ipbook ita 0575 hodgson william hope - l'orrore del mare [by cdx]
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William Hope Hodgson
L'orrore del mare
A cura di Gianni Pilo
Tascabili Economici Newton
In copertina Joseph Vernet, La tempête, 1777
Titoli originali: A Tropical Horror, Middle Islet, Out of Storm, The Unknown Horror, Eloi,
Eloi, Lama Sabachtami, The Finding of the Graiken
Prima edizione: Maggio 1993
Tascabili Economici Newton
Divisione della Newton Compton editori s.r.l. © 1993 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 88-7983-201-8
Stampato su carta Tambulky della Cartiera di Anjala Distribuita dalla Fennocarta s.r.l., Milano
Copertina stampata su cartoncino Perigord Mat della Papyro S.p.A.
Gli incubi marini di Hodgson
Durante la sua vita, William Hope Hodgson fu definito «uno scrittore su
cui si è posato il manto di Poe». H.P. Lovecraft, il più importante scrittore
americano di Horror dopo Poe, lo definì secondo solo ad Algernon
Blackwood nel delineare l'irrealtà. «Pochi lo eguagliano», scrisse
Lovecraft, «nell'adombrare la vicinanza di forze sconosciute e di mostruose
entità attraverso accenni casuali e particolari insignificanti, oppure nel
comunicare le sensazioni dello spettrale e dell'anormale legati ai luoghi».
Lovecraft, poco prima della sua morte, avvenuta nel 1937, scrisse di
essere rattristato dal fatto che le opere di Hodgson fossero «conosciute
molto meno di quanto meriterebbero». Solo negli ultimi anni, dopo la
ristampa dei suoi racconti, ad Hodgson è stata tributata la fama che non
ottenne quando era ancora vivo. Nel 1914, per esempio, scrisse disperato al
fratello: Non ho guadagnato nemmeno un penny dai miei ultimi libri.
William Hope Hodgson nacque il 15 novembre del 1877 a Blackmore
End, nei pressi di Finchfield nell'Essex, dove suo padre era Pastore
anglicano. Il Reverendo Samuel Hodgson era un uomo deciso ed
intelligente, dalle idee radicali sull'interpretazione della Bibbia che lo
misero spesso in conflitto con i propri superiori. Le sue opinioni esplicite lo
fecero trasferire da una parrocchia all'altra. In effetti, egli ebbe undici
parrocchie in ventun anni, e l'ultima fu a Blackburn nel Lancashire, dove il
suo gregge era formato in maggioranza da operai di cotonifici, e dove
William trascorse gli anni della propria formazione.
William era il secondo di dodici figli, tre dei quali morirono in tenera età.
La sua istruzione fu approssimativa e, a tredici anni, fu mandato in
collegio. Qualche mese dopo, il Reverendo Hodgson morì di cancro alla
gola, e l'istruzione di William fu bruscamente interrotta.
C'era la famiglia da mantenere. Perciò, il 28 agosto del 1891, il
quattordicenne William andò a Liverpool e si imbarcò come mozzo su un
veliero mercantile che compiva traversate oceaniche. Era un vita difficile e,
qualche anno dopo, in una intervista al Blackburn Times egli ricordò:
Ero un ragazzino dal fisico non molto robusto, ed ebbi la sfortuna di
essere alle dipendenze di un Secondo Ufficiale del tipo peggiore che mi
potesse capitare. Era brutale, e, sebbene possa dire in tutta sincerità di non
avergliene mai dato motivo, mi puniva spesso. Rese la mia vita così
miserabile che alla fine raccolsi il coraggio sufficiente per ribellarmi ed
attaccarlo. Fu in tutto e per tutto come una lotta tra un mastino ed un
terrier, perché il Secondo Ufficiale era forte e sapeva come punirmi.
Naturalmente, mi toccò una misericordiosa fustigazione.
L'incidente avviò William al suo hobby più importante. Divenne un
cultore dello judo e fu ossessionato dallo sviluppo del corpo. Studiò la
scienza dell'interazione dei muscoli, un interesse che gli procurò una certa
notorietà.
Nell'ottobre del 1902, il grande contorsionista, Harry Houdini, si esibì al
Blackburn Palace Theatre. Aveva sconcertato la Polizia di Blackburn,
scappando con facilità dalla prigione per fare pubblicità alla propria
esibizione. Il 24 ottobre, Houdini lanciò una sfida al pubblico in sala:
qualcuno doveva legarlo in modo che non potesse liberarsi. Hodgson saltò
sul palcoscenico. Aveva dei lacci speciali che gli aveva prestato la Polizia
locale. Questi lacci e la sua perfetta conoscenza dell'interazione dei
muscoli, gli permisero di legare Houdini in modo tale che il contorsionista
impiegò due ore a liberarsi. Nessun altro è mai riuscito a tenere
imprigionato Houdini per tanto tempo.
Il Blackburn Star riferì che Hodgson lasciò il teatro e si rifugiò alla
locale stazione di Polizia, temendo l'ira del pubblico che riteneva fosse
stato non inglese per il modo sleale in cui aveva legato Houdini.
Quando era imbarcato, Hodgson si era dedicato anche alla fotografia,
che prediligeva fin da quando era un ragazzino. Divenne un noto cultore di
quest'arte, fotografando cicloni e uragani. In seguito, le fotografie e i giri di
conferenze gli resero quasi lo stesso denaro che guadagnava con il suo
lavoro di scrittore.
Dopo otto anni trascorsi in mare, decise che era «una vita da cani». Nel
frattempo, aveva ottenuto il grado di Terzo Ufficiale ed era stato insignito
dalla Royal Human Society della medaglia per atti di eroismo. Infatti, al
largo delle coste della Nuova Zelanda, si era tuffato nelle acque infestate
da squali per salvare il Primo Ufficiale della sua nave dall'annegamento.
A ventidue anni tornò a Blackburn dove aprì la «Scuola di Cultura Fisica
W.H. Hodgson», al numero 13 di Ainsworth Street. Gli agenti della Polizia
locale divennero i suoi migliori clienti. Ben presto, Hodgson si guadagnò
anche la fama di essere il personaggio più eccentrico della città. Il
Blackburn Weekly Telegraph del 30 agosto del 1902, riferisce un racconto
di un testimone oculare a proposito di una delle imprese di Hodgson. La
Brantfell Road a Blackburn era così ripida che nessun veicolo riusciva a
percorrerla ed era, inoltre, formata da sedici gradini larghi parecchi piedi.
Questa strada conduceva a Park Mount, una frazione di Revidge, dove
Hodgson si sarebbe trasferito ed avrebbe composto la maggior parte delle
sue opere.
Il Telegraph riferisce:
La prudenza, naturalmente, avrebbe richiesto una deviazione. Ma ci sono
uomini per i quali la paura è una qualità sconosciuta, e il pericolo è solo un
elemento da conquistare. Uno di questi uomini è il signor W.H. Hodgson, il
noto professore di cultura fisica che, questa settimana, ha disceso in
bicicletta la ripida scalinata, senza rompersi il collo!
Nel 1903, Hodgson fece il suo primo tentativo di scrivere... articoli di
cultura fisica e di fotografia, per i quali trovò un mercato favorevole.
L'anno seguente, passò alla narrativa e scrisse un breve racconto dal titolo:
La Dea della Morte.
Nel Parco di Blackburn c'era un laghetto, nel quale si ergeva la statua di
Flora. Utilizzando la statua come centro del racconto, Hodgson scrisse di
una piccola città inglese, nella quale si trova una statua Hindu, sottratta ad
un tempio indiano. La statua si anima per vendicarsi delle persone che
l'hanno rubata. Il Royal Magazine pubblicò la storia nell'aprile del 1904.
Fu la seconda storia a far guadagnare a Hodgson fama e rispetto da
parte degli scrittori professionisti e degli editori.
S'intitolava A Tropical Horror e fu pubblicata dal Grand Magazine
(fondato per emulare il più popolare Strand). J. Greenhough Smith, editore
e noto critico letterario del tempo, scrisse:
Benché questa storia, un racconto del terrore sul mare, possa essere
troppo raccapricciante per il gusto di qualcuno, è scritta con grande
maestrìa e con un certo realismo, che attira e trattiene l'attenzione del
lettore in un modo che ricorda le cose migliori di Defoe.
Hodgson chiuse quindi la Scuola di Cultura Fisica e si trasferì a Revidge.
Cominciò a guadagnarsi da vivere con il giornalismo e l'attività di
conferenziere. Scrisse anche degli articoli di denuncia sulle condizioni di
vita e di lavoro a bordo delle navi mercantili. Riassunse la propria
posizione a questo riguardo, in un articolo «Perché non sono imbarcato»
(The Grand Magazine, settembre 1905) con queste parole:
Non sono imbarcato perché disapprovo il cattivo trattamento, il cibo
cattivo, la paga cattiva e le prospettive ancora peggiori. Non sono
imbarcato perché ho scoperto molto presto che sulle navi si vive una vita
scomoda, stancante e ingrata, una vita così piena di difficoltà e di squallore
che la gente a terra può difficilmente immaginarla. Non sono imbarcato
perché non mi piace essere una pedina con il mare come scacchiera e gli
armatori come giocatori.
Nondimeno, fu proprio dal mare che Hodgson trasse l'ispirazione per i
suoi racconti più belli ed agghiaccianti. Nell'aprile del 1906, un periodico
americano, il Monthly Story Magazine, pubblicò il racconto di Hodgson:
Dal mare senza maree. Fu una pietra miliare nella sua carriera di scrittore,
perché fu la prima storia sulle leggende del Mar dei Sargassi.
La maggior parte dei suoi racconti d'orrore sul mare sono ispirati alle
leggende del Mar dei Sargassi. In questo modo Hodgson creò tutto un
mondo, immaginario ma vivido, di terrore. Quando furono richieste a gran
voce le continuazioni di quel primo racconto, Hodgson le fornì volentieri.
A quel punto sentì che era arrivata l'ora di scrivere un romanzo.
L'equipaggio del Glen Carrig, fu pubblicato da Chapman e Hall nel 1907.
Tratta di un equipaggio che naufraga e trova rifugio su un'isola
abbandonata, abitata da mostri terrificanti. Le lodi della critica furono
immediate. «Un libro che ritornò al successo rapido e notevole. È ricco di
un'immaginazione che ci ricorda quella di H.G. Wells...», scrisse il Daily
Telegraph.
In seguito, la rivista americana The Blue Book, pubblicò quello che
considero il più bello dei racconti brevi di Hodgson: La Voce nella Notte.
Lo lessi per la prima volta da ragazzo e, ancora oggi, mi provoca dei
brividi di paura. Ha ispirato moltissimi racconti dello stesso genere, come,
per esempio, la novella di Philip M. Fischer Jr. L'isola-fungo, ed anche
molti film.
Hodgson consolidò il proprio successo con il suo secondo romanzo. La
Casa sull'Abisso fu pubblicato nel 1908. Lovecraft, che fu molto influenzato
da Hodgson, lo considerava il migliore dei suoi lavori. Si incentra su una
casa irlandese, solitaria e mal vista, che è il punto focale di terribili forze
provenienti da un altro mondo.
L'anno seguente, il 1909, fu pubblicato I Pirati Fantasma. È un
affascinante racconto sull'ultimo viaggio di una nave maledetta e stregata,
e sui terribili esseri marini che l'assediano trascinandola alla fine verso un
destino ignoto. «Non c'è nessun altro libro che possa paragonarsi a questo,
in tutta la letteratura contemporanea», osservò il critico del Bookman.
Ma i racconti non gli procuravano denaro, e Hodgson doveva
guadagnarsi da vivere. Passò ai racconti polizieschi, in un periodo in cui
decine di scrittori cercavano di emulare il successo dello Sherlock Holmes
di Conan Doyle.
Nella rivista The Idler, Hodgson inventò un nuovo tipo di detective,
Carnacki. Era un «investigatore dell'occulto», un detective psichico che
lottava con forze provenienti dall'Altro Mondo. La Strada per il Mostro fu il
primo racconto, che fu dato alle stampe nel gennaio del 1910. L'ultima
storia di Carnacki apparve nel 1912, e nel 1913 Nash pubblicò tutte le
storie di Carnacki, con il titolo: Carnacki: il Cacciatore di Fantasmi.
Tra il 1910 e il 1911, Hodgson scrisse quella che considerava la sua
opera migliore. Era il romanzo apocalittico, lungo 200.000 parole, La
Terra della Eterna Notte. Si svolgeva in un futuro lontano milioni di anni,
quando il sole ormai sarà morto e la notte sarà eterna. I sopravvissuti sono
raccolti nell’Ultimo Rifugio, un’oasi di sanità mentale in un mondo da
incubo. Lovecraft lo descrive come «Una delle opere più potenti di
immaginazione macabra mai scritte».
Il London Magazine lo definì come «Il libro più notevole che sia stato
creato in questi ultimi anni. Solo Hodgson avrebbe potuto scriverlo..». Il
Morning Leader lo acclamò come un «tour de force». Vanity Fair disse:
«Notevole sotto ogni aspetto... una volta che si comincia a leggerlo, non si
riesce più a smettere». Country Life lo descrisse come un «Romanzo di
notevole immaginazione e di originalità sorprendente».
Eppure La Terra della Notte ha i suoi difetti: è di difficile lettura perché è
scritto in uno stile quasi settecentesco; il riadattamento per una lettura più
semplice fu pubblicato nel 1921 da Holden e Hardingham. Comunque sia,
La Terra della Eterna Notte rimane l'opera più profonda di Hodgson.
Nel 1911 Hodgson sposò Betty Farnworth, una ragazza di Cheadle
Hulme, che compilava la rubrica delle persone scomparse per Home Notes.
Avevano entrambi trentacinque anni. Poiché con i romanzi guadagnava
poco, Hodgson si concentrò maggiormente sui racconti brevi. Nel 1914 fu
pubblicata Uomini dei Mari Profondi, un'antologia di racconti brevi. Fu
accolta dal Times come «Un serio contributo alla storia della letteratura».
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Hodgson, benché avesse
quasi quarant'anni ed avesse superato l'età massima per il servizio militare,
si offrì volontario per il servizio attivo. Rifiutò di entrare in una
Commissione per la Marina e divenne invece Luogotenente nella Reale
Artiglieria. Nel 1916 fu disarcionato da un cavallo, si ruppe la mascella e si
ferì gravemente alla testa. Perciò fu congedato dall'Esercito per motivi di
salute.
Le ferite non gli impedirono di continuare a lavorare. Il Destino del
Forte, una seconda antologia di racconti, fu pubblicato nel 1916. Il Daily
Telegraph commentò: «Ad Hodgson è stato fatto più di una volta il
complimento di somigliare a Poe. È un complimento dato con cognizione di
causa.» Nel 1917 fu stampata un'altra antologia di racconti, Il Comandante
Gault.
