato di rendere la serie un po’ più ‘cattiva’ e anche questa è un’in-fluenza di Will.Naturalmente, Will non mi ha spiegato tutto quello che avrei dovuto sapere. Per esempio, non mi ha detto che potrebbero attecchire alcune idee che voi non vorreste mai che attecchissero”.

TOM ARMSTRONG (autore di Marvin)“Mi piace quel look da film noir delle cose di Eisner. Lo adoro. Una volta cercai di fare una striscia di genere ‘misterioso’ intitolata Hugh Donnit che aveva uno spirito eisneriano. Ho uno dei libri di testo di Will e l’usai per le ombreggiature nelle strisce di prova. Ma al syndicate non piacque così le ho riciclate in Marvin. Quando il papà di Marvin è coinvolto in qualche mistero, quello è Hugh Donnit”.

JACK JACKSON (autore di Comanche Moon e The Secret of San Saba)“Da ragazzo, ogni settimana lo Spirit di Eisner era il mio appuntamento settima-nale. Andavo regolarmente a casa di un vicino per prendere l’inserto a fumetti del giornale di San Antonio, perché loro lo prendevano e mia madre no. Nessuno disegnava donne sexy come Will e le sue pagine mi prendevano sempre”.

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UNA VITA PER IL FUMETTO

LE INTERVISTE

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Drew FriedmanIntervista raccolta il 27 febbraio 2006

Sapevo che Drew Friedman non sarebbe stato contento.Nell’istante in cui Will Eisner cominciò a parlarmi del suo ex studente alla

School of Visual Arts di New York, capii di trovarmi su un campo minato.Friedman è meglio noto per il tipico stile “a puntini” con cui esegue i suoi ri-tratti e, in particolare, le sue caricature. Conoscevo i suoi lavori soprattutto sulle pagine di “National Lampoon”, “Spy” e “New York Observer”, e per libri come Warts and All, Old Jewish Comedians, A Visual Encyclopedia e The Fun Never Stops e rimasi stupito dall’apprendere che era stato l’ennesimo, illustre ex studente di Eisner e della SVA.Ma Eisner non aveva niente di simpatico da dire su Friedman. Strano, perché in più di due anni di interviste e ricerche, raramente Eisner si era espresso ne-gativamente a proposito di qualcuno. Anche quando parlammo di Gary Groth, direttore editoriale di “The Comics Journal”, che notoriamente aveva sparlato di lui per iscritto, preferì non dire nulla di negativo a microfoni accesi.Il tempo di sentire le sue opinioni su Friedman e capii che avrei dovuto contattare il cartoonist per dargli una possibilità di replica.Via e-mail, Friedman declinò:

Caro Bob, apprezzo molto il tuo interessamento per i miei anni da studente di Will Eisner, ma non credo di avere niente di interessante da dire. Il corso risale a quasi 25 anni fa e ne ho solo vaghi ricordi. Non credo che intervistarmi ti potrebbe essere di una qualche utilità.

Buona fortuna col tuo libro.

Cordiali saluti,Drew

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Così, mi misi alla ricerca di compagni di corso di quel periodo in grado di for-nirmi un punto di vista indipendente. Nessuno voleva essere citato, ma avevo trovato conferma che almeno alcune delle affermazioni di Eisner a proposito di Friedman erano fondate.Nel febbraio 2006, alcuni mesi dopo la pubblicazione del libro, ricevetti nuo-vamente una comunicazione da Friedman. E la mia prima impressione venne confermata: non era per niente contento.

Caro Bob,ho comprato il tuo libro su Will Eisner l’altro giorno e mi ha stupito trovare il mio nome nell’indice analitico. Credo possa servirti sapere che alcune delle cose che Will ha detto nel libro sono pure e semplici bugie. Durante gli anni della SVA siamo sempre andati più che d’accordo e non sono mai riuscito a capire perché in seguito abbia cominciato ad avercela con me. Nel corso degli anni, da parte di amici comuni, ho saputo di come mi parlasse in continuazione alle spalle (dicendo cose false). Per amore di cronaca, Eisner non contattò mai, in alcun modo, mio padre. E mio padre non gli ha mai parlato. Ho visto mio padre ieri e me lo ha confermato. In secondo luogo, non ho mai fatto piangere Harvey Kurtzman. Harvey incoraggiava forme di caos durante le sue lezioni, convinto che questo tipo di cazzeggio giovasse alla creatività degli studenti. Una volta dovette uscire dall’aula per ricomporsi e pro-seguire la lezione, ma nessuno diede mai a me la colpa di questa sua piccola crisi. Nei tre anni in cui seguii i corsi di Harvey, i nostri rap-porti furono sempre ottimi, al punto che ci frequentavamo anche al di fuori della Scuola.Auguro al tuo libro la miglior fortuna, ma se gli altri ricordi e le te-stimonianze di Eisner sono fondati quanto quelli che si riferiscono a me, sarebbe forse meglio che venisse venduto nel reparto “romanzi”, di fianco al libro di James Frey.

Cordialmente,Drew Friedman

Friedman mi passava anche una testimonianza a conferma di quanto da lui soste-nuto: un’e-mail di Mark Newgarden, un suo compagno di corso alla SVA, a sua volta affermato cartoonist.

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Drew:

ho appena letto quella tua divertentissima lettera su Will Eisner.Per la cronaca, quello che dici è vero al 100% (mi ha sempre stupito come avessi continuato a seguire quel corso davvero detestabile: io lo mollai dopo un semestre, sempre che abbia resistito tanto).La mia impressione su Will Eisner era che tu gli piacessi davvero MOL-TO. Una volta, disse persino che gli ricordavi lui da giovane (natu-ralmente, a Will Eisner QUALSIASI COSA ricordava Will Eisner). Ma probabilmente, tra sé e sé, era irritato per il fatto che alla fine non rientravi nei ranghi degli altri adoratori di Eisner da lui coltivati nel suo corso. Non sapevo che in seguito avesse parlato male di te.E naturalmente il vero colpevole per avere fatto “piangere” Harvey (in realtà, era semplicemente diventato paonazzo ed era uscito dalla stanza, come da te riferito) era un certo James Stroud, che aveva cominciato a fare il verso ai Three Stooges per poi andare decisamente troppo in là. Ricordo quanto fosse diventato rosso LUI quando Harvey uscì.Anni dopo, a una delle ultime feste di Harvey per il 4 luglio, quando ormai riusciva a stento a parlare, mi disse solo due cose: “Come sta Friedman?”. E poi, quando gli dissi che avevo litigato con Artie Spie-gelman: “Brutta mossa”. Questo succedeva sulla scia di tutto il clamore mediatico per Maus e ricordo che Will Elder e sua moglie ne erano rimasti molto colpiti.Puoi passare questa e-mail a chi preferisci, se pensi che possa aiutarti a chiarire la faccenda.

Mark Newgarden

Poiché per un giornalista essere citato nella stessa frase insieme a James Frey non costituisce precisamente un complimento, e siccome ho sempre desiderato ri-costruire l’intera vicenda, ho invitato Friedman a rispondere pubblicamente a Eisner in questa intervista.

In quali anni hai frequentato il corso di Will Eisner presso la School of Visual Arts di New York?1980 e 1981, due anni. Frequentai la SVA dal 1978 al 1981, ma il primo anno non potevo iscrivermi al suo corso. Mi ero iscritto alla scuola per via dei suoi docenti. Quasi non potevo credere che ci insegnassero Will Eisner, Harvey Kurtzman e Art Spiegelman. Seguii il corso di Edward Sorel, e poi Stan Mack e Arnold Roth,

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e alcuni altri illustratori che ammiravo molto.

Lo Stan Mack di Stan Mack’s Real Life Funnies?Sì, teneva un corso.

Grande. L’ultima volta che mi sono trovato a una convention di fumetti, più di vent’anni fa, in qualche modo io e un mio amico siamo finiti in un suo fumetto. Una di quelle sue storie per la serie “storie origliate”.Sì, non potevi mai sapere quando sarebbe successo. A me non è mai capitato, ma al mio amico Mark Newgarden sì. Una delle sue storie che preferisco fu quando alla metà degli anni Settanta Robert Crumb venne a fare un concerto alla scuola. Fu prima che io mi iscrivessi. Ci infilò Harvey Kurtzman e il modo in cui disegnò Crumb era spassoso, perché lo fece alto e spropositatamente allampanato e ricur-vo, più di quanto si disegnasse lo stesso Crumb. Mi è sempre piaciuto un sacco.

Quando cominciasti a frequentare la SVA immagino che pensassi già di fare il carto-onist, o comunque il disegnatore.Sapevo quello che volevo fare e quando lasciai la scuola le cose non erano cam-biate. Ritrovarsi in quell’ambiente, con tutte quelle persone, era fantastico. Non saprei dire quanto ho realmente imparato... era un posto fantastico per passarci il tempo e incontrare gente e divertirsi, sostanzialmente era questo il punto. Ma, sì, pensavo di fare il cartoonist, solo non avevo ben chiaro quale tipo di cartoonist volessi essere.

Avevi pubblicato qualcosa, a quel tempo?Al secondo e terzo anno alla SVA cominciai a pubblicare su un paio di riviste underground, tipo “High Times”. Inoltre, all’epoca Art Spiegelman cominciò a fare “RAW”, così mi sono ritrovato nel primo numero.

Due buoni punti di partenza.Sono partito in sordina, per crescere lentamente. Tutto qua.

Quando cominciò il corso di Will, quali altri corsi avevi già frequentato?Insieme al suo cominciai il corso di Harvey Kurtzman e quello di Art Spiegelman, tutti lo stesso anno. Will insegnava... non ricordo il titolo del corso, era un corso di fumetti. Quello di Spiegelman era “Il linguaggio dei fumetti”, che sostanzial-mente era la conferenza che portava in giro, ampliata in un corso. E poi c’era quello di Harvey: “Fumetto umoristico”, credo.

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In che cosa erano diversi i due approcci?Nel corso di Harvey l’ambiente era totalmente informale, uno spasso. Il primo compito che diede – chiunque abbia mai seguito il suo corso ti dirà la stessa cosa – è gonfiare un palloncino per alleviare la tensione. Tutti dovevano gonfiare un palloncino fino a farlo scoppiare e, quando scoppiava, tutti ridevano e urlavano ed era un gran divertimento. Ma il punto era che una vignetta, una striscia do-vrebbe essere proprio così, e il risultato dovrebbe essere una specie di sorpresa. Non potevi sapere quando sarebbe arrivata. Perciò, da parte di Harvey si trattava di una sorta di affermazione di principio, ma era l’atmosfera del corso a essere esilarante. E lui voleva che fosse così, vitale. Portava mucchi di riviste che riceveva ogni settimana e le spargeva sulla scrivania, chiedendo a tutti di darci un’occhia-ta: fumetti, satira, tutto quello di interessante che gli era arrivato. Aveva sempre ospiti che passavano a trovarlo, persone con cui aveva lavorato in passato. Era un ambiente divertente.Il corso di Will era più serioso. Cominciava sempre la lezione con una specie di piccola conferenza. Argomenti che sceglieva lui, tipo quello che all’epoca finiva in Shop Talk: il suo modo di fare fumetti. Era circa una mezz’oretta, poi sostan-zialmente cominciavamo a lavorare per i fatti nostri. La maggior parte dei lavori che uscivano dal corso dovevano finire nella sua pubblicazione, “Will Eisner’s Gallery of New Comics”. Lo stesso col corso di Harvey. Tutti i lavori svolti, alla fine dell’anno venivano raccolti, ognuno esprimeva un voto e poi li si pubblicava sulla rivista di Harvey, “Kartunz”. La cosa buffa è che le curavo tutte e due io.

All’epoca del corso conoscevi i lavori di Will?Sì. Conoscevo bene le sue cose e quelle di Harvey, al contrario di un sacco di studenti. Si erano iscritti perché era obbligatorio oppure perché “ok, è un corso di fumetto”. Io invece li conoscevo bene. Avevo fin da ragazzo il libro di Jules Feiffer, The Great Comic Book Heroes, e durante gli anni Settanta mi ero comprato tutte le ristampe di Eisner, che fossero della Warren o della Kitchen. Insomma, sapevo bene chi fosse.

In quale anno hai curato “Gallery”?L’ho co-curato e ho scritto articoli nel 1980 e 1981, i due anni in cui ho seguito il corso. Il corso di Eisner era obbligatorio per il piano di studi quadriennale di un cartoonist. C’era solo un altro tipo che veniva dal cartooning e che all’epoca si stava diplomando. Non ricordo il nome.

Ricordi altri compagni del corso?Sì, ne ricordo parecchi. Per un po’ lo seguì Mark Newgarden, e anche un certo

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Kaz. Il primo anno c’era Mike Carlin, e poi Phil Felix, che per molti anni è stato poi il mio letterista (ha letterato anche Little Annie Fannie per Harvey Kurtzman). Fu lui l’altro curatore del primo numero di “Gallery”, insieme a me. Nel corso c’era anche la figlia di Phil Seuling, Gwenn.

Che differenza trovasti tra il primo e il secondo anno del corso?Sostanzialmente nessuna. Will era molto assorbito dalla sua lezione e restava leggermente contrariato quando la gente smetteva di ascoltare e cominciava a lavorare. Voleva essere al centro dell’attenzione, mentre molti semplicemente la-voravano, e la cosa sembrava scocciargli un po’. Questo è quello che sembrava a me. Gli piaceva avere sempre intorno una piccola folla, e parlare dei vecchi tempi. Raccontava un sacco di storie divertenti e di aneddoti, e non aveva problemi ad ammettere i propri errori. Avrai sicuramente sentito la storia di Siegel e Shuster che andarono a proporgli Superman, che lui rifiutò perché gli sembrava che non potesse avere un futuro. E poi quell’altro tipo che inventò “TV Guide” e che gliel’aveva proposta, e anche stavolta pensava che non sarebbe mai decollata per-ché la gente andava a guardarsi i programmi televisivi sui giornali, quindi, perché diavolo comprarsi una rivista apposta? Aveva senso dell’umorismo e rideva su queste occasioni perse.

Oh, non sapevo quella di “TV Guide”, fantastica.Credo che il tipo fosse Walter Annenberg. In qualche modo si conoscevano già. Nel tuo libro non c’è?

No.Be’, dovevi venire a parlare con me. Credo che fosse Walter Annenberg, perché poi era lui il titolare di “TV Guide”, e prima di venderlo a Rupert Murdoch aveva proposto l’idea a Eisner. “Che ne dici di una pubblicazione con tutti i programmi delle televisioni?”, e il resto è storia. E gli piaceva raccontarla e farci sopra una risata. Lo stesso con Superman.

Davvero divertente, col senno di poi, perché oggi diamo per scontato di trovare “TV Guide” allegato al giornale della domenica, ma sessant’anni fa, evidentemente, non c’era la TV, mentre se ci pensiamo c’era questo supplemento a fumetti, The Spirit, che usciva la domenica.Credo che quando lanciarono “TV Guide”, nel 1953, The Spirit uscisse ancora come supplemento per i quotidiani, giusto?

Aveva chiuso nel 1952 e al suo posto Will aveva cominciato a fare “PS Magazine”.

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Per quale ragione pensasse che come mossa commerciale fosse meglio di “TV Guide”... mi sarebbe piaciuto chiederglielo.La prima volta che ricevetti la tua mail, pensai che non volevo dire niente di nega-tivo nei suoi confronti, e in realtà non ricordo granché, visto che stiamo parlando di 25 anni fa, ma poi cominciai a pensarci e mi tornarono in mente un sacco di cose. Ne parleremo quando farai un sequel.Le cose che mi hanno irritato di più, di quelle che Will ha detto nel tuo libro, sono sostanzialmente due. Se avesse semplicemente detto che ce l’aveva con me, o anche cose offensive, se avesse detto che sono uno spaccone arrogante o un bastardo, o qualsiasi altra cosa, avrei lasciato correre. Ci avrei riso un po’ sopra, ma alla fine, è un po’ come diceva Oscar Wilde, o forse Oscar Levant: “Non mi interessa quello che si dice di me, purché non sia la verità”. Non ci sarebbe stato nessun problema, ma le due cose che mi hanno punto sul vivo sono quando dice di aver chiamato mio padre e poi che sarei stato io a far piangere Harvey Kurtzman. Finché tu eri l’unico a saperlo, non era nemmeno così importante, ma alla fine quelle cose sono state stampate. Quella della telefonata a mio padre è completamente inventata.

Quindi non lo chiamò mai?No, non parlò mai con mio padre, e mio padre non l’ha mai incontrato. E in tutta sincerità non sono nemmeno certo che mio padre sappia chi è Will. Non si è mai occupato di fumetti, anche quando frequentavo il corso, e Will non lo chiamò mai. Non c’era nessun motivo per farlo perché, come dicevo e come hanno di-chiarato un sacco di persone, sostanzialmente io e Will avevamo buoni rapporti. Li avevamo sempre avuti: io gli stavo simpatico e lui stava simpatico a me, anche se non avevo quel tipo di atteggiamento reverenziale degli altri studenti e mi viene da pensare che forse questo lo irritasse. Ma andavamo d’accordo. Da studente mi dava sempre una sfilza di A e curai la sua pubblicazione entrambi gli anni.Forse la cosa che alla fine gli scocciò di più fu che dopo la SVA non restai in con-tatto con lui. Non l’ho mai rivisto. E non tenni i contatti neppure con Kurtzman, se è per questo. Qualsiasi cosa avessi combinato nella vita, sarebbe sempre stato un rapporto insegnante-studente e la cosa non mi interessava. Inoltre, all’inizio degli anni Novanta rilasciai un’intervista a “The Comics Journal” in cui dissi al-cune cose sul suo corso. La domanda era: “Com’era frequentare il corso di Will Eisner? Gli studenti erano contenti?”. E io: “Non era ‘sta gran cosa. Era uno degli insegnanti e in uno dei corsi che frequentai eravamo non più di tre o quattro. quindi non è che ci fosse la fila, con un sacco di gente che faceva a pugni per frequentare il corso”. Poi dissi anche un’altra cosa, cercando di essere ironico, a proposito di alcuni cartoonist umoristici amici miei che frequentarono la SVA

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all’epoca e che alla fine sono andati a fare gli editor alla Marvel o alla DC: “Non so come riescano a guardarsi allo specchio”. Questo è quello che ho detto esatta-mente, e credo che Will abbia letto l’intervista perché mi sembra che la citi in un paio di occasioni parlando con te. L’altra storia che ha raccontato era che Harvey Kurtzman sarebbe andato a dirgli che l’avevo fatto piangere, e roba simile. Harvey era una persona fragile, e quel giorno, in particolare, doveva aver avuto problemi con qualcuno con cui lavorava, o con qualche consegna, magari per “Playboy” o chissà cos’altro. Quel giorno era davvero scosso, ma la lezione fu come sempre e, anzi, ci fu anche una visita, un nostro amico, uno completamente pazzo, che faceva il clown per il Ringling Bros. Circus. Era in classe con noi e questo amplificò la cosa.

Come si chiamava?Peter Pitofsky. Hai visto The Aristocrats?

No, non ancora.C’è anche lui ed è impossibile non notarlo, è una specie di versione totalmente fuori di testa di Curly Howard. Un tipo parecchio grosso, e con la testa rasata. Una volta sembrava normale ma adesso è davvero fuori. Insomma, è pazzo. È un Cristiano Rinato e bisogna stare molto attenti a come gli si parla. In sua presenza devo sempre controllare il linguaggio. Ma è pazzo e fa una comparsata nel film. Tutto il film si basa su dei comici che raccontano una certa barzelletta, e lui ne recita qualche battuta, ma subito si impappina. A guardarlo, dà quasi fastidio, ma è divertente. E lui era in classe il giorno che è successo, quando Harvey è stato co-stretto a uscire per ricomporsi un po’. Poi è rientrato, ma era calmo e imbarazzato, poi, come ricordava Mark Newgarden e io avevo dimenticato... c’era questo tipo che faceva dei versi, dei rumori in stile Three Stooges, e che era paonazzo quando Harvey rientrò. Insomma, era questa la situazione. È sicuramente possibile che Harvey ne abbia parlato a Eisner e che Eisner ne abbia ricavato una storia su quanto è carogna Friedman. Comunque, nient’altro che questo.

Vorrei fare un passo indietro. Nella tua mail accennavi al fatto di aver chiesto a tuo padre se fosse mai successo che Eisner l’avesse chiamato.Il giorno dopo avere visto il tuo libro, l’ho incontrato a pranzo, a New York. Così gli ho chiesto: “Ti sei mai sentito con Will Eisner?”. E lui, guardandomi: “No”. Va detto che mio padre non direbbe comunque mai niente di negativo su di me, ma se desideri scrivergli, puoi chiedere direttamente a lui e darebbe la stessa risposta, che non ha mai parlato con Will Eisner. Una volta lo chiamò Art Spiegelman, che però voleva incontrarlo per non so bene quale faccenda, niente a che vedere

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con me. In ogni caso, parliamo di anni fa. E Will non l’ha mai chiamato e non si sono mai parlati. Qualunque sia il motivo per cui l’ha detto, è pura invenzione. Non è mai successo.In definitiva, credo che se la fosse presa perché non ho tenuto i contatti con lui. Inoltre, so che seguiva i miei lavori e ogni tanto il mio nome saltava fuori tramite Nick Meglin, alle convention o in altre occasioni, e so che sapeva dei miei libri, perché negli anni Ottanta e Novanta lavorava con Denis Kitchen su questo o quel progetto, più o meno quando ci collaboravo anch’io. Sono sicuro che fosse solo una specie di rivalità e dipendesse dal fatto che fossi scomparso, e che questo l’abbia irritato.

Uscito dalla scuola, che tipo di lavori facevi? Come hai cominciato la tua carriera?Durante la SVA cominciai a fare dei fumetti che finirono nella mia prima anto-logia, che uscì nell’85-’86. Ma all’epoca facevo soprattutto cose in bianco e nero, cominciando da “Times” e “Screw” per arrivare a “RAW”, e poi anche alla rivista di Robert Crumb, “Weirdo”, e “Heavy Metal”. Ho pubblicato regolarmente su “Heavy Metal” e questo ha portato a un incarico regolare su “National Lampoon” e poi su “Spy”. La maggior parte di queste cose sono state raccolte nel mio primo libro e poi nel secondo, uscito nel 1991 per la Penguin, Warts and All. Circa dieci anni di fumetti e illustrazioni in bianco e nero, tutto raccolto in quei due libri. Dopo quello, negli ultimi dieci ho sostanzialmente lavorato per delle riviste.

Hai conservato le copertine di “Gallery”?Ho ancora gli originali, gli originali di Eisner. Posso mandarteli, se vuoi. Ne avevo un sacco, ma non sono certo di aver conservato tutto. Il secondo anno, ero l’edi-tor della rivista, dopo che gli avevo portato la copertina mi disse, in tono confi-denziale (mi ha sempre chiamato “Friedman”): “Friedman” mi disse, “ho sempre sognato che “Gallery” arrivasse a sembrare una rivista professionale, e finalmente adesso è così”. Fu gentile da parte sue, lo presi come un complimento.Il primo anno curai la rivista insieme a Phil Felix, e il secondo insieme a un certo Dave Dubnanski che, direi, seguì il corso di Eisner per un anno e mezzo. Poi se ne andò per dei problemi in famiglia, dovette trasferirsi in Connecticut.

In seguito ti è servita questa esperienza di produzione di una rivista?Sì, mi è servita, e lo stesso dicasi per il corso di Kurtzman. Mettere insieme una rivista, valutare il materiale da usare e quello da scartare. A volte capita di ferire le persone e i loro sentimenti. Per esempio, c’era una studentessa i cui lavori era-no tremendi, assolutamente terribili. Non dirò come si chiama, ma era davvero pessima e lo sapevamo tutti. Così, un bel giorno arriva con questo fumetto di

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dieci pagine, che io porto da Will, e gli faccio: “Non possiamo pubblicarlo, è im-barazzante”. E lui: “Friedman, capisco benissimo, ma lei e i suoi genitori pagano per questo corso, come tutti, e dobbiamo pubblicare le sue cose. Non posso farci niente”. Alla fine, riuscimmo a ridurlo a una pagina. In realtà, non potevamo veramente scegliere quello che avremmo voluto mettere nella rivista, perché tutti quelli del corso avevano diritto a pubblicare qualcosa e alla fine ci rassegnammo. Will fu abbastanza ragionevole da capirlo.

Era un uomo d’affari.Io ero il giovane idealista che diceva: “No, no, dobbiamo mettere solo le cose migliori e tagliare tutta la robaccia”. Lui, invece: “No, no, ci deve essere qualcosa di tutti”. Col senno di poi, era assolutamente giusto.

Hai imparato qualcosa anche in termini commerciali o comunque legato all’aspetto economico del lavoro? Joe Quesada, che venne bocciato lo stesso anno al corso di Eisner e a quello di Kurtzman, ha dichiarato che dal corso di Eisner imparò che un disegna-tore dev’essere anche un imprenditore.Non credo che mi sia capitato niente del genere. Quella rivista non era un’attività commerciale, veniva consegnata agli iscritti al corso e non c’era nemmeno pub-blicità. Ce n’era un po’ in quella di Kurtzman, così dovemmo andarcene in giro per New York a strappare inserzioni ai bar, ai locali e cose del genere. Ma in quella di Eisner non ce n’era.La cosa migliore del corso di Eisner era che potevo lavorare alle mie cose. All’epo-ca ero tutto concentrato a fare i miei fumetti. Quelli della prima fila davano retta a ogni sua parola, poi c’erano quelli delle ultime file, un po’ meno interessati, che volevano fare le loro cose o semplicemente cazzeggiare in corridoio. Direi che io ero un po’ a metà. I suoi racconti mi piacevano, e mi piaceva lavorare, ma volevo anche essere lasciato in pace, per fare i miei fumetti. La maggior parte di quello che facevo sarebbe poi finita in “Gallery”. Quindi non è che lavorassi per qualcosa che non c’entrava niente.

Sei stato molto gentile a concedermi questa intervista e, devo dire, non mi sembra che tu serbi alcun tipo di rancore.No, assolutamente. Mi dispiace che la sua versione fosse quella che ha rilasciato. Ero venuto a sapere che raccontava storie su di me. Me l’avevano detto un paio di amici comuni, tra cui Nick Meglin, e nel corso degli anni avevo pensato di aver chiarito la cosa con loro. Una delle cose che Will ripeteva in continuazione, e che ritenevo nient’altro che una battuta, era che non sarei mai riuscito a farmi una carriera se non fosse stato per la TV degli anni Cinquanta, ma questo non è vero

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perché l’unica parodia di quei programmi che ho fatto è stata I love Lucy. Ho fatto una parodia di Andy Griffith, ma quello era un programma degli anni Sessanta. Insomma, l’ho sempre vista come una battuta. Feci una striscia su un nero che capitava nello show di Andy Griffith, ma fu 25 anni fa.

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Howard ChaykinIntervista raccolta il 2 marzo 2006

Uno degli aspetti interessanti nel mio lavoro come biografo di Will Eisner è stato stabilire quanto i suoi ricordi fossero affidabili. Nel febbraio 2002,

quando lo conobbi, Eisner aveva 85 anni e, nel corso dei ripetuti incontri e della nostra frequentazione nei tre anni successivi, mi convinsi che la sua presenza di spirito e la sua memoria non avessero niente da invidiare alla mia, che avevo la metà dei suoi anni.Sempre durante questo periodo, solo alcuni dei suoi racconti mi hanno dato da pensare, racconti che alla luce di riscontri con terzi non tornavano. Uno di questi aveva a che fare con un suo incontro col disegnatore Howard Chaykin a Barcel-lona, in occasione di una convention di fumetti.Quando gli espressi i miei dubbi sul suo resoconto, Eisner insistette perché chia-massi il suo vecchio amico Joe Kubert: “Joe ti confermerà quello che dico”.Così, chiamai Kubert, il cui primo lavoro era stato per Eisner nel 1941, nel suo studio di Tudor City a Manhattan. Kubert mi riferì moltissime storie interessanti, ma non ricordava l’incidente di Barcellona come lo ricordava Eisner. Ecco come raccontavo la cosa in una prima stesura del libro:Eisner mi raccontò un episodio accaduto a una convention a Barcellona. C’erano parecchi disegnatori di fama, tra cui Howard Chaykin e Joe Kubert, e si parlava di alcune serie a fumetti. Chaykin citò Blackhawk, che una volta aveva disegnato.“È stato Will a creare Blackhawk” disse qualcuno.“Una della poche cose veramente fasciste che ho fatto in vita mia” commento Will.“Fascista?” replicò Chaykin. “Uno più democratico di me tu non l’hai mai cono-sciuto!”.Cordiale e affabile quasi sempre e su quasi tutto, raramente Eisner polemizzava con un collega disegnatore, e questa fu una di quelle volte: Chaykin era convinto che Eisner gli avesse dato del fascista e questo lo rendeva furioso.

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“Sembrava proprio che si venisse alle mani” ricordava Eisner, “alla fine ci separò Joe Kubert!”.Sul momento mi sembrò un aneddoto grandioso. E in due anni di interviste per il libro Eisner raccontò molte storie che trovarono conferma fino all’ultimo det-taglio. Solo in questo caso, il suo ricordo dei fatti non era quello che ne avevano gli altri presenti.“Howie è il classico tipo che dice un sacco di cose più che altro per amore di provocazione” disse Kubert interpellato sulla questione. “Will può avere avuto l’impressione che la cosa stesse degenerando in un litigio. L’episodio è accaduto e sono certo che Will fosse convinto che le cose stessero così, ma non riesco neppu-re a immaginare Howard che viene effettivamente alle mani con lui”.Eisner insisteva sul fatto che era andata come ricordava lui e mi manifestò il suo disappunto quando esclusi l’episodio dal libro. Ma con Kubert che ‘disinnescava’ in quel modo la versione di Eisner, non c’era motivo per approfondire e chiamare Chaykin.

Febbraio 2006. Sono ospite alla convention Megacon di Orlando per promuo-vere il libro. In una pausa tra una sessione di firme e l’altra, passo a salutare i disegnatori Nick Cardy e Al Feldstein che avevo intervistato a suo tempo. Alla sinistra di Feldstein c’era Chaykin.Salutando Cardy e Feldstein, lascio in giro alcune cartoline promozionali del libro e vedendo Chaykin occupato con un nugolo di cacciatori di autografi, ne lascio una anche sul sul tavolo, passando oltre.“Ehi!” mi fa subito Chaykin a voce alta. “Cosa cazzo ti fa pensare che me ne freghi qualcosa di un libro su Will Eisner?”.Ops.Vedendomi in trappola, e per di più in presenza di testimoni, mi presento. Chaykin non ha niente di gentile da dire su Eisner, così cerco di scusarmi. Niente da fare. Così gli dico dell’aneddoto scartato. A sentire la cosa, si irrigidisce di col-po. Non riesce a capacitarsi di come Eisner abbia avuto anche solo il coraggio di raccontare qualcosa di poco lusinghiero nei suoi confronti.Ancora più incredibilmente, Chaykin conferma sostanzialmente l’episodio e manda un accidenti a Kubert per averlo liquidato come non grave. È in quel mo-mento che mi viene l’idea di una serie di interviste supplementari a integrazione della biografia. Le persone con storie da raccontare su Eisner sono talmente tante che sarebbe stato interessante ampliare in questo modo la sua leggenda personale.

Ricordi la prima volta in cui hai visto il lavoro di Will Eisner?Assolutamente sì. Fu l’estate del 1966, le ristampe della Harvey. Non avevo mai

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visto le sue cose prima di allora e fu assolutamente sconvolgente. No, un momen-to, forse la prima volta fu in un articolo sul “New York Herald Tribune” che poi diventò The Great Comic Book Heroes, il libro di Jules Feiffer. Eisner aveva fatto una storia con Spirit che collaborava alla rielezione di John Lindsay ed Ebony era contrario per via della sua collaborazione con HarYouAct, un gruppo che all’epo-ca era impegnato per i diritti civili.Poi lessi le cose della Harvey che mi colpirono molto, davvero moltissimo. Ero letteralmente sconvolto dal suo modo di disegnare le donne. All’epoca, non ave-vo idea di quanta influenza avesse avuto su Wallace Wood, il mio disegnatore di riferimento per le bambole un po’ piccanti. Le donne di Will erano estremamente sensuali, una specie di incrocio tra Woody e Milton Caniff.

Quanti anni avevi nel 1965?Avevo quindici anni ed ero un “geek” dalla testa ai piedi. Obeso. Infelice. Il tipico lettore di fumetti. Ero asociale al 100% e vivevo immerso in un mondo di fanta-sia. Fu un grande anno per i fumetti, con Enemy Ace di Joe Kubert, Angel and the Ape di Bob Oksner e Nick Cardy, Denny O’Neil e Sergio Aragonés su Bat Lash.

Mi stavo appunto chiedendo se avresti citato Nick Cardy. Credo che per lui quello fu un gran periodo.Adoro le cose di Nick. Ci sono alcuni autori, tra cui lui, Ross Andru, Frank Thor-ne e pochi altri, che nessuno si ricorda più, come se non fossero esistiti... trovo che abbiano fatto cose assolutamente magnifiche.

Tornando a Will Eisner...Ma a te piaceva?

Sì, molto. Con me si è sempre comportato egregiamente.Perché ti intromettevi tra lui e la verità.

Spero di no.È chiaro che ti ha trattato bene, perché avresti messo per iscritto la sua vita e voleva uscirne sotto la miglior luce possibile. Era molto in gamba a gestire la sua immagine.

Su questo posso concordare, fino a un certo punto. Non ho avuto limitazioni su quello che avrei detto o scritto, o sulle persone con cui avrei parlato.Guarda, sono persino stupito che ti abbia raccontato quella storia per cui ci siamo conosciuti.

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Con me è stato molto corretto. Ho lavorato con lui per circa due anni e mezzo e c’erano solo due regole da rispettare. La prima la posero i suoi agenti Denis Kitchen e Judy Hansen: “Nessuna domanda sulla famiglia, sui figli”. E non mi dissero perché, solo “No”. Dopo circa un anno e mezzo, credo che ormai si fidasse di me. Eravamo nella sua cucina ed era molto tardi. Non restava mai alzato oltre le nove ma quella volta eravamo ancora lì, a parlare e a parlare... Gli stavo chiedendo di alcune fotografie attaccate al frigo. C’era una foto di lui con Neil Gaiman, Art Spiegelman e Scott Mc-Cloud. Cominciò a mostrarmene altre e a un certo punto disse: “Questo è mio figlio”. E io: “Non sapevo che avessi un figlio”. Fu quella notte che si confessò, che aveva avuto un figlio e una figlia, che la figlia era morta di leucemia nel 1969, a sedici anni, e che questo lo aveva distrutto. Tutte le foto di famiglia vennero eliminate dalla casa e la maggior parte delle persone che lo conobbero in seguito non seppero neppure che aveva dei figli.Non ne avevo idea. Ho incontrato la moglie di Will un paio di volte e sono sba-lordito.

Così, da un lato Denis e Judy che mi avevano detto di non tirare fuori l’argomento, dall’altro Will, che all’improvviso si sbottona e mi dice: “So che hai bisogno di saperlo e apprezzo molto che tu non l’abbia domandato, ma so che dobbiamo parlarne”, così mi raccontò tutta la storia.Scoprii che Contratto con Dio fu sostanzialmente la sua reazione, dopo anni, a quella tragedia, e la prima vera occasione per lui per farsi una ragione della morte della figlia. Il libro non parlava della morte della figlia di un vecchio e pio ebreo, ma di Will Eisner che piangeva la morte di sua figlia. Si chiamava Alice.Sono davvero colpito, proprio per la sua incredibile bravura nel gestire la propria immagine. Trovo che fosse un grandissimo imbonitore, un furbastro, in grado di manipolare le persone che lo adoravano, usandole a loro volta per proiettare una certa immagine di sé. Ne sono convinto.

Venendo al motivo del nostro incontro, l’episodio di Barcellona, vorrei inquadrare il contesto. Come mai ti trovavi là?Ero ospite della convention. Stando a quello che ricorda Joe Kubert, stavamo par-lando di Blackhawk, ma poi eravamo passati ad American Flagg, e Will mi aveva accusato di fare fumetti fascisti. In seguito ho capito che si basava unicamente sulla sua interpretazione del look delle copertine. Mi piace l’immaginario fasci-sta, trovo che abbia prodotto immagini estremamente forti. Mi piace quello che hanno fatto gli Italiani e i Tedeschi. Non aderisco in alcun modo alle questioni politiche, ma sono un grande appassionato di Ludwig Holhein, un illustratore

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pubblicitario che negli anni Venti e Trenta diventò importante per i suoi mani-festi per le SS. Un grafico e un designer stupefacente. Estremamente influente ancora oggi.Le mie copertine non mi hanno mai soddisfatto ma credo che, finalmente, con quelle avessi ottenuto un qualche risultato.Non credo che in quello che faccio si vedano influenze di Jack Kirby, o di Will Eisner. Rispetto moltissimo il lavoro di Will e nel libro che spero di scrivere gli riconoscerò il massimo credito possibile per avere sostanzialmente creato il vo-cabolario del linguaggio con cui lavoriamo oggi. È lui che l’ha codificato. Prima di lui, consisteva in una serie di idee empiriche, sperimentali. Poi arrivò Harvey Kurtzman e perfezionò il tutto.Tornando a Barcellona, Will faceva affermazioni sulla base del poco che sapeva.Voleva dare a intendere di saperne più di quanto sapesse effettivamente e spesso la faceva franca. Non ha mai letto molti fumetti contemporanei, non sapeva nulla del contesto in cui apparivano quelle copertine, eppure non ci pensava due volte a darmi del fascista. E non è il tipo di cosa che sono disposto a mandare giù.Sono figlio di liberal democratici e sono orgoglioso del mio posizionamento a sinistra su questo pianeta. In internet mi hanno dato del frocio di sinistra troppo spesso perché cambi idea adesso. Non sono un pappamolle, sono un liberal da Guerra Fredda, un classico ebreo socialista, e sono cresciuto in una famiglia so-stanzialmente laica.

Direi che questo ci porta al punto in discussione. Ricordo che Will mi disse “per poco non feci a pugni con Chaykin” o “per poco non mi prese a pugni” o qualcosa di equi-valente.Non colpirei mai nessuno, ma ero davvero scocciato. Offrii 10$ a Kubert per prenderlo a calci in culo e Kubert disse che per 20$ ci avrebbe pensato su. Era una battuta, stavo scherzando. Lui mi sembrò offensivo e borioso, accondiscendente. Mi convinsi che il suo rapporto con la maggior parte delle persone fosse di questo tipo, profondamente paternalista, ma tutti erano disposti ad accettarlo per via del grande amore che nutrivano per lui.