Quello stesso anno, guarito dalle ferite, Hodgson fece domanda per
essere reintegrato nell'Esercito e fu rimandato sul Fronte Francese.
All'inizio del 1918, scrisse a sua madre dalle trincee:
Il sole era basso all'orizzonte quando sono tornato e su questa terra
desolata di protezioni che erano state erette dall'uomo contro l'Uragano
che da sempre, giorno e notte, notte e giorno, travolge questa atroce
Pianura della Distruzione.
Dio mio! Se pensi ad un Mondo Perduto, se pensi alla fine del mondo, se
pensi alla Terra della Eterna Notte, è tutto qui, a non più di duecento miglia
da dove vivi tu, infinitamente lontana. E il pathos infinito, terribile,
spaventoso, delle cose che si vedono: il cratere di granate pieno di croci
conficcatesi nel terreno, che emergono appena dall'acqua, e la morte che
sta al di sotto, sommersa... Se vivrò ed uscirò fuori da qui (e, se Iddio vuole,
spero che tornerò) che libro scriverò, se la mia antica abilità non mi ha
abbandonato!
Ahimè, quel libro non sarebbe mai stato scritto. All'inizio dell'aprile del
1918, Hodgson respinse un attacco nemico con l'aiuto di pochi soldati, e
sostenne una eroica azione di retroguardia sotto la grandine delle
pallottole di mitragliatrice, per tre miglia. Pochi giorni dopo, il 19 aprile
1918, rimase ucciso in un bombardamento nei pressi di Ypres. Aveva
quarant'anni.
Per tutta la vita aveva scritto poesie. Nel 1920, Selwyn e Blount
pubblicarono due collezioni di suoi versi: Il Richiamo del Mare e La Voce
dell'Oceano. In uno di questi poemi Hodson aveva scritto:
Sto morendo, e il mio lavoro mi è davanti,
Come una matita spezzata da un coltello.
Così mi ha spezzato il filo crudele
Del pensiero dalla lama affilata, che foggiò la mia vita,
E che mi rese pronto e avido di parlare davanti a Te.
Ed ora muoio, preparato tanto da cantare.
Una cosa ancora: se pensate di fare presto un viaggio per mare, non
continuate la lettura di questo libro...
GIANNI PILO
Nota bibliografica
OPERE
The Boats of Glen Carrig, Chapman Hall, Londra, 1907.
The House on the Borderland, Chapman Hall, Londra, 1908.
The Ghost Pirates, Chapman Hall, Londra, 1909.
The Night Land, Holden and Hardingham, Londra, 1912.
Carnacki, the Ghost Finder, Nash, Londra, 1913.
Men of the Deep Waters, Holden and Hardingham, Londra, 1914.
Captain Gault, Holden and Hardingham, Londra, 1914.
The Luck of the Strong, Nash, Londra, 1915.
The Call of the Sea, Holden and Hardingham, Londra, 1920.
The Voice of the Ocean, Holden and Hardingham, Londra, 1921.
BIBLIOGRAFIA
S. MOSKOWITZ, Explorers of Infinity, Ace, 1957.
J. VAN HERP, Hodgson, Cahier de l’Herne, 1969.
J. BARON, William Hope Hodgson, Planete, 1969.
F. TRUCHAUD, Le Maison au bord du Monde, Editions Opta, 1971.
F. TRUCHAUD, W.H. Hodgson, Planete, 1972.
R.A. EVERTS, Some Facts in the Case of William H. Hodgson, Shadow, 1973.
B. ALDISS, Billion Year Spree, Widenfeld & Nicholson, 1973.
TRADUZIONI ITALIANE
Naufragio nell’Ignoto, Fanucci, 1976.
Carnscki, Cacciatore di Spettri, SIAD, 1982.
La Casa sull’Abisso, Fanucci, 1985.
Pirati Fantasma, Fanucci, 1986.
L'ORRORE DEL MARE
Il mostro
1.
Abbiamo lasciato Melbourne centotrenta giorni fa e, per tre settimane, ci
siamo fermati in questo luogo calmo e soffocante.
È mezzanotte, ed è il nostro Quarto fino alle quattro antimeridiane. Esco
e mi siedo sul boccaporto. Pochi minuti dopo Joky, il nostro apprendista più
giovane, mi raggiunge per chiacchierare. Siamo stati seduti in questo modo
tante volte, ed abbiamo parlato durante i Quarti di Notte, sebbene chi
parlasse veramente fosse solo Joky. Io sono contento di fumare e di
ascoltare, assentendo ogni tanto per dimostrare la mia attenzione.
Joky è stato zitto per un po' di tempo con la testa china come se
meditasse. Improvvisamente rialza la testa, certamente con l'intenzione di
parlare un po'. Mentre fa questo, vedo la sua faccia irrigidirsi piena di un
terrore senza nome. Si rannicchia all'indietro con gli occhi fissi su qualcosa
di pauroso fino a quel momento invisibile che è dietro di me. Poi spalanca
la bocca, emette un grido strozzato, e cade dal boccaporto sbattendo la testa
sul ponte. Spaventato, non so da che cosa, mi volto a guardare.
Mio Dio! Emergendo dal parapetto, ben chiara alla luce bianca della luna,
c'è un'enorme bocca bavosa a pochi metri di distanza. Dalle grandi labbra
gocciolanti pendono lunghi tentacoli. Mentre la guardo con disgusto e
orrore, quella cosa si arrampica sopra l'orlo di murata. Viene sempre più su,
sempre più in alto. Non si vedono gli occhi, solo quella bocca bavosa posta
su un orribile collo rassomigliante ad un tronco che, mentre lo guardo,
striscia dentro la nave con la rapidità di un'enorme anguilla. Viene dentro in
spire ondeggianti di cui non si vede la fine.
La nave inizia un lento rollio a tribordo mentre avverte il nuovo peso.
Alla fine la coda, una enorme quantità di materia liscia, scivola sopra la
murata e cade con un tonfo sul ponte. L'orrenda creatura giace per pochi
secondi come una massa di spire fangose che si contorcono. Poi, con un
movimento rapido, la testa mostruosa si muove sul pavimento.
Vicino all'albero maestro ci sono i barili di cuoio e, lì accanto, un barile di
carne salata da poco aperto con il coperchio appena appoggiato in cima.
L'odore della carne sembra attirare il mostro che sento annusare respirando
forte. Poi quelle labbra si aprono mostrando quattro zanne enormi: ecco che
con un rapido movimento in avanti della testa, un salto ed uno scrocchio di
mascelle, sia i barili che la carne sono spariti. Il rumore fa accorrere uno dei
marinai fuori del castello di prua. Entrando in quella zona buia, egli per un
momento non riesce a vedere nulla. Poi, procedendo verso poppa, riesce a
vedere e, urlando di terrore, si precipita in avanti. Troppo tardi! Dalla bocca
della «Cosa» esce fuori fulmineamente una specie di lama, lunga e larga, di
un biancore scintillante, armata di denti potenti.
Distolgo lo sguardo, ma non posso non sentire la inevitabile scorpacciata
nauseabonda di quel mostro.
L'uomo di guardia, attirato dal rumore, ha assistito alla tragedia, e corre a
rifugiarsi nel castello di prua slanciandosi verso la pesante porta di ferro.
Il carpentiere ed il velaio vengono fuori correndo dal ponte di mezzo
indossando soltanto i mutandoni. Vedendo quella «Cosa» orribile, si
precipitano a poppa verso le cabine urlando di paura. L'Ufficiale in
Seconda, dopo uno sguardo a ciò che succede a poppa, fugge giù per la
scaletta del boccaporto seguito dal timoniere. Posso sentirli sbarrare la porta
e, all'improvviso, mi rendo conto di essere rimasto solo sul ponte di coperta.
Fino ad ora ho dimenticato di essere anch'io in pericolo. I pochi minuti
passati sembrano far parte di un sogno orribile. Adesso, però, mi rendo
conto della mia condizione e, liberandomi dell'orrore che mi ha paralizzato,
mi volto in cerca di salvezza.
Mentre sto guardando qua e là, scorgo Joky che giace raggomitolato e
privo di sensi dove è caduto poco prima. Vicino, c’è il ponte di mezzo vuoto
salvo un piccolo caposotto costruito in acciaio con porte di ferro; quella
sottovento è tenuta aperta per mezzo di un gancio. Una volta dentro, sarò al
sicuro.
Fino ad ora la «Cosa» non sembra aver notato la mia presenza. Adesso,
però, la sua enorme testa dalla forma di botte si muove nella mia direzione;
poi si sente un muggito soffocato e la grande lingua guizza avanti e indietro
mentre il mostro si volta e scivola a poppa per prendermi.
Capisco che non c'è un minuto da perdere e, rialzato il ragazzo inerte, mi
precipito verso la porta aperta che è distante solo pochi metri: ma
quell'orrendo mostro percorre il ponte con grandi spire attorcigliate.
Raggiunto il casotto, metto giù il giovane Joky, poi esco di nuovo sul ponte
per staccare il gancio e chiudere la porta. Mentre faccio questo, un qualcosa
di bianco si attorciglia intorno alle estremità del casotto. Con un balzo entro
dentro e provvedo a sprangare la porta. Attraverso gli spessi vetri degli
oblò, vedo la «Cosa» che si aggira intorno al casotto cercandomi invano.
Joky non si è ancora mosso, perciò mi inginocchio, gli allento il colletto
della camicia, e gli spruzzo in faccia dell'acqua del barilotto. Mentre sto
facendo tutto questo, sento Morgan che grida qualcosa, poi segue un grande
urlo di terrore ed ancora quel nauseabondo rumore di mascelle.
Joky si muove a malapena, si strofina gli occhi e, all'improvviso, si mette
a sedere.
«Che cosa sta gridando Morgan?» chiede, poi comincia ad urlare: «Dove
siamo? Ho fatto un sogno orribile!»
In quel momento si ode un rumore di passi di qualcuno che corre in
coperta e sento la voce di Morgan vicino alla porta.
«Tom, apri!»
All'improvviso tace ed emette un orribile grido di disperazione, poi lo
sento correre via. Attraverso l'oblò lo vedo saltare fra i cavi di prua ed
arrampicarsi come un pazzo verso l'alto. Qualcosa gli si avvicina, qualcosa
che sembra bianco alla luce della luna, e gli si attorciglia intorno alla
caviglia destra. Morgan si ferma di botto, tira fuori il suo coltello e colpisce
ripetutamente e con forza quella «Cosa» malvagia. Questa lo lascia andare e
lui, in pochi secondi, raggiunge la cima arrampicandosi sempre più su.
Segue un periodo di calma e mi accorgo che si avvicina l'alba. Non si
sente alcun suono eccetto il pesante ansito dcl respiro del mostro. Mentre
sorge il sole, la mostruosa creatura si sdraia sul ponte e sembra godersi il
calore. Non c'è ancora alcun suono né da parte degli uomini a prua né dagli
ufficiali a poppa. Posso solo supporre che abbiano paura di attirare
l'attenzione del mostro. Eppure, un po' più tardi, sento verso poppa la
detonazione di una pistola e, guardando, vedo il serpente alzare la sua
enorme testa come se stesse in ascolto. Mentre sta facendo questo
movimento, riesco a vedere bene la parte anteriore, e vedo quello che la
notte aveva nascosto.
Sopra la bocca ci sono due occhi porcini che sembrano brillare di
un'intelligenza diabolica. Volta la testa di qua e di là poi, all'improvviso, si
gira in fretta e guarda attraverso l'oblò. Mi ha visto e poggia la sua enorme
bocca sul vetro.
Non oso respirare. Dio mio! E se rompesse il vetro? Mi ritraggo pieno di
orrore. Dalla parte dell'oblò giunge un suono forte e raschiante. Sto
tremando. Poi ricordo che ci sono dei piccoli scuri di ferro che si chiudono
sugli oblò quando il tempo è cattivo. Senza perdere un minuto, mi alzo in
piedi e chiudo gli scuri sull'oblò. Poi vado vicino agli altri e faccio la stessa
cosa. Adesso siamo al buio e dico piano a Joky di accendere la lampada, il
che riesce a fare a tastoni.
Circa un'ora dopo mezzanotte, mi addormento.
Qualche ora dopo mi desto all'improvviso sentendo un urlo di dolore ed il
suono metallico della ciotola per l'acqua. C'è un breve suono di lotta e poi
quell'odioso suono di mandibole. Indovino ciò che è successo. Uno degli
uomini dev'essere uscito dal castello di prua per prendere un po' d'acqua.
Evidentemente ha cercato di approfittare del buio per nascondere i suoi
movimenti. Povero diavolo! Ha pagato con la vita questa sua mossa!
Dopo non riesco più a dormire, sebbene il resto della notte trascorra
abbastanza calmo. Verso mattina faccio un sonnellino, ma mi sveglio di
soprassalto dopo pochi minuti. Joky sta dormendo in pace. Sembra davvero
che abbia superato la terribile tensione delle ultime ventiquattr'ore. Verso le
otto lo chiamo, e facciamo colazione alla meglio con le gallene e dell'acqua.
Di questa, fortunatamente, ne abbiamo una buona riserva. Joky sta
riprendendosi e comincia un poco a parlare, forse più forte di quanto
dovrebbe; Infatti, mentre parla qualcosa sbatte al casotto, che produce un
suono metallico. Dopo, Joky non parla più.
Mentre stiamo seduti là, non posso fare a meno di pensare a quello che
stanno facendo gli altri uomini, ed a come quei poveri diavoli a prua se la
possono passare rinchiusi senza acqua, come la tragedia della notte aveva
dimostrato.
Verso mezzogiorno, sento una forte detonazione seguita da un terribile
muggito. Poi giunge un rumore di legno spezzato e grida umane di dolore.
Invano mi chiedo che cosa è successo. Poi comincio a ragionare. Il suono
della detonazione era evidentemente più forte di quello di un fucile o di una
pistola e, a giudicare dagli urli della «Cosa», lo sparo deve averla colpita.
Pensando ancora di più, mi convinco che, in qualche modo, gli uomini a
poppa devono aver fatto uso del piccolo cannone che abbiamo e, sebbene
abbia capito che qualcuno dev'essere rimasto ferito, o forse ucciso, un
sentimento di esultanza mi afferra mentre ascolto i ruggiti della «Cosa» che
mi rendo conto essere stata ferita, forse mortalmente. Dopo un po' i muggiti
terminano, e solo ogni tanto si ode un urlo che esprime più ira che altro.