Certo. Quindi non avevi nessuna intenzione di mettere le mani addosso a Will.Ma andiamo! Non mi comporto in questo modo. Tendo a parlare al vetriolo, piuttosto. Una delle cose più frustranti del mondo dei fumetti è la costante di-storsione del termine “cinico” quando in realtà vogliono dire “scettico”. Consi-dero Will un cinico, se vogliamo, disposto a dire e a fare qualsiasi cosa pur di conservare il consenso del suo pubblico. Non penso che fosse cattivo, ma era paternalista e accondiscendente in quel modo così tipicamente ebreo-tedesco.

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Sono un ebreo russo e ho passato la maggior parte dell’infanzia in tuguri avendo per padroni di casa degli ebrei tedeschi, perciò so quello che dico.

C’è una parte di te che desidererebbe aver avuto una conversazione con lui per siste-mare le cose?Non me ne frega niente. La cosa buffa è che secondo me le due persone che hanno contribuito maggiormente all’evoluzione della narrazione a fumetti sono state Will Eisner e Harvey Kurtzman, e io non sono mai andato d’accordo con nessuno dei due.Non ho mai smesso di rispettare i lavori di Harvey e quando prendo un nuovo assistente, per fargli vedere come si lavora e quello che mi aspetto gli metto subito in mano Two-Fisted Tales, Frontline Combat e Terry e i Pirati.E mettendo da parte i miei rapporti con Harvey, i suoi lavori restano geniali. Non penso la stessa cosa delle cose di Will. Se analizzo le storie di Harvey, ne esco stu-pefatto ed estasiato. Raramente questo mi accade con quelle di Will. Sono carine, ma non mi interessano. L’unica volta che mi capita di pensare a Will Eisner è in conversazioni come questa.

Quindi a Barcellona non si sfiorò la rissa...Io ero incazzato ma non abbastanza da mettere le mani addosso a un vecchio ebreo. Detto come va detto, Joe avrebbe potuto prendere a calci in culo me. Venti minuti fa ero col mio assistente a parlare con Joe, e posso dire che potrebbe an-cora suonarmele come e quando gli pare. Una volta l’ho incontrato in un Hotel a San Francisco e lui col pugno mi ha dato un colpetto al mento che mi ha fatto tremare tutti i denti. Fisicamente, Joe è ancora incredibilmente forte e in una forma stupefacente.Ma no, non abbiamo mai rischiato la rissa. D’altra parte, quella volta pensai pro-prio che Will aveva parlato col culo, perché di me e del mio lavoro non sapeva niente. Basava tutto su un’occhiata rapida e superficiale alle copertine di Flagg.Will pensava che il mondo si dividesse in due: lui da una parte e tutti gli altri dall’altra. E che quello che facevano gli altri fosse implicitamente subordinato a quello che ne pensava lui. Il modo in cui liquidava Jack Kirby ne è un classico esempio. Non sono un grande fan di Kirby ma riconosco il suo ruolo e il suo po-sto nel pantheon del fumetto. Will non ha mai avuto una grande opinione delle sue cose. Sono certo di non dirti niente di nuovo.

Non mi ha mai detto niente del genere.Will considerava Jack come uno che macinava pagine, e basta.

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Se le cose stanno così, credo che avesse a che fare col fatto che avevano cominciato insieme e che questo è quello che Jack faceva agli inizi. Probabilmente non l’ha mai visto sotto una luce diversa, ma...Che gli piacesse o no, nell’evoluzione del fumetto moderno, Jack è il centro dell’universo. Quell’uomo è stato capace per più di cinquant’anni di produrre in quantità lavori di qualità, senza perdere colpi. È qualcosa di incredibile.

Evidentemente, dopo l’episodio di Barcellona la tua opinione di Will era cambiata, passando da una conoscenza superficiale a qualcosa del tipo “cacchio, questo proprio non lo sopporto”.Non mi piaceva per niente.

Quell’opinione fu peggiorata da altre cose accadute in seguito o finì tutto lì?Ci siamo ritrovati di nuovo insieme in Brasile nel 1993, o 1994, e c’era di nuovo anche Kubert. Joe è sempre uno dei protagonisti!

E in Brasile cos’è successo?Eisner mi stuzzicava. Non ricordo i dettagli. Eisner era da solo, senza la moglie. C’erano anche Jules Feiffer con la moglie, Kubert e Muriel, José Delbo con sua moglie Mabel, io e mia moglie. Will mi stuzzicava e credo che facesse così sempli-cemente perché pensava di poterlo fare. Jules buttò acqua sul fuoco e io apprezzai molto.Con Will ho avuto una relazione difficile che è durata fino alla fine. L’ultima volta l’ho visto a una cerimonia degli Eisner Awards a San Diego. Di solito mi alzo con le galline, e vado a letto alle dieci di sera. Erano le undici e mezza e mi ritrovavo a dover essere socievole e simpatico mentre in realtà ero sfinito e non stavo in piedi. E non ero neppure entusiasta di trovarmi lì. Non sono il tipo che vince quel tipo di premi, l’attenzione degli altri mi piace come piace a tutti, ma al tempo stesso non mi interessa poi molto l’entusiasmo altrui. Per questo motivo alle undici e mezzo di sera voglio essere a letto.C’era anche Will, e fu una cosa cordiale. Si rendeva conto anche lui che non ci volevamo particolarmente bene.

Negli anni hai mai conosciuto altri che nutrissero sentimenti analoghi nei confronti di Will?Gil Kane.

Che cosa diceva Gil?La pensava più o meno come me.

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Ti raccontò episodi particolari?Non proprio. Avevamo in comune questa antipatia. Will era stato santificato molto prima della morte. Okay, era un autore di grande talento, ma per la mag-gior parte della sua carriera è stato dalla stessa parte di Jack Liebowitz e Victor Fox. Non sarà stato altrettanto stronzo o altrettanto mafioso, ma a modo suo era eticamente compromesso.

Ti faccio una domanda diretta: chi è il personaggio meno amato nell’ambiente?Credo che John Byrne sia assai meno amato di me. Quanto a come verrò ricor-dato, io sono una figura cosiddetta “di culto”. Non sono mai diventato una star e la cosa mi va benissimo. Conduco una vita modesta ed è il mio lavoro a parlare per me. Di una parte di esso mi vergogno, perché ricevo in egual misura critiche e complimenti. E sono un po’ scocciato per certe cose e più contento per altre, ma a mano a mano che invecchio, mi addolcisco un po’, perché me ne sbatto i coglioni.

Guardando avanti, al futuro...Cioè trasformandomi in un vecchio ebreo, piuttosto che in un ebreo di mezza età?

Appunto. Credi che tra 20, 25, 30 anni Eisner sarà ricordato?Be’, Lou Fine o Harold Foster se li ricordano tutti? Questo settore è in gran parte un riflesso della cultura contemporanea. Basta guardare cos’è stato di J. C. Leyen-decker, che è stato completamente dimenticato finché, negli anni Settanta, non hanno riusato alcune sue immagini. È stato il poster per La Stangata a riportare J. C. Leyendecker all’attenzione del pubblico.Faceva illustrazioni per il “Saturday Evening Post” sin dagli anni Dieci e continuò fino al 1943. Morì nel 1950 e nell’ultimo decennio della sua vita il suo stile era diventato un po’ passé. Hai presente il manifesto di “La Stangata”?

Certo.Si ispirava a due illustrazioni per le camicie Arrow, credo. Era di Richard Amsel, un illustratore molto in gamba che è morto all’inizio degli anni Ottanta.Curiosamente, nel modo che Will aveva di rappresentare le ombre e i panneggi, quando col pennello suggeriva un dettaglio non con campiture nere ma con una serie di linee orizzontali, ecco lì si può trovare una versione semplificata e in bian-co e nero di quello che faceva Leyendecker quando interpretava ombre e pieghe. Facci caso, capirai cosa voglio dire.

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Mike RichardsonIntervista raccolta il 26 aprile 2006

Il 2006 non fu una brutta annata, per Mike Richardson. La Dark Horse, la casa editrice di fumetti da lui fondata nel 1986, era sopravvissuta ad alti e bassi del

mercato e quell’anno festeggiava il ventesimo anniversario.In quei due decenni, la Dark Horse aveva diversificato con successo la sua attività in numerose direzioni, tra cui la produzione di film basati su proprio personaggi come The Mask, Barb Wire, Hellboy e Mystery Men; la realizzazione di giocattoli; una catena di proprie librerie specializzate in fumetti – Things From Another World – e persino un’etichetta editoriale generalista, la M Press, che tra l’altro è la casa editrice negli USA di questo libro.L’uomo più alto del fumetto americano – 203 centimetri! – è anche uno dei più occupati. Durante la gestazione del libro non siamo mai stati in contatto, anche se io ci ho provato. Sapevo che Richardson aveva diverse cose da dire su Eisner ed è stato uno dei primi a cui ho domandato un’intervista.Nella chiacchierata che segue, il titolare della Dark Horse parla dell’influenza di Will Eisner su di lui sia come autore di fumetti che come imprenditore.

Parlami del tuo primo incontro con Will. Evidentemente, sapevi già bene chi fosse.Oh, naturalmente. Sono sempre stato un grande fan di Spirit e avevo scoperto il personaggio negli anni Sessanta, durante il boom degli albi a fumetti seguito al successo della serie televisiva di Batman. In realtà, il boom era iniziato prima, ma raggiunse l’apice durante la messa in onda dello show. Si pubblicava di tutto e da bravo collezionista di tutto – e intendo dire di qualsiasi cosa che avesse a che fare con gli albi a fumetti – spazzolavo in continuazione le edicole alla ricerca di ogni singolo albo. Adoravo l’eccitazione che accompagnava la scoperta di qualcosa di nuovo. Così, un giorno mi trovai per le mani questo albo con un sacco di pagine, una delle ristampe di The Spirit da 25 centesimi.

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Era l’edizione Harvey o...Sì, la Harvey. All’epoca i fumetti costavano dieci o dodici centesimi e con quello che costava quell’albo ne avrei potuti comprare due. Lo ricordo come se fosse oggi. Guardavo la copertina, la testata, come era disegnata, e non avevo mai visto niente del genere! Mi colpì immediatamente come qualcosa di speciale. Qualcosa di simile alla prima volta che ascoltai i Beatles, o la prima volta che vidi Muham-mad Ali. Uno di quei momenti in cui ci si rende conto che sta avvenendo qual-cosa di speciale. È quello che provai con quel fumetto in mano. Poi, passarono gli anni, e Jim Warren e Denis Kitchen cominciarono a ristampare quelle storie.Ricordo una convention di fumetti sulla costa est, nel 1988, probabilmente era a Chicago. La Dark Horse aveva cominciato nel 1986 quando gli editori di fumetti erano davvero molti. Poi ci fu la ‘strage degli innocenti’ e quasi tutti scomparve-ro dal mercato. Ma noi sopravvivemmo. All’epoca, Denis Kitchen era uno dei pochi davvero ricettivi nei confronti dei nuovi editori che cercavano un proprio spazio. Mi piaceva e ammiravo quello che faceva. Era una persona con cui si poteva parlare e soprattutto un uomo di parola. Denis stava passeggiando per il salone in compagnia di Will Eisner e quando Will si fermò per parlare con una persona, afferrai Denis per un braccio e gli chiesi se potesse presentarmi. Lui lo fece e con mia grande sorpresa Will si fermò effettivamente a parlare con me. Una cosa sorprendente. Per esempio, quando avevo conosciuto Stan Lee, lui mi aveva liquidato con “Proprio quello che mancava, un altro editore!” e se n’era andato via. Così, non mi aspettavo un trattamento diverso: la Dark Horse esisteva solo da un paio d’anni, c’erano un sacco di nuovi editori che sgomitavano per attirare l’attenzione e non c’era nessun motivo per pensare che noi fossimo speciali. Ma Will si sedette a parlare con me. Sono stupefatto ancora oggi.In quel periodo nel nostro ambiente c’erano molte persone che non si comporta-vano proprio correttamente, ma al nostro primo incontro due giganti del settore avevano trovato il tempo di sedersi a parlare con me. Uno era Will e l’altro era Jack Kirby. La prima volta che incontrai Jack parlammo per più di mezz’ora. Non riuscivo a credere a tanta fortuna: erano due persone che non avevano né il tempo né la necessità di stare a parlare con un editore appena nato e nonostante ciò lo fecero. Ed entrambi furono estremamente gentili e disponibili.Dopo quel primo incontro, mi capitava di trovare Will alle convention, e non mancavo mai di salutarlo. Non molto dopo, cominciammo a fare colazione insie-me e cercai di convincerlo a fare qualcosa con me. Quando fondai la Dark Horse, avevo in mente un elenco di persone con cui avrei voluto lavorare e Will Eisner era in cima.

Ricordi di che cosa parlaste quella prima volta? In questi racconti su Will, quello che

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di solito colpisce di più le persone è il suo interesse nei loro confronti, specialmente se si tratta di un editore.Ricordo bene di cosa parlammo. A Will interessava il cosiddetto “mercato di-retto” degli albi a fumetti. Gli sembrava un’ottima cosa che editori come me potessero farne parte e avere un maggiore controllo del processo di distribuzione. Questo mercato, caratterizzato dall’assenza di rese, aveva salvato l’intero settore e questo a Will interessava. Gli interessava anche il fatto che la Dark Horse avesse dichiarato pubblicamente di essere una casa editrice di fumetti i cui diritti resta-vano agli autori.

Un argomento che doveva interessargli in modo particolare.Assolutamente sì, e lo disse chiaramente. Un sacco di gente di successo dice sem-pre e solo quello che l’ascoltatore vuole sentirsi dire e non sono interessati ad ascoltare, ma Will faceva sempre domande. È sempre stato così, per tutta la sua vita. Quando si cominciava una discussione con lui era sempre un dare e un avere, non una conferenza. Alla fine ci ritrovavamo sempre in queste affascinanti discussioni sul futuro del settore, su come le cose sarebbero cambiate e in seguito, durante il periodo nero degli anni Novanta, su come uscire da quella situazione scoraggiante.Ricordo una colazione con lui a Chicago, negli anni Novanta. Il mercato era crol-lato ai suoi minimi storici e l’editoria a fumetti sembrava essere caduta ostaggio di personaggi femminili in costumi attillati, mentre le case editrici pubblicavano tutte lo stesso tipo di storia, violenta e aggressiva. Will, sempre ottimista, mi disse: “Be’, l’aspetto positivo di questa crisi è che farà piazza pulita degli editori e dei negozianti peggiori”. Sarcasticamente, gli risposi: “E se invece facesse piazza pulita di quelli bravi?”. E lui smise subito di sorridere! Se ne restò in silenzio per un attimo, poi rispose: “Non l’avevo mai considerata da questo punto di vista. Devo pensarci un attimo su”. Era un tale ottimista che non aveva mai pensato a questo aspetto della questione.

Credeva nella selezione naturale. In un’altra conversazione mi hai detto che Will era uno dei motivi per cui avevi iniziato a occuparti di editoria a fumetti, e che Will era il tuo modello, nel senso che...Ho cominciato a occuparmi di fumetti perché era la mia passione, il che spiega perché adorassi Will e i suoi lavori. Come dicevo, se si entra in contatto con certe cose a una certa età, poi non le si dimentica più. L’albo gigante di Spirit da 25 centesimi era così diverso da tutti gli altri fumetti di allora, per formato, grafica e contenuti! Conoscere Will ha solo aumentato quella passione.Per me Will era un modello perché per tutta la sua vita non solo ha mantenuto

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il controllo delle sue creazioni, ma ha anche gestito da solo le sue attività. Credo che si possa dire che sapeva utilizzare entrambi gli emisferi del cervello. Era un imprenditore di successo e aveva successo dal punto di vista creativo. Una com-binazione rara.Non avevo mai pensato di lanciare una grossa casa editrice. All’inizio volevo solo creare fumetti. Quando aprimmo la Dark Horse scrivevamo da soli i nostri fu-metti e trovavamo persone di talento disposte a lavorare con noi. La cosa fun-zionava, la Dark Horse ha decollato e da un giorno all’altro mi sono ritrovato editore e presidente di quella che ormai era diventata una società piuttosto grossa. Nonostante tutto il lavoro che questo comporta, continuo a scrivere fumetti e a svolgere attività creative.Alcuni pensano agli editori come a imprenditori e non come a una parte del pro-cesso creativo. Ho sempre pensato a me stesso come a un individuo creativo che si è ritrovato a lavorare in editoria. Al tempo stesso, ho sempre gestito la società con un certa solidità finanziaria. Al college ho studiato arte e in seguito ho lavo-rato come illustratore per diversi anni, prima di aprire la Dark Horse. Di conse-guenza, durante le trattative mi ritrovo in continuazione dalla parte degli artisti con cui lavoriamo, a volte persino a mio danno come editore, ma così vanno le cose. Credo che la Dark Horse sia riuscita a trovare un suo equilibrio tra arte e mercato, proprio come era riuscito a Will. Questo approccio ci ha mantenuti in vita molto dopo la scomparsa di altre società. Con l’eccezione di Marvel e DC, qual è la percentuale di riuscita delle centinaia di etichette di fumetto che si sono succedute dal 1986?

Qual è stato il primo lavoro di Will pubblicato dalla Dark Horse e come ci siete ar-rivati?Abbiamo pubblicato un certo numero di suoi libri. Il maggior successo di Will con noi fu Racconti di guerra. Ero stato attaccato alle costole di Denis Kitchen, che alla fine aveva acconsentito a lasciarci pubblicare alcuni dei vecchi lavori di Will. Con una certa riluttanza, Will aveva dato il permesso per Hawks of the Seas, la sua prima serie mai pubblicata, credo. Non gli interessava granché vederlo ristampato e credo che non fosse entusiasta del grande formato della ristampa della Kitchen Sink. Gli chiesi se potevamo portarlo a una dimensione inferiore e ricavarne un bel cartonato, cosa che alla fine abbiamo fatto. Eisner non era certo che ridurre il formato fosse la cosa giusta, ma cambiò idea vedendo le prove. La vecchia copertina della Kitchen Sink era brutta, ma avevo visto da qualche parte questa stupenda illustrazione con un soggetto piratesco che Will aveva fatto senza nessun collegamento con Hawks. Gli chiesi se potevamo usarlo come copertina e alla fine riuscimmo a mettere insieme un libro di suo gradimento.

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Quindi per un po’ non era stato proprio entusiasta.Diciamo che non bruciava dall’impazienza di vedere ristampato quel libro. Credo che alla fine avesse acconsentito più per la mia insistenza nell’avviare una linea Dark Horse di suoi lavori che per il suo interesse in una ristampa di Hawks of the Seas. Ma poi cominciammo a discutere di come riproporre altri suoi lavori meno noti e il buon risultato di Hawks lo aveva reso più ricettivo.

Uno dei progetti maggiori è poi stato il Will Eisner Sketchbook.Avevamo già fatto un certo numero di libri illustrati, e Denis aveva suggerito di ristampare la prima edizione del Will Eisner Sketchbook della Kitchen Sink. Diana Schutz propose invece di fare un nuovo libro con materiale mai pubblicato pri-ma. Mi sembrò un’idea strepitosa, Will diede l’ok e decidemmo per una produ-zione di primissima classe. Credo sia uno dei nostri libri migliori di sempre, e so che Will lo adorava. Era entusiasta di quel libro.Ancora oggi mi piace aprirlo e restare a sfogliarlo per un po’. Mi sentii legger-mente intimidito il giorno che Will chiamò e disse: “Ehi, Mike, scegli una pagina qualunque dello sketchbook, vorrei regalartela”. Avevamo nei nostri uffici tutti i suoi bozzetti a matita ed era una scelta difficile. Alla fine mi decisi, e gli mandai l’illustrazione perché la firmasse. Lui mi scrisse una frase stupenda in fondo e oggi quel disegno è appeso alla parete davanti alla mia scrivania.

Di quale si tratta?Quello in cui Spirit è legato a terra, con le braccia stese e circondato da una gran torma di criminali. Immagino che mi mancasse un po’ di bondage! Non ricordo dove fosse apparsa originariamente, ma era una copertina.

Ti sei mai rivolto a Will per dei consigli o era un rapporto più informale, fatto di chiacchiere quando vi vedevate?Oh, no! Capitava spesso che chiamassi Will e parlassimo al telefono di un sacco di cose. Le conversazioni di persona erano più generiche, a meno che non ci fosse un argomento specifico di cui parlare. Will non diceva mai “Vorrei darti un con-siglio”. Certo, dalla sua esperienza e dal parlare di questo o di quello c’era sempre da guadagnare, ma non diceva mai “Dovresti fare così”. Lo si ascoltava perché in qualche modo a lui era già successo, c’era già passato. E la sua comprensione del settore era incredibile, non solo per quanto riguarda l’aspetto creativo ma anche quello commerciale e imprenditoriale. Si poteva sempre chiamarlo e dire “Ehi, stavo pensando a...” o “Che ne pensi di...?” per poi tuffarsi in una lunga conver-sazione. Mi piaceva questo scambio di opinioni e lui adorava parlare di fumetti.

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A un certo punto fu vostro ospite a Milwaukee.Ogni estate, da più di 25 anni, si svolge in Oregon il Lake Oswego Festival of the Arts. Sandy Hagerman, una del posto che conoscevo già, propose all’organizza-zione del Festival di contattarmi per verificare la possibilità di fare qualcosa sul fumetto, probabilmente perché aveva visto la mia collezione. All’inizio storsero il naso all’idea: si tratta di vecchie signore socialmente iperattive la cui definizione di “arte” non comprende certo il fumetto. Sandy le invitò nel mio ufficio dove, a rotazione, espongo tavole originali di fumetti su due pareti. Ci sono lavori di al-cuni dei maggiori autori del mondo: Frank Miller, Geof Darrow, Al Williamson, Will Eisner, Paul Chadwick, Adam Hughes e così via. È il who’s who dei disegna-tori di fumetti. Così, le organizzatrici del Festival videro queste tavole incorni-ciate e appese a un muro, e una di loro esclamò, sconvolta – e intendo proprio sconvolta – “Questa è arte!”. Ma guarda un po’...Si infervorarono e con la mia collezione organizzarono una mostra di originali e una tre-giorni di fumetto. A quanto pare, quell’anno – il 2001 – il Festival regi-strò una delle partecipazioni più ampie di sempre.L’organizzazione mi chiese anche di chiamare due ospiti per parlare del fumet-to. La prima persona che chiamai fu Will, che all’inizio non era entusiasta del viaggio. Cercai di convincerlo: “Ci saranno migliaia di persone che non hanno la minima idea di cosa sono i fumetti e avrai la possibilità di parlare con loro”. E Will: “Mi piace l’idea”. L’idea di parlare e predicare ai miscredenti lo infervorava, così accettò di partecipare insieme ad Ann.Invitai anche Harlan Hellison, che ha una grandissima cultura in tema di editoria a fumetti e della loro storia. Ed è anche un conferenziere divertente. Suggerii un incontro moderato da me, con Harlan e Will a discutere di fumetti e a incorag-giare la partecipazione dei presenti. Proposi di vendere biglietti per la serata, cosa che al Festival non era mai stata fatta: tutto l’incasso sarebbe andato all’organizza-zione. La prima serata andò esaurita, e quasi anche la seconda: furono entrambe affollatissime e raccogliemmo una buona cifra per il Festival. Stampammo anche una serie di poster disegnati da quattro disegnatori di fumetti di punta. Uno era di Will, un disegno grandioso sul fumetto come una della autentiche espressioni artistiche americane. Mi piace spesso sottolineare che, come il jazz, il fumetto è una delle poche arti autenticamente americane. Quando al Festival feci questa os-servazione, Will mi interruppe: “Mike ha ragione al 100%, ma vorrei aggiungere una cosa. Come il jazz, il fumetto è stato inventato da immigranti”. Personalmen-te, non ci avevo mai pensato, ma è assolutamente vero.

Ricordi qualcosa di particolare su come Will veniva visto dal personale della Dark

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Horse?Oh, è difficile spiegare quanto fosse rispettato da tutto il personale della Dark Horse. Chi non lo conosceva di persona lo conosceva di fama, naturalmente. Compresa mia madre. Non vedeva l’ora di incontrarlo e l’occasione si presentò a uno dei nostri pranzi insieme. Disse a Will che da ragazza leggeva The Spirit sugli allegati dei giornali. A sedici anni mia madre era già matricola all’università e ave-va vinto un concorso nazionale di disegno indetto da un’importante rivista, che prevedeva una borsa di studio in un college di sua scelta, ovunque le piacesse, nel paese. Era anche una pianista di grande talento e il motivo per cui ricordo tutte queste cose è che era anche appassionatissima di fumetti e lo diventai anch’io perché in famiglia non erano proibiti, anzi, lei ci incoraggiava a leggerli. Così, tra le altre cose, quando cominciai ad andare a scuola sapevo già leggere.

Ricordo che all’Eisner Memorial di New York il tuo tributo a Will fu un autentico tour de force. Prima, parlando del Will Eisner Sketchbook, mi hai detto che sei convinto che tutte le opere di Will dovrebbero essere in qualche modo a disposizione del lettore e che questo costituisce ancora uno dei tuoi obiettivi.Vorremmo contribuire e riportare in catalogo tutti i lavori di Will. È vero che, probabilmente, alcuni dei suoi lavori umoristici non reggono il confronto con le cose migliori. Ma, ugualmente, penso che dovrebbero essere conservati a titolo di archivio, per motivi storici. Il mio timore è che alcuni scompaiano, mentre è necessario che restino disponibili a tutti coloro che amano il fumetto e agli storici di questo linguaggio. Speriamo di pubblicare più cose possibile di Will.

Avete programmi, o comunque progetti già in lavorazione?Stiamo parlando con Denis Kitchen di uno o due, tra quelli possibili. Uno è un volume in stile Archivi con materiale di Spirit non prodotto da Will e pubblicato dalla Kitchen Sink alla fine degli anni Novanta.

The New Adventures, dico bene?Esatto. Abbiamo parlato con Paul Levitz della DC Comics che, molto genero-samente, ha suggerito la possibilità che nella numerazione possa seguire i loro Archivi di Spirit, diventando così parte della serie. Questo anche se l’editore re-sterebbe la Dark Horse.

Ci vorranno ancora diversi anni.Sì. Inoltre, bisogna prima occuparsi di alcune questioni.

Quali altri lavori ti piacerebbe ristampare? Prima citavi le cose umoristiche. Questo

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significa le Gleeful Guides, e un sacco di materiale per bambini per la Scholastic.Durante il boom delle “dot com” io e Will stavamo cercando di portare in rete un progetto di narrativa classica: Will avrebbe illustrato alcuni romanzi, con l’ag-giunta di un po’ di animazione in Flash. Dopo il crollo della new economy il progetto è stato sospeso ma Will aveva già iniziato a illustrare diversi di questi libri. Anche se alcuni erano ancora sotto forma di bozzetto, aveva già svolto una quantità di lavoro stupefacente.

Dicevi di aver tentato disperatamente di accaparrarti i diritti de Il complotto. Che cosa è successo?Non conosco tutti i dettagli del processo di assegnazione, ma il punto è che ero convinto che Il complotto fosse un lavoro da promuovere al massimo livello. Sicu-ramente, Will lo considerava molto importante e io ho cercato in tutti i modi di averlo, senza riuscirci.

Da quanto ho capito, esitava con Dark Horse e DC perché pensava che quel libro fosse il suo...Potrei anche sbagliarmi, ma a un certo punto mi sono convinto che pensasse che non sarebbe stato preso sufficientemente sul serio se fosse stato pubblicato da una casa editrice di fumetti.

Esatto. È quanto avevo capito anch’io.Me lo spiegò dopo essersi deciso, perché ero molto deluso. Avevo cercato davvero in tutti i modi di avere quel libro.

Ti eri reso conto che non era un problema con te e la Dark Horse, e che...Oh, certo, assolutamente.

...stava semplicemente cercando altro.Su alcuni progetti Will poteva non essere sicuro, ne parlavamo e magari alla fine si decideva: “Okay, Mike, procedi pure”. Con altri, invece, mi diceva: “No, guarda, non posso farlo con te, per questo e questo motivo”. Ho capito bene le motiva-zioni di Will per Il complotto, ma la delusione è stata lo stesso grande. Perdere quel libro mi è dispiaciuto moltissimo, volevo pubblicarlo io.

L’altra cosa che volevo chiederti è molto più personale. L’anno scorso la Dark Horse ha pubblicato due dei tre libri importanti su Will: Eisner/Miller e A Spirited Life.A Spirited Life, un libro davvero brillante!

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Niente adulazioni, per favore!È un libro ottimo. Non molto dopo, abbiamo pubblicato anche quello che forse è l’ultimo lavoro di Will, la sua storia per The Amazing Adventures of the Escapist.

Certo. Ma fermiamoci un attimo a Eisner/Miller: ha richiesto una lavorazione più lunga del previsto, ma qual era l’idea alla base del libro? Che cosa ti ha convinto a pubblicarlo?L’idea che due persone di una tale, incredibile importanza per questo settore si sedessero a parlarne era affascinante. Pensai che sarebbe stata una lettura ecce-zionale per chi come noi si interessa di fumetti. Ovviamente, sia Will che Frank esprimono opinioni e pareri forti, dal libro questo emerge bene. Non sono sem-pre d’accordo e in parte è questo a rendere interessante la lettura.

Certo, e a quanto pare quel libro ha segnato in un certo senso la fine del loro rapporto.Questo non è vero. Durante l’intervista possono esserci stati degli attriti, ma so per certo che Frank nutriva un grande rispetto per Will, e viceversa.

Devi essere stato contento per l’assegnazione dell’Eisner Award 2006. Dev’essere emo-zionante.Sì, è così.

Poi, naturalmente, A Spirited Life.Come ho detto, un ottimo libro.

Okay, okay! Sto cercando di esprimere al massimo un distacco professionale, ma perché la Dark Horse era interessata a pubblicare una biografia di Will Eisner?In primo luogo, fu Denis Kitchen a chiedermi se la cosa mi interessasse e subito pensai che sarebbe stato il libro definitivo su Will. Ancora una volta, a causa del mio interesse per lui volevo che l’editore di un simile opus magnum fosse la Dark Horse.

Di nuovo, cercando di essere professionalmente distaccato, che reazioni hai registrato – se ce ne sono state – dalle persone con cui hai parlato di questa biografia?Oh, l’adorano. Voglio dire che non si limita a informare ma costituisce un’interes-sante riflessione sulla vita di Will. E sono felice che l’abbiamo fatta noi. Sono fe-lice che tu abbia profuso il tempo e le energie necessarie a scriverla. Quanti autori di fumetti hanno visto la loro vita esposta e raccontata per le generazioni future?

Per me è stato un lavoro divertente. All’inizio, da persona che era cresciuta leggendo

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fumetti per poi allontanarsene e poi tornarvi... all’inizio, dicevo, davo per scontato che esistessero biografie di altri autori, condotte come biografie tradizionali.Se hai una lista dammela subito, perché io ne conosco pochissime.

Fui stupito da quanto poche fossero, così il progetto diventò “Dobbiamo fare la vera biografia di un uomo”, invece del solito incensamento con tanto di inchini eccetera eccetera...È una delle cose che la rende così interessante. Non c’è stato nessun tentativo di farla diventare qualcosa di tipicamente destinato al mercato del fumetto. È una vera biografia.

Ci sono altre occasioni o episodi riguardanti Will di cui vorresti parlare?C’è una cosa di Will che ricorderò sempre. Ero a una convention, esausto dopo giorni e giorni e decine di persone da incontrare tra una riunione e l’altra... non stavo più in piedi. Non riesco neppure a immaginare quanto potesse essere stanco Will, sballottato da un evento all’altro. Era naturale pensare che tutti quegli impe-gni lo avessero steso, ma di Will era incredibile proprio questo: in ogni situazione sembrava sempre fresco, su di giri. Per quanto fosse stanco, mi veniva sempre incontro con quell’incredibile sorriso, come se fosse felice di vedermi. Di certo, io avevo sempre un incredibile sorriso perché io ero felice di vederlo. Will era speciale e manca molto alle tantissime persone a cui ha cambiato la vita. Tengo la sua foto sulla scrivania e ha un sorriso incredibile anche lì.

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Abraham FoxmanIntervista raccolta l’8 maggio 2006

Mi trovavo nello studio di Will Eisner a Fort Lauderdale quando, nel maggio 2004, Will completò l’ultima pagina di quello che sarebbe stato il suo ulti-

mo libro, Il complotto. L’idea di darlo alle stampe lo elettrizzava.“Questo libro si troverà davanti a un sacco di sfide” mi disse, anticipando il di-battito che ne sarebbe nato.“Le persone per cui l’ho fatto sono gli stessi per cui vengono pubblicati I Proto-colli dei Savi di Sion. Lo scopo de Il complotto, l’unico vero motivo per farlo è che questo tipo di linguaggio ha la possibilità di farsi leggere dalle persone per cui sono stati scritti i Protocolli. Esistono decine di libri contro i Protocolli e sono tutti lavori accademici, per lettori sofisticati. Persone a cui non è necessario spiegare che si tratta di un falso. Ma con un romanzo a fumetti ho la possibilità di arrivare a lettori che non l’hanno mai sentito nominare. È più probabile che leggano un libro illustrato che non una stroncatura in prosa scritta da un accademico”.Per questo Eisner si era riservato i diritti di pubblicazione del libro in lingua ara-ba: voleva che il libro venisse distribuito senza costi, come materiale didattico. Ed è anche il motivo alla base di questa intervista con Abraham “Abe” Foxman, dal 1987 direttore dell’Anti-Defamation League (ADL).Foxman incontrò Eisner quanto Il complotto era già stato completato ma prima che venisse pubblicato e, come leggerete, si impegnò a nome dell’ADL a realizzare il sogno di Eisner di farlo arrivare a un pubblico di lingua araba che ben difficil-mente leggerebbe un lavoro più tradizionale e accademico.Attivista di fama mondiale nella lotta all’anti-semitismo, al razzismo e a ogni forma di discriminazione, Foxman è autore di Never Again? The Threat of the New Anti-Semitism. Tiene in continuazione incontri e conferenze contro l’odio e la violenza, ovunque si manifestino, dall’anti-semitismo alla guerra al terrorismo, e su temi riguardanti i rapporti chiesa-stato, l’intolleranza religiosa e l’Olocausto. È un appassionato sostenitore dello stato di Israele e una voce a favore della pace

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in Medio Oriente.Nato in Polonia nel 1940, Foxman si salvò dall’Olocausto grazie alla sua bambi-naia cattolica, che lo battezzò crescendolo come cattolico durante gli anni della guerra. I suoi genitori sopravvissero, ma 14 membri della sua famiglia scompar-vero nei lager. Nel 1950 giunse negli USA insieme ai genitori.Foxman è stato un membro dell’United States Holocaust Memorial Council isti-tuito dalla Presidenza degli Stati Uniti, nominato dai Presidenti Reagan, Bush e Clinton.

Qual è il collegamento tra l’Anti-Defamation League e Will Eisner? Quando si sono incrociate le vostre strade per la prima volta?Sto cercando di ricordare, ma sono certo che fu molto prima che scrivesse Il complotto. Sicuramente apprezzava e rispettava il nostro lavoro. Ci contattò, e fu allora che lo conoscemmo e cominciammo ad apprezzare il suo talento, il suo impegno, la sua dedizione. In un certo senso, aveva già cominciato a modo suo a cambiare il mondo e fu allora che ci conoscemmo, ma con Il complotto tutto diventò più coinvolgente.

Perché l’ADL doveva interessarsi a un fumetto, per quanto sotto forma di romanzo...?Be’, la nostra attività è combattere il pregiudizio e l’ignoranza, e a volte il modo migliore per trasmettere un antidoto è sotto la forma più semplice possibile, quel-la di un’immagine, o di una vignetta. Esiste un pubblico che non legge libri o giornali, ma legge vignette e fumetti. Malauguratamente, anche il messaggio razzista si trasmette spesso in questo modo ed ecco qua Eisner, una persona che sapeva usare questo linguaggio come uno strumento per raggiungere un pubblico di massa. Un pubblico meno sofisticato, magari, non saprei valutare questo aspet-to, ma certamente una parte della nostra società “infettata”.I Protocolli sono un falso pericoloso che negli ultimi cento anni ha procurato do-lori terribili al popolo ebraico. Sono stati usati per giustificare l’anti-semitismo, la violenza, la discriminazione politica. Fu così che, quando Eisner venne a trovarci col libro, ci spiegò che aveva dovuto farlo, spinto dalle sue convinzioni, che si doveva combattere i Protocolli in un modo che incoraggiasse la lettura, e propose di unire le forze. Fu circa un anno prima della sua scomparsa, e parlammo di che cosa si poteva fare. Alcune guide illustrate magari, in modo da arrivare al pubblico giovane. Aveva cominciato a sviluppare i suoi progetti, le sue idee...L’unica cosa su cui avemmo il tempo di metterci d’accordo fu la questione che lui stesso sollevò, la più importante oggi, e la più pericolosa. A causa del fonda-mentalismo e del nazionalismo musulmano, nel mondo arabo i Protocolli stanno vivendo una nuova vita in fumetti, libri e così via. Così Eisner mi disse: «I diritti

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in arabo sono vostri. Usateli, fateci qualsiasi cosa pensiate che possa essere utile per combattere anti-semitismo e intolleranza». Morì poco dopo. Da allora, abbia-mo discusso la cosa con diversi rappresentanti del Dipartimento di Stato, a Wa-shington, e qui a New York, cercando di convincerli a produrre il progetto. Oggi il Governo usa nuovi strumenti per comunicare col mondo arabo, per rispondere alle manifestazioni anti-americane, anti-sioniste e anti-israeliane, e so che stanno considerando la cosa. Il motivo per cui preferiamo che se ne occupi il governo è che loro hanno le risorse per occuparsi della distribuzione. Se per qualsiasi motivo decidessero che non fa per loro, ci rivolgeremmo al mondo no-profit.

Sto cercando di ricordare se sia stato Will a dirmi che aveva pensato che potesse essere pubblicato come una specie di inserto per i quotidiani mediorientali, più o meno come succedeva col suo vecchio The Spirit. Stiamo parlando di un progetto del genere?Stiamo parlando di qualsiasi eventuale possibilità di diffondere il libro.

Perché degli editori mediorientali dovrebbero anche solo essere disposti a farlo?Be’, perché dappertutto esistono brave persone. Le geografia non discrimina tra le persone illuminate, di buona volontà. Esistono persone di buona volontà che si rendono conto che si tratta di un falso, di un’odiosa blasfemia che ha istigato e prodotto odio e pregiudizi. Persone interessate a spiegare ai lettori di che cosa si tratta. Sono ottimista. Non mi alzerei la mattina per andare a lavorare, se non lo fossi.

L’ADL aveva mai fatto niente del genere? Aveva mai usato questo tipo di linguaggio per...No, no.

Se e quando si facesse, potrebbe inaugurare un nuovo filone, o si tratterebbe di un esperimento...Non esistono molti Will Eisner.

Cos’ha pensato la prima volta che ha letto Il complotto?Per cominciare, ero scettico nei confronti del fumetto in quanto tale. Sto ancora cercando di capire cosa penso di Maus, quindi mi ci volle un po’ di tempo. Alla fine, mi ha convinto, mi è cresciuto dentro, e mi sono reso conto del suo grande potenziale didattico. Perché, di nuovo, si tratta di uno strumento talmente...