Adesso mi accorgo che il mostro è andato verso tribordo, perché la nave
s'inclina da quella parte, e una grande speranza mi pervade: c'è la possibilità
che si sia stancato di noi e che stia tornando in mare scavalcando il
parapetto.
Per un po' tutto tace, e la mia speranza diventa sempre più forte. Mi
sporgo e tocco Joky che dorme con la testa appoggiata alla tavola. Il
ragazzo si sveglia con un forte grido.
«Zitto!» gli sussurro con voce rauca. «Non ne sono certo, ma credo che se
ne sia andato.»
La faccia di Joky s'illumina vivamente, e mi rivolge un fuoco di fila di
domande. Aspettiamo un'altra ora circa e la speranza aumenta. Anche la
nostra sicurezza ritorna in fretta. Non udiamo alcun suono, neppure il
respiro di quella «Bestia». Quando prendo delle gallette, Joky, dopo aver
cercato nell'armadietto, tira fuori un pezzettino di maiale ed una piccola
bottiglia di aceto. Con gusto, ci precipitiamo a mangiare.
Dopo la lunga astinenza il pasto ci fa l'effetto del vino, e che cosa si mette
in mente Joky se non insistere nel voler aprire la porta per assicurarsi che la
«Cosa» è andata via? Non glielo permetto, e gli faccio capire che sarebbe
più sicuro se almeno aprissimo prima gli scuri di ferro e guardassimo fuori.
Joky continua a discutere, ma io non mollo. Lui diventa irrequieto, il che mi
fa pensare che il giovane sia un po' sciocco. Poi, mentre mi volto ad
allentare le viti di uno degli scuri, Joky si precipita alla porta ma, prima che
riesca ad aprire il chiavistello, lo afferro e, dopo una breve lotta, lo
riconduco verso la tavola. Mentre mi sforzo di calmarlo, si sente un lungo e
forte grugnito provenire dalla porta di tribordo, quella che Joky aveva
tentato di aprire, seguito immediatamente da un ululato assordante, e da
sotto la porta penetra dentro la stanza un orrendo puzzo di fiato putrido.
Comincio a tremare violentemente e, se non fosse per il banco del
carpentiere al quale mi appoggio, cadrei a terra. Joky impallidisce e dà di
stomaco violentemente, dopodiché comincia a singhiozzare.
Le ore passano, e mi sento così stanco da sdraiarmi sul banco su cui mi
sono seduto per tentare di riposare. Verso le due di notte, dopo un sonno più
lungo del solito, vengo destato all'improvviso da un rumore assordante che
proviene dalla porta di prua; sono voci umane che urlano, bestemmiano, e
pregano, ma deboli e fievoli malgrado il terrore che esprimono, ogni tanto
interrotte dall'infernale muggito di sazietà che è l'inumano grido della
«Cosa».
Sono in preda ad una paura invincibile, e posso solo cadere in ginocchio e
pregare. So molto bene ciò che sta accadendo.
Joky ha continuato a dormire durante questo evento e ne ringrazio Dio.
Adesso, da sotto la porta viene un po' di luce, e mi rendo conto che è
spuntato il sole sul secondo mattino della nostra prigionia.
Lascio dormire Joky: è meglio che viva in pace fin che può. Il tempo
passa, ma io non lo noto. La «Cosa» è quieta: forse sta dormendo. Verso
mezzogiorno, mangio un po' di gallette e bevo dell'acqua. Joky sta ancora
dormendo. Meglio così.
Un suono interrompe la calma. La nave oscilla leggermente e capisco che
la «Cosa» si è svegliata di nuovo. Striscia lungo il ponte e fa sì che la nave
si muova in modo percettibile. Una volta va verso la prua per esplorarla.
Evidentemente non ci trova nulla perché ritorna immediatamente. Si ferma
un momento davanti al casotto, poi continua verso poppa. Su in alto,
dall'impalcatura lontana l'Orrore si ferma di botto. Io ascolto con attenzione,
ma non sento nulla salvo uno strano cigolio al di là dell'estremità del
casotto, come se un peso fosse caduto sull'attrezzatura.
Dopo un minuto sento un urlo su in alto, seguito quasi istantaneamente da
un forte tonfo sul ponte che pare scuotere la nave... Attendo pieno d'ansia e
di paura. Poi si ode un altro grido di paura, che cessa improvvisamente.
L'attesa diventa impossibile, e non riesco più a sopportarla. Molto
cautamente apro uno degli scuri e guardo fuori. Mi si presenta agli occhi
uno spettacolo orribile. Là, con la coda sul ponte e l'enorme corpo
attorcigliato intorno all'albero maestro, c'è il mostro: la sua testa è sopra il
pennone della vela maestra con il tentacolo a forma di artiglio che si agita
nell'aria.
È la prima volta che vedo bene la «Cosa». Mio Dio! Deve pesare cento
tonnellate! Sapendo di averne il tempo, apro l'oblò e sporgo la testa fuori
guardando in alto. Là, sull'estremità del pennone più basso della vela
maestra, vedo uno dei marinai. Anche da qui posso notare l'orrore che gli si
è dipinto in faccia. In quell'istante mi vede ed emette un rauco grido di
aiuto. Non posso fare nulla per lui. Mentre lo sto guardando, la grande
lingua si protende fuori e lo porta via dal pennone alla maniera di un cane
che prende una mosca da un vetro.
Più in alto, e fortunatamente lontani dalla sua portata, ci sono altri due
uomini. Per quanto posso giudicare, si sono legati all'albero sopra il
pennone reale. La «Cosa» tenta di raggiungerli, ma smette ben presto quegli
sforzi inutili e comincia a strisciare verso il basso, spira dopo spira,
raggiungendo il ponte. Mentre si muove, posso notare una grande ferita
aperta nel suo corpo a circa venti piedi sopra la coda.
Abbasso lo sguardo e guardo a poppa. La porta della cabina è scardinata e
la parte superiore che, al contrario di quella di mezzo ponte, è costruita in
legno di tek, è quasi tutta rotta. Con un brivido mi rendo conto del perché di
quelle urla dopo il colpo del cannone. Voltandomi, mi guardo intorno e
tento di vedere l'albero di trinchetto, ma non mi è possibile. Mi rendo conto
che il sole sta calando e la notte si avvicina. Allora ritiro la testa e chiudo
l'oblò e gli scuri.
Quando finirà? E come finirà?
Dopo un po' Joky si sveglia. È molto irrequieto: sebbene non abbia
mangiato nulla in tutto il giorno, non riesco a mangiare niente. La notte si
avvicina.
Noi siamo troppo esausti, troppo depressi per parlare. Io mi sdraio ma non
dormo... Il tempo passa...
2.
Un ventilatore è in funzione da qualche parte del ponte, e là risuona senza
interruzioni quel rumore rauco e difettoso. Più tardi, sento il miagolio di
morte di un gatto e poi c'è pace di nuovo. Dopo un po', sento un forte tonfo
vicino. Quindi, per alcune ore, tutto è quieto e silenzioso come in una
tomba.
Ogni tanto mi metto a sedere sul banco e sto in ascolto, ma neppure il
minimo bisbiglio giunge alle mie orecchie. C'è silenzio assoluto, ed anche il
monotono rumore delle macchine è cessato completamente, per cui una
speranza reale finalmente si fa viva dentro di me.
Quel tonfo, questo silenzio: certamente ho ogni motivo di sperare. Questa
volta non sveglio Joky; voglio provare prima a me stesso che tutto è sicuro.
Attendo ancora. Non voglio correre dei rischi senza necessità.
Dopo un po' vado davanti all'oblò e mi metto in ascolto, ma non sento
alcun suono. Con la mano tocco la vite, ed esito ancora, ma non per molto.
Senza far rumore comincio a svitare la chiusura del pesante scuro che pende
dai cardini, poi lo tolgo via e guardo fuori. Il cuore mi batte
affannosamente. Fuori tutto pare stranamente buio: forse la luna è oscurata
da una nuvola. All'improvviso, un raggio di luna entra dall'oblò e altrettanto
presto sparisce. Guardo fuori a lungo: qualcosa si muove. Di nuovo la luce
inonda la stanza e adesso mi pare di guardare dentro una grande caverna nel
cui fondo qualcosa di un pallido bianco si muove e si accartoccia.
Il mio cuore cessa di battere. È quella «Cosa» orrenda. Indietreggio ed
afferro lo scuro di ferro per chiudere. Ma, mentre faccio questo movimento,
qualcosa rompe il vetro. Come un ariete di rame, lo manda in mille pezzi ed
entra nella cabina.
Urlo e indietreggio. L'oblò è del tutto occupato dalla massa che una
lampada illumina fiocamente. Si arriccia e si muove qua e là. È grossa come
un albero con un grande artiglio a forma di tenaglia come quello d'una
aragosta, solo mille volte più grande. Mi ritraggo nell'angolo più lontano. Il
mostro ha sfasciato il banco degli arnesi con un colpo di quelle paurose
mandibole, Joky si è nascosto sotto la cuccetta. La «Cosa» si dirige verso di
me ed io sento che il sudore che mi cola giù per la faccia ha il sapore del
sale. Quella morte orribile si avvicina sempre di più...
Un rumore! Rotolo indietro mentre il mostro ha spezzato il barilotto
dell'acqua, che allaga il pavimento. L'artiglio si muove su e giù con
movimenti incerti e rapidi battendo il pavimento con colpi pesanti e ripetuti
a pochi centimetri dalla mia testa. Joky emette un rantolo di orrore.
Lentamente, la «Cosa» si alza e comincia a tastare lo spazio vicino alla
cuccetta. Cade sopra una di queste e, tirato su un cuscino, lo spezza in due,
poi lo lascia cadere e continua a muoversi. A tentoni cerca sul pavimento e
trova la metà del cuscino. Sembra che ci giochi, lo tira su e lo porta fuori
dall'oblò...
Un'onda di aria putrida riempie la cabina. Poi ecco di nuovo quel suono
stridente, e qualcosa entra attraverso l'oblò... qualcosa di bianco, allungato,
pieno di denti. Si curva qua e là raschiando le cuccette, il soffitto ed il
pavimento, producendo il suono di una grande sega in movimento. Due
volte volteggia sopra la mia testa, ed io chiudo gli occhi. Poi se ne va; ora
sembra che sia nella parte opposta alla mia, vicino a Joky. All'improvviso, il
suono stridente diventa più fioco, come se i denti passassero sopra una
sostanza più morbida. Joky emette un breve urlo orribile che diventa un
suono gorgogliante, quasi come un fischio. Apro gli occhi: la punta
dell'enorme lingua si è strettamente attorcigliata intorno a qualcosa che
gocciola, poi si ritira in fretta permettendo alla luce della luna di illuminare
di nuovo la cabina. Mi alzo in piedi e, guardandomi intorno, posso vedere
come un automa lo stato di distruzione della cabina: gli armadietti rotti, le
cuccette a pezzi e qualcos'altro.
«Joky!», grido, tremando da capo a piedi.
Ed ecco quella «Cosa» orribile ancora davanti all'oblò. Mi guardo attorno
in cerca di un'arma. Vendicherò Joky! Ah! Là sotto la lampada, dove giace
spezzato il banco del carpentiere, vi è una piccola accetta. Facendo un balzo
in avanti, l'afferro. È piccola, ma ben affilata. Sento con amore la sua lama
che taglia come quella d'un rasoio. Poi ritorno verso l'oblò: mi fermo da un
lato ed alzo la mia arma. La grande lingua va a tentoni verso quegli avanzi
spaventosi. Riesce a raggiungerli ma, mentre li tocca, gridando «Joky!
Joky!», la colpisco selvaggiamente, e quella massa mostruosa cade sul
ponte contorcendosi come la più odiosa delle anguille. Una enorme quantità
di liquido caldo entra attraverso l'oblò. C'è un suono di acciaio che viene
rotto e un muggito assordante. Sento un suono nelle orecchie che cresce di
intensità. Poi la cabina perde i contorni e precipito improvvisamente in una
grande oscurità.
Estratto dal libro di bordo della nave a vapore Hispaniola
Giugno 24 - Lat. N. Long. W–11 a.m.
Avvistammo un battello a quattro alberi, quattro gradi a babordo, che aveva una
bandiera indicante pericolo. Ci dirigemmo verso di lui, e mandammo una scialuppa
a bordo. Si chiamava Glen Doon e viaggiava da Melbourne a Londra. L'abbiamo
trovato in uno stato terribile: i ponti erano coperti di sangue e di fango, e la cabina
d'acciaio del ponte era sfondata. Aperta la porta, scoprimmo un giovane di circa
diciannove anni in uno stato di estrema prostrazione e trovammo anche delle parti
del corpo di un ragazzo di circa quattordici anni. C'era una grande quantità di sangue
in quel luogo ed un'enorme massa accartocciata di carne biancastra che pesava circa
mezza tonnellata. Una delle sue parti appariva tagliata completamente con uno
strumento appuntito. Trovammo la porta del castello di prua aperta e scardinata. La
porta era allargata come se qualcosa vi fosse stata fatta entrare a forza. Entrati,
trovammo il castello in una condizione terribile: c'era sangue dappertutto, armadi
rotti, cuccette ridotte a pezzi; ma non c'erano uomini, né avanzi di corpi. Ci
dirigemmo allora a poppa, e ci accorgemmo che il giovane mostrava segni di
recupero. Quando rinvenne, ci disse di chiamarsi Thompson. Ci disse che erano stati
attaccati da un enorme serpente: pensammo che doveva trattarsi di un serpente di
mare. Il giovane era troppo debole per parlare, ma ci disse che c'erano degli uomini
sull'albero maestro. Mandammo qualcuno su, e li trovarono legati all'albero, però
morti. Andammo quindi a poppa, e trovammo la paratia rotta e la porta della cabina
che giaceva in terra sul ponte vicino al boccaporto. Trovammo il corpo del Capitano
giù nell'interponte, ma non c'erano ufficiali. Notammo in mezzo a quelle rovine una
parte dell'affusto di un piccolo cannone. Quindi facemmo ritorno a bordo della
nostra nave.
Mandammo l'Ufficiale in Seconda con sei uomini per portare quella nave in porto.
Thompson è qui con noi, ed ha scritto la sua versione dei fatti. Noi, dopo aver
visto la condizione della nave, pensiamo che la sua storia sia vera.
(Firmato)
William Norton (Capitano)
Tom Briggs (Primo Ufficiale)
Lamie
«Eccola lì!» urlò il vecchio Nostromo al mio amico Trevor, mentre il
nostro battello girava lentamente attorno alla costa dell'Isola di Nightingale.
Il vecchio puntò il fornelletto della sua pipa di radica scura verso una
minuscola isoletta a tribordo.
«Eccola lì, signori», ripeté esitante. Middle Islet! Attraccheremo nella
baia fra un momento. Badate bene signori: io non posso affermare che la
nave sia ancora lì e, se c'è ancora, beh, dovete convincervi che io non ho
visto nessuno, quando vi salii sopra la prima volta.»
Il vecchio si rimise la pipa in bocca con aria truce, tirando boccate di
fumo aromatico, mentre Trevor ed io scrutavamo attentamente l'isoletta con
i cannocchiali.
Ci trovavamo nell'Atlantico del Sud. Alquanto in lontananza, verso nord,
si poteva scorgere tra la nebbia e le tempeste, il tenebroso picco dell'Isola di
Tristano, la più grande del gruppo delle isole Da Cunha mentre, lungo
l'orizzonte, verso ovest, a volte si riusciva a scorgere la sagoma
caratteristica dell'Isola Inaccessibile.
Ma il panorama non ci interessava minimamente, ovvio.
Tutta la nostra attenzione era focalizzata su Middle Islet, al largo delle
coste dell'Isola Nightingale.
Soffiava un debole venticello, e il nostro battello scivolava pigramente
sopra le acque cupe.
Il mio amico era tormentato da una ridda di sentimenti contrastanti;
andava a vedere se quella baia conservava ancora il relitto della nave che
aveva imbarcato la sua donna.
Io, personalmente, oltre alla curiosità, provavo un senso di sgomento per
le strane circostanze che ci avevano portato lì. Per più di sei mesi il mio
amico aveva invano aspettato il ritorno... del Felice Ritorno, la nave che per
ironia della sorte trasportava la sua donna, diretta in Australia per motivi di
salute. Nessuno aveva saputo più niente di quella nave, e la ragazza era stata
data per dispersa da tutti... tranne che da noi. Trevor, quasi impazzito, e
spendendo parecchio, aveva inviato costose inserzioni a quasi tutti i più
importanti giornali del mondo, e questo disperato tentativo aveva condotto
ben presto da lui il vecchio Nostromo che ora stava al suo fianco.
Quest'uomo infatti, attirato dalla lauta ricompensa offerta, aveva risposto
agli appelli, fornendo alcune informazioni su un relitto di nave, senza alberi,
che portava l'insegna del Felice Ritorno sulla poppa e sulla prua, e che lui
aveva intravisto durante il suo ultimo viaggio per mare, in una strana,
piccola baia sul versante sud di Middle Islet.
Tutto questo non lasciava grandi speranze al mio amico, inquantoché il
Nostromo ci disse che era salito a bordo con una parte della sua ciurma,
senza trovare assolutamente niente sulla nave deserta.
Devo dire che questa versione non mi persuadeva granché, perché
conosco il carattere profondamente superstizioso dei vecchi lupi di mare, e
probabilmente quel relitto solitario doveva aver eccitato un poco la loro
fantasia, e quindi...
Comunque, tra breve, avremmo potuto svelare il mistero. Il Nostromo si
lasciò sfuggire qualche parola di troppo, che andò a rinvigorire la mia
personale tesi sull'argomento.
«Nessuno dei miei uomini volle trattenersi su quella nave. Tirava un'aria
poco attraente. Era una nave troppo maledettamente ordinata e pulita per
essere un vero relitto.»
«Cosa diavolo intendete dire?» chiesi con noncuranza.
«Beh, è difficile spiegarlo, sapete. Sembrava quasi che la ciurma di quella
nave se ne fosse andata solo momentaneamente, in attesa di tornare da un
momento all'altro. Ma capirete meglio quando vi salirete a bordo, potete
contarci...»
Sputò per terra disgustato, continuando a fumare la pipa.
Lo guardai fisso, incominciando a dubitare delle sue facoltà mentali. Poi
guardai il mio amico Trevor, che non aveva udito il nostro discorso, troppo
intento a scrutare con il cannocchiale l'isoletta per accorgersi d'altro.
Trevor si voltò verso il Nostromo, tremando.
«William, è proprio questo il luogo?», domandò, esitante.
Il Nostromo si scostò le lunghe ciocche incatramate dalla fronte,
poggiandosi le mani in testa a mo' di visiera.
«Sissignore, ci siamo proprio!» affermò.
«Sì, ma dov'è la nave? Io non vedo niente...»
«Non preoccupatevi capo: siamo ancora lontani dall'ingresso della baia!
La nave è nell'interno, e tra un po' la vedremo.»
Trevor staccò la mano dalla spalla del vecchio, tremando. Il suo volto si
fece pallidissimo, come in preda ad un collasso. Si appoggiò alla balaustra
per non cadere, poi si voltò.
«Hearnshaw, amico mio, mi sento svenire... io...»
«Coraggio, fatti forza! Prendi un bicchiere di questo Rhum stravecchio, e
ti sentirai un po' meglio. Dài!»
Diedi gli ordini per far preparare un canotto, in modo da essere pronti a
scendere in mare a tempo debito.
Cinque minuti più tardi, ci addentrammo con la nave in quella stretta
apertura rocciosa, più simile ad un fiordo che ad una baia, scrutando
attentamente in ogni direzione.
L'insenatura, si addentrava profondamente nell'isoletta...
Finalmente, tra le ombre apparve qualcosa, per scomparire quasi subito.
Era senz'altro la poppa di una nave! Lanciai un grido di eccitazione, facendo
cenno a Trevor di fermare.
La scialuppa fu calata in mare, e Trevor, io, una ciurma, ed il vecchio
Nostromo al timone, puntammo verso quell'apertura sulle coste di Middle
Islet.
Superata una larga fascia di alghe puzzolenti che circondava letteralmente
la costa, dopo un po' avanzammo speditamente sulle lisce, nere acque della
profonda baia, costellata di rocce a strapiombo che sembravano piombare
nell'infinito. Superato uno stretto passaggio, ci ritrovammo in una
insenatura perfettamente ovale, dalle acque morte, glaciali.
Le pareti tutt'attorno erano lisce e biancastre, come il condotto di un
immenso pozzo. E, alla fine di quel pozzo, trovammo la poppa di una nave
con la bianca insegna Felice Ritorno.
Guardai Trevor. Era pallidissimo, e sudava come una bestia. Mastro
William ci fece accostare alla fiancata del relitto, e Trevor ed io ci
arrampicammo penosamente a bordo. Il Nostromo ci seguì, ormeggiando la
fune della scialuppa. Con un'agilità straordinaria per un uomo della sua età,
balzò a sua volta sul relitto, facendoci strada.
Mentre camminavamo cautamente, i nostri passi risuonavano sul ponte
con un lugubre rumore, dandoci un senso quasi insopportabile di cupa
desolazione.
Le nostre voci procuravano un'eco a dir poco spaventosa, e rimbalzavano
sul budello di roccia, per cui fummo costretti anche a parlare sottovoce,
come in chiesa, o come in un cimitero...
Allora cominciai a capire le sibilline parole del Nostromo circa la strana
aria che tirava a bordo di quel relitto.
Mastro William sembrò indovinare i miei pensieri.
«Dannazione! Guardate come è pulita ed ordinata. Non mi sembra
naturale. Sembra quasi che sia stata lavata da poco: altro che naufragio! E
ne ho visti di naufragi, io!»
Riprendemmo ad avanzare, seguendolo.
Benché non ci fossero più né gli alberi né le scialuppe, il resto della nave
era in perfetto ordine. Il ponte era pulito, le funi annodate nelle bitte, i rotoli
di cordami al loro posto preciso, e perfino il barile dell'acqua dolce era
pieno.
Anche Trevor si rese conto della estrema stranezza di tutto ciò, e
cominciò di nuovo a tremare, sull'orlo di una crisi.
«Amico mio, hai visto? Questo significa che qualcuno della ciurma è
ancora vivo... È ancora qui, ne sono certo... ma dove... dove... dove
potrebbe essere?»
«Di sotto?» suggerii, tentando di assumere un certo tono.
I suoi occhi si fissarono nei miei con la forza della disperazione, cercando
un coraggio che certamente non avevo.
In quel momento Mastro William ci chiamò, da davanti all'imboccatura
della scala.
«Signori, se non venite con me, non scendo certo da solo!»
«Forza Trevor, coraggio. Pensa a lei!»
Ci avviammo giù per la scala, scendendo verso i saloni.
Entrammo in quello di destra, rimanendo ancora una volta colpiti
dall'eccessiva pulizia degli ambienti. Nessun segno di abbandono, incuria, o
polvere. Eppure quel relitto si trovava lì da più di sei mesi, come minimo!
«Vedi? Dev'esserci per forza qualcuno!» mormorò il mio amico, sentendo
rinascere le speranze, mentre io pensavo sempre più, con aria cupa, alle
sibilline parole del Nostromo. Mastro William entrò nel salone di sinistra,
nell'ala delle cabine. Con un calcio ne aprì una. Era piena di biancheria
intima.
«Guardate, capo! Questa doveva essere la cabina di vostra moglie, perché
c'è un mucchio di questa roba in giro...»
Trevor guardò William con un'espressione folle, saltandogli al collo e
tentando goffamente di strozzarlo.
«Maledetto... maledetto ladro... come osate profanare le sue cose... Io vi
ammazzo, capite... Nessuno... nessuno può!»
Il Nostromo si liberò con un solo movimento dalla stretta del mio povero
amico, mandandolo lungo disteso sul pavimento, mentre io lo scrutavo
preoccupato, temendo che mettesse mano al coltello che gli pendeva dietro
la schiena.
«Badate a come parlate, signor mio!» disse il vecchio con aria offesa,
livido dalla rabbia. «Io non ho rubato proprio niente, e tantomeno questa
robaccia che porta sfortuna!»
Trevor si rialzò come fosse spinto da una molla, ed entrò nella cabina
urlando il nome della sua donna a più riprese.
Il Nostromo si voltò a guardarmi, facendo segno che il mio amico doveva
essere diventato matto.
Dopo un poco, Trevor uscì con aria trionfante. In mano aveva uno di quei
calendari da muro, a fogli staccabili.
«Guardate! Leggete la data! Leggetela!»
Guardai il calendario con occhi sbarrati, respirando appena. Il primo
foglio indicava la data di quel giorno.
«Ma non è possibile! Si tratta di un caso, di un errore!»
«No!», urlò Trevor, con voce esultante. «È stato strappato oggi, capisci!
Lei è viva... ed io la troverò!»
Con aria autoritaria, si voltò verso il Nostromo.
«Che data portava questo calendario quando siete venuto qui l'altra
volta... Avanti, parlate, perdio!»
Mastro William lo guardò con stupore.
«È la prima volta in vita mia che vedo questo calendario», affermò
lugubremente. «Dev'essere una nave maledetta.»
«Non dite fesserie! Sono stanco delle vostre fisime! Qui a bordo devono
esserci dei superstiti, è chiaro. Su, forza! Un po' di coraggio! Andiamo a
cercarli.»
E andammo. Cercammo: cercammo per ore e ore. Niente di niente.
Nessun segno di vita, da nessuna parte. Eppure, in ogni dove regnava la più
perfetta pulizia, un contrasto stridente con il disordine selvaggio dei relitti
veri e propri.
Visitando le varie cabine, avvertivo come un'impressione inspiegabile
come un ansito caldo e freddo allo stesso tempo. Finite le nostre ricerche
senza aver trovato niente, ci guardammo in faccia con espressioni di
sgomento e di terrore. Mastro William storse la bocca, con disprezzo.
«È come vi avevo detto io, signore... qui non c'è nessuno.»
Trevor non rispose, immerso in un cupo silenzio.
«Tra poco sarà notte, signore, ed è meglio per noi abbandonare il relitto
prima che calino le tenebre...»
Portammo fuori quasi di peso il povero Trevor - che si fece condurre via
senza emettere una sola parola - calandoci lestamente nella scialuppa
mentre il sole tramontava all'orizzonte. Ben presto fummo di nuovo sulla
nostra nave all'ancora.
Durante la notte, Trevor propose di sbarcare sull'isoletta di Middle Islet,
per cercare le tracce della ciurma del Felice Ritorno, che forse si era
rifugiata sulla terraferma. In caso di esito negativo delle ricerche, allora
avremmo perlustrato anche l'Isola Nightingale e le rocce di Stoltenkoff,
prima di far rotta verso casa, sconfitti.
Appena spuntò l'alba, ci apprestammo con impazienza allo sbarco. Prima
di sbarcare sull'isoletta, ordinammo a Mastro William di mantenere la
scialuppa nella baia.
Trevor credeva follemente che la ciurma del relitto, il giorno prima,
avesse abbandonato la nave per sbarcare sull'isola, in cerca di erbe,
muschio, o di qualche raro capo di cacciagione... Ricordandomi il mistero
del calendario, mi persuasi anch'io che forse qualche cosa di vero c'era,
dopotutto.
Di nuovo ci addentrammo con la scialuppa in quello stretto budello
avvolto da una luce quasi irreale, tentando di incoraggiarci a vicenda, ed in
parte riuscendoci, merito questo dei forti liquori che tacitamente giravano
sottobanco.
Questa volta fu Trevor a salire per primo sul relitto, e si mise a correre
verso le cabine. Mastro William ed io lo seguimmo senza alcun entusiasmo,
arrestandoci alla vista di Trevor che si era fermato davanti alla cabina di sua
moglie.
Con un sorriso demente, Trevor alzò il pugno, bussando cortesemente alla
porta della cabina, aspettandosi una risposta. Io lo guardai con terrore,
pregando che nessuno rispondesse, come in effetti avvenne, mentre Trevor,
incurante, continuava a bussare, a bussare...
Lo scostai di lì ed aprii io la porta della cabina. Ovviamente non c'era
nessuno ma, con un urlo di trionfo, il mio amico si precipito sul calendario,
sventolandomelo sulla faccia.
Sconcertati, lo guardammo, non credendo ai nostri occhi.
Il giorno prima, portava la data del 27; adesso, ben visibile, portava la
data del 28: era stato strappato ancora una volta!
«Hai visto Hearnshaw? Dev'esserci per forza qualcuno a bordo!»
Scossi la testa, guardandolo con un misto di paura e sospetto.
«Trevor, amico mio... sei sicuro di non averlo strappato tu,
inconsciamente, il calendario... quando lo posasti ieri?»
«Che dici, sei matto? Certo che ne sono sicuro!»
«Ma allora... a che gioco stanno giocando?» sbottai.
«Iddio solo lo sa!», fece Mastro William, segnandosi rapidamente. Mi
voltai verso il vecchio Nostromo, guardandolo sorpreso.
«Anche voi credete che qui sia venuto qualcuno, allora?» gli chiesi.
«Questa è opera dei fantasmi, signore!»