Hai detto che ti è cresciuto dentro. Da ragazzo leggeva fumetti?No.

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Ricordi una qualche conversazione, in particolare, avuta con Will su questo, magari su come raggiungere...Oh, aveva capito benissimo quanto fosse grande il problema. E anche che ci sarebbero state reazioni gravi, perché sarebbe arrivato a un pubblico che nessun saggio avrebbe mai raggiunto, un pubblico non esposto ai libri. Era elettrizzato all’idea di rappresentare una forza di opposizione significativa all’odio e al pregiu-dizio, specialmente quelli fomentati dai Protocolli.

Chi porta avanti il progetto, ora che Will non c’è più? Qualcuno della sua famiglia?Sì, i famigliari e i curatori dei suoi interessi commerciali. Esistono un buon nu-mero di persone di buona volontà con cui siamo in contatto, con cui lavoriamo.

Questa intervista verrà letta da un sacco di persone che non sono ebree e che non cono-scono, e neppure sono interessate alla vostra missione. Mi chiedevo se potessi dedicare un minuto del tuo tempo per parlare un po’ dell’ADL, in una prospettiva storica.L’Anti-Defamation League è stata fondata nel 1913, in parte come reazione al linciaggio di Leo Frank, in Georgia. Diversi ebrei americani pensavano che l’A-merica fosse un paese diverso dagli altri e furono traumatizzati dal fatto che nel Sud fosse stato linciato un ebreo, con l’accusa di avere ucciso una ragazza cristia-na. Il tribunale l’aveva assolto ma fu ugualmente trascinato fuori dalla prigione e linciato. Questo episodio fu all’origine dell’organizzazione, che nacque con il preciso obiettivo di lottare contro la discriminazione del popolo ebraico, ma che aveva anche un’altra missione, quella di lottare per garantire nuove opportunità per tutti i cittadini. Opporsi al razzismo e al pregiudizio, non solo contro gli ebrei ma contro chiunque, nella convinzione che non si può avere una cosa senza l’altra. I razzisti odiano oggi uno e domani un altro, ed è necessario combattere il pregiudizio e promuovere la tolleranza e il rispetto per tutti.Esistiamo da più di novant’anni. Abbiamo scritto numerose leggi e contribuito a scriverne altre, abbiamo cambiato certi atteggiamenti ma non abbiamo mai tro-vato un vaccino contro il pregiudizio. Ancora oggi è necessario lottare, sforzarsi di guardare lontano, credere in una missione e in iniziative volte a trovare nuove strade, come quella di Will Eisner.Credo che si possa fare un confronto con Roberto Benigni e il suo film La vita è bella, quando tutti dissero “Non si può parlare dell’Olocausto con una comme-dia, facendo dell’umorismo”. Ma in realtà si trattava di un approccio brillante, che attirò un pubblico giovane, un pubblico nuovo, mettendolo a contatto con l’Olocausto, ma con modalità nuove. E in questo caso, trovo che il fumetto possa attirare un pubblico più ampio, nella lotta all’odio e al pregiudizio.

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Scott e Bo HamptonIntervista raccolta il 10 maggio 2006

I fratelli Scott e Bo Hampton, originari del North Carolina, hanno avuto un ruolo importante, seppur distinto, nel mondo dell’illustrazione per oltre 25

anni. Bo, il più anziano dei due, ha studiato con Eisner presso la School Of Visual Arts di Manhattan. In seguito, trascorse un anno come assistente di produzione di Eisner presso il suo studio di White Plains, nello stato di New York. Quell’e-state, gli capitò di portare con sé il fratello minore Scott, un giorno alla settimana, perché lo aiutasse e imparasse qualcosa. Quell’esperienza ebbe un impatto dura-turo sulle carriere di entrambi e prosegue ancora oggi.Ho lasciato a loro alcune meravigliose storie ancora da raccontare su Will Eisner.

Quando avete sentito parlare di Will Eisner per la prima volta?Scott Lo ricordo esattamente. Avevo più o meno quindici anni, ero a casa di un amico che mi mostrò le due ristampe di The Spirit della Harvey... erano della Harvey, vero?Bo Adoravo quelle ristampe. Le prime volte che le vidi io, prima di Scott perché sono qualche anno più vecchio di lui, avevo circa dieci anni, quindi doveva essere intorno al ‘64.Scott Non avevo mai visto le sue cose prima di allora. Quelle edizioni della Har-vey erano spettacolari, le lessi immediatamente, mi ritrovai con la testa che mi girava e diventai immediatamente un grande fan.

Ti colpirono anche per i colori...Scott Esatto. Ma non solo quello. Erano albi a fumetti. Avevano lo stesso formato e, sì, certo, i colori mi sembravano fantastici. Certo, è passato molto tempo da allora ma l’impressione fu di trovarmi di fronte a un uomo che sapeva disegnare per quel formato e per quel tipo di riproduzione, sfruttando le limitazioni della quadricromia dell’epoca. Ci sono dei disegnatori che conoscono bene i limiti e

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cercano di lavorare nell’ambito di quegli stessi limiti. È una delle grandi sfide di chi – per così dire – produce per la riproduzione. Penso che in questo Will fosse un maestro assoluto. Come Alex Toth. Il lavoro di Marie Severin ai colori per gli EC Comics è un esempio favoloso di collaborazione tra lei e l’intero staff di disegnatori di Gaines. Sapevano con che cosa avevano a che fare e lavoravano rispettando determinati parametri.

All’epoca, che cosa pensavi che avresti fatto, nella vita?Scott Oh, da quanto posso ricordare, l’ho sempre saputo. Avrei fatto il disegnato-re di fumetti. Bo ha sempre avuto molta influenza su di me. Qualsiasi cosa faces-se, la facevo anch’io, e fu lui a fare entrare i fumetti nel nostro mondo. Quando lui cominciò a disegnare, cominciai anch’io. Non so che cosa avrei fatto se per fratello non avessi avuto Bo. È una cosa buffa, perché in realtà sono stato influen-zato da persone che a loro volta erano state influenzate da Eisner. Semplicemente, non lo sapevo. E l’origine di tutto fu Bo.

A chi ti riferisci?Scott Bernie Wrigthson. Io e Bo guardavamo anche al lavoro di gente come Wally Wood, ma a un certo punto penso che la persona che stavo cercando di diventare era Bernie, e Bernie, naturalmente, aveva imparato tantissimo da Will, special-mente per quanto riguarda l’inchiostrazione. Una piccola digressione su Bernie. Dobbiamo spostarci leggermente avanti, quando mio fratello era già a bottega da Eisner e io ero il ragazzino che è sempre intorno, cercando di dare una mano in qualsiasi modo possibile, per il gusto di divertirsi e di imparare, ma non uf-ficialmente, al contrario di mio fratello. Ma c’ero quando saltò fuori il nome di Bernie e Will stava raccontando la storia di quando lui e Lou Fine fecero a gara con un pennello giapponese a chi riusciva a ricalcare più volte una riga prima di inspessirla, e vinse Fine. Ma poi aggiunse: “Comunque, ho ancora una delle mani migliori”. E Will non era il tipo da andare in giro a fare la ruota. E ancora: “Penso di potere tenere ancora testa a quasi chiunque, in tutti questi anni. Forse Bernie Wrigthson è più sciolto di me, chissà”. Fu così che Will nominò Bernie. Ma, naturalmente, se lo vai a chiedere a Bernie, vedrai che ammetterà subito che Eisner è stata una delle sue influenze.

In realtà è la prima volta che sento fare il suo nome. Il punto è che quando c’è di mezzo Will il mondo diventa improvvisamente talmente grande che...Scott Certe tecniche per accentuare le ombre, per esempio. Ci si può chiedere: chi le ha inventate? Lou Fine? Jack Cole? Will Eisner? Non credo che Bernie sarebbe arrivato tanto in là se non avesse studiato in quella scuola. Ne ho parlato

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con lui e ha sempre ammesso che Eisner ha influenzato il suo lavoro, e non solo nella tecnica con il pennello. La capacità di sfruttare il chiaroscuro, e poi gli aspet-ti più cinematografici. Quando Bernie proietta sulla parete un’ombra contorta, quello non è semplicemente espressionismo tedesco, è Will Eisner.Bo Il padre di Will faceva affreschi e dipingeva coreografie. I primi anni di Will, come me li ha raccontati, furono segnati da una costante esposizione ai problemi dell’illuminazione teatrale. Non c’è modo di dirlo meglio: si ritrovava davanti a quell’illuminazione secca e intensa sul palco e la riportò nei suoi lavori. Probabil-mente si può dire lo stesso di Wood.

A un certo punto, Bo cominciò a lavorare per Eisner.Bo Nel 1973 scoprii che Eisner insegnava alla SVA di New York e decisi, per questo unico motivo, di frequentarla per i due anni di college che mi restavano. Quando arrivai nel suo corso nel 1975 ero eccitatissimo su di giri. Finalmente avrei avuto delle vere lezioni di arte e di disegno. Tutti gli altri corsi che avevo frequentato avevano messo l’accento sull’illustrazione “non rappresentativa” e per me erano una specie di anatema. Adoravo gli illustratori americani come N. C. Wyeth, Pyle e così via, che allora erano totalmente fuori moda. Durante il corso di Will di “arte sequenziale” potevo finalmente fare quello che avevo sempre so-gnato, e cioè fumetti. Spesso Will rimaneggiava le mie vignette per correggere la prospettiva e lo faceva sempre disegnando quella che a me sembrava una scatola per scarpe ma senza la faccia superiore: i personaggi stavano al suo interno e anco-ra oggi, sempre di più, mi rendo conto che si trattava di un palcoscenico teatrale. Dopo i miei due anni alla SVA Will mi chiese di diventare suo assistente e io fui felice di continuare ad attingere da lui in qualsiasi modo possibile.Nel 1977 cominciai a lavorare nel Poorhouse Press Studio, sul retro della sua te-nuta di White Plain. All’inizio andavo allo studio cinque giorni alla settimana col treno dei pendolari, e alla fine ci andavo solo tre o quattro, portandomi del lavoro a casa. Ma quando al mattino arrivavo, veniva sempre a prendermi con quella vecchia Dodge Dart rossa che puzzava di tabacco da pipa alla ciliegia. Avevo 23 anni e alle 8.30 del mattino ero decisamente spento, ma Will era un tipo mattuti-no: non l’ho mai visto bere caffè, anche se probabilmente ne mandava giù diverse tazze quando si svegliava, alle sei o giù di lì. Ma quando mi accompagnava in auto mi svegliavo sempre, perché sapevo che sarebbe stato gentile con me e che avrebbe dato risposte cordiali e molto ponderate a qualsiasi domanda gli avessi fatto, per quanto stupida. E ce ne furono molte.Scott Quell’estate feci visita a Bo a New York. All’epoca lui stava in un apparta-mento di Flatbush Avenue, a Brooklyn, e faceva su e giù per lavorare allo studio di Eisner e un giorno alla settimana io lo accompagnavo. Alla Penn Station pren-

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devamo il treno per White Plains, dove Will passava a prenderci in stazione. Poi lavoravamo con lui tutto il giorno e alla fine ci riaccompagnava alla stazione.Bo stava dando una mano a Will per Contratto con Dio, che Will aveva deciso di stampare su una carta leggermente diversa dal solito, magari bianco-sporco, o con un colore scuro. E a noi sembrava una cosa grandiosa, ma lui ci voleva mettere anche un sacco di sfumature, in color seppia, una tecnica che stava usando per le ristampe di Spirit della Warren. Prendeva il tratto in bianco e nero che in origine era stato pensato per il colore e ci stendeva sopra una mezza tinta grigia, e avevo come l’impressione che ci avesse preso l’abitudine.Ma se devo dire la verità, il punto è che secondo me Will non aveva ancora ve-ramente deciso quale direzione prendere, che cosa voleva fare veramente, così intanto andava avanti e faceva lavorare Bo. In quel periodo, poi, c’ero anch’io, e potevo sempre tornare utile. Quindi, quando secondo me lui doveva ancora decidersi, ci siamo decisi noi a parlargli: “Senti, Will, secondo noi tutto questo non serve a niente. Il disegno è fantastico e va già bene: dovresti semplicemente stamparlo così com’è, senza mezza tinta”. Non so se qualcuno gli avesse mai par-lato in questo modo, ma alla fine abbandonò la mezza tinta.Ma il mio migliore aneddoto su Will è questo: stavo lavorando nello studio, era mattino, abbastanza presto. Will fumava la pipa e parlava al telefono con un qual-che consulente finanziario, cosa che gli sentivo fare in continuazione. Credo che avrebbe potuto lavorare anche al telefono e, in ogni caso, fare più cose insieme gli riusciva bene.Mi aveva dato dei bozzetti a matita de Il cantante di strada, in cui aveva segnato le zone in cui, indicativamente, voleva aggiungere la mezza tinta: lo aveva fatto su delle fotocopie e io avrei dovuto prendere l’originale, stenderci sopra un ace-tato e poi passare una tinta rossa dove avrebbe dovuto esserci la mezzatinta, ed è quello che sarebbe poi stato spedito al tipografo. Dovevo essere distratto, o non so cosa, ma a un certo punto mi accorsi che stavo applicando il rosso direttamente sull’originale, e mentre lo facevo, tra me e me, commentavo pure la cosa: “Wow, fantastico... ha molta più presa. Di solito l’acetato è molto più scivoloso; strano, però...”. Ed ero andato relativamente avanti quando mi resi conto che stavo lavo-rando sull’originale. Ero nervosissimo, lo giuro!

Andò prima da suo fratello o da Will?Scott Non ricordo. Credo che andai prima da Bo, perché non sapevo bene come comportarmi, e potrei anche avere pensato che si sarebbe sacrificato per me di-cendo che era stato lui, o qualcosa del genere. Ma in ogni caso, alla fine mi de-cisi... Bo non si prese la colpa e io andai da Will, dicendo: “Mr Eisner, temo di avere fatto un guaio”. Lui ci diede un’occhiata, mi fissò e togliendosi la pipa di

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bocca fece una specie di sospiro: “Fareste qualsiasi cosa per un originale, eh?”. Poi prese un taglierino e ritagliò la vignetta, che conservo ancora oggi. È quella con la donna che ha lanciato il bigliettino al cantante, giù nel vicolo, e lui sta guardando in alto col bigliettino in mano. Me la consegnò, poi piazzò sotto un altro pezzo di carta per ridisegnare tutto da zero, senza neppure guardare a quello che aveva già fatto. Al suo posto, probabilmente avrei cacciato via l’assistente e avrei sbianchet-tato il tutto, per cercare di riutilizzare l’originale. Lui invece quasi non lo degnò di uno sguardo e lo ridisegnò davanti ai miei occhi. Ero sbalordito. Poi, mi disse: “Sai, credo che questo sia venuto meglio”.

Fantastico, che storia!Bo Prima del fondamentale arrivo di Scott, nello studio io e Will lavoravamo alle storie di Spirit. Io facevo le mezzetinte e i ritocchi, mentre Will interveniva con tratti di pennino o persino di pennello, nelle vignette che avevano bisogno di una ripulita, o di qualche intervento. E lo faceva sulle tavole originali di Spi-rit. Ogni tanto, andavo in auto con lui fino al “caveau”, a prendere qualcuna di quelle vecchie storie di sette pagine, e quando dico “caveau”, dico sul serio, non scherzo: erano in una specie di cella di sicurezza in uno di quegli edifici appositi, a Manhattan. Le pagine erano enormi, qualcosa come 19 x 13 pollici [circa 48 x 33 centimetri], con tutti gli angoli piegati e con macchie di colla dappertutto, specialmente dove era stato modificato o rimosso il lettering o un qualche mon-taggio. Insomma, erano parecchio malmesse, ma i disegni erano tra i migliori mai eseguiti per un fumetto.Fu allora che Will mi disse che disegnavo le figure come se avessi “un manico di scopa su per il culo”. Che era un modo un po’ colorito di dire “rilassati, lascia che la gravità faccia il suo lavoro”. Mi mostrò alcuni esempi splendidi nelle pagine di Spirit e quando gli chiesi degli sfondi mi disse che uno dei disegnatori che gli piacevano di più era Jerry Grandenetti. Un disegnatore a cui nessuno avrebbe mai potuto rimproverare di avere un manico di scopa su per il culo, evidentemente. L’argomentazione di Will era quasi integralmente etnica, per così dire. Questo Grandenetti era italiano, un tipo assolutamente rilassato, e questo si vedeva nel disegno. Mi sento ancora punto sul vivo quando ricordo Will che me lo spiega, ma era ciò che avevo bisogno di sentire in quel momento. Immagino che avesse capito che ormai potevo sopportare un commento del genere. Ma la cosa più bella degli insegnamenti di Will era che ogni stroncatura era sempre seguita da un’osservazione di incoraggiamento su un altro aspetto del mio lavoro, e anche quello era assolutamente vero. Sapeva come conservare il giusto equilibrio.Scott Era un tipo fenomenale, di gran classe. L’altra cosa che ricordo di allora è quando gli mostrai il mio portfolio e lui disse che qua e là c’erano cose carine,

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poi però tirò fuori un disegno che avevo fatto a china, un’illustrazione di Ebene-zer Scrooge il giorno dopo il risveglio, esultante a letto, come se stesse urlando “Evviva, sono vivo!”. E Will mi disse: “Questo tuo personaggio, Scrooge, è molto rigido, non ha vita. Guarda com’è un personaggio mio”. E tirò fuori un disegno che aveva appena fatto, un’inquadratura di un personaggio che solleva le braccia, con tutti i panneggi del caso. Poi mi fa: “La differenza è che il mio personaggio sembra avere una vita sua, sia perché è effettivamente un elemento della scena, sia per la tecnica”. All’epoca il mio punto di vista era molto diverso ma non gli dissi che secondo me si sbagliava. In realtà, ci misi molto tempo a rendermi conto di quanto avesse ragione. Il punto è proprio questo: Will mi colpì moltissimo non sul momento, ma in seguito. E cominciai anche a capire che non sempre gli studenti, le persone che stanno ancora imparando, sono in grado di capire come stanno le cose. Non sono abbastanza sofisticati da riconoscere quello che vedono. È come se avessero una benda sugli occhi. Per avviarli nella direzione giusta, non ci si può aspettare che semplicemente capiscano tutto da soli ed è per questo che se uno studente mi guarda strano e mi fa “oh, non credo proprio. A me piace come lo faccio io”, lascio perdere e tiro dritto. Un giorno capirà.

Tutto ciò quanto durò?Scott Si tratta sostanzialmente di un’estate, quella della terza liceo.Bo Mi sono diplomato nel 1977, poi ho lavorato con Will per un anno.

Immagino che quell’estate ci furono un sacco di cose che colpirono molto entrambi.Scott Assolutamente, e specialmente tutto quello che riguardava Will, natural-mente. Tanto per cominciare, conoscere Will ed entrare in contatto con la sua etica e le sue abitudini di lavoro. Stiamo parlando di una persona che ancora conservava i suoi pennelli degli anni Quaranta.

Perché era avaro!Scott Be’, in parte è per questo, ma era anche molto preciso, e si prendeva cura delle sue cose. Il suo studio era anche un luogo di lavoro eccezionale. Era una zona stupenda, un ambiente quasi idilliaco per un disegnatore di fumetti. Inten-do dire che avevo sempre sentito che gli autori lavoravano da qualche parte nello stato di New York, a Nord, o nel Connecticut, o più a Nordest, in queste grandi case in periferie prestigiose, e finalmente ne vedevo una. Era la conferma di ogni possibile cliché che potessi avere in testa all’epoca, per un giovane che voleva fare il fumettista.Will fu la mia prima esperienza, e il mio modello di comportamento nei con-fronti di persone più giovani che vogliono cominciare, o semplicemente di chi

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vuole fare il tuo stesso mestiere. Non avevo mai passato tanto tempo in contatto con un professionista esperto; ne avevo conosciuti un paio alle Convention, per qualche minuto, ma con Will passai veramente del tempo, e fu qualcosa di molto importante... Non penso di essermene reso conto, all’epoca, ma per me era un vero onore, e lo capii solo in seguito. Conservo un sacco di ricordi e di immagini di quel periodo.Will era anche estremamente aggiornato su quello che accadeva all’estero. Gli editori stranieri gli spedivano un sacco di materiale e, di nuovo, anche questo fu una specie di prima volta, per me. Non avevo mai visto, o non avevo prestato molta attenzione ai volumi europei. Sapevo di Moebius da “Heavy Metal”, ma non avevo mai sentito parlare di Paul Gillon. È strano, perché a me sembrano tutti ricadere nell’una o nell’altra scuola, quella di Milton Caniff o quella di Alex Raymond, per esempio. Gillon era in quella di Raymond. Anche se non sembra-vano essere stati influenzati da Eisner in maniera specifica, lui era molto interes-sato ai loro lavori e a quanto succedeva in Europa.

All’epoca eravate pagati?Bo Io sì. E alla fine anche Scott... quando Will scoprì la sua esistenza!Scott Non mi aspettavo di ricevere niente, o almeno, non credo. Ma alla fine Will mi diede un po’ di soldi, cosa che mi stupì. Per me, la cosa importante era semplicemente essere là. Ma lui, fece il bel gesto di ripagare un po’ il mio tempo.

Ricordi qualche conversazione interessante con tuo fratello, sul treno che la mattina vi portava a White Plains e che la sera vi riportava a New York? A proposito di quello su cui stavate lavorando o che avevate fatto quel giorno?Scott Sì, una in particolare. Com’è noto, Eisner è uno dei più grandi illustratori di tutti i tempi per quanto riguarda la prospettiva intuitiva di edifici, paesaggi urbani e così via. Avevo lavorato su un’apertura di capitolo, o una qualche imma-gine abbastanza grande di una città, e ci avevo aggiunto delle ombre che Will non aveva messo. Avevo pensato che se c’era una sorgente luminosa tutti quegli edifici avrebbero gettato delle ombre, qua e là, e avevo cominciato e riempirle. Alla fine, avevo ottenuto questa specie di paesaggio cittadino fortemente contrastato, una cosa astratta à la Steranko, in bianco e nero ma lavorato in rosso su acetato.Osservato a parte, senza il disegno sotto, sembrava una fotografia, e Bo disse: “È la dimostrazione di come avevi tracciato bene la prospettiva”. E Will: “Non ha tracciato niente, l’ha ridisegnato”. E la sera, al ritorno, parlavamo di questo, e la conversazione proseguì fino a sera. Volevamo capire come tracciare un’ombra in prospettiva, ma non sapevamo come fare, se non intuitivamente. Così comin-ciammo a lavorarci su, per molto, molto tempo. E alla fine sia io che Bo avevamo

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più o meno messo a punto un modo che pensavamo potesse funzionare, anche se non ce l’aveva mai insegnato nessuno. Non sto parlando di prospettiva a tre punti o cose del genere. Per esempio, se il sole è alto nel cielo e abbiamo un blocco appoggiato su un piano, come calcolare fin dove si allungherà l’ombra?Il giorno dopo, Bo andò da Will, lui diede un’occhiata a quello che avevamo fatto, poi disse che quello era il modo corretto di procedere, formalmente, per tracciare le ombre. Poi però Will aggiunse: “Dovete capire il problema e imparare a risolverlo. Poi dovete interiorizzare le cose, farle vostre e se avrete un minimo di buon senso, comincerete a fare tutto in maniera intuitiva”. Non credo di avere mai più tracciato tante costruzioni prospettiche come allora! Ma volevo capire come funzionavano le cose e tutto partiva da quel paesaggio urbano di Eisner. Era questo il tipo di esercizio intellettuale che saltava fuori di tanto in tanto. Non è che gli stavamo addosso solo per fargli raccontare vecchie storie dei tempi dello studio Eisner/Iger, o com’era lavorare con questo o quel disegnatore. Si finiva anche sul tecnico e lui era assolutamente in grado di parlare di qualsiasi cosa.Bo Un’osservazione sui corsi di Will. La cosa migliore... era Will! Mentre la cosa migliore dei corsi di Kurtzman erano tutte le persone che ci portava, come Gahan Wilson, o un tipo che si era portato dietro uno Sketchbook di Robert Crumb! Harvey ci portò anche al Continuity Studio di Neal Adams e allo Studio di Wrightson, Kaluta, Smith e Jones! Quella volta Wrightson ci fece vedere di avere buttato un originale delle sue illustrazioni per Frankenstein, che aveva scartato perché aveva sbagliato un tratteggio nel cielo durante il passaggio a china. Ero al-libito, quasi in preda all’orrore. Si rifiutava di effettuare correzioni col bianchetto.

Facciamo un salto in avanti. Quando avete cominciato a lavorare autonomamente nel fumetto?Scott Più o meno intorno al 1981, direi. Poco dopo quell’estate con Will, ci trasferimmo. Bo finì gli studi e cominciò a lavorare. All’inizio, in un qualche videonoleggio, credo. Non ricordo bene che lavoro facessi io, ma tutti e due pun-tavamo a crearci un portfolio da far vedere in giro. Poi, verso il 1980-1981 ci trasferimmo a New York. Circa tre settimane dopo il trasloco, presi il coraggio a due mani e cominciai ad andare a colloqui con un sacco di gente, mentre Bo aveva incontri del genere la settimana dopo. Io trovai lavoro immediatamente con diverse case editrici, ed ero al settimo cielo. Ma questo aumentò la pressione psicologica su Bo perché anche lui trovasse qualcosa da fare. Andammo a trovare Will, a cui dissi che avevo trovato del lavoro e quanto fossi felice e lui mi fece: “Congratulazioni, è una gran cosa, ma sono più preoccupato per lui,” e indicò Bo. “Tu sei il fratello minore, voglio che anche lui ce la faccia”. E Bo: “A me tocca la settimana prossima”. Ma trovai commovente il fatto che si preoccupasse per

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Bo, e anche Bo ne fu colpito. Qualche giorno dopo Bo va alla Marvel, e dovevamo incontrarci in stazione per poi tornare insieme in New Jersey, circa un’ora e mezzo dopo. Io dovevo lasciare dei lavori o prendere in consegna una sceneggiatura da qualche parte, e recitavo la parte del professionista di lungo corso, mentre lui andava in giro a cercare la-voro. Lo aspettai per quattro ore. Alla fine, arrivò e aveva un gran sorriso perché gli avevano dato del lavoro alla Marvel. Così, avevo le scatole un po’ girate ma ero anche contento per lui.

Erano i vostri primi incarichi?Scott Ottima domanda, anche perché nel 1979 avevamo fatto delle cosucce, pa-recchio imbranate. Io un paio di frontespizi per Secrets of Haunted, una serie della DC, quindi potremmo dire che il mio primo incarico era stato quello, ma con questa eccezione, il primo lavoro con una certa continuità fu una sceneggiatura di Todd Klein per un albo della DC che doveva esordire da lì a poco, New Talent Showcase. La storia si chiamava Class of 2064. Era una storia in tre parti e Todd Klein, come saprà, è uno dei migliori letteristi del settore. È anche un ottimo grafico ma allora aveva scritto questa sceneggiatura e alla fine chiesero a me di disegnarla. Quel primo giorno trovai questo lavoro, oltre a una sceneggiatura del-la Warren per una delle loro riviste, che chiuse da lì a poco. Così, grazie al cielo, la storia restò inedita. Sempre lo stesso giorno, vendetti una storia di sei pagine ad Archie Goodwin per “Epic Illustrated”. Tutti e tre i lavori nello stesso giorno.

Una buona giornata...Scott Sì, decisamente.Bo Il mio primo lavoro me lo diede Joe Orlando ed erano alcune pagine per Witching Hour, un albo della DC, nel 1978. Ho le prove: la data è sul retro della pagina originale! Come la mettiamo, adesso, eh? E poi fui io a procurare a Scott i suoi primi appuntamenti, perché poco dopo avevo fatto una storia per Jack Har-ris, l’editor di Secrets of the Haunted House, sempre della DC. Gli avevo mandato delle cose di Scott e così lui fece una storia di una pagina di Destiny. Poi io feci un’altra storia di cinque pagine per Jack, e alcune prove per una serie intitolata Mr. E. Alla fine però la cosa andò a quel bastardo di Dan Spiegle. Con la sua versione del personaggio Dan mi diede sonoramente la polvere ma naturalmente all’epoca non potevo rendermene conto. Poi con la DC ci fu un black out fino all’82 o all’83, quando ci avventurammo nuovamente a NY e Scott ebbe il suo momento di gloria e io mi rimisi in moto, questa volta con Swamp Thing e Epic, e in seguito Moonknight. Avevo inchiostrato un sacco di matite di Will per i libri umoristici che faceva per la Scholastic ed ero convinto di avere “assorbito” il suo

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tratto. Nella prima parte della mia carriera professionale ero convinto di averlo applicato correttamente ma, naturalmente, ancora una volta non avevo capito bene come stavano le cose.

Nel corso degli anni, avete mantenuto i contatti con Will?Scott Sì, per un po’ ogni volta che facevo un libro gliene spedivo una copia per l’archivio e una perché ci facesse sopra tutti i suoi appunti, e gli chiedevo: “Per favore, fammi a pezzi e spiegami come posso migliore questa roba”. Avrei con-tinuato, ma a un certo punto mi sono messo a fare lavori molto commerciali e spedirli a Will mi imbarazzava un po’ perché non era il tipo di cose che faceva lui.Bo Will ha sempre visto tutto quello che facevo perché gli mandavo tutto per po-sta, spesso in fotocopia. I disegni gli piacevano, ma mi richiamava sempre all’ordi-ne nelle questioni narrative, e aveva sempre ragione al 100%. L’unica volta che da lui ricevetti una lode sperticata e incondizionata fu per Underworked, una storia per il 25esimo anniversario di “Heavy Metal”. L’avevo scritta e disegnata con in mente l’approccio di Will e ancora oggi è una delle mie cose migliori. Peraltro, il biglietto di congratulazioni che mi mandò, senza nessuna critica – e sottolineo nessuna – venne prontamente smarrito e non rivide mai più la luce del sole. Chis-sà, forse mi sono sognato tutto.

Ricordate di avergli sottoposto qualcosa in particolare?Scott Sì. L’ultima cosa che gli ho mandato era un mio libro intitolato The Uptur-ned Stone, una storia di fantasmi di 64 pagine, una cosa tutta mia. L’avevo scritta e disegnata io e per questo motivo mi era sembrato che fosse il tipo di lavoro che gli poteva far piacere discutere con me. E per me era una storia importante. Me la rimandò con osservazioni precise su come avrei dovuto dare più rilievo in certi punti, sia alla parte illustrata che al testo.Per esempio, una delle cose che poteva dire era: “Non dare per scontato che il lettore capisca tutto la prima volta. Se è importante, ripetilo. Trova il modo per parlarne due volte, in modo che sia tutto chiaro”. Così, mi fece queste osserva-zioni e anche altre più generali, ribadendo che non vedeva l’ora di incontrarmi da qualche parte per parlarne in dettaglio, cosa che mi sarebbe piaciuta moltissimo.

Quando vi siete visti l’ultima volta?Scott A San Diego, l’anno prima della morte. Io e i miei amici stavamo al suo stesso hotel e la mattina lo incontravamo sempre a colazione. Di solito faceva colazione con i suoi editori francesi, o cose del genere, salutava e poi ognuno an-dava per la sua strada. Poi, l’anno dopo Will non c’era e tutti noi eravamo molto tristi. Nella sala del ristorante dell’hotel, in fondo a sinistra, c’era Bill Stout che

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faceva colazione. Ci notammo a vicenda, poi si aggregò qualcun altro che aveva conosciuto Will, e facemmo un brindisi alla sua salute.L’ultima volta in assoluto che l’ho visto stava firmando dei poster, in una stanza dell’hotel. Ce ne accorgemmo mentre stavamo andando verso gli ascensori, ed en-trammo anche noi. Eravamo io, George Pratt, John Van Fleet e John Hitchcock. Will stava firmando tutti quei poster con grande cura e ogni volta che ne finiva uno l’editore lo riponeva scrupolosamente da parte su un altro tavolo. Mentre Will si avvicinava alla fine, io presi il mucchio di poster che aveva già firmato, e una volta firmato l’ultimo Will ripose gli occhiali sospirando: “Finalmente ho finito. Cavolo, è stata dura”. E io: “E questi?”. Lui si voltò e si trovò davanti que-sto grosso mucchio di poster da firmare, e dovevate vedere la faccia che ha fatto... Scoppiammo tutti a ridere e lo rassicurammo sul fatto che era uno scherzo. Per questo tipo di cose Will era un gran tipo, che non si prendeva mai esageratamente sul serio. Credo che fosse molto consapevole di quanto molta gente lo ammirasse ed era sempre il primo a cercare di mettere gli altri e loro agio.Bo Anche per me l’ultima volta che l’ho visto è stata a San Diego. Ero con Alex Saviuk e Mark Sparacio, e feci un’ultima foto con Will, cosa che faccio assai di rado. Lo abbracciai e gli dissi che gli volevamo tutti bene. Mi sembrò così fragile. Denis Kitchen lo aiutava a camminare. Sapevo che stavolta “Ci vediamo, Will”. non era la frase più adatta. Sono felice di averlo salutato.

Avete mai inserito deliberatamente Will nei vostri lavori?Scott Be’, tanto per cominciare ho fatto una storia di Spirit.

Davvero?Scott Sì. Per The New Adventures, la serie della Kitchen Sink. Per tutti, fu l’occa-sione di fare “chapeau” al maestro. Insieme a Mark Kneece scrissi questa storia, Baby Eichbergh, sul rapimento del figlio di Lindbergh baby, con un lieto fine e con Spirit che risolveva il caso. Fu una delle cose più divertenti e godibili a cui ab-bia mai lavorato. Erano 16 pagine, o qualcosa del genere. Quindi, alla fine, ho fat-to Spirit, ho scritto e disegnato Spirit il che, lasciatemelo dire, è stato uno sballo.C’è un’altra cosa interessante da ricordare ed è che, per uno della sua età, Will è sempre stato in splendida forma fino all’ultimo giorno, e che in parte questo è dovuto al fatto che era un appassionato giocatore di tennis.Io e Bo ogni tanto giocavamo con lui, ma un certo punto anche mio fratello Toby conobbe Will, e lui e Bo finirono a giocare il doppio con Will e un amico di Will. All’epoca Toby era davvero forte e Bo no. Quei due vecchi signori diedero a quei ragazzotti una sonora batosta e non cercarono di addolcire la pillola. Toby ormai conosceva Will, il suo tipo di umorismo e sapeva di poterselo per-

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mettere, e se ne uscì con: “Okay, nonno, fatti sotto. Tu e io”. E Toby gliele suonò di santa ragione.Quanto a senso dell’umorismo Will era uno di una volta. Sapeva distribuire stoc-cate a destra e a manca ma sapeva anche accettarle. Così, quando Toby cominciò a prenderlo in giro, prese la cosa con stile. È questo il punto: era assolutamente sicuro del suo posto nel mondo.Sapeva di avere un’influenza enorme sulle persone. Non erano cavolate di circo-stanza quando tutti dicevano che con ogni probabilità Will è stato l’autore più importante che abbia mai lavorato in questo settore. Quando Alan Moore e altri lodavano Will come sceneggiatore non bluffavano di certo, dicevano le cose come stanno. Voglio dire che in definitiva è stato lui a fare capire a tutti che questa forma di espressione artistica è molto di più di quanto si pensi. E lui l’ha estesa, ampliandone la portata più di qualsiasi altro. Penso che alcune delle cose che ha fatto fossero talmente sofisticate da restare ancora oggi insuperate. Quindi, credo che fosse del tutto consapevole del suo valore, perciò non era poi così importante quando qualcuno come Toby lo batteva a tennis. Sapeva incassare una battuta e il fatto che ci fosse qualcuno migliore di lui, perché sapeva che come cartoonist era molto migliore di quanto chiunque di noi sarebbe mai diventato.

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Pete Poplaskiintervista raccolta il 25 maggio 2006

Nel corso dei tre anni di lavoro e ricerche che mi sono occorsi per scrivere la biografia di Will Eisner ci sono state qua e là alcune persone che non sono

riuscito a intervistare.Art Spiegelman e Frank Miller, per esempio, non hanno mai risposto alle ripetute richieste, mie o di conoscenze comuni. Harlan Hellison aveva accettato per poi cambiare idea, e questa è una storia a parte.Poi c’era Pete Poplaski.Poplaski aveva lavorato per quasi trent’anni come art director per Denis Kitchen. Durante questo periodo, si era occupato spesso di Will Eisner, prestando il suo tocco artistico a numerose riproduzioni di Spirit e a vari romanzi a fumetti.Fortunatamente per lui – assai meno per me – Poplasky abita e dipinge nel sud della Francia, praticamente dall’altra parte della strada rispetto a Robert Crumb, suo amico di vecchia data nonché leggendario autore di fumetti underground. Ma Poplaski non possiede un telefono. E non usa la posta elettronica.Gli scrissi all’indirizzo di Crumb, senza ricevere risposta.“Avevo ricevuto la lettera” mi confessa Poplaski nel maggio del 2006, al telefono dal Massachusetts, dove si trova in visita da Kitchen. “Volevo rispondere ma in quel periodo ero occupato con un lavoro, e rimandai la cosa. Inoltre, pensai che se volevo comparire nel libro, con citazioni corrette, avrei dovuto scrivere tutto, ma scrivo molto più velocemente al computer che a mano. Essendo un perfe-zionista, sarebbero occorse troppe stesure per ottenere quello che secondo me ci si aspettava, e avrei dovuto trascurare quel lavoro. Insomma, volevo esserci, contribuire con qualcosa, ma ero preso dal lavoro e da alcuni viaggi e misi tutto da parte. Poi, da un giorno all’altro, Denis mi manda una cartolina e il tuo libro è già pubblicato”.Poplaski è rientrato nell’orbita eisneriana lavorando alla grafica delle nuove edi-zioni Norton di Contract With God Trilogy e Will Eisner’s New York. Ha anche

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portato a termine l’ultimo volume didattico di Eisner, Expressive Anatomy, su cui ci dirà di più di persona.Se già conoscete Poplaski – l’uomo e l’artista – scoprirete aspetti interessanti non solo del suo rapporto con Will Eisner, Robert Crumb e Denis Kitchen, ma della sua vita e delle sue opere.Se, come me, ancora non lo conoscevate, leggerete una piacevole intervista con un uomo che ha attraversato una fetta significativa della storia dei comics (e dei comix).