«Tenete la bocca chiusa, William! E guai a voi se mi spaventate la
ciurma, capito?» gridò Trevor.
Gratificandoci di un'occhiata sprezzante, e senza rispondere, Mastro
William ci voltò le spalle, dirigendosi alla scala.
«Un momento! Dove state andando?» gli urlai dietro.
«Sulla scialuppa, signore. Non ho alcuna intenzione di stare qui ad
aspettare gli spettri, sapete!»
Trevor lo lasciò andare senza tentare di fermarlo, assorto in una specie di
ragionamento deduttivo. Poi:
«È tutto chiaro. Se non vivono a bordo, una ragione ci deve pur essere.
Forse stanno in qualche caverna, chissà...», disse.
«E allora come spieghi il fatto del calendario?»
«Penso che escano solo di notte. Ci dev'essere qualcosa, durante il giorno,
che li tiene lontani. Magari una belva feroce. Sicuramente, si nascondono da
qualche pericolo.»
Scossi la testa, spazientito.
«Che io sia impiccato se ci capisco qualche cosa!»
Sapevo bene che, su quello scoglio brullo, non esistevano belve feroci. E
non c'era posto più sicuro di quella torpida baia e di quella nave arenata,
ancora solida e pulita. Eppure... quel maledetto calendario... era un vero
mistero.
Dopo un altro inutile giro di perlustrazione, rientrammo nella nostra
scialuppa, costeggiando l'isoletta, finché trovammo un approdo abbastanza
sicuro fra le rocce.
Mastro William prese con sé due uomini ed io gli altri due, quindi ci
avviammo ad esplorare ognuno una metà diversa dell'isoletta, mentre
Trevor si arrampicava sulla sommità del picco. Dopo un'ora, ritornammo
tutti vicino alla scialuppa; nessuno aveva trovato la benché minima traccia,
e neppure le fantomatiche caverne di cui avevamo caldeggiato l'esistenza.
Trevor era ancora lassù, sul picco roccioso. Arrancai bestemmiando sulla
strada, per andare ad avvisarlo.
«Trevor! Andiamo! Scendi di lì: si torna alla nave!»
Lui si voltò facendo cenno di avvicinarmi in silenzio.
«Chinati qui! Vedi anche tu quello che vedo io?»
Mi chinai proprio sull'orlo del precipizio, guardando incuriosito nel cupo
budello di roccia che finiva a piombo nella piccola baia delle acque morte.
«E che diavolo c'è da guardare? Io non vedo niente!»
«Non lì, sciocco: più a destra! Proprio sotto al relitto!...»
Guardai nella direzione indicata, aguzzando la vista.
«Ma sì... li vedo... dev'essere un branco di pesci.»
«Come, pesci? Dei pesci dalla forma ovale?»
Guardai ancora meglio, sforzandomi al massimo.
«Effettivamente, sono pesci un po' strani... Pesci Luna, forse, o Pesci
Palla... o magari qualche specie sconosciuta...»
Trevor continuava a guardare, orribilmente affascinato.
«Quei pesci hanno dei visi strani... come dei volti umani, di annegati...
con le gote gonfie e gli occhi biancastri...»
«Ma piantala con queste scempiaggini! Forse sono proprio quei pesci, la
causa di tutto. Forse sono dei piccoli squali, chissà! È per questo i naufraghi
devono aver abbandonato le vicinanze della nave, tornando solo ogni volta
possibile!»
Sapevo di mentire spudoratamente, ma il mio amico, ridotto allo stremo,
volle crederci, approvando entusiasticamente.
«Sì, è vero, dev'essere così... Qualche pericolo li tiene lontani, e loro
tornano solo di notte.... e lei mette a posto il calendario, pensando a me: a
me, capisci?»
Guardai ancora nel precipizio, ma gli strani pesci non c'erano più e
cominciai a dubitare di averli visti.
«Andiamo Earnshaw, torniamo a bordo. Voglio prendere delle armi per
massacrare tutti quei pesci mostruosi!»
Un'ora più tardi, salimmo di nuovo sul relitto, armati di fucili di
precisione, fiocine d'osso, e tridenti acuminati. Io e Trevor impugnavamo
due grossi revolver, per sicurezza. Per tutto il giorno i marinai montarono la
guardia al relitto, girando in ronde armate fino ai denti per tutta la nave,
esplorando ogni minimo pertugio con aria cupa.
Finalmente, mentre il sole stava calando, scoppiarono dei clamori, e
Mastro William venne a comunicarci, con aria contrariata, che la ciurma si
rifiutava di restare sul relitto di notte, minacciando l'ammutinamento in caso
di ordini contrari.
«Dovete capirli; sono uomini coraggiosi, che non hanno mai
indietreggiato davanti ai pirati o ai selvaggi... ma combattere contro i
fantasmi... beh, è tutt'altra cosa.»
Trevor, con disprezzo, lasciò liberi gli uomini di tornare sulla nave,
affermando che lui invece avrebbe passato la notte sul Felice Ritorno, ad
ogni costo.
Naturalmente io, in nome della nostra vecchia amicizia, non me la sentii
di abbandonarlo, per cui decisi di restare con lui. Presi un paio di coperte,
un po' di gallette e di carne fredda, e scesi con lui nel salone.
Dopo aver detto a Mastro William di ritornare a prenderci il mattino
dopo, al primo spuntar dell'alba, rimasi sul ponte a guardare la scialuppa che
si allontanava, cominciando già a pentirmi amaramente della mia decisione.
Il tempo cominciò a passare, lento, mentre entrambi camminavamo in
lungo e in largo, parlando futilmente degli argomenti più disparati, tanto per
distrarci.
Un silenzio terrificante, innaturale, riempiva ogni angolo del relitto;
tendevo ansiosamente le orecchie, nella speranza di sentire almeno il
risuonare delle onde, ma anche il mare taceva. Trevor fece cadere
malaccortamente per terra la sua pistola, che esplose un colpo secco.
L'eco dello sparo si ingigantì tra le rocce che ci circondavano,
trasformandosi in un sordo, agghiacciante boato.
Con i nervi tesi allo spasimo, avvertii un lontano ansito bestiale, giù nel
profondo, in risposta a quello sparo.
Una nebbia fittissima circondò pian piano il relitto.
Cercando di tirarci su il morale, consumammo il nostro frugale pasto
freddo, annaffiandolo con un bel po' di Cognac che mi ero portato nella
fiaschetta metallica da tasca.
Trevor cominciò a guardarsi attorno con una strana luce negli occhi,
cominciando finalmente a realizzare la situazione poco invidiabile in cui ci
eravamo cacciati.
Consultai a fatica il mio orologio: era mezzanotte.
Tirammo a sorte per stabilire i turni di guardia, ed a me toccò il secondo.
Mi avvolsi nelle coperte, tremando, osservando Trevor che si installava su
una sedia, impugnando saldamente il suo revolver. Poi crollai di botto,
addormentandomi. Mi ritrovai subito immerso in un sogno, un sogno
talmente nitido, lucido e preciso, da rasentare la realtà.
Nel sogno vidi Trevor che balzava in piedi, attirato da una voce
dolcissima che lo invocava con parole d'amore.
Dalla porta del salone, vidi avanzare un volto angelico, due occhi di
fiamma, ed un corpo celestiale, avvolto da una vaporosa vestaglia
trasparente, che sembrava tessuta nelle onde. Un Angelo del Signore!
mormorai sgomento, nel sogno, accorgendomi di quanto fosse sbagliata la
mia impressione, e riconoscendo con terrore il volto lussurioso e maligno
della moglie di Trevor che, ahimè, avevo purtroppo ben conosciuta, prima
del suo matrimonio col mio povero amico.
Trevor gettò la rivoltella per terra, obbedendo ad un preciso richiamo, e si
alzò, buttandosi fremente tra le braccia della donna, che si chiusero sul suo
corpo.
I due s'incamminarono insieme, lentamente, svanendo nella nebbia, ed il
mio sogno continuò così senza di loro.
Dopo un intervallo di tempo indefinibile, fui svegliato in maniera brusca
da un urlo terrificante, come quello di un maiale sgozzato; uno di quegli urli
che non si dimenticano! Ghiacciato dalla paura, trassi il capo fuori dalle
coperte, puntando verso il buio la canna della mia rivoltella. Niente! Il solito
glaciale silenzio di sempre.
Mi voltai verso l'angolo in cui avevo lasciato Trevor di guardia, e mi
accorsi con sgomento che non c'era più. Balzai allora in piedi, col cuore che
mi batteva forte, avanzando. Il suo revolver giaceva lontano per terra in un
angolo del salone. Allora... forse... non era stato un sogno. Un sogno?
Alla fioca luce lunare che pioveva dal lucernario scheggiato, chiamai più
volte, con voce disperata, il mio amico.
Nessuna risposta... solo un'eco spaventosa, che risuonò a lungo nei
corridoi delle cabine, dove forse...
Corsi lungo la scala, e sbucai sul ponte, continuando ad urlare. Nelle
tenebre, l'eco assumeva un aspetto orrendo. Mi chinai sul parapetto per
guardare se per caso Trevor non fosse caduto in mare, in preda alla sua
follia.
Un'ondata di freddo, nero orrore, mi attanagliò il cuore. A pelo d'acqua
affioravano una ventina di volti... volti pallidi, esangui, spaventosamente
tristi. Quei volti fremevano, ondeggiando sul mare, bisbigliando una strana
nenia dolorosa che mi penetrò nel cervello come un tarlo.
Non so come riuscii a sottrarmi all'orrido fascino di quelle povere
creature, a metà strada fra dei cadaveri d'annegati e delle translucide mante
giganti, e mi gettai indietro, sul ponte, urlando con tutte le mie forze.
Corsi lungo il ponte fino a farmi male, non osando rientrare nel cupo
abisso dei saloni di sotto, e non osando gettare un altro sguardo a quelle
strane, orride creature. Mi misi a sparare contro le ombre che turbinavano
nella nebbia, piangendo disperatamente, e mormorando tutte le preghiere
che mi avevano insegnato da piccolo e che da allora non avevo recitato più.
Poi i proiettili finirono, e scagliai il revolver nel vuoto, in preda
all'impotenza ed alla disperazione.
Un chiarore all'orizzonte mi fece urlare dalla felicità. Il giorno stava
spuntando! I primi timidi raggi del sole scesero a bucare la nebbia, che ben
presto si diradò, mentre io, con i nervi tesi allo spasimo, mi guardavo
intorno freneticamente, tenendomi pronto al peggio.
In lontananza, risuonò l'inconfondibile rumore dei remi. La scialuppa! La
scialuppa! Ero salvo! Mastro William si accostò a prua, urtando la fiancata
destra.
«Siamo qui, signori! Da questa parte!»
Urlando, mi tuffai letteralmente nella scialuppa, urtando contro qualcosa
di ferroso e rompendomi una gamba.
«Cosa diavolo...» cominciò a dire il Nostromo, guardandomi stupito.
«Andiamo via! Andiamo via di qui! Svelti, svelti!»
«Ma come... e il signor Trevor! Dove si è cacciato?»
«Trevor è morto! Morto! Allontaniamoci, presto! Presto!»
I marinai remarono forte, contagiati dal mio terrore. Io mi tastai la gamba
sanguinante, straziata come da un artiglio... Nel momento in cui la scialuppa
passò sotto la poppa del relitto, alzai lo sguardo automaticamente, come nel
sogno.
Affacciata alla balaustra, una donna incantevole mi fissava con i suoi
occhi di ghiaccio, lanciandomi un muto richiamo. I suoi seni erano duri e
spinosi, e la sua bocca colava sangue; tese le braccia verso di me, ed io urlai
con tutte le mie forze, perché le sue braccia erano due artigli mostruosi.
Prima di svenire, riuscii ancora a sentire la voce possente di Mastro
William, che, bestemmiando, urlava ai suoi uomini che piangevano
terrorizzati: «VOGA! VOGA! VOGA! VOGA....»
Il mare
«Zitto!» disse il mio amico scienziato, mentre entravo nel suo laboratorio.
Avevo appena aperto la bocca per parlare ma, dopo la sua richiesta, rimasi
in silenzio.
Stava seduto davanti al suo strumento, e questo emetteva un messaggio in
maniera curiosa ed irregolare, fermandosi pochi secondi per poi continuare
con un ritmo furioso.
Accadde durante una pausa un po' più lunga del solito che, sentendomi un
po' impaziente, mi arrischiai a rivolgermi a lui.
«Qualcosa d'importante?» gli chiesi.
«Per amor del cielo, sta' zitto!» mi rispose a voce alta e tesa.
Lo guardai. Sono abituato ad essere trattato da lui in maniera alquanto
brusca quando è completamente assorbito in qualche esperimento
particolare; ma ora cominciava ad essere un po' troppo, e così glielo dissi.
Stava scrivendo e, invece di rispondere, spinse verso di me parecchi fogli
pieni di una scrittura rada, pronunciando una sola, secca parola: «Leggi!»
Con un misto di rabbia e di curiosità, presi il primo foglio e lo scorsi con
gli occhi. Dopo poche righe, la mia attenzione venne attirata e rimase
avvinta da un morboso interesse. Stavo leggendo un messaggio scritto da
qualcuno che si trovava in tremendo pericolo. Lo riferirò parola per parola:
John, stiamo affondando. Mi chiedo se veramente sei in grado di comprendere
quello che sento in questo momento, tu che sei seduto confortevolmente nel tuo
laboratorio mentre io, che sto in acqua, sono già virtualmente morto. Stiamo
affondando! A poco a poco, e crudelmente. Mio Dio! Devo farmi forza e
comportarmi da uomo! Non ho bisogno di dirvi che sono nella stanza dell'operatore
radio. Tutti gli altri sono sul ponte o son morti a causa di quell'elemento che sta
sfasciando e facendo a pezzi la nostra nave.
Non so dove siamo e non c'è nessuno a cui chiederlo. L'ultimo degli ufficiali è
annegato quasi un'ora fa, e il vascello è adesso solo poco più di una piccola diga per
il mare impazzito.
Un’ora fa sono salito l’ultima volta sul ponte. Mio Dio! La vista era terminata ed
era passato mezzogiorno, ma il cielo era del colore del fango. Capisci? Fango grigio.
Enormi falde di nuvole pendono dal cielo. Non nuvole come quelle che ho sempre
visto prima, ma una mostruosa cappa ammuffita. Sembrano solide, eccetto là dove il
vento fortissimo rompe l'orlo più basso, rendendole simili a tanti tentacoli che
turbinano selvaggiamente sopra di noi, quasi fossero le antenne di qualche enorme
orrore.