Per tutti quelli che ti conoscevano ma potrebbero averti perso di vista, ti va di riassu-mere brevemente di che cosa ti occupi ora?Abito nel sud della Francia, dove dipingo paesaggi, figure e nature morte. Faccio su e giù col Wisconsin dal 1994.Nel 1992, insieme a Denis Kitchen, Marty Beauchamp e Bob Chapman facem-mo visita da queste parti a Robert Crumb, dopo una sua grande mostra. Tra una chiacchiera e l’altra, gli chiesi: “Senti, Robert, come te la passi qua in Francia? Uno dei miei sogni è abitare in Italia, dipingere, disegnare e lavorare alle mie cose più strettamente artistiche”. Mi rispose che Aline è una vera francofila e che adora la Francia. Inoltre, dovevano assolutamente lasciare la California perché non vo-levano che la piccola, Sophie, diventasse una di quelle “Valley Girl”. Così fecero il grande passo e si trasferirono in Francia.Anni prima, avevo barattato una mia natura morta con una storia di Robert di quattro pagine, The Short History of America. Ne fui il primo e unico proprietario per dodici anni, ma avevo dovuto venderla per pagarmi gli studi tornando al col-lege, nel 1989. Ero in California, a fare ricerche per il mio libro su Zorro, e come uno stupido mi separai da quelle pagine. Oggi potrei averle ancora e sarebbero in qualche mostra itinerante.

Stavo proprio per dire che oggi sarebbero una specie di rendita.Sì, è possibile, ma all’epoca, quando le vendetti, nel 1991, l’esplosione che avreb-be trasformato Crumb in una celebrità nazionale era solo agli inizi. Volevo pro-curarmi un po’ di denaro extra, in modo da portare avanti alcuni progetti su cui stavo lavorando e da potere viaggiare un po’, e non avevo altra scelta. O Crumb o il mio Prince Valiant.

E decidesti di tenere il Principe Valiant?Sì, e probabilmente fu un errore, ma non ci posso fare niente. Adoro Hal Foster e Milton Caniff, e sono cresciuto con loro. All’epoca mi privai di una parte della mia collezione di originali. Avevo una pagina di Steve Ditko e alcune altre cose,

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vendute per motivi di sopravvivenza. Comunque, abitando qui, e cenando spesso con Robert, ho raccolto un sacco di quei suoi disegni per segnaposto, e cose del genere. Così, non è che non possieda più originali di Crumb. Certo, The Short History of America è uno dei suoi capolavori e quando feci The R. Crumb Coffee Table Art Book per la Kitchen Sink ero ancora furioso con me stesso. Quando la MQ Publications mi chiese di fare The R. Crumb Handbook, pensai che forse era il caso di partire con The Short History. E così ho fatto.

Come decidesti esattamente di trasferirti in FranciaP? È vicino di casa di Crumb, vero?Sì, abito dall’altra parte della strada. Una volta, diretto a Parigi, persi il volo per un disservizio e dovetti aspettare un giorno. Come rimborso mi diedero buoni per 2000 dollari e cominciai a volare gratuitamente tra Parigi e il Wisconsin. A Parigi i Crumb mi prestavano l’appartamento che hanno là e una volta me ne stavo andando a passeggio, pensando a cosa mangiare: “Magari stasera ci starebbe bene qualcosa di Turco”. In quel momento guardo per terra e vicino ai miei piedi vedo 200 franchi. In pratica, fu Parigi a pagare la mia prima cena. Così, mi dissi: “Dev’essere destino che mi trasferisca qui”.Un amico comune di Angoulême, Jean-Pierre Mercier, si vedeva spesso con i Crumb, e una sera che c’ero anch’io, e stavamo chiacchierando, disse qualcosa come: “Vengo qui tanto spesso che potrei anche comprarmi una casa, così non dovrei essere sempre ospite dei Crumb”. La casa dei Crumb ha qualcosa come quindici stanze e ci stavamo tutti che era una meraviglia ma, al tempo stesso, Je-an-Pierre pensò che sarebbe stato un buon investimento comprare qualcosa, così se ne andò con Aline in giro per Sauvé, e trovarono questa casa ricavata da una torre dell’XI secolo. Il vecchio che la vendeva voleva 35.000$. Aline deve avere fatto una faccia strana, perché era incredibilmente a buon mercato! Ma il vecchio se ne accorse e disse: “Okay, okay, bisogna rifare il tetto... facciamo 25.000$”. Così, Jean-Pierre comprò la casa davvero a poco, ma alla fine non ci veniva spesso, così mi fa: “Pete, so che ti serve uno studio. Se mi aiuti con le riparazioni e paghi acqua e riscaldamento hai trovato una casa nel sud della Francia”. Insomma, un vero affare, non potevo rifiutare. Qualche tempo dopo, messi insieme 2.000$ pagai il riscaldamento centralizzato e lui era così contento che mi sollevò dal resto delle bollette. E io avevo una casa gratis nel sud della Francia.Così mi sono messo a seguire la corrente, e a lavorare ai miei dipinti. Conosco un paio di collezionisti che passano periodicamente a fare visita ai Crumb. Aline adora le mie nature morte e ogni tanto gliene piace una e me la compra. Così io faccio su un paio di bigliettoni e vado avanti per un po’.Sto cercando di non lavorare, finché ho un po’ di denaro per le piccole spese, per

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i materiali e per tornare ogni tanto in Wisconsin a trovare la famiglia.

Sembra che le cose procedano bene, insomma.Ho sempre avuto una predilezione per l’arte. Sono cresciuto con l’idea di diventa-re un cartoonist o un illustratore, ma quando ho cominciato a studiare Belle Arti mi è piaciuto molto e mi sono fatto coinvolgere dalla pittura. Credo che gli artisti si possano dividere in produttori di immagini e narratori. L’industria editoriale si trova tutta a New York, quella del cinema a Hollywood e nel Wisconsin potevo forse diventare insegnante di scuola media o di liceo, ma non mi interessava. Così ho smesso di studiare una prima volta nel 1972. Ma conoscevo già Denis, e riuscii a fare fallire la sua società la prima volta.

Oh, quindi fu colpa tua.Sostanzialmente, feci un fumetto incomprensibile abbastanza vistoso dal punto di vista grafico, e siccome era illeggibile era in anticipo sui tempi.

Di che cosa si trattava?Era il primo numero di Quagmire. All’epoca “Print Magazine”, una nota rivista di settore per grafici, illustratori e designer, fece un numero speciale sul fumetto, pa-ragonando Quagmire a Richard Corben e ad alcuni altri disegnatori underground che facevano cose piuttosto violente. Mi interessava lavorare sulle scene d’azione, sull’impostazione della pagina e cose del genere. Così, disegnavo pensando che a un certo punto avrebbe preso corpo qualche idea per la storia, ma non accadde mai…Quello che mi piaceva del lavoro per Denis era che potevo occuparmi di questo o quell’incarico commerciale e guadagnare un po’. Potevo lavorare su libri di tanti cartoonist diversi che ammiravo molto e per me era un modo per conoscere i miei eroi. A un certo punto, sono stato in contatto con Hal Foster e Al Capp, e poi ho cominciato a lavorare con Will Eisner, con Harvey Kurtzman, e ho conosciuto Wally Wood e Bob Kane. Credo di avere conosciuto davvero tutti, tranne Frank Frazetta. Questi incontri mi sono sempre piaciuti molto, sono una cosa fantastica.Nel 1980 ho lavorato per un po’ nella redazione della Marvel, tanto per vedere com’era, e fu divertente, ma anche un’attività noiosa, di routine.Amo anche viaggiare, e visitare i musei. Quando mollai gli studi, mi posi il pro-blema di come proseguire nella mia educazione artistica e siccome tutta la cono-scenza è nei libri e i grandi capolavori sono nei musei, pensai che dovevo andare a contemplarli nella loro versione originale. Poi avrei dovuto leggere tutti i libri, la corrispondenza degli artisti e poi la storia del periodo in cui sono vissuti, e poi le biografie romanzate per cercare di capire la sostanza del loro lavoro. Era questo il

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mio progetto, che avevo sempre presente mentre lavoravo per Denis. Poi conobbi Crumb e Will. Mi rispettavano per via di questo mio approccio accademico, e perché consideravo il fumetto una forma d’arte rispettabile, un linguaggio da esplorare e con cui si potevano sviluppare idee visive.

Ricordi la prima volta che hai visto lavori di Will Eisner o il primo incontro con lui?Come un sacco di baby boomers, quando The Great Comic Book Heroes di Jules Feiffer venne serializzato su “Playboy” me lo ritrovai in edicola, nel 1965. Lo comprò mia madre per me, strappando l’articolo e, naturalmente, c’era una gran-diosa splash di Spirit. La prima cosa che pensai fu: “Cavolo, questo sì che è in gamba. Chi diavolo è?”. Adoravo la descrizione che Feiffer faceva di Eisner, dello studio e di come all’epoca era un ragazzo che sgommava le tavole degli altri e liti-gava con Will su come si scrivevano le storie, persino imitando la firma di Eisner, di tanto in tanto, o riempiendo i neri. Pensai : “Wow, ma è fantastico. Vorrei fare qualcosa del genere anch’io. Quando uscì il libro, me lo feci regalare per Natale”.Quando uscirono le ristampe Harvey, me le comprai tutte. Più tardi lasciai il College e mi trasferii a Milwaukee per lavorare per Krupp Comix Works, il nuovo studio di Denis. A un certo punto, per lo studio di Denis passavano un po’ tutti, come Jay Lynch, Kim Deitch, Bud Plant e un sacco di altri che magari si fermavano un attimo lungo la strada per la convention di San Diego. Uno di questi aveva venti ori-ginali di Prince Valiant e diciassette Flash Gordon di Alex Raymond, così ebbi l’occasione di vedere quelle strisce in formato originale, e di tenerle in mano. Per un disegnatore è sempre importante studiare e potere guardare il tratto e la pen-nellata dei maestri.La prima cosa in assoluto che mi arrivò per posta , poco dopo l’inizio del mio lavoro, fu un pacco da Will. Era la copertina di “Snarf” 3, con Spirit circondato dalla scena del fumetto underground di allora. Ero ancora agli inizi con la tecnica del colore, e quando arrivò la copertina di Will ero un po’ nervoso. Denis mi chiese se me la sentivo di colorarla, e io: “Certo”. Come guida-colore Will aveva mandato un bozzetto a matita colorato. Con uno di questi ingranditori che usano i tipografi mi studiai il tracciato dei punti-colore delle edizioni Harvey, cercando di capire come si collegassero ai vari colori. Poi, a mano, ritagliai le maschere per il rosso, il blu e il giallo, e letterai anche la testata. Rimasi abbastanza soddisfatto, così cominciai a imparare diverse tecniche per il colore, e mi misi a guardare quello che facevano altri coloristi, come Harvey Kurtzman, che era molto in gamba. E anche qualcosa della Marvel, come per esempio le vecchie storie di mostri che erano molto semplici ma, proprio per que-sto, costituivano una sorta di vero e proprio “assalto primario” ai sensi. Quando

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vengono ricolorati, semplicemente perdono la forza di quei colori semplificati. Insomma, mi buttai davvero nello studio del colore.Quella copertina fu il mio primo vero lavoro a colori per Krupp Comix. Denis la conserva appesa al muro nel suo ufficio in Massachusetts. È incredibile vedere qualcosa che risale all’inizio della mia relazione artistica con Denis così a portata di mano.

Credo che sia stata inclusa anche nella biografia.Poter guardare gli originali è sempre fantastico. Quando Will e Denis si misero d’accordo per pubblicare le storie di Spirit fui felicissimo, perché così ne avrei lette sempre di più.Credo che la prima volta che Will passò da Milwaukee fu intorno a Natale, per controllare i colori del primo numero di Spirit, e ci conoscemmo nello studio. Will era molto interessato a tutto e discutemmo alcune modifiche ai colori.

Ne ricordi qualcuna in particolare?Con una matita blu Will faceva annotazioni al margine, su una fotocopia del disegno, suggerendo cose come “Un po’ più di luce qui” e “Più scuro”. Stavamo cercando di dare a Spirit un tono un po’ più da film noir aggiungendo una lastra di grigi al tratto nero.Sono un collezionista di vecchie strisce quotidiane e avevo studiato i colori di Flash Gordon, Jungle Jim, Prince Valiant e delle cose di Milton Caniff, Terry e i pirati e Steve Canyon. Un elemento cromatico importante era l’aggiunta del gri-gio, che produceva un colore rosso bordeaux o blu mezzanotte particolarmente ricco. Con Spirit cercai di virare un po’ più verso quella tonalità, per sottolineare l’atmosfera drammatica e perché pensavamo che avrebbe reso giustizia ai toni seri del personaggio e al tipo di atmosfera che pervadeva le storie di Will.Come dicevo, Will faceva un bozzetto a colori su una fotocopia, e devo averne ancora, da qualche parte, con tutti i suoi commenti. A volte indicava un colore particolare, come per esempio un blu piatto con il 30% di rosso, o cose del ge-nere, ma ciò a cui teneva di più erano i colpi di luce bianchi. Era con quelli che faceva emergere la figura di Spirit. Se si vuole controllare dove si posa l’occhio, bisogna ricordare che è attratto dagli estremi, dai neri più scuri e dai bianchi più brillanti. Era quello che faceva Will con le copertine e il punto era sempre dove collocare i bianchi e i neri, ai fini dell’effetto drammatico.

Per formazione, lo stesso Will era molto esperto di produzione e sentendoti parlare in questo modo viene da pensare che apprezzasse tutta questa attenzione e comprensione dell’importanza dei dettagli.

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Gli citavo e gli mostravo sempre le cose che stavo studiando per cui aveva un grande rispetto, come certe pagine a colori di Terry e i pirati. Ho sempre lavorato sulle copertine di Spirit e di Steve Canyon come se fossero stampe d’arte. Dove-vano notarsi da lontano: questo era molto importante e Will era contento che lavorassi così, perché tutti noi eravamo consapevoli di quanto il mercato fosse in-tasato di titoli. Come si può riuscire ad attirare l’attenzione del lettore? Come rag-giungere il pubblico potenzialmente disponibile? Stranamente, il maggiore critico della grafica dei libri di Will era Harvey Kurtzman, che diceva sempre a Denis di non lasciare a Will la versione finale della copertina. Kurtzman era convinto che il vero genio di Eisner fosse per la scrittura, per la narrazione e per il disegno, ma non nella confezione delle sue stesse cose. Secondo Harvey, Will non era mini-mamente interessato a questo aspetto di routine e aveva un approccio meccanico che non rifletteva i contenuti e non rendeva loro giustizia.

Col tempo, mi sembra che il mondo del fumetto si sia dimostrato frustrante per te. Probabilmente perché come diceva Jerry Iger a Will “È una fabbrica di salsicce; dob-biamo solo sfornarne un sacco”. E la tua attenzione per il dettaglio mi sembra molto più indicata per lavori nell’ambito delle Belle Arti.Non sono il tipo che teme di ripetersi. Il bello di un paesaggio è che si comincia a dipingerlo in un punto particolare, poi soffia il vento e l’illuminazione cambia, e ogni giorno c’è un nuovo tipo di sfida, una sfida che a me piace. Quando si tratta di produrre fumetti, ecco... Sono stato una parte della catena di montag-gio della Marvel quando ho lavorato per loro nel 1980. Avevo un amico, Mark Gruenwald, morto nel 1996, a cui chiedevo sempre: “Che cosa vuoi che finisca, adesso?”. E lui: “C’è una storia dell’Uomo Ragno che dobbiamo mettere in un What If...? , sono bozzetti a pennarello di Gil Kane. Riesci a metterli un po’ a posto e finirli tu?”. Così feci What If...? 30, che si intitola “Cosa sarebbe succes-so se Goblin non avesse ucciso Gwen Stacy?”. Poi lavorai su Thor 299, che era molto indietro. Poi un paio di pin-up. Ne inchiostrai una di Carmine Infantino per Ghost. Era divertente, mi piaceva andare in giro per la redazione e ascoltare tutte quelle storie su questo o quel disegnatore che ogni tanto passava a lasciare le sue tavole. Ho incontrato Steve Ditko e Jack Kirby, e un sacco di altra gente. Era una sballo, davvero, ma mentre ero a New York non feci solo fumetti, e mentre ero alla Marvel lavoravo anche per mio fratello, disegnavo paesaggi e vedute di Central Park.Avrei dovuto provare anche alla DC, ma quando ci andai l’atmosfera negli uffici era diversa: poteva essere una compagnia d’assicurazioni o cose del genere. Alla Marvel invece erano tutti pazzi scatenati. Jim Shooter ci faceva passare dal retro, noi ci intrufolavamo di nascosto e cominciavamo a lavorare, tutto il giorno. Poi

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una pausa, una partita di pallavolo al parco e di nuovo al lavoro a fare qualcos’al-tro. Da questo punto di vista, lavorare per la Marvel di allora era davvero da schizzati.Pensavo che sarei rimasto a New York portando avanti entrambe le attività, quella editoriale e quella artistica, cercando di mettere insieme un po’ di cose per le gallerie. Poi Denis Kitchen si sposò e anche un mio cugino, tutti e due lo stesso giorno, così dovetti tornare in Wisconsin per i due matrimoni. Non avevo un soldo, e mi fermai là. È tipico di me... sostanzialmente, mi lascio trasportare dalla corrente. Dipende da che cosa sto facendo in quel momento.

Torniamo a quando cominciasti a lavorare per Kitchen nel Wisconsin.Allora la Kitchen Sink Press si chiamava Krupp Comix Works, e pubblicò i primi due Spirit.

Fu il periodo in cui anche Cat Yronwode abitava in Wisconsin, a casa di Kitchen?In effetti potrebbe essere stata quella la prima volta che incontrai Will. Probabil-mente era il 1979, era estate, Cat si trovava là insieme a Denis McFarling e stava-mo lavorando a The Art of Will Eisner. Will passò a trovarci. Credo che all’epoca portasse i baffi. Ci divertimmo moltissimo: raccontava storie in continuazione, poi si mise anche a disegnare. C’era anche Cat e lo spronava a raccontare. Quan-do il libro fu pronto e più o meno stava per andare in stampa, lei e McFarling fecero le valigie, caricarono un jukebox sul camion e ripartirono.Quando facemmo il secondo Spirit, tagliai a mano tutti i retini per le quattro storie, perché la differenza tra il primo “underground” e il secondo erano i grigi nelle pagine interne. La semplice ristampa delle storie di Will in bianco e nero non sembrava abbastanza forte, graficamente. Will aveva disegnato Spirit per il colore e dopo il primo numero avevamo deciso di aggiungere i grigi, per aumen-tare l’atmosfera, e il senso del dramma. Invece di essere pagato chiesi una pagina di Will e lui me ne mandò una a mezza tinta, con Spirit e una specie di Wonder Man. Era la prima che aveva fatto per la nuova rivista ed era davvero stupenda.Questo accadde quando il mercato del fumetto underground stava andando a picco e la copertina la stampammo praticamente in proprio, nel tentativo di ri-sparmiare un po’. In ufficio avevamo una macchina da stampa e Tyler Lantzy, che si occupava dell’amministrazione, la usò per stampare le copertine, che poi spedimmo allo stampatore per la rilegatura insieme alle pagine interne. Per questo era di una di carta particolare e non la classica plastificata come quella del primo numero.Ma la colorazione non è male: la feci con mascherature di retini, per questo Tyler Lantzy dovette riprendere i negativi e sviluppare il tutto in redazione.

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Ti incontrasti nuovamente con Eisner?Quando cominciammo a ristampare lo Spirit post-bellico ero a New York da mio fratello e mi vedevo con Will alla School of Visual Arts, dove ho anche seguito uno dei suoi corsi. C’era una discussione molto interessante su come condurre due trame contemporaneamente. Mi fece anche tenere una lezione sul funziona-mento del mercato dei fumetti underground e su come produrre storie da pre-sentare. All’epoca, mi capitava spesso di trovarmi davanti ai lavori di autori che potevano già essere abbastanza bravi per la Kitchen Sink.

Ricordi i nomi?Uno fece delle copertine per la serie a fumetti dei Grateful Dead. Credo che si chiamasse Armstrong. Arrivò con un portfolio alla Chicago Comics Convention e lo raccomandai molto a Denis.Una volta accompagnai Will in una libreria di fumetti dell’Upper West Side per una sessione di firme. Ci incontrammo là, anche per discutere il mio lavoro di grafico per la nuova serie di albi a fumetti di Spirit, perché Will non aveva il tem-po di rileggere le storie. Mi disse: “Tu sai cosa può vendere, cosa piace di Spirit ai lettori. Leggi le storie e mandami qualche idea per delle buone copertine, e io le disegnerò”.

Una bella fiducia.Così io trovavo pose che mi piacessero e ne facevo un grosso bozzetto, che foto-copiavo e spedivo a Will. Lui ci stendeva sopra un lucido e lo rifaceva da capo a piedi. Poi mi dava il lucido et voilà, la prima copertina di Spirit. Naturalmente, era completamente rifatto.La cosa iniziò così: mi ero letto un po’ di storie e credo che in quel numero ci fosse l’episodio Stop the Plot, che adesso è incluso nella mostra itinerante Masters of Comic Art. E io gli dissi: “Senti, Will, c’è questa finestra che hai disegnato, con Spirit che guarda fuori. Mi piace, come copertina funziona, ha una sua dimen-sionalità, perché in definitiva la copertina è una finestra e Spirit si sta sporgendo dalla finestra”. Insomma, gli davo tutto questo tipo di specifiche, di indicazioni molto precise. A Will interessavano le idee di base ma non voleva copiare da nessuno e la frase con cui mi mise al mio posto fu: “Devi dirmi le cose essenzia-li”. Così, invece di giocare all’art director che parla con frasi tipo “Will, ci serve questo e questo, e ci serve per le 5.00”, ho dovuto ripensare al mio ruolo. E dopo qualche minuto: “Okay, vediamo di capire perché questa sarebbe una buona sce-na, viste le storie che pubblichiamo in questo numero e pensando a come le varie copertine funzionerebbero, una dopo l’altra”. Alla fine non facemmo mai la

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copertina della finestra!Fu una delle frasi chiave del mio rapporto professionale con Will: quando gli par-lavo o lavoravo con lui, dovevo usare idee semplici, di base, che avrebbe elaborato lui, o che lo avrebbero ispirato lungo una direzione completamente diversa.Ho lavorato con lui anche sui romanzi, per esempio facendo la copertina de La forza della vita. Anzi, feci tredici o quattordici diversi bozzetti solo per quel libro, per dimostrargli che era possibile usare stili e paesaggi urbani diversi. Due o tre mi piacevano un sacco, mentre le altre erano tutte idee simili ma meno sviluppate. Avevamo parlato della sua formazione nei teatrini yiddish: quando ero a New York, mio fratello lavorava per l’Opera, e io ci andavo spesso, restando a guardare e a studiare l’illuminazione. Poi provai a vedere se avrebbe funzionato in relazione ai nuovi personaggi di Will, e la copertina originale de La forza della vita aveva tutti i personaggi in blu, una specie di effetto da palcoscenico che avevo visto sul palco della New York City Opera. Riuscii a convincere Will perché era come andare a ritroso, alla sua infanzia nei teatrini in cui suo padre dipingeva fondali. Inoltre, l’idea di fondo era che non si trattava più di Spirit, ma di un intero cast di personaggi ancora misteriosi, tutti da scoprire. A lui l’idea piacque e disegnò quell’immagine che gira tutt’intorno fino al retro di copertina. Ho sempre pensa-to in termini di copertine di questo tipo, perché aiuta a semplificare la progetta-zione, senza doversi preoccupare del retro.Mi occupai anche della copertina di City People Sketchbook, un’altra occasione in cui feci una montagna di disegni con stili diversi, senza contare le figure sullo sfondo, in inchiostro rosso, con Will in primo piano, su livelli diversi. Ragiono sempre per livelli. Quando coloravo le storie di Spirit, mi chiedeva sempre perché usassi certi colori e io gli spiegavo che era per creare profondità. Di solito avevo due formati: una versione “calda” in cui si lavora in rosso, marrone e nero, in cui si cerca di sviluppare una certa dimensionalità. Poi ce n’è un’altra, in cui prevalgo-no blu, viola/porpora e ancora nero, e sono i tre diversi livelli a produrre il senso dello spazio, e questo gli piaceva. Funzionava bene e ogni tanto facevamo qualche esperimento con mezze tinte grigie. Io stendevo un grigio al 20%, lo fotocopiavo, poi lo stampavamo come colore. Sfortunatamente, tendeva a chiudersi, a diven-tare denso, e in alcune delle prime copertine di Spirit il colore è troppo pesante. Il punto è che quando lavoravamo a questi bozzetti colorati a mano, certo, potevo intervenire un po’, ma non sembrava mai abbastanza leggero per il tipografo, così ricominciai ad alleggerire direttamente la palette dei colori.In tutto, ho colorato a mano le prime 30 copertine di Spirit, prima di passare il testimone a Ray Fehrenbach, e di tornare al College. Mi stavo davvero esaurendo su tutti quei livelli retinati. Cominciavo a usurarmi e a pensare che pur di non continuare sarei scappato.

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La magia non c’era più.Quello, e non solo. Mi sembrava di essere in una situazione industriale: perenne-mente in ritardo con qualsiasi cosa e finivo per lavorare spesso la notte. Si può fare da giovani e allora ero intorno ai trenta, ma non mi divertiva più. Quando usciva il fumetto, ero molto contento di quello che avevamo fatto, ma avevo bisogno di fare altre cose. Così, cominciai a lavorare sulle ristampe di Caniff, a editare i redazionali, che era un lavoro completamente diverso, ancora una volta più simile alla produzione di libri d’arte che a disegnare fumetti o a un lavoro puramente tecnico.

Lavorare a stretto contatto con Eisner e con le sue storie influì sul tuo stile di disegno?All’inizio della mia carriera fumettistica propendevo più verso cose tipo quelle di Hal Foster, e a mano a mano che mi allontanavo dal fumetto cercavo leg-germente di emulare Will. Ricordo quella volta che stavamo lavorando a Spirit Jam, per esempio. Lui arrivò e buttò giù due pagine di getto, davanti a tutti noi. Io ero di fronte a lui e lo disegnavo mentre lui disegnava. Uno schizzo è stato pubblicato nel libro sui 25 anni della Kitchen Sink: sostanzialmente, un rapido profilo di Will schizzato da me. Lui al tavolo da disegno che inchiostra l’ultima pagina con Denis, Cat e Iger Diamond. Fece quelle pagine nell’ufficio, mentre noi cazzeggiavamo, ci lanciavamo battute e lui raccontava storie, ma io non lo perdevo d’occhio. Guardavo come impugnava il pennello, quasi verticale, quanto lo annacquava e cose del genere, come disegnava o ridisegnava il lato in ombra di una figura, piuttosto che abbozzarlo appena. E alla fine, quando si ritrovò le pa-gine in mano per le bozze finali, credo che ne ridisegnò la maggior parte, perché le trovava un po’ troppo spontanee. Discussi con lui su questioni di ritrattistica e la sua opinione era: “Non sono mai stato granché con i ritratti. Serve un modo completamente diverso di guardare le cose. Mi sento più impressionista”.

Interessante.Mentre diceva “impressionista”, stava disegnando quelle figure... cogliendole con la sua pennellata... be’, era la perfetta dimostrazione di quello che voleva dire.

Dopo averlo visto lavorare così da vicino, e avere analizzato tanto le sue cose, riesci a trovarci dei difetti? Aspetti in cui il suo lavoro era più debole, o cose del genere?Will rispettava sempre le scadenze, il che probabilmente voleva dire che a volte non aveva il tempo di fare tutto come si deve. Una sua copertina con Spirit che lotta con un alligatore arrivò già finita e la prima cosa che pensai fu “Questo è il peggior alligatore che abbia mai visto”. Sembrava un pezzo di legno. Non

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si preoccupava granché della forma o dell’anatomia, così fu Denis a chiamarlo: “Will, la copertina non funziona. Secondo Pete le zampe sono troppo tozze”. Gli facemmo una critica puntuale, lui ringraziò e ridisegnò tutto.

Nel mio libro racconto di quando Denis e Dave Schreiner cominciarono a lavorare con Will. All’inizio erano titubanti a fargli osservazioni dirette, perché, insomma, era Will Eisner! Hai mai avuto atteggiamenti del genere con lui?No, perché essendo io stesso un illustratore, discutendo in continuazione con aspiranti artisti, e lavorando con altre persone, rispetto tutti moltissimo. Feci la stessa cosa con una copertina di Mark Schultz per uno dei suoi primi Xenozoic Tales. Era una scena subacquea e mi veniva da pensare: “Cavolo, è un disegnatore grandioso, e ci sta sputando sangue ma questo ginocchio proprio non funziona. Se capita in mano a qualcuno che sa qualcosa di anatomia penserà che non ci ha lavorato abbastanza, che l’ha fatto in fretta”.Lo dissi a Mark e lui ringraziò, cambiando completamente la posizione della gamba, che alla fine riuscì molto meglio. Sono sempre stato convinto che parte del mio lavoro di art director, con Will o chiunque altro, consistesse nel rispettare il lavoro degli altri ma anche nel dire ad alta voce quando non mi soddisfaceva.

Quanto è stato importante Will per la Kitchen Sink Press, nel corso degli anni? Quan-do non era presente negli uffici, come veniva considerata la sua figura da parte dei redattori?Ho sempre pensato a Will come allo “Zio Will”. Ho lavorato altrettanto stret-tamente con Caniff e per me era lo “Zio Milt”. Credo che derivi dall’avere visto troppi “Mouseketeer shows”[nomignolo per la popolarissima trasmissione per ragazzi The Mickey Mouse Club, prodotta a partire dal 1955; i protagonisti erano i “mouseketeers”, bambine e bambini che indossavano le orecchie di Topolino e che chiamavano tutti gli adulti “zio” e “zia – NdT]. Will era un po’ come Walt Disney, un grande amico per tutti i ragazzi, che raccontava storie o spiegava loro come si facevano le cose. E noi eravamo sempre pronti a imparare. In mezzo al Wisconsin, eravamo tagliati fuori dal mondo e lui ci raccontava queste incredibili storie di Jack Kirby che sbatteva fuori i gangster dal suo studio nel 1938. Cavolo, fantastico! Così, quando arrivava Will era festa per tutti.Quando stavamo lavorando al secondo Spirit, arrivò insieme al fratello Pete e nello studio avevo tutta una serie di mie illustrazioni. Pete entrò e vide quello a cui stavo lavorando. Aveva una figlia che studiava arte e notò che tenevo una co-pertina di Spirit attaccata al muro. E io: “Sì, lavorare con tuo fratello è fantastico. Le sue cose sono un’autentica ispirazione”. E lui: “Davvero? Le illustrazioni di Will?”. In quel momento entra Will, e Pete: “Ehi, Will, le tue cose ispirano Pete.

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Dovresti proprio regalargli questa copertina”. E Will:” Oh, okay” e me la firma: “All’amico Pete, colorista insostituibile! Will Eisner”. Poi: “Aiuto, Denis! Sto re-galando originali come piovessero!”. Così, sono in debito con Pete, perché per merito suo ho le copertine dei primi due numeri di Spirit. Per un po’ le ho tenute appese al muro in Europa, perché sono tra i pochi originali che posso mettermi in valigia e portare con me.Quella visita di Will fu particolarmente felice.

Direi proprio di sì.Uno dei momenti più belli della mia vita professionale con Will.Quando cominciai a lavorare sui libri di Caniff, mi trasferii a New York e lo inter-vistai di persona, mentre lui mi portava in giro per la città. Milt lavorava a Tudor City insieme a Noel Sickles e a un certo punto della sua carriera anche Will si era trovato a Tudor City, allora ho pensato di andare sul posto a scattare qualche foto. Anche Joe Simon e Jack Kirby avevano avuto uno studio a Tudor City così, pensai, che razza di magico palazzo dev’essere mai questo, da spingere tutti questi grandi cartoonist ad aprirci uno studio?Un’altra cosa divertente furono le passeggiate con Will quando ci trovavamo a correggere le interviste per Chiacchiere di bottega. Facevo copie dei nastri di Will e li ascoltavo in continuazione, come una specie di radiodramma. Se proprio dove-vo tirare tardi la notte per lavorare, tanto valeva avere con me i vecchi maestri con i loro consigli. Toccava a me anche trovare le illustrazioni di accompagnamento e la maggior parte dei risultati delle mie ricerche sono poi finite anche nel libro.

Parliamo un attimo di Chiacchiere di Bottega. Howard Chaykin ha dichiarato che una delle cose per cui nel corso degli anni ha perso il rispetto per Will erano proprio quelle interviste. Secondo lui, Gil Kane – uno degli intervistati – si era lamentato pesantemente con lui che Will aveva cambiato le domande alle sue risposte, cosa che Kane – e poi Chaykin – aveva trovato offensiva. Hai niente da dire in proposito?Sarebbe stato un piacere parlare con Kane e chiarire la cosa ma purtroppo non fui io a lavorare sulla sua intervista. Ero estremamente attento a conservare ogni dettaglio con la massima precisione e certamente non ho mai cercato di cambiare le domande perché questo o quello facesse brutta figura. Will voleva che tutti avessero il loro momento di gloria, che condividessero la luce dei riflettori. L’idea, naturalmente, era un senso generale di cameratismo: quando si lavora in uno studio, discutendo di disegno, illustrazione e così via, nascono idee per il proprio lavoro. Noel Sickles e Milton Caniff lavoravano nello stesso studio e questo cam-biò completamente lo stile di disegno di Caniff.Mi dispiace che Chaykin la pensi in questo modo, ma Will non cambiò nulla in

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quell’intervista e noi cercammo sempre di dare a tutti il miglior risalto possibile. Posso solo pensare che Gil non ricordasse le cose con precisione, ed è un peccato che per questo abbia parlato male di Will.

Sono felice di avere avuto l’occasione di chiederlo.Ho cenato con Gil Kane un paio di volte quando si trovava a Chicago per una qualche Convention, e da lui ho sentito un sacco di storie e di racconti, e non saprei dire che cosa possa averlo offeso, o per cosa pensasse di doversi offendere.Vorrei che le cose fossero chiare: all’epoca non c’erano tante riviste con servizi del genere, cominciarono ad arrivare solo dopo. Riviste piene di interviste come “The Comics Journal”, che ne faceva un sacco, ed era un’ottima iniziativa. Ma una cosa tra disegnatori, da autore ad autore è diversa da un’intervista da parte di un fan, ed era questo il valore aggiunto.Poco fa ho dimenticato di dire che prima di conoscere Will e di trasferirmi a Milwaukee ero andato in Europa due volte, la prima grazie all’Università del Wisconsin. Studiavo le opere originali di Michelangelo, Donatello, Botticelli e Leonardo, cose sconvolgenti, che mi mandavano fuori di testa. In quel periodo nelle edicole italiane usciva la rivista “Eureka” che ristampava tutto lo Spirit di prima della guerra, in bianco e nero. Spesi un sacco di soldi per comprare tutte le cose di Will in italiano, che era l’unico modo per vedere altre storie degli anni quaranta, cose straordinarie. In seguito, lavorando sulle copertine, seguendo le orme di Jules Feiffer, cominciai a copiare la sua firma. Il “Will Eisner” su The Art of Will Will Eisner l’ho fatto io, copiando la sua firma. Avrei dovuto farla meglio, almeno bene quanto Jules.

Non è tua anche la copertina di Contract With God Trilogy?Sì. In realtà, il progetto grafico non è mio, ma a Denis non piaceva quello che avevano fatto e ci misi mano io, suggerendo un diverso motivo cromatico, ag-giungendo uno sfondo e dando una forma di prospettiva in modo che avesse un sapore più eisneriano. Anche il nome non era stato usato correttamente, con un rilievo adeguato alla sua importanza. Ma la volevano subito, così non sono inter-venuto sulla composizione e la disposizione delle figure, che non mi sembravano scelte bene. Ho cercato di mettere un po’ di lettering à la Eisner, e alla fine ho aggiunto un po’ di acquerello. Alla W. W. Norton l’hanno preso ricavandone tutta una serie di colori diversi. Denis non fu per niente contento: “Questo non sembra di Will”.Per il secondo libro, ho completamente ridisegnato una copertina fronte/retro, che spero faranno in questo modo. E spero anche che il colore funzioni: ho fatto una guida, anche se solo come indicazione.

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Possiamo considerarti il nuovo Mike Ploog, che disegnava con lo stile di Eisner, o ti limiti al progetto grafico?No, no. Sostanzialmente, lavoro con dei collage e tutta una serie di fotografie. Ai vecchi tempi, avevamo una reprocamera con cui riproducevo gli originali di Will o di Caniff, in ogni possibile formato, creando un collage che era come un nuovo originale. Specialmente su una copertina, non cercherei mai di disegnare un finto Eisner perché non è quello che il pubblico si aspetta. Credo invece che si possa estrapolare un dettaglio da un suo disegno, ingrandirlo e poi colorarlo. Questo lo renderà molto forte e sarà come una copertina di Eisner. Non si va da nessuna parte cercando di falsificare una copertina di Will.

Cominciando a trasferirti e poi a vivere a Parigi, negli anni Novanta, il rapporto con Will proseguì?No. Vista la vicinanza coi Crumb, per Denis curavo tutto il materiale che lo riguardava. Feci tre calendari e The Mr. Natural Postcard Book. Con Robert lavo-ravo come avevo lavorato con Will. In altre parole, loro dicevano: “Ehi, Crumb, lo facciamo un calendario?” e lui: “Okay”. E poi: “Pete, scegli le immagini”. Per i dodici mesi di un calendario selezionavo 24 immagini da cui ne avrebbero scelte dodici. La stessa cosa l’anno dopo, e una volta scelte le coloravamo. In genere, coloravo dei bozzetti, che Crumb approvava suggerendo dei cambiamenti, poi io finivo il tutto e spedivo alla casa editrice. Abitando praticamente dall’altra parte della strada era più facile seguire i progetti di Crumb che quelli di Eisner. Non avendo un telefono, chiamavano Crumb e Crumb veniva a chiamarmi. Succede-va un sacco di volte.

Non hai un telefono ancora oggi?No, niente telefono. Ce l’ha la mia fidanzata, così potete chiamare lei, e io richia-merò. Per questo o altri motivi è sempre stato complicato trovarmi, ho sempre cercato di vivere riducendo tutto all’essenziale, concentrandomi sul disegno e sulla pittura...Crumb voleva che facessimo un secondo libro, perché si fidava delle mie valuta-zioni in sede di selezione delle immagini e di accompagnamento del testo, cosa che avevo imparato a fare lavorando alle interviste di Will per Chiacchiere di bottega. Non volevo fare un libro-intervista perché quello che mi infastidiva in cose come le interviste di “The Comics Journal” era che per metà l’intervistatore sparava battute e giocava con l’intervistato, tutte cose che io saltavo. Quando lavoravo con Caniff, non mi era mai sembrato di essere importante per il lettore, quindi me ne tenevo fuori. Volevo che, in qualche modo, Caniff entrasse in con-

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tatto direttamente col lettore. Un po’ quello che avevamo fatto con Chiacchiere di bottega, dove Will parla con Caniff, o Jack Kirby ed è come trovarsi insieme nello stesso studio. Mi piaceva l’idea di un disegnatore che esce dalla pagina per incontrare il lettore, ed è così che lavoravo con Crumb.Su quest’ultimo libro [The R. Crumb Handbook di R. Crumb e Peter Poplaski, 2005, MQ Publications Limited – NdT] comunque, non trattandosi di una bio-grafia, che avevamo già fatto, volevamo parlare maggiormente di cosa vuol dire essere un disegnatore, di come si viene trattati dal mondo e così via. Dopo le interviste ci sono state un sacco di riscritture e ho usato molte citazioni. Se a cena Crumb diceva qualcosa di assurdo o ridicolo, me lo scrivevo subito e alla fine ho messo insieme una pagina di cinquanta citazioni, che cercavo di usare come punto di partenza per strappargli commenti su questo o quello. Una cosa compli-cata... anche se era il suo progetto, ripeteva regolarmente: “Non mi interessa par-lare. Tu sai cosa direi, scrivilo e basta”. Così io scrivevo, lui leggeva e protestava: “Ma io non ho detto questo!” e strappava tutto. Come le gag di una commedia. È impossibile mettere le parole in bocca a tipi come questi, ma in qualche modo bisogna trovare il modo di coinvolgerli.

Come hai saputo della morte di Will?Avevo chiamato Denis per gli auguri di Natale e mi aveva detto che Will era in ospedale per un’operazione al cuore e che potevo mandargli una cartolina là, se mi faceva piacere. E io: “Certo, come no, gli manderò qualcosa”. Poi, non molto dopo, Denis mi chiamò per dirmi che Will era morto. È stato davvero triste, anche perché era incredibilmente in gamba. Qualsiasi cosa avesse, non c’è tanta gente capace di uscire in forma come lui da un quadruplo by-pass. Era già pronto per tornare al lavoro e dovevano litigare per impedirgli di alzarsi.

E adesso sei stato risucchiato nuovamente nel vortice di Eisner.E anche stavolta ho cercato di essere totalmente fedele allo spirito del suo lavoro. Per Expressive Anatomy ho frugato in scatole e scatole di materiale, cercando di trovare ogni possibile immagine dai romanzi precedenti che potesse funzionare, e poi schizzi a matita che fossero sufficientemente leggibili da non richiedere interventi. Lo facevo trent’anni fa, quando cominciammo a rilanciare Spirit, e lo faccio adesso, alla fine della sua carriera.

Cosa ci puoi dire di Expressive Anatomy?È il logico proseguimento dei primi due libri didattici, i due manuali su come fare fumetti. È interessante, perché Will era sostanzialmente un impressionista, ma cercava egualmente di dare al lettore o al futuro cartoonist un’idea di quanto sia

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importante il gesto. E ancora una volta si tratta di un’analisi di tipo teatrale. Non si tratta della dinamica di Burne Hogarth, l’anatomia e il muscolo. C’è un po’ anche di questo, ma alla fine tutto si riduce a come esprimere qualcosa attraverso le figure. Oggi un sacco di autori si autoproducono e si può scegliere di essere raffinati o rudimentali quanto si vuole. Oggi il fumetto può assumere un’ampia varietà di facce e, naturalmente, seguendo Will, più si capisce come funziona la fi-gura e più si riesce ad attingere alla vita reale, a migliorare le storie osservando dal vero. E naturalmente, tutto ciò può eventualmente portare a storie più lunghe, o romanzi a fumetti, che oggi sono davvero numerosi.

A che punto era Expressive Anatomy quando hai cominciato a lavorarci?Will era arrivato a 116 pagine. Gli altri libri sono di 164 e il problema era in che modo completarlo in maniera adeguata pescando nel mondo di Will. Non aveva ancora usato storie di Spirit, così ne ho suggerite un paio che si inserivano bene nel contesto della discussione, una citazione di Norman Rockwell, un’incisione di Hogarth, diagrammi gestuali di Françoise Delsart, esempi di Charles Dana Gibson e cose di Jack Kirby. Dove Will spiega in che modo “gioia”, “rabbia”, “ver-gogna” e così via modellano gli atteggiamenti del corpo. Ho trovato degli esempi dai suoi vari libri per trasformare lo schizzo in una scena eisneriana. Credo che diventerà un libro obbligato per quanto riguarda la grafica e l’arte sequenziale. Abbiamo messo insieme un’intera scatola di cose di Will e a un certo punto ho deciso che ci voleva Hamlet on the Rooftop. È un ottimo esempio del contenuto del libro. Si tratta di una storia che Will fece per The Spirit 29: un tipo da stra-da che recita l’intero monologo shakespeariano, tradotto e adattato. Lo trovo estremamente efficace, nonché un’ottima dimostrazione di come si possa dare un ritmo alle cose, usare la figura e produrre un effetto drammatico attraverso l’illuminazione. C’è davvero tutto.

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Ted CabargaIntervista raccolta il 1 giugno 2006

I leggendari primi anni di Will Eisner insieme a Jerry Iger e il successivo distac-co, quando si dedicò a Spirit, sono ben noti. Come pure il periodo in cui tornò

alla ribalta con le ristampe di The Spirit della Warren Publishing e della Kitchen Sink Press, e del successivo sviluppo del romanzo a fumetti, da Contratto con Dio a Il complotto.Ma si sa assai poco di quanto fece Eisner dalla fine di The Spirit, nel 1952, al fondamentale incontro con Denis Kitchen nel 1971.Ted Cabarga cominciò a lavorare per l’American Visuals di Eisner nel 1959, in qualità di art director, per restarci fino alla sua liquidazione nel 1971. La società produsse un’ampia gamma di prodotti editoriali, e soprattutto “PS Magazine”, il periodico di manutenzione preventiva dell’esercito.Cabarga, la moglie e i cinque figli (il figlio Leslie è un noto illustratore e un ap-passionato di fumetti di lunga data), cambiarono vita alla chiusura dell’American Visuals: vendettero la casa in New Jersey, abbracciarono la filosofia e lo stile di vita degli hippie, si trasferirono in California e per un po’ abitarono in un magazzino. Col tempo – ma con molta calma, dice – è tornato a lavorare nella grafica, dise-gnando dischi per la Crystal Clear Records e artisti come Charlie Musslewhite, Taj Mahal, Diahann Carroll, e Laurindo Almeida.Nel corso degli ultimi 15 anni Cabarga è stato uno dei soci della Winning Di-rections, una società che produce contenuti politici per il Partito Democratico.

Come cominciasti a lavorare per Will?Per puro caso. Arrivai a New York nel 1959. Ero stato a Washington e volevo trovare lavoro a NY, così mi trasferii e mi presentai all’American Visuals per un colloquio di lavoro.

Cosa sapevi della società o di Will?

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La cosa buffa è che da ragazzo, verso i quattordici anni, a Cuba, avevo letto The Spirit. Mio padre è cubano e io andavo a visitare i nonni, che compravano il giornale in spagnolo con cui usciva l’allegato domenicale con Spirit. Fu quello il mio primo incontro col personaggio e, naturalmente, avevo adorato i disegni, che erano di gran lunga i migliori che avessi mai visto nei fumetti. Così, quando co-minciai a lavorare per l’American Visuals, l’unico collegamento con Will fu quel ricordo di Spirit dei tempi di Cuba. Allora lui faceva “PS Magazine” e io ero stato assunto sostanzialmente per fare i layout di PS. I principali illustratori, allora, erano Chuck Kramer e Dan Zolnerowich. Poi ne assunsero un terzo, e qualche volta un quarto, ma erano occasionali: i due pilastri erano Chuck e Dan. Il resto del personale lavorava alla redazione, loro due erano gli unici illustratori. Più tardi ci furono anche Murphy Anderson, Mike Ploog, e uno che andava e veniva, un certo Gil Eisner, nessuna parentela con Will.

Mai sentito nominare.Infatti. Più tardi fece l’art director del “Village Voice”, credo, ed era anche stato uno spadaccino olimpionico. Vediamo, chi altri c’era di importante? Frank Chia-ramonte, negli ultimissimi tempi. Frank era un illustratore e credo che poi abbia fatto una buona carriera nel fumetto, ma non saprei dire dov’è adesso. In definiti-va, per quanto mi riguarda le persone importanti erano Murphy Anderson, Mike Ploog, Dan e Chuck.

Non si sa molto di Will nel periodo di PS. Per te è stato in qualche modo un lavoro speciale? Lo hai fatto per molto tempo.Be’, avevo una famiglia da mantenere e il lavoro non era male, così me lo tenevo stretto. Per produrre una rivista del genere tutti i mesi ci voleva un certo lavoro di routine, che poteva anche diventare molto frenetico. Ho ancora gli incubi per le scadenze.

Come mai? Sul lavoro Will era molto esigente?Be’, non era la persona più facile del mondo con cui lavorare. Oltre a essere l’art director, dovevo seguire gli altri suoi progetti, pubblicazioni per corrispondenza e cose del genere, mentre lui faceva i layout. Quei suoi assurdi layout per le pub-blicità erano difficili da rendere esecutivi e poi da passare in produzione, per cui alla fine era una gran rottura.

Sembra interessante. Può farmi un esempio?Non ricordo bene. Ma diciamo che si trattava di fare, per esempio, un pieghevole promozionale per un certo prodotto, un libro o qualsiasi altra cosa. Ogni tanto

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faceva dei libri e poi dei pieghevoli per promuoverli, per la vendita per corrispon-denza, credo. Lui faceva i layout più o meno nel formato di una pagina di fumet-to, ed erano dettagliatissimi, con un sacco di roba confusa. Ma davvero molta roba, mentre io avrei voluto fare un lavoro chiaro, pulito, ma dovevo fare i conti con tutte le idee che ci metteva, difficili da rendere. È difficile anche spiegarti meglio... quanto a lui, su Will Eisner ci sarebbe un sacco di cose da dire. Non so neppure da che parte cominciare.

Da qualsiasi punto andrà benissimo.Tanto per cominciare, come sai, era un grande disegnatore. Un disegnatore stre-pitoso. Non ci si imbatte in tanti come lui, nel corso della vita. Lo ammiravo moltissimo per il talento, ma lavorare con lui non era semplice. Non che avesse delle colpe particolari, era una questione di personalità. Non eravamo fatti l’uno per l’altro. Anzi, eravamo sostanzialmente incompatibili, perciò non c’è molto da dire perché si tratterebbe di parlare di me e della mia personalità, il che non è minimamente interessante. Il punto è che trovavo molto difficile lavorare con lui. Cambiava le cose e quello che faceva mi sembrava arbitrario. Ma, di nuovo, non è davvero importante, è solo uno scontro di personalità, la mia contro la sua. Penso che, in generale, quelli che lavoravano con lui... conosce Klaus Nordling?

Mi sono imbattuto nel nome, ma non ci ho parlato.Lavorava con noi e faceva libri illustrati. Anche lui aveva difficoltà con Will. In-somma, Will non era la persona più facile del mondo. Per quanto riguarda “PS”, la parte di Will era fare la “continuity”, cioè l’inserto centrale. Faceva le matite poi cercava di passarlo a Chuck per le chine: Will cercava sempre di evitare il lavoro per “PS”.

Davvero?Certo, per lui era diventato un tormento e quando alla fine perse il contratto sono certo che fosse sollevato, felice di tirarsene fuori. Era andato avanti per più di quindici anni, forse venti, e per lui diventava sempre più difficile continuare a far-lo, così fu come togliersi un dente. Dovevamo letteralmente tirarlo fuori dal suo ufficio e portarlo al tavolo di disegno per fare delle matite o delle chine, a seconda dei casi. Sì, credo che sia stato felice di mollare la rivista. Era diventata un peso.

Mi stai dicendo che non andavate del tutto d’accordo, ma alla fine sei stato uno dei dipendenti più stabili che abbia mai avuto. Ci deve essere stato qualcosa che ti con-vinceva a restare, oltre alla famiglia, o no?Il punto è che i fumetti non mi interessavano granché. Mio figlio Leslie è diverso,

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lui si è formato sui fumetti, li adora e voleva fare il cartoonist. Io invece venivo da tutt’altra formazione. Mi piaceva moltissimo quello che faceva Will e mi rendevo conto di quanto fosse grande, ma era tutto quel settore che non mi interessava. Così, mi tenevo stretto il lavoro solo perché era un lavoro fisso, un buon lavoro, ma non per una qualsiasi particolare affinità con quello che faceva Will.Ma, di nuovo, non vorrei concentrarmi su di me, perché non è importante. Vor-rei parlare il più possibile di Will.Che altro si può dire di lui? Le sue abitudini lavorative non erano il massimo per-ché, come dicevo, penso che fare la rivista non gli interessasse, anche se quando la faceva gli veniva benissimo. Leggevo sempre tutti quegli inserti che faceva e ridevo come un pazzo, perché erano davvero ottimi.Chuck Kramer nutriva una specie di rivalità nei confronti di Will. Era convinto di essere in gamba quanto lui e non riusciva a vedere l’abisso che c’era tra loro due. Trovava costantemente da ridire e si lamentava con Will perché non con-segnava il lavoro in tempo. Chuck era un ottimo illustratore, ma non aveva la personalità o l’intelligenza di un Will Eisner.

Hai detto che ogni tanto ti capitava di occuparti degli altri progetti di Will. So che vendeva articoli agli studenti...Temo di non avere granché da dire su queste cose. Non è che ne avessi una buona opinione, non mi piacevano molto.

Ma sai di che cosa sto parlando.Non ne sono certo. Cercava sempre di diffondere l’idea di insegnare coi fumetti, anche al di fuori dell’esercito, e di applicarla commercialmente, così se ne usciva con questi altri prodotti, ma francamente, in questo momento non ricordo gran-ché.

Una delle cose che ho sentito dire da parecchie persone, tra cui Jules Feiffer e Mike Ploog, è che Will era avaro.Sì, confermo. Era un tipo a posto, ma anche molto tirchio e sono convinto che in questo modo abbia distrutto le sue stesse attività, perché non voleva reinvestire denaro nella qualità del lavoro e cercava in continuazione di riciclare le cose. Per tutto il periodo durante il quale ho lavorato per lui ha sempre cercato di riven-dere il materiale di Spirit, centinaia di pagine che teneva in archivio. Cercava in continuazione di riconfezionarlo e di rivenderlo in qualche modo. Inoltre, non curava la promozione. Non investiva dove sarebbe stato necessario per riuscire a promuovere il prodotto in maniera efficace.

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Credo che sia stato Ploog a raccontarmi la storia di uno dello staff che a un certo punto aveva conservato tutti i mozziconi di matita e aveva fatto una specie di cintura.Chuck Kramer. Era abituato a consumare parecchio le matite, poi le teneva e ci faceva una specie di cartuccera. immagino fosse perché Will voleva che tutti con-sumassero le matite fino in fondo e non le buttassero finché c’era ancora grafite. Sì, probabilmente derivava da questo e Chuck lo prendeva in giro così.

Ricordi quando morì la figlia di Will? Sai dirmi niente di quel periodo?Sì. Posso dirti che dopo quel fatto Will cambiò molto. Si raddolcì, e diventò una persona molto più amabile. Sì, fu piuttosto sorprendente.

Capisco. Ricordi come venisti a sapere di Alice?Su queste cose era molto riservato. Successivamente, col senno di poi, cercai di capire se ci fosse stato qualche segnale che ci fossero dei problemi, prima che accadesse, ma non mi parve di trovarne. Probabilmente pensavo che fosse un po’ più chiuso e scontroso, ma niente di più. Poi, all’improvviso, scoprimmo che la figlia era morta e andammo tutti al funerale.

Portava mai i figli in ufficio? Li hai mai incontrati, all’epoca?Credo di averli visti, ma anche qui non ho ricordi precisi.

Visto tutto il tempo che hai lavorato per Will, probabilmente all’inizio erano piccoli, e alla fine erano diventati adolescenti.Sì, per questo sono abbastanza sicuro di averli visti in ufficio, ma non ne ho nes-sun ricordo particolare.

Certo, oggi gli uffici sono posti molto diversi, dove le persone raccontano tutto di se stesse. Probabilmente, trentacinque anni fa...Di certo, Will non si confidava con me su queste cose, perché non eravamo par-ticolarmente intimi. Da lui non sapevo nulla sulla sua vita famigliare. Non ne parlava.

Avevate delle giornate lavorative normali? Facevate molto straordinario?Non era raro che per PS si facessero gli straordinari e allora diventava davvero una sgobbata pazzesca. I redattori erano molto esigenti e quasi sempre si offendevano perché Will non dava loro l’attenzione che pretendevano. Di norma, volavamo a Fort Knox una volta al mese per rivedere le bozze, che sostanzialmente erano la prima versione della rivista. Noi spedivamo il numero, loro lo passavano in ras-segna, poi noi andavamo da loro e per un paio d’ore discutevamo insieme tutti i

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cambiamenti e le modifiche che volevano, e questo era il grande momento in cui Will Eisner si degnava di parlare con loro. Will era una persona assolutamente affascinante, estremamente intelligente, spiritosa. Era divertente trovarsi con lui a chiacchierare e quello per loro era l’apice del mese. Col tempo, la cosa gli era venuta a noia e cercò sempre più di defilarsi, con questa o quella scusa, e i militari si offendevano. Alla fine, è sostanzialmente questo il motivo per cui perse il con-tratto: erano irritati con lui perché gli concedeva poca attenzione.

Quali erano i suoi interessi, a quel punto?Non è facile da dire, perché lui era deciso a fare l’imprenditore e io ero sempre più convinto che non era il suo mestiere, e che non lo stesse facendo particolarmente bene. Escogitava in continuazione tutte queste trovate, promozioni per questo o quello, che non avevano mai veramente successo. Avevo l’impressione che fosse mosso da una spinta, da un impulso a fare l’imprenditore di successo, mentre se-condo me quello che gli riusciva meglio era quello che fece in seguito, quando si rimise a fare fumetti. Non so se quando smise di fare l’imprenditore per dedicarsi esclusivamente ai romanzi a fumetti riuscì davvero a trovare se stesso. Non so se questo lo abbia reso felice perché, naturalmente, è stato molto tempo dopo che l’avevo perso di vista, ma è quello che doveva fare. Spero che alla fine si fosse reso conto che stava sprecando il suo tempo.

Be’, dalle conversazioni che ho avuto con lui penso che fosse molto orgoglioso dei suoi trascorsi imprenditoriali.Davvero?

Sì.Be’, a quel tempo mi ero fatto l’idea che fosse stato il padre, probabilmente, a criticare i suoi disegni, i suoi lavori, con quell’atteggiamento tipico dei genitori: “Ma trovati un lavoro! Non perdere tempo, non cercare di fare l’artista, non ci farai mai soldi. Fai qualcosa di serio, che so, il dentista”. E avevo l’impressione che per risolvere questo problema o per compiacere il padre Will cercasse di fare l’uomo d’affari e non semplicemente il disegnatore. In seguito scoprii che era stata la madre...

Sì, stavo per dirlo. Era stata sua madre, assolutamente.In uno dei suoi romanzi parlava proprio di questo e saltava fuori che era sua madre che aveva cercato di scoraggiarlo. Così pensai che questa cosa gli fosse rimasta, come una specie di tarlo, e che avesse condizionato l’immagine che aveva di sé, spingendolo a fare l’imprenditore invece che essere semplicemente un dise-

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gnatore. Il che è davvero una beffa, perché è stato un disegnatore strepitoso e un pessimo uomo d’affari.

Che tipo era Mike Ploog?Fantastico. Va detto che Murphy Anderson, il povero Murphy Anderson, era la persona più meravigliosa del mondo ma era lento e faceva le notti in piedi, anche due settimane di fila, per inchiostrare un lavoro. Invece, quando finalmente ci trasferimmo dall’altra parte della strada, lontano dall’ufficio, con una specie di nostra piccola azienda che produceva “PS”, Ploog arrivava e inchiostrava tutto in un giorno, ed era un lavoro meraviglioso. Quando iniziò il disegno era un po’ incerto, perché penso che fosse intimidito dal grande Will Eisner, ma molto pre-sto, nel giro di pochi mesi, aveva trovato il ritmo giusto, ed era diventato molto veloce e molto bravo.

Che tipo era?Simpaticissimo. Come costituzione era un endomorfo, sembrava un idrante dei pompieri. Aveva delle braccia massicce ed era piccolo ma tarchiato, molto robu-sto, veniva dalla Costa Ovest, dove lavorava per Hanna & Barbera. Forse voleva cambiare aria, così venne a New York, ma non era contento e alla fine tornò a casa. Con me è sempre stato gentile e simpatico. Non ho mai avuto nessun pro-blema con lui.

E Dan Zolnerowich?Anche Dan era un tipo in gamba. Avevo anche un vice art director che lavorava con me, Gary Kleinman. È stato vice art director per alcuni anni. A un certo punto io e Gary ci siamo davvero rotti le scatole per via di Kramer e Zolnerowich, che ritardavano la produzione delle parti disegnate, costringendo la produzione a lasciarci meno tempo per la chiusura del lavoro. Ci sentivamo presi in giro e a un certo punto io e Gary li abbiamo affrontati mettendo le carte in tavola. Loro pensarono che ci mandasse Will anche se questo non era assolutamente vero. Will non c’entrava niente ma non riuscii mai a convincerli: eravamo noi ad avere le palle piene di loro, non Will. Ma da quella volta ci fu una rottura e le cose non furono più come prima. Dan e Chuck facevano comunella tra di loro e da un giorno all’altro non eravamo più amici, mentre fino a quel punto eravamo stati amiconi. Dan era un tipo massiccio e non proprio un cartoonist, come formazio-ne. Più un disegnatore tecnico.

Will mi diceva che una delle cose che lo facevano infuriare era quando quelli a Fort Knox chiedevano delle modifiche. Ploog, credo sia stato lui, mi ha detto che era perché

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questo voleva dire straordinari, costi aggiuntivi e riduzione dei margini.Assolutamente. Quando si sentivano insultati dall’indisponibilità di Will a in-contrarli, il modo in cui ci punivano era diventando molto pidocchiosi con noi, facendo osservazioni su ogni virgola e ogni spazio e ogni minima cosa che potes-sero trovare sbagliata. Ce la segnalavano e ce la facevano rifare e questo era uno dei motivi dei costi supplementari.

Ricordi qualcosa delle sue abitudini? Per esempio, si portava il pranzo da casa?Will? Non credo.

Non ho mai avuto l’impressione che fosse tipo da andare a pranzo fuori, anche se si trattava di andarci da solo.Ci andava da solo. La cosa davvero buffa è che ho completamente dimenticato questi piccoli dettagli. Hai presente suo fratello Pete?

Certo. All’epoca Pete lavorava con voi?Pete era il suo schiavetto. Era il responsabile di produzione e si occupava di tutti i possibili problemi della gestione dell’ufficio, e Will non faceva altro che urlargli dietro e prendersela con lui. Il povero Pete veniva umiliato in continuazione e correva avanti e indietro pensando a tutto. Aveva una specie di atteggiamento adorante nei confronti di Will, era il suo schiavo. Non sembrava lamentarsene, ci si era adattato. Non so perché. Will lo trattava davvero molto, molto male.

Wow. Ti ricordi qualcosa, qualche esempio significativo?Non ricordo nessun episodio specifico, solo che gli urlava dietro quando faceva qualcosa di sbagliato, mentre Pete si impegnava davvero al massimo.

Ho avuto l’opportunità di conoscere Pete, e tu probabilmente non sai che ha continua-to a lavorare per Will. Fino al giorno della morte, gestendo lo studio.Quando è morto?

Nel dicembre del 2003.Vuoi dire che avevano conservato uno studio fino ad allora?

Oh, sì. Abitavano letteralmente attaccati l’uno all’altro, in Florida.Capisco. Be’, non lo sapevo. Evidentemente, è quello che ha fatto per tutta la sua vita.

Da quanto mi è stato possibile osservare, tra di loro avevano un atteggiamento abba-

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stanza cordiale... anche se era chiaro chi fosse il capo.Sì, immagino che col tempo si sia addolcito. Dev’essere andata così, perché ai miei tempi era veramente una relazione a senso unico.

Will usava Pete come una specie di intermediario nei confronti del personale? Se ave-vate un problema vi rivolgevate a Pete o andavate da Will?Se era una cosa di produzione, andavamo da Pete, ma se era una questione ar-tistica o di altro tipo ne parlavamo con Will. Ma in genere Will cercava di stare alla larga da tutto ciò che riguardava i disegni. Era chiaro che in qualche modo lo imbarazzava essere un disegnatore e doversi relazionare con noi per quel tipo di questioni.

Perciò immagino che sia inutile chiederti se c’è qualcosa che hai imparato da lui, se davvero si disinteressava tanto a quei lavori.Tieni presente che non ero un illustratore. Facevo layout, progettazione grafica. Una volta feci delle illustrazioni per i libri di Will e lui si mise a fissare un gioca-tore di hockey che avevo fatto, bofonchiò e disse: “Non funziona”, cosa che mi offese parecchio. Non capivo cosa diavolo intendesse con “non funziona”, perché io non ci vedevo niente che potesse suggerire una cosa del genere, ma a quanto pare a lui non piaceva. Ma per queste faccende avevo ben poco a che fare con lui.

Dimmi dell’ultima volta che hai visto Will. Immagino che fu quando chiuse lo studio.Non ricordo un’occasione particolare, direi che si svolse per gradi. A un certo punto, per qualche motivo Will separò la produzione, ci mise in uno studio se-parato dall’altra parte della strada assegnandoci un budget, cosa che non era mai successa prima. Potevamo spendere quel budget per la rivista e potevamo tenere tutto quello che fosse rimasto. Andò avanti così per un anno, credo.

Eravate tu, Ploog e Kramer?No. Ormai Chuck e Dan se n’erano andati e alle illustrazioni pensava Ploog, assieme a Chiaramonte. Vedevo Will sempre meno spesso, sempre che ancora lo vedessi. Come dicevo all’inizio, non eravamo intimi. Non è che morissi dalla voglia di vedere Will Eisner o di socializzare con lui.

Ricordi qualcos’altro di Will? Qualcosa di tutti quegli anni passati insieme a lui?Probabilmente sto cercando di dimenticarne il più possibile.

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Denis KitchenIntervista raccolta il 2 giugno 2006

Al centro dell’universo di Will Eisner si ergono due personaggi memorabili. Il primo, naturalmente, è Spirit, il detective mascherato nato nel 1940 sulle

pagine dei supplementi a fumetti dei giornali, tornato nei formati più diversi per divertire generazione dopo generazione. L’altro è Denis Kitchen, anch’egli a buon diritto un personaggio.Kitchen, 198 centimetri di altezza, capelli lunghi e baffi che sono ormai il suo tratto distintivo, si autocaricaturava già negli anni Sessanta, quando era un gio-vane disegnatore ed editore underground. Questo nativo del Wisconsin dal tono morbido e pacato, si è distinto per una serie di iniziative imprenditoriali che hanno segnato in modo forte gli ultimi 35 anni di storia del fumetto americano. E tra tutte queste iniziative, nel 1972 Kitchen trovò il tempo di diventare l’editore di Will Eisner, un rapporto che è proseguito senza interruzioni fino alla fine degli anni Novanta, quando la Kitchen Sink Press chiuse e lui – ormai da tempo grande amico e consigliere privilegiato di Eisner – diventò l’agente artistico e letterario del grande autore (insieme all’amica e socia Judy Hansen).Dopo la morte di Eisner nel gennaio 2005, Kitchen ha continuato a seguire le questioni artistiche per conto degli eredi.Oggi i capelli sono più corti e più grigi ma i baffi sono sempre al loro posto, come pure il caratteristico, sardonico umorismo e la capacità di stupirsi. Ho conosciuto Kitchen nel 2002, quando mi sottopose a un colloquio telefonico di diverse ore, prima di appoggiare la mia candidatura a biografo ufficiale di Will Eisner. E uno dei maggiori piaceri di una conoscenza ormai consolidata sono le periodiche, lunghe conversazioni con Kitchen su ogni possibile argomento, dai fumetti alla politica, al baseball.Ultimamente, una nuova generazione di appassionati di fumetto sta scoprendo il nome e il talento di Kitchen, ma è la figlia di nove anni Alexa (alexakitchen.com) ad attirare l’attenzione dei riflettori. Alexa è una bambina dolcissima, di grande

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talento e molto spiritosa che un giorno non lontano potrebbe benissimo superare la stessa fama del padre, a giudicare dalle sue apparizioni ai festival di fumetto e dalla sua prima raccolta Drawing Comics is Easy! (Except When It’s Hard).

Vorrei parlare di quello che è successo dopo la morte di Will, dal tuo punto di vista di amico di una vita e di agente, e poi cercare di capire che cosa ci aspetta. In prospettiva, che giudizio ne daresti in termini storici, commerciali o sotto qualunque altro punto di vista?È stupefacente quanto materiale esista e ancora sarà prodotto. Non saprei indicare altri autori con un piano di uscite postumo paragonabile a quello di Will. Tra le altre cose, i suoi lavori erano inclusi nella mostra Masters of American Comics, che ha percorso gli Stati Uniti. Alcune mostre si sono tenute anche a Parigi e New York. In certi momenti, i suoi lavori sono stati esposti in quattro luoghi diversi contemporaneamente.In campo editoriale, possiamo partire dalla collaborazione con la W. W. Norton. Il complotto ha avuto un buon successo sia negli USA che in Europa. In Europa, in particolare, è andato straordinariamente bene, specialmente in Francia, dove l’editore Grasset ha venduto in poco tempo 30.000 copie dell’edizione cartonata. Vi sono poi dodici o tredici altre traduzioni, alcune in paesi in cui Will non era mai stato tradotto, come la Grecia e l’Ungheria. Negli USA Il complotto ha ven-duto 20.000 copie nella prima edizione, un risultato di gran lunga superiore a qualsiasi altra prima edizione di Will. In generale, ha ricevuto ottime recensioni, e alla fine è uscito anche in edizione economica.Poi c’è la raccolta Contract With God Trilogy, anch’essa partita molto bene, e un’al-tra grossa antologia, Will Eisner’s New York.Ci sono molti progetti in ballo con Norton. Abbiamo in programma anche una terza raccolta, con tutto il materiale autobiografico, mentre le singole graphic novel verranno ripubblicate con una veste grafica nuova e nuove introduzioni. Hanno pianificato un programma di interventi estremamente dinamico e di alto livello. È un peccato, perché Will era ancora vivo alla chiusura dell’accordo con Norton ed è il tipo di considerazione che ha cercato di ottenere per tutta la sua vita. Quella di lavorare, come diceva lui, con un editore “dei piani alti”. E adesso è ai piani alti. Avevano persino programmato un tour promozionale e stava già litigando con Ann su quante città avrebbe potuto fare. Will insisteva: “Posso farne otto”. E Ann: “Tu ne farai quattro!”. Ma sarebbe stato contento di vedere ciò che sta facendo Norton.Poi c’è l’altro aspetto dei lavori di Will con la DC Comics. Prosegue la serie The Spirit Archives, ormai avviata alla conclusione. E poi le nuove storie di Spirit, con l’incontro – finalmente – tra Spirit e Batman.

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Will sarebbe stato felice di vedere che dopo tutti questi anni Spirit ha ancora qualcosa da dire, una vita tutta sua. E, in questo caso, una vita nuova di zecca. Sempre a proposito di Spirit, Will aveva autorizzato una serie di romanzi. Uno è già stato scritto da James Vance (Re in incognito) e da sua moglie Kate Worley (Omaha) e uno era già a metà strada alla morte di Kate, nel 2004. Ora i romanzi si trovano temporaneamente in un limbo ma sono troppo buoni per non prose-guire, magari col solo Jim.Esiste poi un progetto con un gruppo legato a National Public Radio che vorreb-bero sviluppare un radiodramma di Spirit.Su un ulteriore fronte troviamo i libri didattici di Will, come Fumetto e Arte Sequenziale e Graphic Storytelling, che negli ultimi anni sono stati distribuiti da F+W e pubblicati da quello che restava della casa editrice personale di Will.

La Poorhouse Press?Esatto. Quello che quasi nessuno sapeva era che Will stava lavorando sul terzo volume di quella che lui vedeva come una trilogia. Il libro è rimasto allo stadio delle matite e con quasi tutto il testo già pronto e verrà completato da Pete Popla-ski. Alcuni ricorderanno Pete come direttore artistico di molti libri di Will per la Kitchen Sink ed è sempre Pete che ha completato i disegni a matita di Will per Will Eisner’s New York, la seconda grossa antologia di Will per Norton. C’erano una dozzina di disegni lasciati a matita, che Will pensava di inchiostrare, e Pete lo ha fatto seguendo il suo stile. Tutti quelli che li hanno visti sono stati soddisfatti di questa collaborazione non prevista. Pete ha anche messo a punto la grafica della sovracoperta di Will Eisner’s New York.Pete ha lavorato allo stesso modo per il terzo libro didattico, che si chiamerà Expressive Anatomy. Com’è chiaro dal titolo, tratterà soprattutto di una delle cose in cui Will era un autentico maestro, cioè raccontare una storia attraverso il lin-guaggio del corpo, la postura e le espressioni, come pochi altri autori sono stati capaci di fare. È anche la cosa più difficile sia da insegnare che da imparare e credo che sia per questo che l’avesse tenuta per ultima. Penso che nessun altro avrebbe potuto farlo come Will e siamo davvero impazienti di vederlo pubblicato.

Hai citato tantissimi progetti, per cui vediamo di tornare indietro un attimo e di analizzarli uno alla volta. Hai detto che la prossima antologia per Norton raccoglierà il materiale autobiografico. Immagino che questo significhi Il sognatore e...Il sognatore e Verso la tempesta sono i titoli più ovvi. Comunque, stiamo valutan-do tutti i titoli possibili, dal corpus di lavori di Will. Vorremmo conservare un numero di pagine simile a quello del primo libro, senza contare elementi semi-autobiografici già apparsi e che ovviamente non verranno ripetuti, come certe

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parti di Contratto con Dio.

A proposito de Gli Archivi di Spirit. Da Mike Richardson m’è sembrato di capire che ci sia un accordo con la DC per cui le Nuove Avventure che a suo tempo vennero pubblicate da Kitchen Sink Press costituiranno l’ultimo volume degli Archivi.Sì, lo confermo. La DC gestisce i diritti di The Spirit ma The Spirit: The New Ad-ventures era stato scorporato e assegnato alla Dark Horse, che lo proporrà in un formato sostanzialmente identico a quello della DC. Credo che la Dark Horse lo farà uscire al completamento della serie degli Archivi della DC, come una specie di ulteriore e definitivo volume.

Quale sarà l’ultimo numero degli Archivi?Mi sembra di ricordare che fosse il 24, ma è un calcolo semplice da fare, perché ogni volume copre esattamente sei mesi di storie. Ma stiamo ancora discutendo di un possibile volume in più con le strisce giornaliere e tutto il vario materiale assortito del personaggio, come la storia di Will del 1966 per il “New York Herald Tribune”. Probabilmente ci saranno anche le tavole singole e le storie di quattro pagine che fece nel 1972 per l’underground Spirit della Kitchen Sink; la nuova storia con le origini che fece per la Harvey Comics nel 1966 e alcune altre pagine varie. Mettendo insieme tutto questo, probabilmente si ottiene un altro volume di materiali di Spirit al di fuori del classico ciclo di section per i giornali.

Ci sarà anche quella storia di Spirit che Will fece dopo anni di insistenze e che alla fine non andava bene? Verrà mai stampata?Credo di sì, perché la curiosità è grande e tantissimi si sono lamentati perché non fu pubblicata a suo tempo. Inoltre, probabilmente mi sento un po’ in colpa per averla bocciata. È tutto negli archivi e sarà, credo, intorno alle 50 pagine, quindi potrebbe anche essere una pubblicazione a parte.

Che cosa pensa di The Spirit di Darwyn Cooke?Mi ha davvero colpito. Darwyn ha un grande entusiasmo ed è estremamente ri-spettoso del lavoro di Will ma al tempo stesso usa il suo stile. Non ci si dovrebbe aspettare un clone delle cose di Will, anche se l’ispirazione è evidente. Darwyn darà alla serie un suo marchio personale. Riporterà alla luce certi criminali chiave come P’Gell e Octopus, ma ne creerà anche di nuovi. Quindi penso che per i fan di lunga data di Spirit ci saranno delle sorprese.

Ora che la DC pubblicherà nuove storie di Spirit, capiterà che il personaggio venga usato in altre storie dai loro autori?

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In teoria, è possibile. Una cosa del genere deve essere approvata dagli eredi ma la DC è libera di sottoporre delle proposte, che verranno valutate. Con Batman/Spi-rit è stato tutto molto semplice perché venne approvato personalmente da Will, perciò chiunque detesti anche solo l’idea di una cosa del genere non dovrebbe spedire lettere all’antrace a me! Per prossimi spin-off o crossover di The Spirit, il merito o la colpa probabilmente saranno miei, ma è importante che si sappia che Will aveva dato il permesso a questo tipo di operazioni dopo molti, molti anni di “no” sia alla Marvel che alla DC. Come sa bene chi ha letto il tuo libro, Jim Shooter voleva fare un crossover con l’Uomo Ragno e il crossover con Batman era stato proposto dalla DC da moltissimo tempo.

E naturalmente Will aveva spiegato a Shooter che Spirit le avrebbe suonate all’Uomo Ragno.Per la precisione, credo che abbia detto “Spirit farebbe un culo così all’Uomo Ragno”. Mi scappa ancora da ridere.

Lasciando da parte la questione del film, di cui sappiamo già molte cose, cosa ci puoi dire del programma radiofonico? Dovrebbe trattarsi di qualcosa di completamente nuovo.Sì. È stato proposto agli eredi da un paio di produttori, uno dei quali con grande esperienza, e da allora stiamo discutendo le possibili modalità di realizzazione. Di nuovo, sarebbe prematuro dire che si farà, ma ne stiamo parlando seriamente.

Ora passiamo a Expressive Anatomy. Quanto erano diffusi i due libri precedenti e come venivano usati dai loro lettori?Se diamo un’occhiata all’ultima edizione di Fumetto e Arte Sequenziale, vediamo che si tratta della trentesima edizione, o giù di lì. Certo, non stiamo parlando di tirature colossali ma complessivamente si tratta di numeri con sei cifre. Hanno sempre venduto, regolarmente e puntualmente, e non credo che siano mai usciti di catalogo dalla prima edizione della Poorhouse Press. Ci sono anche state un certo numero di revisioni.Perciò possiamo dire che hanno avuto una grande diffusione, specialmente se si guardano le cose su scala mondiale e considerando le numerose edizioni straniere. In Europa sono stati pubblicati un po’ dappertutto e credo che Fumetto e Arte Sequenziale sia l’unico libro di Will tradotto in coreano, per esempio.

Si è anche parlato di un antologia di PS Magazine.Sì. È ancora nella fase di proposta e gli editori la stanno valutando. Spero di tor-nare a parlarne presto.

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Mike Richardson ha dichiarato di essere interessato a ristampare alcuni dei libri umo-ristici di Will degli anni Settanta.Sì, quelle che Will chiamava “Gleeful Guides”. È andato oltre l’interesse e ha formalmente acquistato i diritti per ristamparli, anche se per quanto ne so non sono ancora programmati. Ci sono dei seri problemi di formato inoltre, in tutta sincerità, in parte sono abbastanza datati e ancora non hanno deciso se farli così come sono, cioè una semplice ristampa, o metterci in qualche modo le mani, ricavandone una specie di best of o cose del genere.