Uno spettacolo come questo è difficile a descriversi ai vivi; sebbene i morti del
mare lo conoscano anche senza bisogno delle mie parole. È uno spettacolo tale che
non è permesso a nessuno di vederlo e continuare a vivere. Solo ai condannati ed ai
morti, è dato di vedere una tale scena; una delle orge infernali del mare, una delle
mostruose gioie maligne contro i viventi, o meglio, contro i vivi nella morte, contro
coloro che stanno per morire! Io non ho il diritto di raccontartelo. Parlarne a dei
viventi significa iniziare gli innocenti ad uno dei misteri infernali; è come il parlare
di cose sporche a dei bambini. Eppure non mi importa. Esporrò in tutta la sua odiosa
chiarezza come il mare uccida. I viventi non condannati sapranno alcune delle cose
che la morte ha finora tenute ben nascoste. La morte non conosce l'esistenza di
questo piccolo strumento sotto le mie mani che mi unisce ancora ai vivi, altrimenti si
sarebbe affrettata a farmi tacere.
Ascoltami, John! Ho imparato cose mai immaginate durante il tempo di questa
breve attesa. Adesso so perché noi siamo spaventati dal buio. Non avrei mai
immaginato tali segreti del mare e della morte stessa (che sono un'unica cosa).
Ascolta! Ah, dimenticavo che tu non puoi sentire! Ma io si! È il mare! Zitto! Il
mare sta ridendo come se l'Inferno ridesse attraverso la bocca di un asino. Sta
prendendosi gioco di noi. Posso sentire la sua voce echeggiare come un tuono
satanico in mezzo al fango sopra noi. Mi sta chiamando. Mi chiama ed io devo
andare. Il mare chiama!
Oh Dio, esisti davvero? Puoi fermarti lassù e guardare tranquillamente ciò che ho
visto proprio ora? No! Tu non sei Dio! Tu sei debole, e più piccolo di questa fetida
cosa che hai creato durante la tua gagliarda giovinezza. Dio! È ciò che mi circonda
adesso. Ed io sono uno dei suoi figli.
Sei là, John? Perché non rispondi? Ascolta! lo nego Dio perché c'è qualcosa più
forte di lui. Il mio Dio è qui, vicino a me, attorno a me, e sarà anche sopra di me. Tu
sai ciò che significa: è senza pietà. Il mare ora è l'unico Dio che esiste! Questa è una
delle cose che ho imparato.
Ascolta! Sta ancora ridendo. È Dio, non il mare!
Mi ha chiamato ed io sono salito sul ponte. È tutto terribile! L'acqua arriva alla
cintura ed è dappertutto. Ha inondato la nave. Solamente il castello di prua, il ponte
e la poppa emergono dalla bestiale e puzzolente Cosa, come tre isole nel mezzo
della spuma urlante. A volte cavalloni giganteschi assalgono la nave da ambedue i
fianchi. Formano dei momentanei archi sopra il vascello, archi curvi di acqua scura,
alti cinquanta piedi, e protesi verso il cielo odioso. Poi discendono con un ruggito.
Pensa a questo! Ma tu non puoi farlo.
C'è come un senso di peccato simile ad un'infezione nell'aria: è ciò che esala dalla
Cosa. Coloro che rimangono sui rottami di legno spezzato o di ferro, fanno cose
orribili. E la Cosa ad insegnare tutto questo. Più tardi ho sentito il suo fetido fiato
che mi dava dei consigli, ma sono fuggito e sono venuto qui per implorare la morte.
Sul castello di prua ho visto una madre ed il suo bambino che si aggrappavano ad
una ringhiera. Un enorme maroso si è sollevato sopra di loro per poi discendere
come una montagna di acqua salata. Quando è passato, erano ancora là. La Cosa si
stava divertendo con loro eppure, al tempo stesso, aveva divelto le mani del
bambino dalla ringhiera, ed ora il piccolo si aggrappava spasmodicamente al braccio
della madre. Ho visto poi un altro maroso scagliarsi verso prua e librarsi sopra di
loro. Quindi la madre si è abbassata ed ha morso le mani del suo bambino come una
belva. Temeva che quel piccolo peso fosse più di quanto potesse sostenere. Anche
dal mio posto ho udito gli urli del bambino. E mi ha raggiunto una risata malvagia
che mi ha confermato ancora una volta come Dio non sia altro che quella Cosa. Poi
l'enorme maroso si è abbattuto sopra quei due. Mi è sembrato che la Cosa emettesse
come un muggito mentre saltava. Ruggiva su di loro ribollendo e ringhiando; poi si
è sollevata e, quando è svanita, là era rimasta solo una persona: la madre. Mi
sembrava di vedere del sangue oltre all'acqua sulla sua faccia, ma la distanza era
troppo grande per poterne essere sicuro. Ho guardato da un'altra parte. Vicino a me
ho assistito ad un'altra scena simile: una ragazza giovane e bella (la sua anima era
infangata dal fiato della Cosa) lottava col suo fidanzato per rifugiarsi vicino alla sala
delle mappe. Lui la allontanava ma lei gli si riavvicinava. Ho visto la sua mano
toccarsi la testa dove una specie di cappello stava ancora in bilico. La ragazza allora
ha colpito l'uomo che ha cominciato ad urlare ed è caduto lontano, sottovento.
Allora lei ha riso mostrando tutti i denti.
Questo è stato tutto. Mi sono voltato da un'altra parte.
Laggiù, sopra la Cosa, ho visto degli sprazzi di luce, orribili, ma suggestivi sotto
la cresta delle onde. Non li avevo mai visti prima. Ho visto un marinaio un vero lupo
di mare, strappato via dalla nave. Uno degli immensi marosi io ha ghermito e quelle
cose erano denti. La Cosa aveva dei denti: li ho uditi cozzare, ed ho udito l'urlo
dell'uomo che non aveva un suono più forte del ronzio di una zanzara in mezzo a
tutte quelle risate: ma è stata una cosa terribile.
È stato peggio della morte.
La nave stava rollando in maniera strana con una specie di ondeggiamento che
dava la nausea.
Penso di essermi addormentato. No, adesso mi ricordo. Ho battuto la testa quando
la nave rollava così stranamente. Una gamba si è ripiegata sotto di me e penso che si
sia rotta, ma non importa.
Ho pregato. Dio. Dio... Che cosa c'è? Mi sento più calmo adesso, più rassegnato.
Penso di essere impazzito. Che cosa stavo dicendo? Non riesco a ricordarlo. Era
qualcosa... qualcosa che aveva a che fare con Dio. Io... io credo di essere stato
blasfemo. Cerca di perdonarmi. Tu sai, mio Dio, che non ero in me. Tu lo sai che
sono molto debole. Ma, quando il momento arriverà, siimi vicino! Io ho peccato: ma
tu sei misericordioso.
Sei là, John? Sono vicino alla fine adesso. Avrei tanto da dire, ma tutto mi si
allontana. Che cos'era quello che ho detto? Mi rimangio tutto. Ero pazzo... e Dio lo
sa. Egli è misericordioso, e adesso sento poco dolore. Ho solo voglia di dormire.
Mi chiedo se tu sei là, John. Forse, dopotutto, nessuno ha udito le cose che ho
detto. I vivi non le dovrebbero sapere. Se tu sei là, John, tu dovrai dirle come è
andata, ma forse e meglio di no... Ascolta! C'è un suono tuonante di acqua sopra di
noi. Penso che due montagne d'acqua si siano scontrate in cima al ponte e che
abbiano allagato il battello. Adesso accadrà presto... e c'erano ancora tante cose che
dovevo dirti! Posso udire come delle voci nel vento. Cantano. È come un lungo
canto funebre.
Penso di aver dormito di nuovo. Prego umilmente Dio che tutto succeda presto!
Tu non le dirai niente, niente di ciò che posso aver detto, non è vero, John? Voglio
dire, le cose che non avrei dovuto dire. Che cosa ho detto? La confusione si accresce
dentro la mia testa. Mi chiedo se veramente tu mi senta. Potrei star parlando
solamente a quel fortissimo rombo che sento fuori. Eppure mi è di conforto
continuare, e non voglio pensare che tu non possa sentire quello che dico. Ascolta
ancora! Una montagna di acqua salata ha ripulito il battello. La nave si è inclinata su
un fianco... Ora si è rialzata. La fine è molto vicina...
Sei là, John? Sei ancora là? Sta venendo il mare, sta venendo a prendermi. Sta
precipitandosi giù per la scaletta del boccaporto! E... è come un enorme zampillo!
Mio Dio! Sto affogando! lo... sto...aff...!
La bestia orribile
In cima alle colline, alla periferia di una città della costa orientale, c'è una
grande cisterna di ferro da cui si rifornisce un gruppo isolato di villette. La
cima della cisterna è stata cementata e, tutto intorno, sono state messe delle
ringhiere, il che l'ha fatta diventare una splendida «vista» per quei cittadini
che avessero scelto di fare una passeggiata fin lassù. Era così diventata assai
popolare, fino a che non accaddero gli eventi strani e terribili che mi
accingo a narrare.
Una sera tardi, tre signore e due uomini avevano salito il sentiero che
portava alla cisterna. Avevano cenato ed avevano pensato che una
passeggiata fino alla cisterna sarebbe stata piacevole nel fresco della sera.
Avendo raggiunto il luogo, ossia la superficie cementata, stavano per
attraversarla, quando una delle signore inciampò e quasi cadde sopra un
oggetto che giaceva vicino alla ringhiera dalla parte della città.
Uno dei signori accese un fiammifero, e scoprì che c'era il corpo di un
vecchio signore corpulento, che giaceva apparentemente senza vita in
atteggiamento contorto. Pieni di orrore, i due uomini portarono via le
signore verso quelle case vicine già prima menzionate. Poi, in compagnia di
un poliziotto che passava di lì, ritornarono in fretta alla cisterna.
Con l'aiuto della lanterna del poliziotto, constatarono il macabro fatto, e
cioè che l'uomo era stato strangolato. In più era senza orologio e senza
portafoglio. Il poliziotto però lo identificò come il vecchio proprietario di un
mulino in pensione, che viveva poco lontano in un posto chiamato Revenge
End.
A questo punto, alla piccola compagnia si aggiunse uno straniero, che si
presentò come il Dottor Tointon, il quale informò gli altri che viveva in una
delle ville vicine, e che era venuto in fretta appena aveva saputo che era
successo qualcosa.
Silenziosamente, i due uomini ed il poliziotto fecero un semicerchio,
mentre il dottore con mani leste ed abili esaminava brevemente il morto.
«È morto solo mezz'ora fa», disse, quando ebbe finito. Poi si voltò verso i
due uomini.
«Ditemi com'è accaduto. Tutto ciò che sapete.»
E quelli raccontarono quel poco che sapevano.
«Che cosa straordinaria!» disse il dottore. «E voi non avete visto
nessuno?»
«Non un'anima, dottore!»
Il medico si voltò verso il poliziotto.
«Dobbiamo portarlo a casa», disse. «Avete chiamato una ambulanza?»
«Sì, signore», disse il poliziotto. «Ho avvertito il collega che sorveglia la
zona più bassa e lui ha provveduto subito.»
Il dottore chiacchierò con i due uomini e ricordò loro che avrebbero
dovuto apparire all'inchiesta.
«È un delitto?» chiese il più giovane a voce bassa.
«Be'», disse il dottore, «certamente ne ha tutta l'apparenza.»
In quel momento arrivò l'ambulanza.
A questo punto io venni direttamente a contatto con la storia perché il
vecchio signor Marchmount, il proprietario del mulino in pensione, era il
padre della mia fidanzata, ed io ero a casa sua quando l'ambulanza arrivò
col suo triste carico.
Il Dottor Tointon l'aveva accompagnata con il poliziotto, e dette l'ordine
di portare su il corpo, mentre io davo la triste notizia alla mia fidanzata.
Prima di andar via, il dottore mi fece un breve resoconto della storia così
come lui ne era venuto a conoscenza. Gli chiesi se lui aveva qualche teoria
sul come e perché fosse stato commesso quell'omicidio. Egli disse soltanto
che mancavano l'orologio con la catena e così pure il portafoglio. E poi,
senza dubbio, l'uomo era stato strangolato, ma con che cosa non era riuscito
a capirlo.
Questo fu tutto quello che il dottore poté dirmi.
Il giorno dopo, c'era un lungo articolo sul Northern Daily Telephone su
quello «scioccante delitto». L'articolo finiva, lo ricordo, col dire che la gente
avrebbe visto tipi assai pericolosi, e aggiunse che si credeva che la polizia
avesse già trovato una traccia.
Durante il pomeriggio, andai su alla cisterna. C'era una grande folla di
gente che si era fermata nella strada che passa lì vicino, a curiosare, e se ne
stava ad una certa distanza perché la cisterna era sorvegliata da un poliziotto
messo di guardia in cima alle scale il quale, quando seppe della mia
parentela con il morto, mi permise di dare un'occhiata in giro.
Lo ringraziai, ed esaminai tutta la cisterna con molta attenzione; cercai
pure col bastone, infilandolo nei fori della serratura, per vedere se la
cisterna fosse piena o no, e se ci fosse abbastanza spazio per nascondere
qualcuno.
Ritirato il bastone, vidi che l'acqua quasi raggiungeva il coperchio:
mancavano solo pochi centimetri, e il coperchio era chiuso saldamente.
Lasciai subito perdere una vaga teoria alla quale avevo pensato, e cioè che
ci fosse la possibilità di nascondersi nella cisterna e saltare poi fuori per
attaccare chi non se lo aspettava. Era stato evidentemente un delitto brutale
fatto per appropriarsi del portafoglio e dell'orologio d'oro di mio suocero.
Notai un'altra cosa prima di lasciare la cima. Me ne accorsi mentre
guardavo oltre la ringhiera verso il pezzo di terreno non coltivato che la
circondava. In quel momento non ci feci caso e non gli detti importanza
alcuna. Il fatto era che il pezzo di terreno circostante era molle, fangoso e
completamente liscio. Era possibile che ci fosse una dispersione di acqua
dalla cisterna che produceva quel bagnato. Almeno così sembrava.
«Non c'è molto da vedere, signore», disse il poliziotto, mentre mi
preparavo a scendere gli scalini che mi separavano dalla strada.
«No», risposi. «Non sembra che ci sia niente di importante.»
E così andai via e mi recai a far visita al dottore. Fortunatamente era in
casa, ed allora gli parlai subito del risultato delle mie investigazioni. Poi gli
chiesi se pensava davvero che la polizia avesse un'idea dei criminali.
Scosse la testa.
«No», rispose. «Sono stato su questa mattina per dare un'occhiata, e da
allora mi sono messo a pensare. Ci sono due o tre punti che mi sconcertano;
punti che la polizia credo non abbia neppure notato.»