Ci sarebbero anche i libri per la Scholastic?No, quelli resteranno nel limbo. Potrebbero essere gli unici libri di Will Eisner che non verranno mai ristampati.

Si tratta di una decisione di Will o sono troppo datati?Non potrei mai dire che si tratta di una decisione di Will. Lui era sempre entusia-sta di ristampare qualsiasi cosa. Personalmente, li trovo maledettamente imbaraz-zanti e molti sono estremamente datati. Basta pensare a uno dei titoli: Star Jaws.

Quello con più pagine, vero?Sì, il più grosso. Poi c’è The Dating Book (Il libro degli appuntamenti) e penso che il modo di darsi appuntamento sia leggermente cambiato da quando Will fece questo libro, e anche allora era già intorno alla sessantina, e si fece aiutare da un paio di suoi studenti. Senza dimenticare che buona parte dei disegni e delle illustrazioni sono di suoi studenti o ex studenti, quindi non si tratta neppure di un Eisner “puro”. Non reggerebbero in nessun contesto, se non forse in qualche specie di opera omnia. Non penso che nessuno stia trattenendo il respiro per rivederli!

Me lo chiedono in tanti: come sta Ann Eisner?Sono felice di poter dire che Ann sta molto bene. Si è trasferita in un nuovo appartamento ed è occupata in un sacco di attività. È iscritta a diversi club e associazioni ed è estremamente attiva. Viaggia e ha partecipato in prima persona ad alcune decisioni riguardanti la gestione del lavoro di Will, come mostre e pub-blicazioni. Ha affidato la gestione delle questioni finanziarie e commerciali a Carl Gropper, uno dei suoi nipoti, e direi che viste le circostanze Ann sta decisamente bene.

Dopo la scomparsa di Will è rimasta stupita dalle manifestazioni di rispetto e di sti-

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ma? Ovviamente sapeva che...Difficile dirlo. Certo, penso che avesse capito quanto Will fosse stimato, ma è stato certamente molto gratificante constatare l’ampiezza del tributo, che ancora non è finito. Nel 2006 la National Cartoonists Society ha tenuto la sua riunione annuale a Chicago e José Delbo, un vecchio amico, ha tenuto un profilo di Will davanti a tutti i cartoonist, alcuni dei quali erano stati suoi amici per decenni, come Mort Walker; altri invece erano giovani e non hanno mai lavorato nel set-tore dei comic book. Per non parlare di quel bellissimo numero speciale di Comic Book Artist di John B. Cooke.Stanno succedendo un sacco di cose. Will ne sarebbe felice, ma neppure noi dovremmo stupirci troppo se tutto questo interesse dovesse continuare. È molto, molto lusinghiero.

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Gary ChalonerIntervista raccolta il 26 giugno 2006

Gary Chaloner è un autore di fumetti vincitore di diversi premi che da alcuni anni scrive, disegna e pubblica in proprio le nuove avventure di John Law,

un vecchio personaggio di Will Eisner.La prima volta che ho intervistato Chaloner via mail John Law non era stato an-cora pubblicato. Ora che è uscito e che uno dei personaggi meno noti di Eisner si sta conquistando un suo pubblico, ho pensato che sarebbe stato interessante risentirlo.Gli appassionati di Eisner saranno entusiasti sapendo che molti altri personaggi dei primi tempi di Eisner torneranno in azione nelle storie di John Law di Cha-loner.Ma diciamo prima qualcosa di più su quest’autore.Australiano, ha iniziato a lavorare nel fumetto autoproducendo i suoi primi lavori e quelli di altri autori australiani con la sua etichetta Cyclone Comics. La Cyclone pubblicò diversi fumetti di una certa popolarità tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, titoli tra loro diversissimi come The Jackaroo, The Southern Squadron, Dark Nebula, GI Joe Australia, Flash Domingo e Cyclone Comics Quarterly.Tra i lavori di Gary realizzati negli Stati Uniti ci sono le edizioni per quel mercato di The Jackaroo e di The Southern Squadron; un numero assolutamente bizzarro di The Badger su testi di Mike Baron; l’episodio Planet of the Apes: Urchak’s Folly, vincitore di diversi premi; The Olympians, una storia in due parti per la Marvel/Epic Comics; vari redazionali per Dark Horse Down Under della Dark Horse Co-mics, in cui è apparso per la prima volta negli USA il personaggio di Gary Morton Stone, Undertaker.Tra i suoi attuali progetti indipendenti, la commedia noir-grottesca Morton Stone: Undertaker; Red Kelso, una serie avventurosa di ispirazione pulp; le nuove avven-ture di The Jackaroo.Chaloner ha lavorato a stretto contatto con Will Eisner per rielaborare e rilanciare

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il personaggio di John Law, sia online che a stampa, in collaborazione con la casa editrice IDW Publishing.Dal 2006 le avventure del personaggio sono consultabili liberamente su johnlaw.us.com. Inoltre, Chaloner ha messo a disposizione vecchie storie di Lady Luck e Mr. Mystic, che in origine apparvero in appendice alle Section di Spirit e che per l’edizione online sono state restaurate e ricolorate, e che potrebbero un giorno vedere la luce in una edizione a stampa.Nel 2005, John Law ha ricevuto diversi Ledger Awards (i principali premi austra-liani del fumetto), e ha inoltre ricevuto il Ledger of Honour, una sorta di premio alla carriera.Chaloner ha riprogettato e modernizzato il sito ufficiale di Will Eisner: www.willeisner.com

Puoi raccontarci la storia di John Law e di come Will Eisner creò questo personaggio?Will aveva creato e messo a punto John Law nella seconda metà degli anni Qua-ranta. Spirit stava andando molto bene e Will voleva espandere il suo catalogo di pubblicazioni per l’edicola. Sviluppò diversi progetti e uno di questi era John Law. Il primo titolo che pubblicò, Baseball Comics, non andò come aveva sperato, e così le altre idee furono messe da parte.Da persona previdente e frugale quale era, riciclò i disegni ricavandone storie di Spirit. Fu così che quel materiale non vide la luce in stampa se non come storie di Spirit, intorno al 1950. Ma l’idea di John Law era qualcosa a cui aveva pensato per diversi anni, con una sua autonomia, e che era rimasta lettera morta. Perciò, quando mi si presentò l’occasione, parlai con Will e Denis Kitchen della possi-bilità di sviluppare la serie, non si trattava di un’idea morta, ma di una serie di personaggi già completamente sviluppati, pronti per le storie, in un universo già messo a punto da Will. Un’occasione irresistibile.

Era mai stato pubblicato negli anni Cinquanta?No, mai. Era stato adattato e riciclato come materiale di Spirit. John Law in quanto tale non fu pubblicato prima degli anni Ottanta, in una edizione dell’E-clipse Comics. Sostanzialmente, tolsero tutti gli interventi e le modifiche che Will aveva letteralmente incollato sulle tavole, riportando alla luce il John Law originale.

Quando hai saputo dell’esistenza di John Law, la prima volta?Be’, sono sempre stato un lettore di Eisner, e nelle varie edizioni dei suoi lavori, prima della Kitchen Sink e poi di altri, ho imparato un po’ di cose su Spirit e sugli altri personaggi meno fortunati che Will aveva cercato di pubblicare negli anni

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Quaranta. Il nome “John Law” continuava a saltare fuori come una specie di per-sonaggio parallelo a Spirit e mi era rimasto in mente, con tutti i suoi personaggi di contorno, come Nubbin “the Shoeshine Boy”, Melba, la ragazza detective e alcuni altri. A un certo punto mi sono detto: perché non farci qualcosa?

Quindi quella di rifare John Law fu un’idea tua? Non di Denis o Will?Sì, fu sostanzialmente mia e per questo contattai Denis. Fu dopo la sospensione di The Spirit: The New Adventures, per cui avevo fatto una storia, e anche dopo la chiusura della Kitchen Sink Press. Denis stesso non stava attraversando un buon periodo e fu da allora che restammo in contatto. Se The New Adventures fosse andato oltre il numero otto avrei ci sarebbe stata un’altra storia mia, e poi avevo sempre in mente questa cosa di sviluppare John Law.

Vuoi dire che ai tempi di The New Adventueres avevi fatto una storia che poi non era stata pubblicata?Esatto. Sarebbe apparsa nel numero nove e la serie finì col numero otto.

La cosa più curiosa, mi sembra, era che come Will aveva fatto John Law negli anni Quaranta, per poi riciclarlo in storie di Spirit, tu avevi fatto una storia di Spirit da cui poi pensavi di ricavarne una di John Law.Mi sembrava perfetto. C’erano tutti gli allineamenti astrali del caso.

Fu difficile convincere Will?No, non per le questioni creative. Curiosamente, come “progetto John Law” non era mai stato pensato per la pubblicazione online, cosa che invece interessava molto Will. Aveva imparato a usare la posta elettronica ma non era particolar-mente esperto del web, che per lui era una tecnologia completamente nuova. C’è stato un veloce e radicale apprendimento da parte sua di tutte le questioni legate alla messa in rete delle nuove storie di John Law.

In effetti, Will non era molto esperto delle questioni relative a internet. Come gli spie-gasti il modello d’affari del progetto?Feci del mio meglio, per analogia coi modelli tradizionali. All’epoca, www.mo-derntales.com era partito da alcuni mesi. Si basava sull’abbonamento, per cui le persone pagavano una cifra x al mese o all’anno per avere accesso ai fumetti. Era una logica che Will poteva capire molto facilmente: era come l’abbonamento a una rivista. Più complicato fu spiegargli tutti i dettagli tecnici su come si arrivare a caricare in rete una storia a fumetti, ma ci arrivò comunque abbastanza in fretta.

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All’inizio Will ti diede qualche input particolare su cosa poteva piacergli oppure no?Oh, sì, diceva la sua. In realtà, non interveniva su quello che volevo fare, o come volevo farlo, ma d’altra parte le mie idee coincidevano molto con quello che voleva fare lui e in questo senso andavamo abbastanza in parallelo. In diverse oc-casioni suggerì degli interventi narrativi sulla struttura della storia, il layout delle vignette, degli elementi visivi e cose del genere, ma la direzione complessiva della serie, l’impostazione, la natura dei personaggi, tutto questo lo lasciava a me. E io seguivo sostanzialmente le sue storie degli anni Quaranta.

Parlandomi della storia che aveva scritto per The New Adventures, Alan Moore mi ha detto che Will si era raccomandato con lui, tra le altre cose, di non fare di Spirit un tossico. E Alan: “Chi, io? Non lo farei mai!”. Che regole impose per John Law?La più importante per lui era l’umanità del personaggio. È l’unica cosa che mi dis-se. Non voleva che le storie prendessero qualche direzione che potesse apparirgli ridicola e mi disse solo: “Devono essere storie umane”.

Come descriveresti la differenza tra Spirit e John Law a qualcuno che non conosce quest’ultimo?Direi che John Law è un personaggio molto più serio di Spirit e le storie rifletto-no questo suo carattere. C’è sempre un aspetto umoristico, con personaggi come Nubbin “the Shoeshine Boy” e altri personaggi di contorno, ma John Law è mol-to più serio e meno frivolo di Denny Colt. Non è stata una scelta programmata, anzi, altri miei lavori che considero abbastanza simili tendono ad avere una vena umoristica. Ma quando ho cominciato a lavorare alle storie di John Law, sempli-cemente sono risultate più drammatiche, o almeno è così che io le vedo.

Entrambi i personaggi hanno una spalla.Sì, un piccolo pallino di Will.

Certo. Immagino che Nubbin sia un personaggio meno controverso di Ebony.Be’, Nubbin è un tossico che si prostituisce. No, scherzo! Volevo dire che è uno che gira spesso di notte.Nubbin è la tipica, immancabile spalla, il momento leggero, un ragazzo di strada orfano estremamente ingegnoso che si affeziona a John Law. Un ragazzino che si aggira intorno a un commissariato di città, dove ci sono un sacco di scarpe da lustrare. Un tipo sveglio, pieno di risorse.

Come se la cava John Law con le signore?Be’, ha una sua storia un po’ difficile, che si riflette nelle varie avventure. Nella sua

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vita ha avuto molti amori; sta ancora cercando “quella giusta” e ho già in mente quand’è che potrebbe trovarla. Tra poco nella sua vita entrerà un grande amore. Insomma, ha avuto un passato burrascoso, ma avrà un futuro molto più dolce.

La serie è iniziata online su Modern Tales, ma da allora si è evoluta, dico bene?Sì, sicuramente. La distribuzione delle storie si baserà sempre sul Web e parte di tutto ciò sarà la riprogettazione da parte mia di entrambi i siti di John Law e WillEisner.com. Le storie online saranno sempre la base di qualsiasi storia che scriverò in futuro.

Da allora, John Law è apparso anche a stampa.Sì, certo. IDW ha fatto una bella edizione nel dicembre 2004, accolta bene dal pubblico e dalla critica, e stiamo producendo una nuova serie, di cui è già uscito il primo numero [in Italia: John Law Detective, 2005, Star Comics].

Una serie regolare cartacea, quindi?Una miniserie, con storie autoconclusive.

Le raccolte riguarderanno la produzione online o saranno storie scritte appositamente?All’inizio, avevo pensato alle storie unicamente per la stampa, ma viste le mie sca-denze col sito di Will Eisner e gli altri miei lavori, ho deciso di mettere il materiale online e di raccoglierlo in un secondo tempo per la stampa.

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Benjamin HerzbergIntervista raccolta il 7 luglio 2006

Avevo brevemente intervistato Benjamin Herzberg per il capitolo finale del libro, a proposito del suo coinvolgimento nell’ultimo lavoro di Eisner, Il

complotto.Mi aveva colpito il fatto che per quanto pensassi di conoscere le attività di Eisner durante gli ultimi tre anni della sua vita, non venni a sapere di Herzberg e del suo contributo a Il complotto prima della scomparsa dello stesso Eisner, né ci incrociammo mai in quel periodo, nonostante entrambi lo frequentassimo assi-duamente.Mi risentii con lui nell’ottobre 2005, alcuni giorni prima dei nostri interventi all’International Comic Arts Festival presso la Biblioteca del Congresso di Wa-shington. Entrambi eravamo stati invitati a intervenire su Will Eisner, e Herzberg pensò che sarebbe stato meglio discutere prima gli argomenti di ciascuno.Per fortuna.In qualità di biografo di Eisner, avevo pensato di fare una panoramica della sua vita e della sua carriera, di raccontare alcuni aneddoti non inclusi nel libro – che sarebbe uscito poche settimane dopo – e di leggere alcuni brani.Al telefono, Herzberg cominciò elencando i contenuti del suo intervento, gettan-domi nel panico: c’era praticamente tutto quello che avevo deciso di dire io. Io ero il biografo, ma su Eisner Herzberg aveva studiato, e bene.Dalla mia, avevo una cosa: avrei parlato per primo.

Gli dissi che secondo me gli organizzatori si aspettavano che io intervenissi sulla vita di Eisner, mentre lui parlasse della sua collaborazione con lui per Fagin l’ebreo e Il complotto. Siccome ciascuno di noi avrebbe avuto solo 45 minuti – e il docu-mentario di Andrew e Jon B. Cooke, Will Eisner: The Spirit of An Artistic Pioneer, sarebbe stato proiettato tra l’uno e l’altro degli interventi – suggerii che ciascuno ci concentrasse sul proprio, specifico rapporto con l’artista. Herzberg, che poteva

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anche offendersi mandandomi a quel paese, mi mandò invece la sua presentazio-ne, in modo da evitare sovrapposizioni.Grazie alla signorilità e alla disponibilità di Herzberg, quel giorno le nostre re-lazioni furono complementari e ottimamente accolte. E mi resi conto che un giorno avrei dovuto ampliare la parte del libro in cui descrivevo il rapporto di collaborazione tra Herzberg ed Eisner.Herzberg è un tipo assolutamente notevole, la cui personale missione è fare del bene in questo mondo. Il suo lavoro ufficiale è quello di consulente anziano per i progetti di sviluppo del Dipartimento piccole e medie aziende della Banca Mon-diale, a Washington, e in questa posizione si trova perennemente in viaggio per il mondo. In precedenza, aveva ricoperto un incarico altrettanto importante presso l’Ufficio dell’Alto Rappresentante in Bosnia-Erzegovina, e prima ancora era stato consigliere economico della Missione OSCE in Bosnia-Erzegovina. Qui aveva elaborato programmi per lo sviluppo degli investimenti, la formazione e la pro-mozione delle collaborazioni tra pubblico e privato, lavorando a progetti per lo sviluppo degli interventi nel settore delle piccole e medie imprese.Herzberg ha studiato in Francia e Gran Bretagna, ottenendo un master in geogra-fia e ambiente all’Università di Lille e un master in Geografia alla Sorbona.Ho già detto che è un tipo parecchio sveglio?Come leggerete tra poco, è stato anche editore di fumetti a Sarajevo e in Francia.

Con Will Eisner hai vissuto un’esperienza molto interessante, che probabilmente non sono in molti a conoscere: hai lavorato con lui su Fagin l’ebreo e Il complotto.Sì, esatto. Non posso dire di essere stato il suo assistente nel senso classico del ter-mine. Non sedevo tutto il giorno di fianco a lui al tavolo da disegno, per esempio. Milton Caniff aveva questo tipo di assistente. Ma l’ho aiutato molto su quei due libri, e specialmente nel secondo.La cosa era cominciata con Fagin, per cui Will mi aveva chiesto di fare un po’ di ricerche storiche e iconografiche. Gli ho anche inviato dei miei commenti sulla struttura narrativa del libro, ma questo è stato secondario. Il maggior contributo narrativo che ho dato è stato scartare la prima conclusione di 30 pagine che Will aveva disegnato e che avrebbe sbilanciato leggermente la lettura. Quelle pagi-ne, che furono sostituite da una sequenza più breve, dovrebbero essere ancora da qualche parte negli archivi di Denis Kitchen. Ma la maggior parte della mia collaborazione ha riguardato l’iconografia. Will mi aveva chiesto di trovargli do-cumentazione sugli ebrei di Londra tra il 1790 e il 1830. Era una richiesta molto precisa e mi permise di frugare musei e biblioteche, dove trovai un buon numero di ottime immagini. Alcune sono state anche messe in appendice al libro.In quell’occasione sviluppammo un rapporto molto interessante. Feci tutto da

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New York, dove risiedevo all’epoca. Quando il libro uscì mi ero già spostato a Sarajevo, in Bosnia-Erzegovina e fu una bella sorpresa vedere che Will mi ave-va ringraziato. Mi spedì anche un bel disegno per ringraziarmi ulteriormente dell’aiuto ricevuto per Fagin. Mi aveva detto di averlo spedito ma non lo vedevo arrivare e cominciai a preoccuparmi, finché un giorno mi venne consegnato... da un vicino, a cui era stato recapitato per errore, anche perché non l’aveva spedito con posta assicurata, o via corriere. Tipico di Will. L’aveva messo nella busta più economica che aveva sottomano, senza nessuna particolare protezione. In effetti, aveva disegnato sul retro di uno dei suoi bozzetti a matita.

Gli piaceva risparmiare.Sicuramente, inoltre per lui spedire un disegno come quello non voleva dire gran-ché, ma per me era importantissimo. E poi era a colori, di grandi dimensioni.

Come nacque la tua collaborazione per Il complotto?Abitavo a Sarajevo, occupandomi di sviluppo economico e di aiuti alle piccole imprese. Un giorno Will mi chiamò chiedendomi di aiutarlo per Il complotto, una collaborazione che sarebbe stata ancora più profonda e coinvolgente, per quanto riguarda la costruzione del libro. Feci una buona dose di ricerche storiche ma anche se si trattava di un sacco di lavoro, Will coinvolse altre persone in grado di garantire al libro delle credenziali accademiche. Per esempio, gli diede una mano anche Christopher Couch.

Che cosa ti disse per descrivere Il complotto?Fu una cosa strana, perché non cominciò come tutti gli altri libri di Will. Lui di solito lavorava all’indietro, partendo dalla fine, sapendo già quale doveva essere, e poi costruiva la storia a ritroso. Una volta messa a punto la struttura, disegnava il libro dall’inizio alla fine. In questo modo, non cominciava mai a disegnare prima di sapere come sarebbe stato il libro e come sarebbe finito. Ma con Il complotto aveva l’argomento e aveva un’idea su ciò che voleva fare, ma su quale sarebbe stata la struttura del libro era ancora molto incerto. Così, prima di scegliere l’inizio che è poi stato pubblicato, il libro ne ha avuti altri cinque.

A che punto era arrivato quando iniziasti a occupartene?Era all’inizio, credo che mi abbia chiamato proprio all’inizio, prima di partire effettivamente. Per me fu un grande onore, perché di solito Will non parlava mai dei suoi progetti. Li teneva per sé perché temeva che parlarne l’avrebbe costretto a sbilanciarsi sull’argomento e sui dettagli quando ancora non erano ben definiti. Ma immagino che quando mi chiamò per Il complotto avessimo già raggiunto un

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tipo di rapporto per cui era concepibile per lui che lavorassimo insieme.

È molto interessante, e in effetti Denis Kitchen mi ha raccontato che Will non gli dice-va mai su cosa stava lavorando, e che di solito diceva solo che era un libro, ambientato in questa o quell’epoca. Tutto qua. Denis non conosceva i dettagli finché il libro non era finito, perciò è significativo che te ne abbia parlato mentre era ancora in incuba-zione, portandoti a bordo, in un certo senso.A questo punto è meglio che inquadri un po’ il contesto. Avevo conosciuto Will nel 1995, e i suoi lavori da molto prima, naturalmente. All’epoca abitavo in Isra-ele e stavo cercando di mettere insieme una rivista di fumetti. Fallii miseramen-te ma nel frattempo avevo contattato Will Eisner, mandandogli sostanzialmente una lettera da fan, spiegandogli quello che stavo cercando di fare, e per chiedergli consiglio. Lui aveva risposto molto gentilmente, e cominciammo a conoscerci via posta.Un giorno mi trovavo in Florida e andai a trovarlo, chiacchierammo del più e del meno e così demmo il via a un rapporto molto amichevole. All’epoca conoscevo già piuttosto bene il suo lavoro e avevo idee abbastanza precise su quello che stava cercando di dire con i suoi libri, e su come a volte negli USA il pubblico non capisse fino in fondo il suo lavoro più recente, in confronto a Spirit, per esempio. E, da francese, la mia prospettiva era tipicamente europea.Fu molto interessante e ci trovammo davvero bene insieme. Credo che il fatto che fossi ebreo c’entrasse qualcosa, e forse anche l’età, non so. Forse stavo cercando una qualche figura paterna...

Può avere aiutato il fatto che nel corso degli anni avesse sviluppato un seguito così forte in Europa, e che di conseguenza fosse sempre aperto a un punto di vista europeo. Probabilmente era interessato alle opinioni europee anche perché negli USA ci era cresciuto e sapeva già cosa poteva pensare la gente.Sì, è possibile. In Europa Will è sempre stato molto apprezzato, sin da quando è tornato sulla scena negli anni Settanta. Ma pensandoci bene, indipendentemente dal nome con cui venivano chiamati, in Europa i romanzi a fumetti erano sempre esistiti. Con Hergé e altri autori europei il formato del libro era già stato messo a punto, erano già romanzi a fumetti, e molti erano opere per adulti. Gente come Bilal o Hugo Pratt avevano fatto romanzi molto sofisticati. È possibile che questa mia particolare prospettiva abbia contribuito alla nostra amicizia, ma credo che fosse più una questione di personalità che di punto di vista artistico. Allora avevo uno spirito decisamente imprenditoriale e anche questo potrebbe avere influito, visto che sotto sotto era anche quello di Will. Tornando dal suo funerale, un suo amico, che era stato un imprenditore di successo nel ramo alimentare, mi ha

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raccontato una storia davvero divertente. A un certo punto, che ci crediate o no, Will aveva cercato di mettersi nel ramo dei biscotti della fortuna. Aveva cercato di convincere l’amico per creare una nuova società, in cui Will avrebbe disegnato delle mini strisce di vignette da inserire nei biscotti che vengono dati nei ristoran-ti. Non ne fecero niente, ma Will era esattamente così, sempre alla ricerca della novità. E quando spiegai all’amico il tipo di attività che anch’io avevo cercato di avviare, mi disse: “Ah, ora capisco”.

Quali attività?Be’, per esempio, a Sarajevo avevo fondato la GASP Edizioni, una casa editrice di fumetti. Dopo Israele e New York mi ero trasferito lì e ci restai due anni, dedican-domi allo sviluppo economico di giorno e a pubblicare fumetti di notte. GASP starebbe per Graphic Art Sarajevo Project, e l’idea era quella di lavorare per una specie di nuovo rinascimento dell’editoria fumettistica in Bosnia, dov’era esistita, ma solo per un breve periodo, prima della guerra del 1991-1995. Per esempio, Fax From Sarajevo di Joe Kubert, un gran libro, per la cronaca, racconta la storia dell’unico editore di fumetti bosniaco prima della guerra, che se ne andò per non tornare più. Quando arrivai in Bosnia io, non esistevano editori di fumetti da anni e gli autori erano quasi scomparsi dal paese. Ma riuscii a trovare alcuni gio-vani autori, che non avevano alcun punto di riferimento. Erano più o meno sui 20 anni, ed erano cresciuti durante la guerra, sotto l’esercito. Come disegnatori erano molto interessanti, così aprii una società per confezionare i loro prodotti e distribuirli sul mercato europeo. In quel periodo, contattai Will per chiedergli di scrivere l’introduzione del volume Sarajevo: Side Stories, che poi venne distribuito ad Angoulême. Will scrisse la prefazione subito dopo l’11 settembre ed è un altro motivo per cui è interessante: non so di nessun’altra occasione in cui abbia parlato dell’11 settembre e di ciò che aveva voluto dire per degli autori.Su questo ho un aneddoto: Will aveva disegnato una vignetta per un libro sull’11 settembre, in cui il televisore scoppia nel salotto mentre lo spettatore sta seguendo le vicende delle due torri. Una vignetta grandiosa. In seguito, in All’ombra delle torri di Art Spiegelman trovai un disegno molto simile, anzi, quasi una copia. Lo dissi ad Art Spiegelman durante un incontro che tenne a Washington, dove abito ora, ma negò di aver mai visto l’illustrazione di Will prima di fare la sua. Forse due grandi menti si sono incontrate su questo argomento...Ma torniamo a noi. In Francia il libro di Sarajevo fu un discreto successo. Una piccola distribuzione, ma un buon successo, con un sacco di ottime recensioni. Lo dico per sottolineare come già all’epoca io e Will collaborassimo, in un qual-che modo. La nostra amicizia si era trasformata in una collaborazione vera e pro-pria con Fagin, poi lui mi aveva dato una mano col libro di Sarajevo e mi aiutava

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passando in rassegna i portfolio dei disegnatori bosniaci. A un certo punto, Will voleva mettere insieme un libro con le copertine di Spirit che aveva fatto per le ristampe della Kitchen Sink, e aveva chiesto ai miei ragazzi di occuparsene. Voleva che togliessimo i titoli da ogni pagina e arrivò persino a spedirmi delle riprodu-zioni, ma – com’era tipico di Will, che non utilizzava le nuove tecnologie – erano sostanzialmente fotocopie a colori e nonostante tutti i nostri sforzi non fu possi-bile fare un lavoro di qualità. Avremmo avuto bisogno di scansionare gli originali e senza le scansioni le fotocopie non bastavano. Will non sembrò particolarmente deluso, perché poi mi diede una mano quando provai ad avviare un’altra iniziati-va, per produrre fumetti didattici per il mercato medico.

Sempre in Bosnia?No. I disegnatori erano bosniaci, ma era per il mercato francese. Avevamo firma-to un accordo con l’Istituto Pasteur e l’idea era distribuire fumetti medici nelle farmacie. Il marchio l’avevamo chiamato MediComix e tutte le informazioni si trovano ancora su Gasp-editions.com, e ricevo anche delle richieste, di tanto in tanto.Will mi aiutò con questo progetto e il suo lavoro con i fumetti didattici fu per me una vera ispirazione. È un periodo della sua vita che mi piace molto e che la maggior parte delle persone non capisce. Rimasi malissimo quando lessi l’attacco di Gary Groth su “The Comics Journal”, in cui criticava aspramente Eisner per essere uscito dall’editoria a fumetti. Credo che non capisse assolutamente quello che aveva cercato di fare con questo linguaggio. E, personalmente, non sopporto chi critica gli autori che si imbarcano in attività imprenditoriali. Per chissà quale motivo un sacco di gente pensa che l’editoria a fumetti sia al di sopra degli altri settori e quelli che ci lavorano dovrebbero restare poveri, fare la fame e disegnare fumetti di notte, in un angolo.

Stai dicendo che non manderai una cartolina d’auguri a Gary Groth per il 30° anni-versario di The Comics Journal?Sono un suo lettore e credo che si tratti di una rivista di grande qualità. Alcuni dei collaboratori sono estremamente intelligenti, e penso che Groth sia uno di loro. Ma secondo me non capisce cosa Will cercò di fare quando fondò l’American Vi-suals. Inoltre, considero semplicemente ottuso insultare un autore perché decide di portare il suo lavoro al grande pubblico e di ricavarne un’attività commerciale. Un sacco di disegnatori hanno sempre fatto illustrazione pubblicitaria, ma Will ha avuto successo, con una società sua, e secondo me questo ha irritato alcune persone.

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Capisco. Senza contare che in quel periodo si trattava anche di sopravvivere. Se vole-vano guadagnare molti hanno dovuto adattarsi e cambiare ciò che facevano.Certo, anche. Credo che sia esattamente lo stesso motivo per cui Will cominciò a fare fumetti. Doveva guadagnare, era un ottimo disegnatore e aveva scoperto un modo per fare fruttare al massimo la sua abilità. Uno dei primi compensi che ottenne per dei suoi disegni furono 15 o 25 dollari per un volantino pubblicitario su un solvente. E reinvestì immediatamente tutto nello studio Eisner-Iger. Oggi tutti dicono che era una catena di montaggio, ma aveva trovato il modo per gua-dagnare salvaguardando l’integrità artistica, oltre a far crescere altri disegnatori. Sono stati tantissimi quelli che hanno lavorato per il suo studio per poi diventare dei grandi nomi. Basti citare Kubert, che per Will sostanzialmente sgommava le tavole... E poi Kirby, Powell e tanti altri. Insomma, il suo studio era quello che in Francia chiamiamo pépinière, un vivaio in cui fare crescere i germogli delle piante.Tornando nuovamente a noi, Will mi aveva aiutato con MediComix, con cui mi rifacevo al suo lavoro col fumetto didattico e a “PS Magazine”. Sono un grande appassionato di questo tipo di fumetto, perché credo profondamente nella forza con cui questo linguaggio riesce a trasmettere informazioni con modalità che le fanno rimanere impresse. Tutto questo per dire che a questo punto, dopo i vari contatti per Fagin, Gasp-Editions e MediComix, potevamo dire di collaborare l’uno con l’altro.Per tornare alla domanda di partenza, quando Will cominciò a pensare a Il com-plotto, credo che con me si trovasse sufficientemente a suo agio da potersi per-mettere di coinvolgermi fin dall’inizio. L’idea c’era già e credo che cominciammo a parlarne quando ancora non aveva scritto niente. Poi buttò giù una specie di rapida introduzione, che lessi in Florida e che mi sembrò totalmente fuori posto. Fu da lì che partimmo discutendo su come il libro andasse strutturato.

Quindi, a questo punto Will aveva scritto qualcosa e il tuo parere era “Will, ragazzo mio, ti rispetto moltissimo e adoro le tue cose, ma qui sei decisamente fuori strada”. Hai avuto qualche esitazione a parlargliene?No, non ho avuto nessuna esitazione. Ero assolutamente sicuro di me, esattamen-te come lui era sicuro di sé! Will era un tipo testardo e io penso sempre di avere ragione, quindi si può immaginare che razza di discussioni avessimo. Conside-ravo Will come una specie di nonno, e alla fine il nostro era un rapporto di quel tipo, tra un nonno che pensa di avere sempre ragione e un nipote che gli spiega che si sbaglia. Inoltre, per quanto la cosa sia cresciuta nel tempo, sin dal primo giorno, ogni volta che mi mostrava qualcosa, ho sempre avvertito la necessità di dirgli quello che pensavo del suo lavoro.La prima volta che parlammo di Il complotto fu al telefono. Ero in Bosnia e mi

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chiamò al cellulare. La seconda volta mi trovavo in Florida e fu quando mi fece vedere la sua prima introduzione. Poi di tanto in tanto mi mostrava qualcosa e io tornavo a casa a digerire le sue pagine. Poi gli spedivo una lunghissima mail per spiegargli che cosa ne pensavo o come secondo me avrebbe dovuto cambiare qualcosa, o introdurre un nuovo personaggio, o questo, o quello, e così via. Altre volte, mi mandava a Sarajevo delle buste di bozzetti, poi io lo chiamavo e comin-ciavamo a discutere.Ma su questo punto vorrei essere molto chiaro: al comando c’era sempre lui. Era un suo lavoro, e un suo libro. Tra noi funzionava come col grillo parlante e Pinoc-chio: il primo suggerisce sempre qualcosa al personaggio principale, che però alla fine fa comunque quello che vuole.

Perché c’era bisogno del grillo parlante?La prima introduzione dimostrava chiaramente che Will non sapeva esattamente come impostare il libro. Era molto romanzesca, mentre fin dall’inizio Will mi aveva detto che voleva attenersi strettamente ai fatti, senza imbarcarsi in vicende di fantasia. Su questo non ero assolutamente d’accordo con lui, ma quando mi fece vedere l’introduzione gli dissi: “Questo non è quello che mi avevi detto di voler fare”. Con Il complotto Will era dibattuto tra due tendenze contrastanti. Da una parte, non voleva occuparsi espressamente di antisemitismo. Non era un cro-ciato e il libro doveva essere un’inchiesta a fumetti su quello che erano realmente i Protocolli e come erano stati falsificati e distribuiti. Voleva montarci sopra un caso. Si vedeva più come un avvocato che cercava di esporre delle prove, piuttosto che tentare di influenzare la giuria con racconti lacrimevoli per fare nascere sensi di colpa nei confronti degli ebrei, e dire quanto i Protocolli fossero malvagi... Voleva mantenersi aderente ai fatti.

Pensava che tutto fosse già davanti ai nostri occhi, e che lui doveva presentarlo in modo da raggiungere un pubblico più vasto.Esatto. Le prove della falsità dei Protocolli esistevano da molto tempo, e l’argo-mento è stato sviscerato egregiamente da storici e ricercatori. Ma il lettore ordina-rio, proprio quello che potrebbe subire l’influenza dei protocolli, non ha accesso a questo tipo di informazioni – perché si tratta sostanzialmente di materiale accade-mico – ma ha accesso a internet, dove le menzogne dei Protocolli sono presenti in massa. Will voleva democratizzare la verità e per farlo era necessario essere fedele al dato informativo. Ma, a questo punto, entrava in conflitto con l’altro punto di vista, quello di un narratore di rara esperienza. Stiamo parlando di un uomo che semplicemente non riusciva a fare a meno di raccontare storie, e ogni volta che parli in sua presenza di qualcosa, di qualsiasi cosa, lui aveva una sua piccola storia

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da raccontare. E quando cominciava a mettere queste idee su carta, la sua abilità era stupefacente e le storie prendevano forma in un modo che catturava l’atten-zione del lettore. Così, per lui era molto difficile conciliare la volontà di “volare basso”, per così dire, cioè molto aderente ai fatti, e la pulsione di raccontare una buona storia. Questo dilemma era evidente in tutto il libro e nella sua struttura, e probabilmente l’ho aiutato un po’ a conciliare queste due tendenze.Perciò, non si tratta di un vero e proprio romanzo a fumetti. Per esempio, alcuni hanno sottolineato certi espedienti che Will ha dovuto usare, come per esempio quelle diciassette pagine di confronto tra i due documenti per evidenziarne le somiglianze. Era questa una delle prove a supporto del fatto che i Protocolli sono falsi in quanto copiati, quasi parola per parola, da un vecchio pamphlet contro Napoleone III e che non aveva nulla a che vedere con gli ebrei. In questo modo, con la prima parte del libro Will cattura l’attenzione del lettore raccontando la storia del protagonista e dimostrando che il libro è un falso, ma sa che non è suf-ficiente, che il lettore non ci crederà solo per questo. È necessario mostrare l’arma del delitto, e nel bel mezzo del libro colloca la vera e propria prova, il confronto pagina per pagina dei due documenti, con l’unica concessione di un piccolo espe-diente fumettistico a fondo pagina, per motivare il lettore a sfogliare le pagine, a passare dall’una all’altra e a leggere con i propri occhi.Una volta conquistata la convinzione da parte del lettore che tutto ciò che sta dicendo è vero, la terza parte del libro è molto più cronachistica, e passa a raccon-tare quale sia stato l’effetto devastante dei Protocolli, e come siano stati riprodotti in tutto il mondo in tantissime lingue, e si rifiutino di morire. Questo tipo di costruzione era qualcosa di completamente nuovo per Will e dovette provare e riprovare parecchie volte. Per esempio, le diciassette pagine al centro del libro all’inizio dovevano essere novantanove.

Stavo proprio per dirlo. Un giorno, nel suo studio, Will me le aveva mostrate, spie-gandomi che al centro del libro ci sarebbero state quelle cento pagine di testo. Un manoscritto enorme. Senza averne letto una sola parola, lo guardai perplesso, come per dirgli “Vuoi scherzare, vero?”. Ricordo che gli dissi: “Will, chi si leggerà mai queste cento pagine? Da te la gente si aspetta un romanzo a fumetti e magari potrebbero ac-cettare il fatto che tu racconti questa storia, per via della fama, e della tua esperienza con i fumetti didattici, ma non credo che i lettori interessati a un romanzo a fumetti accetteranno cento pagine del genere”.Fu un punto molto discusso e provammo diverse soluzioni. A un certo punto, dalle cento pagine originali Will ne ricavò una sola, ma neanche questo funzio-nava veramente, così pensammo di isolare quelle pagine in una specie di allegato al libro. Sono qualcosa di davvero interessante e uno di questi giorni dovrebbe-

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ro essere pubblicate. Trovo che tutti gli autori di fumetti dovrebbero leggerle, e imparare. In alto c’è un riquadro col testo di cui parlavo prima, e in basso i due personaggi, uno dei quali beve, mentre l’altro – Philip Graves, corrispondente da Costantinopoli del “Times” negli anni Venti – legge e commenta il testo riportato sopra. Bisogna immaginarsi una cosa del genere che va avanti per novantanove pagine... Come trovarsi a teatro con due personaggi che devono catturare la no-stra attenzione semplicemente parlando tra di loro. Eisner è l’unico che poteva veramente farlo funzionare a fumetti.

Suona molto “francese”.È la miglior sequenza “esistenziale” a fumetti che abbia mai letto in vita mia. In quelle pagine accadono eventi diversi, con emozioni diverse e – per novantanove pagine – è sempre la stessa inquadratura che resta interessante, leggibile. In Fran-cia si direbbe che è uno stupefacente esercizio di stile.

Si capisce perché per lui il collaboratore ideale fosse un europeo. Un americano non avrebbe mai avuto quella pazienza.Oh, lo so bene! E in ogni caso, durante la stesura de Il complotto ci furono un sacco di interventi e di cambiamenti di rotta.

Per esempio?All’inizio Will non aveva inquadrato bene il libro, e credo che a un certo punto si fosse lasciato prendere la mano dalle questioni di documentazione, restando talmente aderente ai fatti da escludere ogni altro aspetto che non fosse rilevante, e la seconda parte del libro era diventata troppo asciutta e didattica. Parlammo di diversi modi per attenuare questo aspetto e alla fine decise di inserire se stesso come personaggio narrante, un espediente per attirare e mantenere l’attenzione del lettore.

Chissà perché, ma avevo proprio pensato che tu avessi avuto una qualche parte in questa decisione.Gli diedi io l’idea, ma fu lui a prendere la decisione. Anche se posso forse pren-dermi il merito per questo intervento, frutto di innumerevoli discussioni, il libro resta il suo. In fondo, avrebbe potuto benissimo dire di no. In ogni caso, quando glielo proposi, accettò, dopo essersi preso un po’ di tempo per pensarci, perché prima di fare qualsiasi cosa doveva prima sentirla sua. Devo dire che sono piutto-sto contento del libro, mentre mi hanno deluso alcune recensioni. È stato preso come un romanzo a fumetti, un libro di narrativa d’intrattenimento, mentre non è così. È un libro che vorrebbe insegnare qualcosa in maniera interessante, ma che

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resta soprattutto un documento, non un romanzo a fumetti. La definirei “un’in-dagine storica per immagini”, una specie di genere nuovo. E penso che se le per-sone che fanno libri in giro per il mondo dedicassero anche solo il 5% delle loro energie alla creazione di lavori come questo, vedremmo un sacco di belle cose.C’è un’ultima cosa che vorrei dire sui motivi per cui Will fece questo libro, e anche Fagin. È solo una mia opinione, ma se penso ai suoi lavori nel corso dell’ul-timo mezzo secolo ho l’impressione che quando Will cominciò a fare i suoi ro-manzi a fumetti si mise nella stessa posizione di un Balzac, che nel suo immenso progetto della “Commedia Umana” descrisse la società francese del XIX secolo in ogni dettaglio attraverso le vicende dei singoli. Nei suoi romanzi Will fa esatta-mente questo. Descrive i suoi contemporanei e nel farlo tratta temi universali. Se si vuole capire New York e i suoi abitanti nel XX secolo si deve leggere Eisner. In Contratto con Dio analizza il problema della morte, il rapporto con Dio, l’ingan-no, la consapevolezza di sé. In altri suoi libri la città appare come un personaggio in continua evoluzione e spietato, capace di avvolgere chiunque nell’anonimato. In Affari di Famiglia parla del suicidio assistito. L’argomento dell’ascesa sociale, dell’assimilazione culturale e il prezzo da pagare per i legami famigliari sono al centro di Le regole del gioco. Sostanzialmente, si tratta di temi universali analizzati attraverso le vicende dei singoli, con una partecipazione e una solidarietà che, secondo me, fanno di Eisner il Balzac del fumetto.Con i suoi ultimi lavori invece, Will cambia, nello stesso modo in cui un secolo prima era cambiato un altro scrittore, Émile Zola. Con Fagin e Il complotto da Balzac Eisner diventa lo Zola del fumetto. Zola fu uno scrittore davvero stupefa-cente, che nel 1898 secolo rischiò la carriera e persino la vita intervenendo nell’af-fare Dreyfus con il suo “J’accuse”, in cui accusa l’esercito e il governo francesi di antisemitismo. Zola mise il suo prestigio letterario e la sua credibilità presso l’opinione pubblica francese al servizio di un innocente e così facendo scelse la strada della militanza. Anche Will aveva cominciato a fare qualcosa del genere: da osservatore dei suoi contemporanei era diventato difensore, o accusatore. In Fagin sviluppa argomenti legati al pregiudizio e con Il complotto si assume il compito di dimostrare al mondo che calunnia, diffamazione e menzogne non producono buoni frutti.Verso la fine della sua vita, nei lavori di Will si sviluppa una sorta di vena mili-tante. Penso che fosse per via della sua preoccupazione sempre maggiore per il trascorrere del tempo e per ciò che avrebbe lasciato...

In eredità?Non proprio. Ma credo che volesse lasciare qualcosa. Non penso che avesse a che fare con la considerazione o la stima per se stesso, ma piuttosto col desiderio

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genuino di lasciare qualcosa al mondo. Per descrivere questo concetto esiste un termine ebraico, tikkun olam, che significa “riparazione del mondo”. Ogni ebreo ha per propria missione quella di riparare il mondo attorno a sé e credo che Will volesse contribuire al miglioramento del mondo e che dietro quei due libri ci sia questo. Il successivo a cui stava già pensando era un adattamento di Se questo è un uomo di Primo Levi.Will era alla ricerca del suo prossimo argomento. Aveva anche pensato di occu-parsi del Corano, per esempio. Feci per lui alcune ricerche preliminari su quanto era già stato fatto e alla fine abbandonò il progetto. Prese in considerazione anche alcune altre possibilità prima di Se questo è un uomo.

Sei stato coinvolto in qualche modo nel progetto dell’Anti-Defamation League di di-stribuire Il complotto in Medio Oriente?Sì. Dopo la scomparsa di Will, per quanto mi è stato possibile ho aiutato gli eredi e ho dato una mano per la promozione o la distribuzione del suo lavoro. Per esempio, ho aiutato sia Ann che Denis Kitchen in alcuni accordi con Grasset, l’editore francese de Il complotto, che in Francia è andato incredibilmente bene. Come vendite, è il miglior libro di Will di sempre, con più di 30.000 copie. Gras-set ha lavorato molto bene ed è l’unico romanzo a fumetti che avessero mai pub-blicato, così diedi loro una mano. Per esempio, hanno usato un mio articolo in francese sulla vita di Will, distribuendolo ai loro agenti presso la rete delle librerie, in modo che potessero promuovere adeguatamente il libro. Poi ho collaborato a organizzare una mostra di originali a Parigi. Ho anche aiutato la famiglia nei rapporti con l’Anti-Defamation League. Ma ormai il mio lavoro mi tiene molto occupato e il vero motore di tutto è Carl Gropper, che insieme ad Ann gestisce tutto quanto riguarda Will.

Cosa pensi che si otterrà distribuendo il libro in lingua araba?Credo che risponda agli scopi originali del libro e di Will, cioè portare gli argo-menti della verità a più persone possibile. Penso che esistano un sacco di persone che semplicemente non vi abbiano accesso e a cui sui Protocolli sono state raccon-tate molte bugie. Una volta che avranno Il complotto in mano potranno decidere se credere o no al libro, potranno anche decidere se leggerlo o no, ma Will voleva che potessero almeno avere la possibilità di scegliere. Così, ora la famiglia sta cer-cando di realizzare questo suo desiderio, e io do una mano per quello che posso.

È chiaro che a partire da Fagin hai profuso un sacco di tempo in tutti questi progetti insieme. Venivi pagato per il tuo lavoro?No, solo una volta Will fu così gentile da rimborsare alcune spese che avevo so-

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stenuto e mi spedì un assegno da 1000 dollari. Ma fu un pagamento una tantum. Chiaramente, cercare materiale e acquistare libri aveva un costo, ma non gli ho mai chiesto nessun tipo di rimborso, né alcun pagamento. Aveva spedito l’assegno a Sarajevo e la donna delle pulizie l’aveva smarrito, così Will lo annullò e me ne spedì un altro. Posso dire di avere ricevuto due assegni di 1000 dollari da Will Eisner!

Nessuna royalty sui libri, quindi?No, e non penso nemmeno che dovrei riceverne. I libri sono di Will e anche se l’ho aiutato un po’ tutto il lavoro è suo. All’inizio e alla fine di tutto c’è lui, men-tre io ci sono solo un po’, da qualche parte, nel mezzo. Ero felice di aiutarlo, per me rappresentava una specie di grande avventura. Avevamo discusso un progetto commerciale da fare insieme, uno dei possibili lavori dopo Il complotto. Si trat-tava di una biografia per immagini di Will. Cominciammo insieme, poi Will mi chiese di esserne l’unico autore. Avevamo anche preparato un contratto che non abbiamo mai firmato. Poi Will se n’è andato prima che potessi recarmi in Florida per intervistarlo su una serie di immagini che avevamo già selezionato per questo grosso libro. Sarebbe stato molto interessate e avrebbe documentato il modo in cui si lavorava all’Eisner-Iger e all’American Visuals. Anche nei suoi primissimi lavori aveva già gettato il seme della sua eccellenza nel raccontare le storie e nel trasmettere emozioni. Era un progetto commerciale e poteva esserci un buon ri-torno economico, ma la questione è diversa: nel mio lavoro ho sempre avuto una carriera soddisfacente e lavorare con Will a Fagin e Il complotto era un’altra cosa, senza risvolti economici.

Il progetto di questo libro andrà avanti?Si è fermato con la morte di Will e in effetti lo avevamo fermato persino prima, per lasciare il campo alla W. W. Norton, che voleva mano libera per la pubblica-zione di una serie di volumi di Will. Hanno investito parecchio su di lui e penso che fosse giusto non interferire mettendo sul mercato altri libri. In definitiva, ci stavamo lavorando, ma nella prospettiva di aspettare l’okay della W. W. Norton per la pubblicazione. Al momento è tutto nel cassetto. Ho conservato le imma-gini e ho parlato con sua moglie per un’intervista a lei e forse anche ad altre per-sone. Non sono certo sul da farsi e su questo mi affido sostanzialmente a Denis Kitchen, di cui ho la massima stima.

Potrebbe essere la cosa migliore, dal punto di vista del libro.Lo penso anch’io, anche perché ho letto alcuni commenti sul tuo blog su cui avrei qualcosa da dire. Trovo che l’atmosfera che vi si respira sia abbastanza edipica, nel

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senso che diverse persone stanno alzando la voce per insultare Will: era un bugiar-do, era una persona cattiva, voleva che la gente si inginocchiasse di fronte a lui, non sopportava nessuno a cui non piacessero le sue cose, e così via. Ma dov’erano tutte queste persone che adesso gli sputano addosso quando era ancora vivo? Per molti uccidere la figura paterna è un specie di processo naturale. E ci troviamo di fronte a una persona il cui contributo al linguaggio è stato tale che tantissime persone sostengono di trarre ispirazione dai lavori di Will. Magari è naturale che alcuni cerchino di distruggere tutto ciò, in modo da potere poi costruire qualcosa di proprio, forse.

Vi sono state delle critiche, ma fisiologiche, mi pare. Non penso che le critiche siano qualcosa di negativo.Sono assolutamente sane, e certamente Will non era perfetto, e sono certo che stesse sulle palle a un sacco di gente, pestando qualche piede ogni tanto, e penso che questo non sia riprovevole di per sé. Ma alla luce di tutto ciò pensavo che la miglior cosa che potessi fare è completare questo libro, mettere insieme le imma-gini del suo lavoro, della sua arte, in modo che siano loro a parlare.

L’idea è eccellente.Parlino da sole e dicano che uomo era. Perché quelle immagini mostrano vera-mente quanto fosse caloroso, la dedizione che aveva mentre disegnava, la qualità del suo lavoro, ma anche il modo in cui riusciva a interagire con altri, e quanto li rispettasse, cercando sempre di conciliare interessi commerciali ed esigenze ar-tistiche.Will era nel mio cuore e la sua scomparsa mi ha molto rattristato. Era un grande uomo e lo amavo per questo, e perché era un grande artista.

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Darwyn Cookeintervista raccolta il 14 luglio 2006

Tempi inebrianti per i fan dello Spirit di Will Eisner. Frank Miller sarà sce-neggiatore e regista di un adattamento cinematografico del personaggio, e

Darwyn Cooke ha iniziato a scrivere e disegnare una serie mensile di Spirit per la DC Comics.Durante la nostra chiacchierata, Cooke spiega in grande dettaglio e in maniera divertente come è stato scelto per questo incarico, ammettendo anche una certa trepidazione e di avere infine accettato la saggezza di Brian Azzarello nel suo modo di lavorare al progetto.Darwyn Cooke ha iniziato come disegnatore di storyboard per la Warner Bros. in The New Batman Adventures e Batman Beyond: The Movie, per poi passare al suo primo incarico per la DC nel 2000, col numero unico Batman: Ego. Da allora non si è più fermato: Catwoman, Catwoman: Selina’s Big Score e la lunga saga di 384 pagine DC: The New Frontier.E adesso, diamo una sbirciatina dietro le quinte dell’episodio unico e della serie di Spirit a cura di Cooke.

Cominciamo parlando di Spirit. Come sei arrivato a questo progetto e quando ne hai sentito parlare la prima volta?Fu subito dopo la scomparsa di Will. La DC – nella persona di Mark Chiarello – mi chiamò chiedendomi se la cosa poteva interessarmi. Ricordo abbastanza bene quel giorno, e come mi sembrasse difficile crederci e rendermi conto di quello che mi stava chiedendo.

Che cosa ti disse esattamente?Mi chiese se mi interessava fare una serie mensile di Spirit. È una domanda dav-vero notevole perché è anche l’unica che un autore esclude in partenza di sentirsi rivolgere. Quindi per me fu una situazione del tutto inattesa, specialmente all’in-

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domani della scomparsa di Will, finché non mi spiegarono che la cosa era in corso da diverso tempo e che ne avevano già discusso a lungo. Lo stesso Will se n’era occupato prima del ricovero per l’operazione, perché voleva che certe cose fossero in ordine, immagino.Devo essere onesto: ricordo che tutto ciò che mi interessava era che Will aveva ap-provato l’idea e che voleva che la cosa si facesse. In tutto questo il mio riferimento è sempre stato Denis Kitchen.

In che modo lo Spirit di Will Eisner fa parte della tua formazione fumettistica?Penso che, in questo linguaggio, chiunque sia vittima del demone del racconto abbia ricevuto una profonda istruzione da parte di Will. E se parliamo di influen-za diretta di Eisner su di me, credo che sia iniziato – come per tanti altri della mia generazione – con le ristampe della Warren. Avevo tredici anni e mi trovavo in un negozio di fumetti, dove non c’era niente che mi interessasse acquistare. Su un espositore c’era questa copia di un numero di Spirit della Warren. Credo che fosse il numero 3, dove lo si vede correre giù per la sopraelevata, col treno alle spalle, di-rettamente verso il lettore. È semplicemente una delle immagini più emozionanti che abbia mai visto e ricordo che mi sembrava troppo cartoony per i miei gusti di allora. Come dicevo, avevo tredici anni e mi piaceva Neal Adams e quel tipo di realismo, ma tornavo di continuo a darci un’occhiata e alla fine lo comprai. Da quel momento, ho dato la caccia a tutti i numeri, a uno a uno.

Abbiamo circa la stessa età: tu ha 43 anni e io 45 e ricordo anch’io di aver visto quelle edizioni nella sezione delle riviste, e di avere pensato “E questo che cos’è?”. Erano diverse da qualsiasi altra cosa avessi mai visto prima, e ho dovuto leggerle più volte per capire fino in fondo l’umorismo e la differenza dello stile, il modo in cui le storie erano scritte e disegnate.Quando mi chiedono le mie influenze in merito al disegno, Alex Toth è un altro gigante che cito sempre, ed è un altro per arrivare al quale mi è occorso un po’ di tempo. Insomma, quei cubetti di ghiaccio che disegnava, erano cubi con den-tro un lampo azzurro. Una cosa semplicissima, ma mi ci è voluto un bel po’ per capirlo. E con Will andò allo stesso modo. Le sue cose erano talmente superiori dal punto di vista narrativo, per il modo in cui il lettore veniva fatto entrare nella storia, che andavano aldilà di qualunque mia capacità di scrivere o disegnare. Mi rendevo conto che quelle storie erano gestite e orchestrate da una mente straor-dinaria.

Credo di poter dire che Will avrebbe preso questo come il maggior complimento pos-sibile, perché ripeteva sempre di essere consapevole della qualità del suo disegno ma

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quello a cui teneva di più era ricevere giudizi positivi sulla sua scrittura, sulla costru-zione e la struttura della storia.Ho incontrato Will una volta, a San Diego, un paio di anni prima che ci lasciasse. Fu una scenetta assolutamente tipica, per me: sono lì, in giro per i saloni del Con-vention Center, con la testa chissà dove, e vado a sbattere contro un tipo. Salta fuori che per poco non faccio cadere Will Eisner! Lo afferro per un pelo e comin-cio a scusarmi: “Santo cielo, mi dispiace”. Gli evito la solita litania del “Oh, wow, Will Eisner, occavolo!”, gli dico solo “Mi dispiace, sta bene?”. E lui: “Sì, tutto ok”. Poi mi guarda il nome sul badge, e all’epoca lavoravo per la Warner Animation. “Lavora per quelli lì?” mi fa. “Sì, dipartimento sceneggiatura”. E lui: “Su, venga con me”. E siamo tornai insieme al suo stand. Non so se poi l’abbia mai ricordato ma fu una di quelle mie incredibili figure, Dio sa quante ne ho fatte, ma alla fine ne uscì uno di quei meravigliosi momenti “Will” per cui lui era famoso.

Stavo proprio per dirlo. Tipico di Will. Ma torniamo alla sua conversazione con Mark Chiarello. Will è scomparso nel gennaio 2005. Ricorda quando si svolse la telefonata?Fu alla fine di febbraio, e non fu niente di che, una cosa del tipo “Vediamo cosa si può fare con questi pezzi grossi”. E lo presi come un gran complimento: volevano essere certi che sarei stato interessato e che sarei stato a bordo se la cosa fosse par-tita. Non avevano alcuna intenzione di affrettare le cose e ricordo persino che per loro era importante aspettare fino a San Diego, per fare là l’annuncio.

Disse subito sì o ci fu un qualche tira-e-molla?Be’, visto che stiamo registrando, sarà meglio che dica la verità. Non è che abbia accettato subito e incondizionatamente. Misi subito in chiaro che ero interessato, lusingato e persino onorato, ma anche che avevo bisogno di un po’ di tempo per fare un po’ di ordine nella mia testa. E devo anche essere onesto: per la prima volta, tutto sembrava consigliarmi di non farlo. Mi disturbava l’idea che ci si aspettasse un omaggio, o una copia di certi specifici dettagli, e pensai che era una cosa ridicola. Sarebbe come rigirare Psycho. E non sarei stato io a farlo. Non ce n’era bisogno.

Inoltre, ha distrutto la carriera del tipo che ci ha provato.Lo penso anch’io. Fresco di The New Frontier, avevo in mente un certo piano di lavoro, e cominciai a fare un romanzo a fumetti. Una specie di favola, credo. Vo-glio dire che c’erano la vita, la morte, robottoni giganti e, alla fine, era ritagliato su misura per me, era qualcosa che interessava a me. A quel punto l’idea di fare Spirit... non so come si potrebbe superare quello già fatto da Will, e non sapevo neppure da dove cominciare. Inoltre, rischiava di etichettarmi come un autore di

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un certo tipo e, insomma... santo cielo, le storie sono già tutte lì, meravigliosa-mente ristampate a colori. Perché mai si dovrebbe fare una cosa del genere?

Conoscevi The New Adventures della Kitchen Sink?Sì. E se devo essere sincero mi erano piaciute molto. Era un gruppo molto etero-geneo di autori ma la trovai una buona provocazione. E credo che in quel con-testo, un autore, o forse due, che fanno le loro otto pagine all’interno di un’an-tologia, possano fare risuonare certe corde che per loro significano molto. Credo che nel mio caso la differenza fosse nel fatto che sarebbe stata una serie regolare di ambientazione contemporanea, quindi con regole completamente diverse. Per come l’abbiamo strutturato, probabilmente ci saranno degli speciali un paio di volte all’anno, con storie di otto pagine di autori selezionati con grande cura.

Fantastico!Sì, due volte all’anno. A Natale e in estate, indicativamente, il che dovrebbe anche togliermi di dosso il lavoro di due numeri. Credo sia molto in sintonia con lo spirito... è quasi impossibile non dirlo... lo ‘spirito’ della serie.

Sì, credo che sia inevitabile. L’offerta della serie è venuta insieme a quella del numero unico Batman/Spirit, o in un secondo tempo?La strategia messa a punto dalla DC era di aprire la strada con Batman/Spirit, e Will aveva già dato il suo ok, era d’accordo.

Insieme a Denny O’Neil aveva messo a punto qualche idea, una ventina d’anni fa, ma alla fine non se n’era fatto nulla.Sì, per qualche motivo la cosa non ingranò. Evidentemente Batman ha la massi-ma visibilità possibile presso il loro pubblico, perciò come inizio è ottimo. Ma è l’unico crossover che vedremo per almeno un anno.

Mi capita di fare conferenze su Will, e alla fine parlo di questa serie. Di solito dico qualcosa del tipo “Spirit incontra Batman, e nello stesso universo potrebbe esserci an-che Superman, anche se probabilmente Spirit sarà più interessato a vedersi con Lois Lane”.So che sembrerà strano, ma vorrei cercare di fare una serie che cammini da sola, con un sacco di personaggi nuovi creati appositamente: parlo di abitanti di Cen-tral City e, naturalmente, qualche nuovo criminale. Da questo punto di vista, è una serie noir e spero di riuscire a catturare i lettori con qualche idea nuova proprio su questi personaggi.

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È mai esistita una storia di Spirit di quaranta pagine, o anche solo di venti?Stando a Denis Kitchen, ce n’è una di cinquanta.

Oh, quella di Will.Esatto. The Last Hero. Un titolo grandioso. Quando ho saputo che esisteva ho dato di matto.

Stranamente, a quanto pare – e sono certo che Denis non avrà problema a confermare – era parecchio debole. Per anni Denis aveva supplicato Will di tornare al personaggio con una storia, e alla fine Will accettò di farlo. E fece questa storia, e a Denis toccò il compito ingrato di dirgli: “Temo di non poterla pubblicare”. Non era all’altezza delle cose che aveva fatto in passato, e la misero da parte. Nella serie mensile, quanto saranno lunghe le storie?Sono tutte di 22 pagine, autoconclusive. Penso che oggi sia la cosa migliore, so-prattutto per chi comincia a leggere una serie nuova: storie di un solo numero. E dare qualcosa da leggere, non qualcosa da sfogliare in tre minuti. Per il resto, la struttura drammatica non cambierà molto. In definitiva, c’è la possibilità di più spazio per l’azione, ma le storie saranno molto essenziali.

È stato difficile, da un punto di vista strutturale? Anche in The New Adventures le storie sono sempre state di 7-8 pagine, e non hanno mai avuto il tipo di visibilità di Batman o The New Frontier.Esattamente. Si tratta sicuramente di nuove occasioni e, per dirla tutta, anche di nuove limitazioni. Ma una delle nuove grandi occasioni, secondo me, è che ci sarà più spazio per giocare con i criminali. Abbiamo alcune pagine in più da passare con questi fantasmagorici bastardi che infestano la città. Perciò, non sarà certa-mente una narrazione concisa quanto quella originale ma, di nuovo, con questa tendenza degli ultimi anni verso i romanzi a fumetti, per me è stato quasi istintivo orientarmi verso dei cari, vecchi, solidi numeri autoconclusivi. Certi personaggi riappaiono e alcuni di loro, lungo la strada, diventano importanti, ma tutte le storie devono vivere in maniera indipendente, come facevano quelle di Will.

Come hai iniziato a strutturare la serie?Tanto per essere chiari, la prima cosa da dire è che cosa alla fine mi ha spinto a provarci, ed è che sostanzialmente la vicenda si svolge a Nessundove, però al giorno d’oggi. Non siamo nel 1944, o nel 1953, siamo negli anni 2000. Cioè un Nessundove ma al giorno d’oggi, più o meno come per me era Batman Adventu-res. Ci sono computer e cellulari, ma con un certo stile, una specie di mondo alla Max Fleischer con temi, argomenti e storie che si svolgono oggi.

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Quando ci siamo messi a parlarne, ho subito messo in chiaro la cosa: “Credo che tutti sappiano quanto sia rispettoso dei personaggi con cui lavoro e dello spirito creativo originale, ma voglio ambientarlo al giorno d’oggi”. Alcuni furono d’ac-cordo, altri erano più perplessi ma è l’unico modo per fare qualcosa di nuovo e andare avanti.Per questa serie ho studiato a lungo il lavoro di Will e ho dovuto chiedermi: “Di che cosa stiamo parlando? Qual è la sostanza di tutto ciò, per quanto mi riguar-da?”. E il modo più chiaro per me di descrivere le mie conclusioni è Olga Bustle, la ragazza con due occhi grandi così, questa parodia di Jane Russell che uscì lo stesso mese di Il mio corpo ti scalderà. Le sue storie riflettevano il mondo in cui vi-veva, settimana per settimana, e non credo che Spirit avrebbe funzionato in quel modo, in quel momento storico, se fosse stato ambientato nel 1910. Will era in grado di raccontare qualsiasi tipo di storia, e di farla funzionare, ma non ci sareb-be stato nessuno Spirit se per i suoi lettori del 1940 l’avesse ambientato nel 1910. Spero che sia chiaro. Allora, ho pensato: se restassimo negli anni Cinquanta, cosa potrei mai fare con Spirit che Will non abbia già fatto meglio?

Certo.Ha letteralmente esaurito ogni possibilità residua nel mondo in cui era ambienta-to. Nel momento in cui capii che tutto si svolgeva in un mondo che era cambiato nel corso degli ultimi cinquant’anni, mi resi anche conto che c’era spazio per lavoraci su. Non è cambiato: ci sono sempre buoni e cattivi, e donne infide, ma anche una pletora di nuove idee e temi da esplorare e approcci grafici diversi. Ho cominciato a guardare a ciò che Spirit era veramente, e a come ogni settimana Will ci metteva le mani, ricavandone qualcosa di nuovo. Usava in continuazione tecniche nuove, prima di chiunque altro, a mano a mano che diventavano di-sponibili. Il tempo di riuscire a inquadrare la cosa dal punto di vista creativo, e capii di avere la speranza di combinare qualcosa di buono, invece che limitarmi a scimmiottare qualcosa su cui non potrei mai mettere le mani.

Mi è sempre piaciuto quello che ha detto Neil Gaiman di quando Will e Denis lo cercavano per scrivere una storia per The New Adventures, e continuava a rispondere “No, no e no”. Credo che Will e Neil si siano trovati insieme a una convention a Bar-cellona e Will gli disse: “Facciamo due passi”. Alla fine, arrivarono a un punto – con Neil che potrebbe andare avanti a parlare senza fermarsi mai, e Will che potrebbe andare avanti a camminare – in cui Will continuava a ripetere: “Devi farlo, ci ten-go”. E Neil: “Non mi va, perché qualsiasi Spirit che possa fare sarebbe solo uno Spirit di seconda mano”. Alla fine, Will gli concesse: “Ok, ma vorrei vedere cosa faresti”. E alla fine Gaiman cedette. Ma che cosa lo intimidiva a tal punto? Ci sono diversi

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aspetti. Da un certo punto di vista il personaggio è talmente vecchio che le generazioni che acquistano fumetti oggi – e questo l’ho sperimentato di persona – mostrano di conoscerlo e di conoscere Will ma in realtà non l’hanno mai letto, non ci hanno mai veramente trascorso del tempo insieme. C’è quindi questa possibilità di una specie di grande esordio di un grande personaggio con dei grandi trascorsi, che però la maggior parte delle persone non conosce.Sono assolutamente convinto che piacerà a un sacco di gente e che, se riesco a raccontare delle storie accettabili, li spingerà ad avvicinarsi agli Archivi e alle rac-colte. Sì, credo proprio che li spingerà verso lo Spirit originale.

Il tuo ego è pronto per i puristi a cui potrebbe anche non piacere più di tanto?Oh, sì. Negli ultimi sei anni credo di avere capito un po’ di cose, a questo pro-posito. Non ho mai preso sottogamba quello che mi capita di ascoltare e, franca-mente, credo che solo dalle critiche negative si possa ricavare qualcosa di buono. Se è costruttiva oltre che negativa, e se sei disposto ad accettarla, può essere molto, molto utile. Terrò le orecchie bene aperte a quello che pensa la gente ma, alla fine, dovrò prendere decisioni creative basate su ciò che penso che sia giusto fare.

Credo che per prendere anche solo in considerazione un incarico del genere tu ti sentissi già ragionevolmente sicuro di te.Be’, sì. Voglio dire che bisogna rendersi conto che ci sarà comunque una certa percentuale di pubblico che non gradirà, qualsiasi cosa io faccia. Fin dall’inizio ho dovuto censurare ogni possibile tentazione di competere con Will Eisner e, sinceramente, nei primi tre numeri noto ora di essermi molto trattenuto... ho un mio repertorio di trucchetti e mi sono reso conto di averli lasciati da parte per concentrarmi sulle storie. Probabilmente col tempo mi scioglierò.

Il fatto che a scrivere Batman/Spirit prima di cominciare la serie regolare sia stato Jeph Loeb è stato utile?Sì, certo. Non dirò neppure che si è trattato di una specie di riscaldamento, per-ché è stato molto di più. Un’occasione per prendere questi due grandi personaggi e metterli insieme, per vedere che cosa ne salta fuori. Sapere che una star come Jeph ha avuto abbastanza fiducia in me da metterci le mani è stato molto impor-tante. Ma alla fine credo che sia stato Denis a convincermi che potevo farcela.

Che tipo di suggerimenti hai ricevuto da lui per le trame? È mai successo che di qual-cosa dicesse “No, lascerei stare”?Ho incontrato Denis a San Diego, l’anno scorso, e abbiamo passato un paio d’ore a parlare, in generale. Così, sono riuscito a strappargli alcune indicazioni, come

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per esempio se c’era qualcosa di proibito in partenza, che non si doveva assolu-tamente fare. Le cose tabù, insomma. Abbiamo passato in rassegna l’approccio in generale, e alcune delle storie e penso che sia andato tutto piuttosto bene. Ero parecchio nervoso ma anche entusiasta e credo che abbia capito che avrei af-frontato il personaggio senza bisogno di riscriverlo, di de-costruirlo. Voglio usare tutto quello che funzionava per Will e fare in modo di proporlo a un sacco di nuovi lettori. Denis mi ha fatto capire che secondo lui sono sulla strada buona. E lui è davvero il massimo, una grande persona, sa metterti a tuo agio. Un vero gentiluomo.

Con tutto questo lavoro per Spirit, riuscirai a lavorare anche ad altre serie? Non so quanto riesca a produrre in un giorno, ma al momento sei al lavoro unicamente su Spirit, dico bene?In realtà, no. In questo momento sto portando avanti un altro progetto, una sto-ria di Superman che scrivo per il mio amico Tim Sale. È una serie in sei numeri sul primo incontro di Superman con la kriptonite. Come al solito, non saprei bene come stanno le cose con la continuity ufficiale, così sono partito dalla primis-sima storia, di Bill Finger e Al Plastino, fantastica. E mi sono detto: ok, si parte da qua. I disegni di Tim sono tra le sue cose migliori da molto tempo a questa parte.Insomma, un sacco di cose. È come se fossi stato “fuori scaffale” per un paio d’an-ni e il prossimo autunno usciranno quattro cose mie. Superman e Batman/Spirit in novembre. The Spirit in dicembre e a ottobre l’edizione “Absolute” di The New Frontier, con una decina di nuove pagine, appunti, disegni inediti e cose così. Ci ho messo una vita a finirlo. Adesso, il mio lavoro a tempo pieno è Spirit. In un certo senso, scrivere Superman per Tim è molto più difficile ma non richiede neanche lontanamente il tempo necessario per fare un’intera storia.

Se dovessi fare dei confronti, il tuo Spirit è più vicino al Batman animato o, per esem-pio, a The New Frontier?Credo sia più simile ai miei lavori. La cosa più simile, tra quelle che ho fatto e che è ancora disponibile, potrebbe essere Slam Bradley, una coda che ho pubblicato su Detective Comics, e Catwoman. Sì, è più in quella vena, il mio stile più naturale. Mi trovo molto più a mio agio con storie gialle e personaggi umani, e per me The New Frontier fu un lavoro nuovo in una direzione completamente diversa. Non ho mai fatto veri e propri supereroi. Per questo ho lavorato su Catwoman e con personaggi come Slam, o i reietti di X-Force, perché erano più vicini a quello a cui mi sento adatto.L’anno scorso, a San Diego, ho portato con me un portfolio e allo stand mi sono imbattuto in Paul Levitz. Mi chiede se sono felice per Spirit, allora tiro fuori una

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tavola che avevo fatto durante il primo anno di college, copiando la splash di Will per River of Crime, con sopra la data in cui l’avevo disegnata. “Tu cosa dici? Ecco quanto sono felice. A vent’anni questo è quello che facevo il venerdì sera, al tavolo da disegno”.

Ci sarà una storia nuova con le origini di Spirit?Sì, nel numero 3. Vedremo come viene coinvolto un personaggio secondario e come questo porti a un’altra storia. Ma, alla fine, sarà la sua origine. Un pazzo è deciso ad avvelenare le riserve d’acqua su istigazione dei terroristi. Il punto è che, le dinamiche di questi personaggi a cui Will diede vita tanti anni fa, funzionano benissimo ancora oggi.

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Deborah Del PreteIntervista raccolta il 26 luglio 2006

Inviai una e-mail a Deborah Del Prete nel maggio 2006, chiedendole se le in-teressava un’intervista per il mio sito. Deborah era ed è titolare della Odd Lot

Entertainment insieme a Gigi Pritzker e l’argomento, naturalmente, erano i pro-getti del suo studio cinematografico per The Spirit di Will Eisner.“Sarà un piacere. Chiami pure il mio ufficio e si metta d’accordo per una data”.Quando lo feci, mi sembrò strano che l’assistente non riuscisse a trovare uno spazio per la mia intervista prima di due mesi, ma quando, all’inizio di luglio, Denis Kitchen mi informò che al Comic-Con International di San Diego Frank Miller sarebbe stato annunciato come nuovo sceneggiatore e regista per il film su Spirit capii perché Deborah Del Prete non potesse parlarmi prima di quella data.Scoprii poi che nel 2006 la sua società avrebbe prodotto quattro film uno dietro l’altro e che passava la maggior parte del suo tempo sui set, “lavorando come una pazza”, per dirla con parole sue. La settimana precedente San Diego avrebbe terminato di girare l’ultimo dei quattro film a Santa Fe, in New Mexico, per vo-larsene poi a Minneapolis, dove stava producendo un’edizione teatrale del Grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald.

Come leggerete tra poco, Deborah Del Prete è un’appassionata di fumetti di vec-chia data e non potrebbe prendere più seriamente il lavoro su Spirit. È anche una cineasta di grande esperienza, regista di due film (Simple Justice; Ricochet River) e produttrice di altri quattordici, tra cui Il fantasma dell’Opera con Robert Englund e Bill Nighy del 1989, Hostile Intent con Rob Lowe del 1997, Prima o poi mi sposo con Jennifer Lopez e Matthew McConaughey del 2001.

Quand’è che lo studio Odd Lot si è interessato allo Spirit di Will Eisner?Tanto per cominciare, sono un’appassionata di fumetti. Li ho sempre letti e li col-leziono, quindi conoscevo bene il personaggio e Will Eisner. Da anni sono amica

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di Michael Uslan tramite un amico comune, un attore. Un giorno, Michael mi disse: “Ho per le mani una delle property a fumetti più importanti di tutti i tempi, una vera icona”. E io: “Non dirmi che hai Spirit?”. Centro. Il tempo di capirlo, e volevo immediatamente metterci le mani, e lavorarci insieme a Michael, che ci teneva molto e voleva essere certo che chiunque lo producesse ci tenesse quanto lui. Si tratta esattamente del mio caso, e fu così che andò.Si tratta di raccontare una storia, ed è qualcosa che ti appassiona, certo, ma c’è dell’altro. Per il fumetto si tratta di un’opera storicamente importante dal punto di vista creativo, una delle sue prime grandi opere. Will stesso era un uomo stra-ordinario, un talento incredibile e una delle persone più strepitose che abbia mai conosciuto, una di quelle persone capaci di restare eternamente giovani nel senso più autentico del termine, sempre costantemente innovative, intelligenti e per nulla nostalgiche, che non si guardano mai alle spalle, rivolte in avanti sempre, fino all’ultimo.Per questo è un progetto così importante, non solo perché naturalmente tutti noi cerchiamo di fare film di successo, che guadagnino bene: certo, questo è importante ma mi trovo a un punto della carriera in cui mi interessa fare cose importanti, e questa è una di quelle.

Quando si svolse la prima conversazione con Uslan?Direi qualcosa come due anni e mezzo fa, forse tre.

Aveva la gestione dei diritti già da parecchio tempo, dico bene?Sì, ma in quel periodo Michael non faceva il produttore. Si procurava diritti ma non faceva film, piuttosto trovava le persone giuste per lo sfruttamento dei diritti. Ci avrebbe pensato uno studio a produrre, trovare i finanziamenti etc. Perciò, da solo non aveva i mezzi per girare. Noi sì. Noi produciamo e finanziamo i film. In questo settore le possibilità sono due: si sviluppa tutto da soli o lo fa uno studio. Malauguratamente, come Michael ha imparato nel corso degli anni, quando è uno studio a produrre, possono succedere un sacco di cose, proprio per il modo in cui lavorano gli studios. Una volta conferiti i diritti, loro cominciano a sviluppare il progetto e, a questo punto, un sacco di volte quello che succede è che sorgono problemi di soldi, di pianificazione, che non si arriva in fondo e si rimane con dei diritti bloccati. Una società indipendente come la nostra lavora in modo diverso ed è proprio ciò che Michael stava cercando per Spirit.Un altro problema quando si cedono diritti a uno studio è che non si ha più nes-sun controllo, e Michael aveva promesso a Will che questo non sarebbe successo. In definitiva, aveva bisogno di qualcuno in grado di finanziare la pre-produzione del film, trovare gli sceneggiatori e magari anche produrlo del tutto, arrivando alle

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riprese. Ci provò, ma non trovò le persone giuste: quelle interessate al progetto non mancavano, ma lo avrebbero cambiato troppo.

Il che, storicamente, ha rovinato la maggior parte dei film tratti da fumetti.Esatto. È una di quelle cose che ci si domanda sempre: come fanno le persone a non capirlo? Ma continuano a non capirlo. Perché mettere le mani su una pro-perty grandiosa solo per farla diventare qualcos’altro?