Per quanto tentassi di farlo parlare, non mi disse nulla di definito.
«Aspettate!» fu tutto quello che riuscì a dirmi.
Ed invece non ebbi molto da aspettare prima che qualche altra cosa
accadesse, un fatto che aggiunse una nota di mistero e di terrore alla
faccenda.
Nei due giorni seguenti la mia visita al dottore, mi occupai di preparare il
funerale del padre della mia fidanzata e, proprio la mattina delle esequie, si
sparse la notizia della morte del poliziotto che era a guardia della cisterna.
Dal mio posto nella processione, vidi l'annuncio a larghe lettere sui grandi
manifesti locali che parlavano del fatto, mentre i giornalai gridavano in
continuazione:
Il terrore della cisterna.
Poliziotto strangolato.
Così, non appena il funerale finì, potei comprare il giornale per avere i
dettagli. Alla fine, quando lessi il resoconto, vidi che il dottore che lo aveva
esaminato altri non era che Tointon, per cui andai dritto a casa sua onde
avere tutti i particolari che poteva darmi.
«Avete letto il resoconto del giornale?» mi chiese, quando lo incontrai.
«Sì», risposi.
«Bene. Vedete», mi disse, «che avevo ragione nel dire che la polizia non
aveva trovato nulla. Sono stato lassù tutta la mattina, e mi è costato un po' di
fatica ottenere il permesso di fare qualche ricerca per conto mio. E, se l'ho
ottenuto, lo devo all’influenza dell'Ispettore Slago con il quale ho lavorato
qualche volta per delle investigazioni. Adesso hanno messo un sergente e
due poliziotti a far la guardia alla cisterna ed a tenere lontane le persone.»
«Allora avete fatto un po' di indagini?»
«Un po', in effetti», mi rispose.
«Ma adesso, siete giunto a qualche conclusione?»
«Non ancora!»
«Ditemi quello che è veramente accaduto», insistei. «I giornali non erano
ben chiari. Sono perplesso circa il momento in cui fu trovato ucciso il
poliziotto. Chi lo ha trovato?»
«Finora sono stato capace di sapere dall'Ispettore Slago solo questo che
sto per dirle. La polizia aveva incaricato uno dei loro uomini di far la
guardia fino alle due a.m., quando un altro uomo doveva dargli il cambio.
Un minuto o due prima delle due, il cambio arrivò nello stesso momento
dell'Ispettore Slago che andava a fare un'ispezione. Si incontrarono nella
strada sotto la cisterna, e stavano avanzando su per la stradina che porta al
passaggio, quando sentirono, proveniente dalla cima della cisterna, un grido
improvviso. Il grido terminò in una specie di gorgoglio, ed entrambi
sentirono qualcosa cadere con un forte tonfo.
All'istante i due uomini si precipitarono su per il passaggio che, come
sapete, è recintato da un'alta ringhiera di ferro appuntito. Mentre correvano,
potevano udire il rumore di passi affrettati sulla cima di cemento della
cisterna e, proprio mentre l'Ispettore raggiungeva l'inizio dei gradini, udì un
ultimo gemito. Proveniva dalla parte destra della ringhiera da una forma
raggomitolata, qualcosa ormai inerte e senza vita. Corsero verso quel punto
e videro il corpo del poliziotto che era stato di guardia. Un esame affrettato
dimostrò che era stato strangolato.
L'Ispettore fischiò, e sul posto apparve subito un altro poliziotto, che
venne mandato a chiamarmi. Nel frattempo, la polizia iniziò a cercare in
ogni posto ma senza ottenere alcun risultato. La cosa straordinaria era che
l'assassino doveva essere ancora sulla cisterna quando gli altri salivano le
scale.»
«Deve essere stato molto lesto a scappare», borbottai io.
Il dottore fu d'accordo con me.
«Aspettate un po'», mi disse, «non ho ancora finito. Quando arrivai, trovai
che era troppo tardi per fare qualcosa, perché il collo del pover'uomo era
stato letteralmente schiacciato. Chiunque l'avesse ucciso doveva avere una
forza enorme.»
«Avete trovato qualcosa?» domandai all'Ispettore.
«No», disse lui, e continuò a raccontarmi tutto quello che sapeva, finendo
col dirmi che, chiunque fosse l'assassino, era riuscito a scappare.
«Ma», gli dissi io, «avrebbe dovuto passarvi davanti o saltare sopra la
ringhiera. Non c'è altra strada.»
«Infatti questo è quello che ha fatto», rispose Slago con un po' di stizza.
«La ringhiera non è molto alta.»
«Su questa melma, Ispettore», gli dissi, «deve aver lasciato qualche
traccia con cui potremmo rintracciarlo.»
«Volete dire il fango intorno alla cisterna, dottore?» lo interruppi io.
«Sì», disse il Dottor Tointon. «Allora anche voi l'avete notato a quanto
sembra. Bene! Prendemmo la lampada del poliziotto e cercammo
attentamente tutto intorno alla cisterna, ma tutta la superficie del terreno
fangoso era liscia e non si vedeva alcuna orma.»
Il dottore non disse altro.
«E come ha fatto allora l'assassino a scappare?»
Il Dottor Tointon scosse la testa.
«C'è qualcosa, mio caro signore, di cui ancora non voglio parlare, sebbene
credo di avere una certa idea.»
«Che cosa?» quasi gridai dallo stupore.
«Sì», mi rispose, scuotendo la testa pensosamente. «Domani forse potrò
dirvi qualcosa.»
E si alzò in piedi.
«E perché non adesso?» gli chiesi, morendo dalla curiosità.
«No», disse. «Quello che penso non è una cosa ancora del tutto definita.»
Dicendo questo, tirò fuori l'orologio.
«Dovete scusarmi ora. C'è un paziente che mi aspetta.»
Non mi rimase altro che prendere il cappello, ed egli mi accompagnò alla
porta e l'aprì.
«Domani», disse, e mi rassicurò con un movimento della testa mentre ci
salutavamo con una stretta di mano. «Non lo dimenticherete. Vero?»
«Certamente no!» risposi, ed egli richiuse la porta alle mie spalle.
La mattina seguente ricevetti un suo biglietto che mi chiedeva di
rimandare la visita alla notte, poiché doveva assentarsi da casa per quasi
tutta la giornata. Indicò le 9,30 di sera come l'ora giusta in cui potevo andare
da lui. Mi avrebbe aspettato fino alle dieci. Non più tardi.
Naturalmente, essendo pieno di curiosità, mi irritai nel dover aspettare
tutto il giorno dato che volevo andare a trovarlo al più presto senza
disturbarlo troppo. Ma, dopo quel biglietto, non c'era nient'altro da fare che
aspettare.
Durante la mattinata tornai alla cisterna, ma il sergente di guardia mi
rifiutò l'accesso. Per la strada giù sotto, c'era una gran folla, e c'era gente
anche nel sentiero che portava all'inferriata. Tutte quelle persone, come me,
erano venute su con l'intenzione di vedere il posto preciso dove avevano
avuto luogo i delitti, ma i poliziotti non facevano passare nessuno.
Mi sentivo alquanto irritato dal rifiuto che avevo avuto dal poliziotto di
farmi andare vicino alla cisterna, per cui m'incamminai sul sentiero che ad
un certo punto voltava a destra. Qui trovai un'apertura nella parete e mi ci
infilai trascurando un cartello che minacciava i trasgressori. Attraversai un
pezzo di terra incolta e finalmente arrivai alla vasta cintura di fango che
circondava la cisterna. Allora, girando intorno a quella terra melmosa,
arrivai dalla parte della cisterna che fronteggiava la città. Sotto di me c'era
una grande muraglia che mi nascondeva agli occhi delle persone che erano
sulla strada. Fra me e la cisterna c'erano circa venti metri di terra liscia
coperta di fango. Cominciai ad esaminarla con attenzione.
Come aveva detto il dottore, non c'era alcun segno di orme di nessun
genere. La mia perplessità diventava sempre più grande. Credo di aver
pensato dentro di me che sia il dottore che la polizia avessero fatto un
errore, cioè che forse non avevano visto ciò che era ovvio, il che succede
abbastanza spesso. Mentre mi voltavo per andarmene, una piccola striscia di
acqua cominciò ad uscire da un tubo proprio sotto l'orlo della cima della
cisterna. Era chiaramente acqua che straripava. Non c'era dubbio che la
cisterna fosse piena fino all'orlo. Come aveva fatto l'assassino ad andar via
senza lasciare nessuna traccia?
Ritornai indietro attraverso l'apertura e rientrai ne1 sentiero. E proprio
allora, mentre saltavo sulla strada, mi venne un'idea che poteva essere la
soluzione del mistero. Mi affrettai ad andare a trovare Dufirst, il guardiano
della cisterna, che abitava in una casetta non lontano da lì. Arrivai e bussai.
L'uomo aprì la porta e mi salutò affabilmente.
«Che bestiaccia!» pensai. Poi, a voce alta, dissi: «Sentite Dufirst, vorrei
qualche particolare sulla cisterna. So che voi, meglio di tutti, potete dirmi
ciò che voglio sapere.»
L'espressione affabile sparì dal suo viso.
«Che cosa volete sapere?» mi chiese sgarbatamente.
«Vorrei sapere se c'è nessun luogo attorno alla cisterna dove si può
nascondere un uomo.»
L'uomo mi guardò male. «No», mi rispose in fretta.
«Siete sicuro?» gli chiesi.
«Sono sicurissimo», mi disse imbronciato.
«C'è un'altra cosa che vorrei sapere», continuai. «Con che materiale è
stata costruita la cisterna?»
«Col cemento», rispose.
«E i fianchi, quanto sono spessi?»
«Circa un mezzo pollice di ferro.»
«Ancora una cosa», dissi tirando fuori di tasca mezza corona (a quella
vista la sua faccia s'illuminò). «Quali sono le misure interne della cisterna?»
e gli detti la moneta.
Esitò un po', poi, mettendosi la moneta in tasca, disse: «Ritorno fra un
minuto. Ho la pianta della cisterna al piano superiore. Sedetevi ed
aspettate.»
«Bene», risposi e mi misi a sedere. Poi, mentre pensavo, vidi un vecchio
boccale di bronzo nella parte opposta della stanza. Era su una mensola in
alto, ma in un minuto attraversai la stanza e lo presi in mano, perché questi
oggetti mi piacciono moltissimo.
«Com'è bello!», bisbigliai, mentre lo tenevo per il manico. «Gli offrirò
cinque corone se me lo vende.» Adesso il boccale era tra le mie mani. «Che
sciocco!» pensai. «Lo usa per metterci dentro degli oggetti vari.»
Lo portai vicino alla finestra e là, nella piena luce, ci guardai dentro e
quasi lo lasciai cadere a terra perché, a pochi centimetri dai miei occhi,
riposavano il vecchio orologio d'oro e la catena che erano appartenuti al mio
suocero assassinato. Per un momento mi sentii svenire, poi capii.
«Che delinquente!» dissi. «Ecco chi è l'assassino!»
Posai il boccale sulla tavola e corsi alla porta. L'aprii e, guardando fuori,
vidi l'Ispettore Slago che camminava con un altro poliziotto. Avevano
appena oltrepassato la casa e stavano recandosi alla cisterna.
Non mi misi a gridare per non farmi sentire dall'uomo al piano superiore.
Corsi invece dietro l'Ispettore e l'afferrai per la manica.
«Venga qua, Ispettore», gli dissi ansimando. «Ho trovato l'assassino.»
Voltandosi verso di me e quasi gridando mi chiese:
«Che cosa?!»
«È qui», gli dissi. «È il guardiano della cisterna. Ha ancora l'orologio e la
catena: li ho trovati in un boccale.»
A queste parole l'ispettore si voltò e si mise a correre verso la casetta. Io e
il poliziotto lo seguimmo. Sempre correndo, entrammo in casa, ed io
mostrai il boccale all'Ispettore che lo prese e ci guardò dentro.
Poi si voltò verso di me:
«Potete identificare questi oggetti?» mi chiese con una nota di eccitazione
nella voce.
«Certamente che posso!» risposi. «Il signor Marchmount doveva
diventare mio suocero. Posso giurare che questo orologio era il suo.»
In quel momento si udì il suono di passi che scendevano le scale e, pochi
minuti dopo, entrò da una stanza interna il piccolo guardiano della cisterna
dalla barba nera. Aveva in mano un rotolo di carta: la mappa di cui aveva
parlato. Poi vide l'Ispettore che teneva in mano l'orologio dell'uomo
assassinato e la sua faccia divenne pallida. Emise un lieve gemito e con gli
occhi cercò il luogo dove il boccale era collocato normalmente. Poi guardò
noi tre, fece un passo indietro e un salto verso la porta dalla quale era
entrato. Ma noi fummo più svelti di lui e in un minuto fu ammanettato dai
poliziotti.
L'Ispettore lo avvertì che qualunque cosa avesse detto sarebbe stata usata
contro di lui, ma non ce n'era bisogno perché l'uomo non disse una parola.
«Come l'avete trovato?» mi chiese l'Ispettore prendendo l'orologio con la
catena. «Che cosa vi ha fatto sospettare?»
Spiegai quello che era successo e l'Ispettore disse che era una
combinazione veramente fortunata; poi, guardando il prigioniero, aggiunse
che non avrebbe mai pensato che potesse essere lui l'assassino. Quindi, se
ne andarono via.
Quella notte non mancai all'appuntamento col dottore. Mi aveva detto
infatti che avrebbe potuto dirmi qualcosa; ma, al contrario, pensavo che
potevo io dire qualcosa a lui. Anzi più di qualcosa. Avevo risolto il
problema in una semplice mattinata. Mi fregavo le mani dalla contentezza e
mi chiedevo che cosa avrebbe detto il dottore sentendo le mie notizie. Lo
attesi fino alle dieci e trenta, ma lui non tornò a casa, ed allora dovetti
andarmene senza vederlo.
La mattina dopo andai ancora a casa sua. Vi trovai la sua governante la
quale mi mostrò un telegramma che aveva appena ricevuto da un amico che
abitava sulla costa. Diceva che il dottore si era ammalato gravemente, che
aveva perso conoscenza, e che era stato costretto a letto.
Le resi il telegramma ed uscii da quella casa. Mi dispiaceva per il dottore,
ma ancor più perché non avevo potuto dargli personalmente le notizie del
mio successo come detective dilettante.
Dopo molte settimane, il dottor Tointon ritornò. Nel frattempo, il
guardiano della cisterna aveva subìto il processo ed era stato condannato per
l'assassinio del signor Marchmount. In Tribunale si era difeso dicendo che
aveva trovato il vecchio signore già morto e che gli aveva preso soltanto
l'orologio e il portafoglio da sotto il corpo in un momento di tentazione. Ma
la sua dichiarazione non lo aiutò affatto e, quando incontrai il dottore il
giorno del suo ritorno, mancavano solo tre giorni alla sua impiccagione.