Già, strano, non è vero? In rete gira un videoclip di un incontro pubblico di Kevin Smith che parla della sua esperienza con Jon Peters, che circa dieci anni fa l’aveva incaricato di scrivere una sceneggiatura per Superman. Una serie incredibile di aned-doti in cui Peters non voleva Superman in calzamaglia, e per cui a un certo punto ci doveva essere un ragno gigante. Era una cosa pazzesca, e dava esattamente l’idea di quello che stai dicendo, che un sacco di gente non vuole rendersi conto che si tratta di personaggi già perfettamente definiti.Già, è ridicolo, ma in parte dipende dal fatto che in genere si tratta di persone che non hanno un’esperienza precedente nel fumetto, che non lo capiscono, non lo rispettano e a cui in realtà non importa molto. La cosa è assolutamente casuale. Si può incrociare un responsabile in gamba, ma anche persone che non hanno la benché minima idea di quello su cui stanno lavorando, convinte che il loro lavo-ro sia tutta un’altra cosa, e questo è un problema. Capisco bene la faccenda e ho sentito anch’io parlare di quella conferenza di Kevin e, in tutta onestà, mi sembra assolutamente plausibile.

Così, parlasti con Michael e vi trovaste d’accordo su questo punto.E sui contenuti. Cominciammo parlando di ciò che avremmo voluto fare, poi, naturalmente, si trattava di trovare uno sceneggiatore per una prima bozza della sceneggiatura. Di nuovo, il punto è che noi non volevamo coinvolgere uno studio “per fare l’Uomo Ragno”, “per fare Spirit” e così via. Una volta garantiti i diritti di sfruttamento dell’opera, quello che io e Michael volevamo fare era sviluppare una storia insieme a uno sceneggiatore. D’altra parte questo è il mio lavoro. Quando riusciamo ad arrivare a una buona sceneggiatura, identifichiamo un regista, un cast e quindi si cerca di ottenere un contratto di distribuzione. Era questa l’idea di base. Così, abbiamo cominciato con i possibili sceneggiatori. Ne ho presi in considerazione molti, alla ricerca di quello con la “voce” giusta, in grado di cattu-rare ciò che tutti noi conosciamo bene di Spirit. Sono stati in tanti a presentarsi, e tutti amavano il personaggio, e volevano lavorarci, ma alcuni tendevano a dargli un taglio “camp”, altri un taglio troppo drammatico. Quello che voglio dire è che in Spirit c’è sicuramente dell’umorismo, e anche un aspetto drammatico,

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ma la caratteristica più importante del personaggio per me è sempre stata la sua consapevolezza di sé.Non avevamo neppure preso in considerazione Frank Miller, anche perché nes-suno avrebbe mai pensato che Frank avrebbe mai fatto nient’altro che cose sue. Neppure lo chiamammo, anche se ci sarebbe piaciuto un sacco, e avevamo de-ciso che Jeph Loeb era il tipo di autore in grado di mettere a punto una buona sceneggiatura. Loeb, che probabilmente conosci, è uno sceneggiatore televisivo e di fumetti, ed era assolutamente entusiasta dell’idea. Anzi, a una conferenza del Comic-Con 2005 annunciammo il film, con Jeph alla sceneggiatura. C’era anche Darwyn Cooke, perché contemporaneamente la DC stava annunciando la serie a fumetti.

Certo, e in quell’occasione fu dato anche l’annuncio che Jeph avrebbe scritto il volume Batman/Spirit.Esatto. Riassumendo, eravamo Michael, io, Jeph, Darwyn e Denis Kitchen. Par-lammo del film, con Jeph come sceneggiatore.Purtroppo, alcuni mesi dopo il figlio di Jeph morì di cancro. Aveva sedici anni e naturalmente per Jeph fu un dramma, ne uscì distrutto. Cercammo di essere il più possibile d’aiuto, ed eravamo disposti ad aspettare tutto il tempo che gli sa-rebbe stato necessario, ma alla fine fu lui a dire che non sarebbe più stato in grado di scrivere storie su un personaggio che tornava dalla tomba come Spirit (anche se in realtà non è proprio così). Non voleva avere nulla a che vedere con la semplice idea di un mondo in cui... insomma, per lui fu un periodo spaventoso, come puoi sicuramente immaginare. Era un ragazzo meraviglioso ed era troppo, troppo gio-vane. Sono una madre e posso dirti che per me le questioni professionali vengono comunque dopo quelle personali.Jeph continuava a ripetere “Non posso farlo, non ci riesco. Non potrei farlo bene, davvero”. Così, prendemmo atto della cosa: “Ok, ti capiamo. Ci dispiace davvero molto, per tutto”.Così, ci ritrovammo a decidere chi altri avrebbe potuto farlo. Michael doveva incontrare Frank Miller per altre faccende, e mi disse: “Che ne dici se tiro fuori l’argomento?”. E io: “Che cosa vuoi che ne pensi? Penso che sarebbe il migliore possibile sull’intero pianeta”. E poi, come ben sai, tra Frank e Will c’era anche un forte rapporto personale. Così, Michael decise di provarci. In fondo, non aveva-mo niente da perdere.Frank mi disse poi che il suo primo pensiero fu “non riuscirò mai a farlo”, e il secondo “non posso permettere che lo faccia nessun altro. Devo essere io a farlo per Will”. Per noi fu un vero colpo di fortuna: lo incontrai immediatamente, fu una lunga, piacevolissima chiacchierata in cui ciascuno si trovava come a casa sua

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e c’era la consapevolezza di essere nel posto giusto, al momento giusto. Non riesco davvero a pensare a nessuno migliore di Frank per Will e il suo mondo. Non si tratta semplicemente di fare un film, ma di realizzare qualcosa di importante per tutti gli appassionati e per Will, in onore e in ricordo di Will. È stato uno dei creatori di un intero settore editoriale. Sua moglie è felice del progetto, come pure Frank. Che sa cosa vuole fare, e come. Insomma, siamo assolutamente entusiasti. Sin City è stato uno dei film visivamente più sconvolgenti che abbia visto in vita mia. Era qualcosa di assolutamente autentico, un nuovo mezzo di comunicazione che coniuga cinema e fumetto e che ha sfruttato il fumetto come niente e nessuno era mai riuscito a fare prima sullo schermo, unendo il talento visivo d un disegna-tore col senso drammatico prodotto dalla presenza scenica degli attori.Quando farà Spirit, Frank vuole che sia quello di Will Eisner, vuole che abbia esattamente quell’impatto visivo. Al momento, prima di stendere la sceneggia-tura, sta mettendo a punto uno storyboard ricavato dalle storie a fumetti che ha intenzione di usare per il film: le compone insieme e disegna le scene e le vignette intermedie necessarie a completare lo sviluppo della storia. Non è strepitoso?

Avevi mai incontrato Frank, prima?Lo avevo intravisto, ma mai veramente conosciuto. Lo avevo seguito alle confe-renze, al Comic-Con, per esempio.

Com’è andato il primo incontro? Dove si è svolto?Eravamo al The Palm di Los Angeles, ed è andata benissimo. Frank è una perso-nalità affascinante. Sono abituata a lavorare con artisti, con un sacco di sceneg-giatori davvero in gamba, e poi naturalmente con gli attori. Insomma, conosco le personalità “artistiche”, e i grandi artisti hanno personalità speciali, uniche. Frank è uno di loro e mi piace un sacco. È un tipo assolutamente tranquillo, ma anche estremamente consapevole di sé dal punto di vista creativo. È divertente e ha i suoi punti di vista, poco ma sicuro. E a me piace lavorare con registi e sceneggiatori così, perché sanno quali storie vogliono raccontare e sanno come vogliono raccon-tarle. Sono il tipo di persone con cui voglio lavorare. Non mi interessano quelle senza spina dorsale, disposte a fare semplicemente qualsiasi cosa dica lo studio, o diciamo noi... voglio dire, a che cosa servirebbe? Quello potrei farlo anche da sola, no? Di una persona mi interessa il talento, e Frank ha un talento enorme, e direi che su questo possiamo essere d’accordo. Ha creato opere uniche ed è questo che cerchiamo: qualcosa che sia realmente e autenticamente espressione del talento vero di una persona. Sfortunatamente, un sacco di film finiscono per essere degli autentici pasticci solo perché non permettono a certe voci di esprimersi.

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Cos’ha detto Frank durante quell’incontro? Evidentemente, Michael aveva preparato il terreno e sapevi già che era sufficientemente interessato da partecipare a un incontro, ma che cosa aveva da dire su Will?Parlava, come ho detto, della sua convinzione che nessun altro avrebbe dovuto farlo. Parlava di Eisner, di se stesso e del rapporto che c’era tra di loro. Questa specie di fantastico tiro alla fune, in cui si affrontavano a vicenda in una specie di... oh, davvero, adoro questo tipo di sfida in cui, alla fine, quello che risalta è il profondo rispetto reciproco. Parlavamo di questo tipo di cose, ecco, e delle sue idee su ciò che avrebbe potuto fare.

Sei rimasta delusa quando a un certo punto si è capito che a causa dei suoi altri pro-getti il film non sarebbe partito prima di un anno?Non mi preoccupo mai per cose come queste perché preferisco avere le persone giuste, piuttosto che fare le cose in fretta. Uno degli aspetti che trovo più tremen-di in un sacco di produzioni è che cominciano a girare un film senza neanche la sceneggiatura pronta. A me sembra una follia e sinceramente preferisco avere non Joe Smith ma Frank Miller, e magari aspettare un po’ di più. Inoltre, sinceramen-te, ci vorrà comunque almeno un anno prima di partire. Una volta che avremo la sceneggiatura, ci lavoreremo su; anche ai migliori sceneggiatori bisogna fare degli appunti, altrimenti lavorerebbero da soli, in un vuoto pneumatico. È a questo che servono gli editor. E così comincia il lavoro di messa a punto, avanti e indietro. Poi si passa al casting, e sicuramente ci sarà da discutere, e infine il set. Ma niente di tutto ciò mi preoccupa.

Non hai ancora parlato – di proposito, forse – del tipo di budget che il film potrebbe avere.Sì, non ne ho parlato apposta, perché dipenderà da troppi altri fattori che al momento ancora non sono definiti. Uno è il cast. Poi dove il film verrà effettiva-mente girato. Non sarà un film con un budget enorme; diciamo medio, piuttosto. Prima di tutto, come ben sai non si tratta propriamente di un film di supereroi, e non sarà stracolmo di clamorosi effetti speciali, anche se avrà un look decisamente particolare. Uno dei tratti caratteristici anche di Sin City e dei film di Roberto Rodriguez è che i loro budget sono sempre stati sotto controllo. Perciò stiamo lavorando su un budget medio.

Sarei rimasto sorpreso se avessi parlato di un grosso budget, e mi sarei preoccupato, perché per quanto sia molto interessato dal film e dal fatto che ci lavorerà Frank, c’è sempre questo piccolo dettaglio, in cui da biografo di Will mi sono imbattuto, e cioè che in realtà la gente non conosce Spirit.

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Esatto. Non è mai stato un personaggio, o una serie molto popolare. Lo conosco-no gli appassionati di fumetti, ma il resto del mondo non lo conosce.

Una cosa che succede in questi ultimi anni è che ci sono milioni di persone che sanno che certi film sono tratti da fumetti, che però non hanno mai letto.Non solo. Una cosa che ho sempre trovato incredibile è che c’è gente che acquista i diritti di queste property e non le conosce neppure. Ma, certo, hai ragione, e l’i-dea è di restare con i piedi per terra, senza imbarcarsi in qualche assurdo filmone pieno di effetti speciali.

Hai mai avuto modo di vedere il film per la TV di The Spirit prodotto dall’ABC?No, non l’ho mai visto, ma qualcuno me l’ha procurato e penso che lo vedrò. È buffo che tu me lo chieda, perché ne avrò discusso un milione di volte. Non mi ha mai interessato, anche perché da quello che so è davvero tremendo e non voglio vedere come sono state fatte cose che ora dobbiamo fare noi, non so se mi spiego. Voglio il materiale originale, uno sceneggiatore e semplicemente creare qualcosa di nuovo.

Era davvero brutto. Ti posso dire quello che ne pensava Will, le parole esatte. Nel libro c’è un intero capitolo sul film: “Mi ha fatto venire la pelle d’oca” mi ha detto. “Tre-mendo. Nient’altro che spazzatura”.Ho conosciuto Will. Sono stata fortunata, lo considero un onore e sono felice di aver avuto questa opportunità. Ho conosciuto Will e ho parlato con lui del film.

Quando è successo?Fu al Comic-Con 2004, l’ultimo a cui Will ha partecipato. Passammo un paio d’ore insieme e a un certo punto abbiamo fatto due passi tra i padiglioni del Comic-Con, cosa che per me fu un’autentica esperienza. Mi diceva: “Mi guardo intorno e non riesco a credere che venga tutto da un pugno tipi di chiusi a di-segnare in qualche stanza di Manhattan”. Sai anche tu che razza di circo sia, un circo ambulante. E per me era fantastico andarmene in giro con Will a parlare di quello che voleva o non voleva fare, quello a cui teneva, oppure no. Per qualche minuto parlammo anche di quel film, di quanto fosse tremendo.

Cosa disse a proposito di quello a cui teneva?Per lui la cosa importante era che Spirit non fosse armato, che non andasse in giro con una pistola. Era interessante anche il fatto che non considerava Spirit come un personaggio datato, legato a un certo periodo. Per lui era un personaggio con-temporaneo. Incidentalmente, gli era capitato di crearlo negli anni Quaranta, ma

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non perché il periodo fosse importante in quanto tale: per lui era un personaggio ambientato nel presente. Perciò, una delle cose di cui abbiamo a lungo parlato con Frank è che il film non avrà un’ambientazione definita. Sarà più o meno come Sin City e probabilmente ci saranno degli abiti vagamente anni Quaranta, e cose del genere, ma sarà del tutto normale usare un cellulare. Insomma, uno di quegli universi a fumetti più o meno astratti.

Immagino che la risposta sia no, ma Will fece mai capire che, pur non dispiacendogli affatto collezionare i dollari di Hollywood sotto forma di opzioni, non pensava che avrebbero realmente dovuto produrre il film, perché in realtà non aveva alcun desi-derio che venisse fatto?Non l’ha mai detto ma percepii qualcosa in questo senso, e penso che fosse dovu-to alla grande differenza tra fare film e quello che aveva sempre fatto lui. Quando è scomparso è stato un momento molto triste per tutti, perché speravamo davvero di fare il film con lui in vita, in modo che fosse qualcosa di cui potesse essere orgo-glioso. Immagino che ora dovremo sperare che ci guardi dall’alto, per poterlo fare nel modo giusto. Il punto è che fare film non è mai stato il suo lavoro. Lui faceva fumetti, una cosa completamente diversa, quindi in realtà il suo atteggiamento era abbastanza comprensibile.

Ma alla fine ha influenzato un sacco di film!Certamente, santo cielo! Le sue soluzioni erano talmente cinematografiche! Basta guardare lo Spirit originale, quello degli anni Quaranta, e sostanzialmente è già uno storyboard, riprese dall’alto, primi piani e così via.

Parlami un po’ della Odd Lot e dei film di cui vi siete occupati.Sono titolare della Odd Lot insieme a Gigi Pritzker, mia socia da oltre vent’anni. Cominciammo molti anni fa con una società che si chiamata DeeGee Enter-tainment e facevamo sostanzialmente i produttori di servizio, cioè le persone che propongono un progetto a uno studio. In questo modo abbiamo fatto Prima o poi mi sposo. Quattro o cinque anni fa decidemmo che volevamo una società con dei beni e un valore propri, con cui avremmo avuto le nostre property e il controllo dell’aspetto creativo, e lanciammo la Odd Lot. Abbiamo studiato una soluzione di equity financing, di finanziamento per partecipazione, in modo da potere effet-tivamente finanziare e produrre in proprio i film. Abbiamo prodotto Green Street Hooligans con Elijah Woods, totalmente auto-finanziato e auto-distribuito, con la distribuzione internazionale curata dalla Universal.Dal gennaio 2006 abbiamo già girato quattro film, uno dietro l’altro: Subur-ban Girl con Sarah Michelle Gellar e Alec Baldwin; Buried Alive diretto da Bob

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Kurtzman, uno specialista di effetti speciali. E poi Undead or Alive: A Zombedy, una commedia con James Denton. Per il prossimo anno abbiamo grandi pro-grammi, che naturalmente comprendono The Spirit, e un remake di L’incredibile avventura di mister Holland diretto da Dean Parisot.In definitiva, la nostra attività è trovare property interessanti e farci lavorare sopra i talenti creativi giusti: scelto un regista, ci lavoriamo insieme per cercare di arrivare alla sceneggiatura giusta. L’anno prossimo faremo una commedia romantica e l’edizione teatrale di un thriller.Abbiamo anche fondato Direct Lot, una nuova etichetta per distinguere in qual-che modo le produzioni di genere: Odd Lot dovrebbe occuparsi delle commedie mentre Direct Lot produrrà thriller, fantascienza e horror.

E Spirit sotto quale etichetta finirà?Questa è una buona domanda. Ne stiamo ancora parlando e credo che finirà sotto l’etichetta principale, la Odd Lot.

E da dove viene il nome [Odd Lot significa “gente strana”, “persone bizzarre” – NdT]?Ci sarebbe questa teoria finanziaria secondo cui quando tutti investono in un certo modo, si dovrebbe fare esattamente il contrario. Se comprano, si dovrebbe vendere. In questo senso, ci piace vederci come persone che vanno controcorrente e contro il senso comune. È anche un riferimento, quasi un gioco di parole, al vecchio sistema degli studios, il cosiddetto “the old studio lot system”. Noi sarem-mo quelli un po’ diversi dagli altri, che lavorano a modo loro.

Anche Gigi si interessa di fumetti?No, quelli sono una cosa mia. Siamo in società davvero da molto tempo quindi ci ritroviamo perfettamente in sintonia, e tendiamo a fare le stesse cose, ma al contrario di me lei non è mai stata un’appassionata di fumetti. Tendiamo ad appoggiarci a vicenda in quello che facciamo e una volta identificato Spirit, Gigi l’ha capito immediatamente, e le è piaciuto.

Torniamo per un attimo alla tua collezione di fumetti. Qual è il primo che ha letto? Che cosa ti piace e che cosa non ti piace?Il primo fumetto? Superboy. Supergirl. Ero una fan dei supereroi DC.

In che periodo hai cominciato a leggerli?Era la Silver Age, alla fine degli anni Cinquanta. Ricordo che ero molto piccola, ma leggevo già un sacco. E avevo cominciato leggendo fumetti. Mi ero innamo-rata dei fumetti dal primo istante, soprattutto i fumetti di supereroi. Ricordo

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il primo albo di Superboy con la Legione dei Supereroi, la prima apparizione. Naturalmente oggi non ho più quell’albo, perché mia madre buttò via tutti i miei fumetti. Ci ho messo anni a recuperarne un po’, e un sacco di soldi, anche se all’epoca costavano 10 o 12 centesimi. Ero innamorata di qualsiasi cosa in cui ci fossero delle supereroine, per questo mi piaceva tanto la Legione. Ero una grande fan di Superman, per via di Lois Lane, e da ragazza ero una vera esperta di qual-siasi cosa riguardasse Superman. E poi c’era Supergirl... fortissima. Quanto a Lois Lane, da ragazza volevo fare la giornalista proprio a causa sua. Verso i dieci anni fondai un giornale di classe perché volevo essere la nuova Lois Lane.

Quasi mi scoccia farlo notare, ma credo che specialmente negli anni Sessanta leggere fumetti fosse insolito per una ragazza.Assolutamente sì. E ancora oggi le lettrici e le collezioniste di fumetti sono una cosa rara, anche se non come una volta, quando eravamo proprio mosche bian-che.

Come hai cominciato? Hai fratelli o sorelle maggiori?No. E non saprei dire come ho cominciato, direi che sono semplicemente una di quelle persone un po’ strane. Un sacco di registi cominciano come appassionati di fumetti, perché in un certo senso ciò che facciamo, ciò che facevamo leggendo fumetti era imparare a raccontare una storia sotto forma di storyboard. Non so chi mi diede il primo fumetto, può darsi che i miei cugini avessero dei fumetti in casa e che li abbia visti lì, ma certamente non me li diedero i miei genitori. Fu tutta farina del mio sacco.

Interessante. Ricordi il tuo primo contatto con i lavori di Eisner?Sì, ero molto più grande e stavo cominciando a partecipare alle convention di fumetti e cose del genere. Io ero della Costa Est e la prima fu a New York. Era molto, molto più piccola di cose come il Comic-Con.

Quando fu?Oh, direi circa vent’anni fa. Credo nel periodo in cui cominciai a interessarmi al fumetto dei decenni precedenti, a cercare i vecchi numeri e cose così. Fu allora che sentii parlare di The Spirit e me ne procurai alcuni. Da Supergirl ero passata a Batman e a tutta la Justice League, e quando in quegli anni Frank fece Dark Knight, mi lessi tutti questi nuovi fumetti.

Dal punto di vista professionale, con la Odd Lot, prima di Spirit avevi adocchiato qualche altro personaggio?

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È curioso, perché sono in società con Gigi da un sacco di anni e, sinceramente, la nostra è quella che si dice una società tra donne, e le probabilità che scegliessimo un progetto che riguardava i supereroi erano molto basse. Quando fecero Super-man, e poi Batman e di nuovo Batman, mi dissi “cavolo, avrei potuto pensarci io. Dovrei lavorare anch’io con dei supereroi”, ma a quel punto non era più fattibile. I diritti li avevano la DC e la Warner e non è che puoi cominciare così, dal nulla. Inoltre, rivolgendoci a un pubblico femminile, per noi era più semplice trovare e far accettare delle commedie romantiche. Anche se il primo film mio e di Gigi fu nel 1986, una pellicola d’azione. Non ho mai avuto quello che potresti chiamare un gusto tipicamente femminile. Ho un gusto “pop” e non è che mi piaccia ne-cessariamente il tipico film per ragazze. Se è per questo, non credo che The Spirit sia un personaggio necessariamente lontano dai gusti femminili, e tra i personaggi ci sono delle donne favolose.

Pensi di coinvolgere un’altra società per co-produrre Spirit?No.

Ok, quindi farà tutto Odd Lot.Sì. Probabilmente faremo un accordo di distribuzione con uno studio.

Uno dei motivi principali del successo della Marvel e della DC quando hanno co-minciato a fare film con i loro personaggi è la possibilità di attingere alle loro intere infrastrutture. C’è la Marvel Comics e i Marvel Studios. DC fa parte di Warner, Warner Books e così via. Spirit e Will sono sempre stati indipendenti, ma la maggior parte degli utili di questi film proviene dai progetti ausiliari e dai diritti derivati, come giocattoli, libri, etc. Almeno dall’esterno, ho l’impressione che ci sia da lavorare parecchio per ottenere risultati analoghi con Spirit. O mi sbaglio?No, per nulla, ma non si tratta poi di cose così difficili da ottenere. Ci sono un sacco di società interessate ad accordi di questo tipo e in grado di farli funzionare, quindi in definitiva è solo una questione di staff, del nostro staff. Abbiamo perso-ne che si occupano delle questioni finanziarie e legali, chiudendo contratti per i vari articoli. Ne siamo tutti ben consapevoli e non è così difficile. Inoltre, ci sono grosse società interessate al progetto, a cominciare dalla DC.

Sì, lo immaginavo. E magari anche la Dark Horse. Mike Richardson è un grande ammiratore di Eisner.Conosco anche Mike. Parleremo di tutto e cercheremo di capire qual è la cosa migliore da farsi, ma non sarà niente di complicato. Naturalmente ci dovrà essere qualcos’altro oltre al film sul fronte dei derivati, come giocattoli e cose del genere.

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Da appassionata di fumetti, come ti sei sentita al Comic-Con, alla conferenza in compagnia di Denis Kitchen e Frank Miller?È stato grandioso, come puoi bene immaginare. Avevo cominciato ad andare al Comic-Con di San Diego tredici anni fa, con mio marito e mio figlio, che all’e-poca aveva sette anni. Ci andammo solo per un giorno, ma ci piacque così tanto che l’anno dopo decidemmo di andarci un intero fine settimana. Mio figlio era ancora piccolo e seguimmo tutto il rituale dei costumi, ecc. Per lui era fantastico, divertentissimo. Prova a pensare a un fast-forward di tredici anni e non solo al fatto che mi ritrovavo su un palco in quell’enorme sala conferenze, ma tra tutti i possibili ospiti, c’era anche Frank Miller. Voglio dire, con ogni probabilità si trat-ta del maggior divo del settore e certamente è tra i primi cinque. È stata una cosa fantastica, non so quale altra parola usare: fantastico. C’ero stata anche l’anno prima con Jeph Loeb, quindi non era la mia prima conferenza fumettistica, ed è andata benissimo, senza contare il fatto di trovarsi lì con Frank a discutere delle cose di Will. Difficile potere aspirare a qualcosa di meglio.

Quali parti avranno esattamente Michael Uslan e Denis Kitchen in tutto ciò?Per noi Denis è una sorta di faro, per via della sua lunga amicizia con Will. For-malmente, Denis non è coinvolto nel progetto cinematografico, siamo solo in contatto con lui, che per noi è una specie di consulente tecnico. Michael è un produttore e avrà questo ruolo, lavorando insieme a me a tutti gli aspetti del film.

Dove pensate di girare?Stiamo pensando ad Austin, nella struttura di Robert Rodriguez. Solitamente non la mettono a disposizione di altri, ma grazie a Frank potrebbe esserci questa possibilità. Mi vedrò presto con Elizabeth e Robert Rodriguez proprio per questo.

Per allora, Frank ci avrà fatto già due film.Inoltre, mi piace molto Austin, da quando due anni fa ci presentammo Hooligans al SXSW, e sarebbe perfetto per il film. Inoltre, sì, certo, Frank per allora ci avrà fatto due film e lo conoscerà bene, conoscerà tutti e questa è un’ottima cosa per il lavoro. Come non mi stanco mai di ripetere, il nostro obiettivo è dare sempre il massimo aiuto possibile agli artisti, perché possano raccontare le loro storie nel miglior modo possibile. Non è detto che questo significhi più soldi, perché quelli li possono mettere anche gli studio, al contrario del resto. Perciò, se Frank prefe-rirà lavorare là e se economicamente sarà possibile, cosa di cui sono abbastanza convinta, perché no? È così che cerchiamo di lavorare.

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Andrew CookeIntervista raccolta il 31 agosto 2006

Circa nello stesso periodo in cui cominciai a lavorare alla biografia di Eisner, Andrew D. Cooke, insieme al fratello maggior Jon, editore della rivista “Co-

mic Book Artist”, cominciò a produrre il documentario Will Eisner: Portrait of a Sequential Artist . Da diversi punti di vista, stavamo lavorando su binari paralleli a progetti complementari.Il film è il risultato dell’amore dei fratelli Cooke e della loro troupe per Eisner e ne sono stati proiettati alcuni estratti al Comic-Con International di San Diego nel 2005, all’International Comics Art Festival di Washington e nell’ambito della prestigiosa mostra "Masters Of American Comics" all’Hammer Museum di Los Angeles all’Art Museum di Milwaukee e al museo di Newark [nei mesi successivi a quest’intervista il documentario fu completato e presentato all’edizione 2007 del Triberca Film Festival, col titolo “Will Eisner: Portrait of a Sequential Artist” – NdT]. È un lavoro eccellente e una volta che sarà completato e avrà fatto il giro dei festival non mancherà di procurare lodi e complimenti ai suoi autori.

Andrew è sceneggiatore e regista e vive a New York. Agli inizia della sua carriera ha lavorato come location manager a molte produzioni, tra cui Vanilla sky, Ultima fermata Brooklyn, Profumo di donna, Omicidi di provincia e Prova a prendermi. Ha scritto due sceneggiature per il produttore di The Departed, G. Mac Brown e al momento è al lavoro su un progetto per il regista Alex Sichel (All Over Me).(Andrew è contattabile all’indirizzo [email protected])

Perché Will Eisner? Perché un documentario? È quello che mi chiedono tutti a propo-sito del libro… Quindi perché Will Eisner, e quando hai deciso di farlo?Le due ossessioni con cui sono cresciuto erano i fumetti e il cinema. Io e Jon collezionavamo ogni tipo di fumetto, ma non sapevamo del lavoro di Will finché non uscirono le ristampe della Warren. Furono un fulmine a ciel sereno: chi dia-

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volo era questo tipo? Erano lavori sorprendenti. Le nostre collezioni di fumetti le ha tenute Jon ma quello che ho tenuto per me, in casa mia, sono copie nuove di zecca di quelle riviste della Warren. Le adoravo.Dopo il liceo e l’università decisi di lavorare nel cinema e mi allontanai un po’ dal fumetto, mentre Jon continuò a occuparsene. Diversi anni dopo Jon mi fece una proposta: "Che ne dici di un documentario su Will Eisner?". Io pensai che era un’idea grandiosa. Ne parlammo un po’, e ne parlammo con Will, che ci diede il suo okay, e più o meno è così che è cominciato. Niente di complicato. Jon voleva onorare Will con un documentario e a me sembrava un’ottima idea. Speravamo di finire finché fosse stato ancora con noi, ma le cose sono andate molto lenta-mente.

Ti capisco benissimo.Will era un grande fan del progetto, e lui era davvero un tipo in gamba, incredi-bile. Alla convention di San Diego del 2004 lo abbiamo seguito dappertutto, ed essere seguiti da una troupe può essere faticoso, e fastidioso. Ma Will e Ann erano degli autentici prussiani. A volte gli operatori e i cineasti esagerano, pur di portare a casa più girato possibile, ma Will non si lamentò mai e fu sempre gentilissimo. Lo intervistammo anche a proposito de Il complotto e lui fu molto disponibile. E noi ci impegnammo a farlo, a finirlo a qualunque costo.

Dove l’avete intervistato per la prima volta?A New York, e fu una seduta molto lunga, perché parlammo unicamente della sua vita, e lui fu gentilissimo. Ma alla fine, credo che fosse molto stanco.

Fu la volta che si trovava a New York per ricevere il premio alla carriera da parte della National Foundation for Jewish Culture al Plaza Hotel?No. Fu un’altra volta, credo, perché girammo anche in quell’occasione. Quale fu la prima? Una bella domanda... Ma non l’intervistammo quel giorno. Al Plaza filmammo tutto: lui nella hall, Art Spiegelman e alcune altre persone.

Quando cominciasti a lavorare al documentario conoscevi già Will?No, non ci eravamo mai incontrati. È buffo, perché nel documentario parlia-mo della prima volta che Will incontrò Denis Kitchen negli anni Settanta, e in quell’occasione c’eravamo anche io e Jon, da qualche parte.

Quali furono le tue prime impressioni su Will? Avevi deciso di girare un documentario su questo vecchio autore di fumetti che non avevi mai neppure incontrato. Non è una scelta da poco. Che impressione ti fece?

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Lo trovai un tipo incredibile. Era estremamente premuroso, rispondeva a tutte le domande in maniera estremamente precisa e mi piacque molto. Oggi, dopo tanti anni di lavoro sul documentario, mi è difficile capire quali siano state le mie pri-me impressioni, ma so che all’inizio mi colpì moltissimo la sua competenza negli aspetti economici, e la sua gentilezza.

Ci sono mai stati dei momenti "fuori onda", conversazioni o qualsiasi altra cosa che non è stata ripresa?Direi di no. Ricordo che a un certo punto mi sono trovato a pensare che all’inizio era sostanzialmente l’oggetto di un’intervista ma che poi, quando lo intervistava-mo o passavamo un po’ di tempo con lui, avevamo cominciato a socializzare. Ma non posso dire di avere avuto conversazioni veramente personali con Will, perché per la maggior parte del tempo trascorso con lui stavamo lavorando al film e vo-levamo parlare con lui del suo lavoro, o seguirlo durante la convention, mentre interagiva con gli altri.Mi ricordo quando seppi che non c’era più. Avevo appena spento il computer e stavo per andare al lavoro. Poi ho cambiato idea e ho riacceso per controllare la posta, e c’era la tua mail, e la prima cosa che ho pensato è che avrei voluto passare più tempo con lui. Un sacco di gente pensa la stessa cosa quando scompare qual-cuno, ma nel caso di Will io proprio non pensai ad altro.

Come procedevano le cose quando lo intervistavate? C’era anche Jon?Io sono il regista e l’intervistatore era Jon. Jon ha una conoscenza impressionante della storia del cinema, della carriera di Will e delle varie persone coinvolte, ed era naturale che fosse lui a fare l’intervista. Nel corso del film, capitava che mi rendessi conto di quello che volevo, di quello di cui il film aveva bisogno e che ci mancava, e allora suggerivo a Jon qualche domanda.

Eravate da soli?No, anzi abbiamo avuto una troupe eccezionale. Il montatore è Kris Schackman. Ben Tudhope è il l’operatore e ha montato il primo trailer di 10 minuti che ab-biamo usato come pilota. Una piccola troupe, in ogni caso.

Erano con voi quando giravate?Oh, sì. Ho molta stima di loro, e stavamo cercando il progetto giusto da svilup-pare insieme. Non è mai stata una questione di soldi e non si sono davvero ri-sparmiati per portare avanti il film. Ed è molto interessante capire il perché, visto che non conoscevano Will Eisner e non sapevano chi fosse, specialmente Kris. Ma a mano a mano che procedevamo col montaggio, ha cominciato a conoscere i

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lavori di Will e in un certo senso si è innamorato dei vari aspetti della sua carriera.Per me, come ho detto, è sempre stata una questione di cinema o fumetti, e alla fine ho scelto il cinema. Ma questo documentario è su un argomento che amo e che per me è importante. Ovviamente ho imparato molto su Will, e la sua vita, e la sua arte, ma il fumetto è qualcosa con cui ero già cresciuto. Andavo sempre alle convention e collezionavo fumetti. Per me era qualcosa di davvero molto importante e credo che se non mi fossi dato al cinema avrei fatto il disegnatore. Così, fare un film su Will era la scelta più giusta, più interessante per me. Tutta la sua vita è interessante, ma una cosa che io trovo assolutamente affascinante è che la sua carriera ha attraversato la storia del fumetto. E ho cercato di spiegarlo nel film, perché credo che significasse molto anche per lui.

Dall’inizio, quanto è cambiato il film, nella tua mente e in fase esecutiva? Quando hai cominciato, che idee avevi su come girare un documentario?Abbiamo avuto un sacco di discussioni su come il film sarebbe dovuto essere. Il primo obiettivo era raccogliere abbastanza fondi per girare un trailer di dieci minuti, e poi svilupparlo in un vero e proprio film. Così, pensammo che la pri-ma cosa da fare era coinvolgere persone che parlassero di Will, per questo primo trailer. Siamo partiti da lì. E lungo la strada io ho imparato un sacco di cose su Will, su chi era veramente. Come ho detto, adoravo The Spirit. Sapevo dei suoi romanzi a fumetti ma non li avevo mai letti e quando cominciammo a lavorare al film cominciai anche a guardarli un po’ più da vicino, e fu davvero un’esperienza incredibile. Mi hanno sconvolto come aveva fatto The Spirit quand’ero ragazzo. È una delle cose di cui sono davvero grato a tutta questa storia: capire tutto ciò, capire davvero quello che Will Eisner stava cercando di fare, chi fosse veramente come persona.

E questo ha cambiato lo stile del film?Diciamo che si è evoluto, e ancora si sta evolvendo, a mano a mano che proce-diamo. All’inizio abbiamo dovuto girare quello che capitava, per via del budget ridotto, non potevamo permetterci di scegliere. Quando ci siamo ritrovati con un po’ di materiale in più, questo ci ha in un certo senso permesso di pensare più creativamente. Così, ritrovandoci con più interviste, anche lo stile del film è andato cambiando.Una cosa importante è che abbiamo potuto usare i nastri con le interviste di Chiacchiere di bottega. Quando li ho ascoltati, sono diventati un materiale di la-voro fondamentale, sia dal punto di vista dello stile che da quello del contenuto.

A parte le interviste a Will, infatti, il film si basa sulle interviste a molte altre persone,

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e non solo del mondo del fumetto. Avete trovato molta disponibilità? C’è qualcuno che non siete riusciti a intervistare?Sono stati tutti incredibilmente disponibili. Il nostro unico limite erano il denaro, la programmazione e la tempistica. Facendo questo film su Will ci siamo resi con-to che lui era estremamente amato e rispettato, quasi venerato, il che era poi l’idea originale di mio fratello. La carriera e la persona di Will hanno influenzato tal-mente tanta gente che quelli disponibili a farsi coinvolgere sono stati moltissimi.

Una delle cose che ho scoperto con questa serie di interviste è che esistono alcune (po-che) persone che di Will non hanno la migliore delle opinioni. Questo aspetto verrà toccato in quello che sembra soprattutto un affettuoso tributo?Dire un “affettuoso tributo” può dare l’impressione che cerchiamo di sorvolare o mistificare, ma non è così. Su varie cose ho la mia opinione, ma credo che stiamo rendendo giustizia a Will. A lui e alla sua storia.

Qual è l’obiettivo finale del progetto? Dove sarà possibile vederlo? Naturalmente de-vono ancora essere messi a punto molti dettagli ma, in teoria, dove credi che sarà proiettato?Quando Jon mi propose la cosa si pensava alla PBS, qualcosa tipo American Ma-sters. Credo che fosse questo che aveva in mente. Jon sapeva che Will era un “Maestro Americano” ma che il pubblico non lo percepiva ancora in quel modo.Come tu sai meglio di chiunque, la vita di Will è qualcosa di incredibile. Non passa giorno che non mi sforzi di costringerla in un’ora e quarantacinque minuti, due ore al massimo. Quando siamo arrivati a un’ora, abbiamo chiuso una versio-ne per il Comic-Con 2005 di San Diego come tributo a Will, e c’erano interi pe-riodi della sua vita che semplicemente non ci stavano. Così, diventò più di un’ora.Uno dei miei obiettivi è presentare Will a un pubblico che non lo conosce. In bre-ve, quello che vorremmo è una distribuzione nei cinema. Credo che le possibilità ci siano, perché si tratta di una persona incredibile, con una storia incredibile che non è mai stata raccontata. I film già girati su personalità del mondo dei fumetti, almeno i due principali, e cioè Crumb e American Splendor di Harvey Pekar, sono su autori diversissimi da Will. Personalmente, adoro Will come autore, come imprenditore e in generale come grande personalità, e credo che ne uscirà un ottimo film.

Quali cineasti ammiri e ti piacerebbe emulare con questo documentario?Prima di tutti, Scorsese. Il suo documentario No Direction Home su Bob Dylan mi ha entusiasmato. Come biografia, è stupefacente. Lo adoro come regista di fiction ma credo che anche come documentarista sia fantastico. Sì, direi proprio

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Scorsese.

Cosa possiamo dire del look, degli aspetti visivi del film? Ha dei debiti con lui, o con qualcun altro?Ne ho guardati parecchi, ma in quanto a stile non credo che si possa considerare come la derivazione di qualcos’altro. Ovviamente, mi sono guardato cose come Crumb e Comic Book Confidential, ma per Will abbiamo cercato di trovare uno stile diverso, e credo che ci siamo riusciti.

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