Dopo pochi minuti di conversazione col dottore, gli chiesi se sapeva che
ero stato io a trovare l'uomo che aveva ucciso il vecchio signor Marchmount
ed il poliziotto. Il dottore invece di rispondermi si voltò e mi guardò fisso.
«Sì», gli dissi facendo dei segni di assenso con la testa. «È stato quel
piccolo bruto del guardiano della cisterna. E sarà impiccato fra tre giorni.»
«Che cosa?» esclamò il dottore con voce costernata. «Il piccolo Dufirst?»
«Sì, proprio lui!» risposi, alquanto confuso dal tono della sua voce.
«Impiccato!» riprese a dire il dottore. «Ma quell'uomo è innocente come
lo siete voi!»
Rimasi di stucco.
«Che volete dire?» gli chiesi. «L'orologio e la catena sono stati trovati in
suo possesso. Ed al processo lo hanno trovato colpevole.»
«Che mancanza di buon senso, che cecità!» disse il dottore.
Poi voltandosi verso di me continuò: Perché non me lo avete scritto?
«Eravate malato, e poi pensavo che lo avreste letto sui giornali.»
«Non ho visto un giornale da quando mi sono ammalato», rispose
bruscamente. «Avete fatto un bel pasticcio! Ditemi ciò che è successo.»
Gli raccontai l'accaduto e lui mi ascoltò con attenzione.
Quando finii di parlare mi chiese:« E fra tre giorni sarà impiccato?»
Gli risposi che era vero.
Si tolse il cappello e si asciugò la faccia e la fronte.
«Sarà una cosa difficilissima salvarlo», disse lentamente. «Solo tre giorni,
mio Dio!»
Ad un tratto mi guardò e improvvisamente mi fece una domanda sciocca.
«Ci sono stati ancora degli assassinii lassù mentre ero malato?» ed indicò
la cisterna con la mano.
«No», gli risposi. «Certamente no. Come potevano aver luogo quando
l'assassino era in prigione?»
Il dottore scosse la testa.
«Inoltre», continuai, «nessuno va più lassù adesso, almeno non di notte,
cioè quando venivano commessi i delitti.»
«Infatti, infatti…» fu la risposta, come se quello che avevo detto
coincidesse con quello che aveva in mente lui.
Voltatosi verso di me, continuò:
«Ascoltatemi bene! Stasera, verso le dieci, venite a casa mia: credo di
potervi provare che chi ha ucciso Marchmount e il poliziotto non è il
piccolo Dufirst.»
Lo guardai fisso.
«È così!» disse.
Si voltò e cominciò ad andar via.
«Verrò», gli gridai dietro.
All'ora fissata andai dal Dottor Tointon. Lui stesso mi aprì la porta
facendomi passare nello studio dove con mia sorpresa trovai l'Ispettore
Slago. Questi appariva alquanto turbato e, una volta, quando Tointon aveva
lasciato la stanza per un minuto, si piegò verso di me.
«Sembra che lui ritenga», disse con un bisbiglio rauco, facendo un cenno
verso la porta per la quale era uscito il dottore, «che noi abbiamo fatto un
errore, e che abbiamo preso l'uomo sbagliato.»
«Troverà che è lui che si sbaglia.»
L'Ispettore sembrava pieno di dubbi, e stava per dirmi qualche altra cosa,
quando ritornò il dottore.
«Adesso ci prepareremo», disse il Dottor Tointon. «Qua, prendete
questi!» e mi dette un paio di guanti di gomma da infilare.
«Voi, Ispettore, avete tacchi di gomma.»
«Sì, signore, li metto sempre la notte.»
Il dottore andò in un angolo e tornò con un fucile a doppia canna che
cominciò a caricare. Appena finito, si voltò verso l'Ispettore.
«Avete un poliziotto, fuori?»
«Sì, signore», rispose Slago.
«Allora andiamo!»
Ci alzammo, lo seguimmo nell'ingresso scuro, poi uscimmo attraverso la
porta nella strada silenziosa. Qui trovammo un poliziotto in borghese che ci
aspettava appoggiato ad un muro. L'Ispettore fischiò piano, e quello si fece
avanti e salutò. Il dottore si voltò e cominciò a salire verso la cisterna.
Sebbene la notte fosse abbastanza calda, io mi misi a tremare. C'era un
senso di pericolo nell'aria che dava ai nervi.
Personalmente, non sapevo quello che sarebbe successo. Raggiungemmo
la parte bassa del passaggio. Lì il dottore si fermò e cominciò a dare ordini.
«Avete una lanterna, Ispettore?»
«Sì, signore.»
«E il vostro uomo ne ha una?»
«Sì, signore.»
«Bene», disse e, rivolto al poliziotto in borghese: «Adesso vorrei che voi
deste la vostra lampada al mio amico per il momento», aggiunse.
Il poliziotto in borghese mi passò la lanterna ed aspettò altri ordini.
«Adesso», disse il Dottor Tointon voltandosi verso di me, «voglio che voi
e l'Ispettore prendiate posto nell'angolo a sinistra della cima della cisterna, e
teniate le lanterne pronte. Ricordate bene che non ci devono essere rumori,
o tutto sarà rovinato.» Poi batté su una spalla del poliziotto in borghese e
disse: «Voi, venite con me!»
Quando raggiungemmo la cisterna, io e l'Ispettore prendemmo posizione,
mentre il dottore col poliziotto andavano verso l'angolo a destra. Dopo un
po' il dottore lasciò il poliziotto che si appoggiò negligentemente alla
ringhiera che girava attorno alla cisterna, e venne a sedere in mezzo a noi
due.
«Avete messo il poliziotto proprio dove fu ucciso l'altro nostro collega»,
bisbigliò l'Ispettore.
«Sì», rispose il dottor Tointon. «Adesso ascoltatemi, e poi non ci dovrà
esser più alcun suono o rumore. È questione di vita o di morte!»
Le sue maniere erano molto solenni.
«Quando io dirò "Pronti", dirigete nel miglior modo possibile la luce delle
lanterne sul poliziotto. Avete capito?»
«Sì», rispondemmo allo stesso tempo, e poi nessuno parlò più.
Il dottore si stese a pancia in giù fra noi due, la bocca del fucile rivolta
sulla destra là dove era fermo il poliziotto. Così ci accingemmo ad aspettare.
Passò mezz'ora, un'ora, e un lontano suono di campane ci raggiunse dalla
valle, poi il silenzio ricominciò.
Ancora due volte il suono delle campane lontane ci disse che le ore
passavano, e la posizione d'immobilità che avevo adottato mi procurava dei
crampi dolorosi.
All'improvviso, dal punto opposto della cisterna, sentimmo una specie di
rumore molto lieve, quasi soffocato, come se qualcosa strisciasse per terra.
Sentii un brivido di freddo che mi fece tremare; cercai invano di intravedere
qualcosa nell'oscurità, finché gli occhi cominciarono a farmi male per il
grande sforzo. Non riuscivo a vedere assolutamente nulla. Potevo appena
distinguere la figura del poliziotto appoggiata alla ringhiera, che sembrava
non essersi mosso dalla sua posizione iniziale.
Quello strano suono strisciante e soffocante continuò. Poi si udì un
leggero tintinnio di ferro come se qualcuno avesse dato un calcio contro il
lucchetto che assicurava la botola di ferro del tombino. Certo non poteva
essere il poliziotto perché era lontano, e poi sembrava che stesse fermo al
suo posto. Vidi il Dottor Tointon alzare la testa e guardare con attenzione.
Poi si mise il calcio del fucile sulla spalla. Io preparai la lanterna: mi sentivo
fremere di paura e d'impazienza. Che cosa sarebbe accaduto? Venne ancora
un altro tintinnìo; poi, all'improvviso, ogni suono cessò.
Io ascoltavo quasi ansando. Vicino alla cisterna, il poliziotto, che fino ad
allora era stato fermo, fece un movimento come se qualcosa lo avesse
toccato. Nello stesso istante vidi che il calcio del fucile del dottore era stato
sollevato di parecchi centimetri. Dal canto mio afferrai la lanterna con forza
e respirai profondamente.
«Ora», urlò il dottore.
Diressi la luce della lanterna sulla cisterna e così pure fece l'Ispettore. Ho
una sensazione confusa di qualcosa di color marrone attorcigliata alla
ringhiera a un mezzo metro di distanza alla destra del poliziotto. Allora il
fucile del dottore sparò una, poi due volte, e la cosa sparì dalla vista
sull'orlo della cisterna. Nello stesso istante il poliziotto cadde a terra
scivolando lungo la ringhiera sulla cima della cisterna.
«Santo cielo!» urlò l'ispettore. «L'avete ucciso!»
Il dottore era già accanto all'uomo steso per terra e gli stava allentando in
fretta i vestiti.
«Sta bene», disse. «È solo svenuto. Lo sforzo è stato terribile. È stato
coraggioso a rimanere. Quella cosa gli è stata vicino per più di un minuto.»
Dall'oscurità sotto di noi venne il rumore di qualcosa che frusciava, che si
dibatteva. Mi avvicinai verso l'orlo della cisterna e diressi la luce della
lanterna in basso: lì vidi una cosa gialla che si contorceva come un'anguilla
o un serpente, solo che era piatta come un nastro. Si stava attorcigliando in
nodi e non aveva la testa che era stata completamente distrutta dallo sparo.
«Adesso starà bene», udii che diceva Tointon al poliziotto e dopo poco
era vicino a me. Mi indicò quella cosa orribile e disse: «Questo è
l'assassino!»
Qualche sera dopo, io e l'ispettore eravamo seduti nello studio del dottore.
«Anche adesso, dottore», gli dissi, «non vedo come avete fatto ad arrivare
alla soluzione.»
L’Ispettore annuì silenziosamente con la testa.
«Non è stato molto difficile», rispose il Dottor Tointon. «Se
sfortunatamente non mi fossi ammalato mentre ero lontano, avrei chiarito
questa faccenda un paio di mesi fa. Ho delle facoltà notevoli per osservare
le cose e, in ambedue i casi, mi sono trovato sul luogo del delitto. Ma
soltanto dopo la seconda morte mi feci l'opinione che l'assassinio non
poteva essere stato commesso da mano umana. Il fatto che non c'erano orme
nel fango ne era la prova conclusiva e, avendo orientato i miei pensieri in
quella direzione, aprii bene gli occhi per cercare altri dettagli che fino ad
allora non erano sembrati conclusivi. Prima di tutto, entrambi gli uomini
erano stati trovati morti nello stesso luogo, e cioè il punto dove si trova il
tubo di scarico.»
«Veniva fuori dalla cisterna?» gli chiesi.
«Sì», rispose il dottore, «e poi, sulla ringhiera vicino al luogo dei delitti,
trovai delle tracce di melma; in più c'era un'altra cosa che nessuno sembrava
aver notato, e cioè, che il colletto del poliziotto era bagnato, come pure
quello del signor Marchmount. Come ultima osservazione notai la forma dei
segni sul collo delle vittime, e la tremenda forza usata mi indicarono la
specie di cosa che dovevo cercare. Il resto non fu altro che frutto di
deduzione.
«Naturalmente, le mie idee non erano del tutto chiare ma, anche prima di
vedere quell'orribile cosa, avrei potuto dirvi che si trattava di una bestia del
tipo di un'anguilla o di un serpente, ed avrei anche potuto descrivervi
abbastanza bene la sua misura.
«Mentre stavo ragionando così, ebbi l'occasione di avvicinare il piccolo
Dufirst. Da lui seppi che, mentre si supponeva che la cisterna fosse ripulita
ogni anno, la realtà era invece che non era stata toccata da anni.»
«E che accadrà ora a Dufirst?» chiesi al dottore.
«Penso che gli sarà accordato il perdono», disse seccamente il dottore.
«Naturalmente rubò quelle cose; ma credo che abbia ricevuto una buona
punizione per il suo crimine.»
«E il serpente, dottore?» gli chiesi. «Che specie era?»
Tointon scosse la testa: «Non saprei dirlo», mi spiegò. «Non ho visto mai
niente di simile. Dev'essere una di quelle cose anomale che ogni tanto fanno
stupire il mondo della scienza. Era una bestia che si era sviluppata con
alcune caratteristiche umane ma, sfortunatamente, lo sparo l'ha quasi
distrutta... specialmente la testa. Da quello che è rimasto, purtroppo non si
può capire molto.»
Assentii. «È una cosa strana e spaventosa!» dissi. «Qualcosa che dà da
pensare.»
Il dottore fu d'accordo. «Certamente dovrebbe servire come lezione per
insegnare la necessità della pulizia.»
Dio, Dio, perché non mi aiuti?
Dally, Whitlaw ed io, stavamo discutendo della stupefacente nonché
recente esplosione che era avvenuta vicino a Berlino. Ci meravigliavamo
pensando al periodo di oscurità che ne era seguito e che aveva fatto tanto
eccitare la stampa con le più svariate teorie.
I giornali avevano ottenuto l'informazione che le autorità del Ministero
della Guerra si erano messe a fare esperimenti con un nuovo esplosivo
inventato da un certo chimico chiamato Baumoff, ed infatti si parlava
costantemente del nuovo esplosivo di Baumoff.
Noi ci trovavamo al Club, e il quarto uomo alla nostra tavola era John
Stafford, che era medico di professione, ma apparteneva in segreto
all'Intelligence Department. Una volta o due, mentre parlavamo, avevo
guardato Stafford, desiderando fargli una domanda: infatti lui aveva
conosciuto Baumoff.
Ma ero riuscito a tacere; sapevo infatti che, se avessi chiesto qualcosa
all'improvviso, Stafford (che è un buon amico ma testardo come un mulo se
si tratta del suo codice di silenzio) mi avrebbe detto sicuramente che non era
un argomento che poteva trattare.
Oh! Conosco bene il comportamento dei muli. Una volta che avesse detto
questo, potevamo star certi che non ci avrebbe mai detto un'altra parola
sull'argomento, anche se avessimo vissuto molto a lungo. Perciò fui
soddisfatto di notare che sembrava un po' inquieto, come se fosse sul punto
di dir qualcosa: il che mi fece capire che i giornali dicevano cose del tutto
confuse - in un modo o nell'altro - riguardo al suo amico Baumoff.
All'improvviso cominciò a parlare:
«Che stupide, perfide sciocchezze!» disse Stafford con calore. «Vi dico
che è una malvagità unire il nome di Baumoff ad invenzioni di guerra ed a
simili orrori. Lui era il seguace di Cristo più intensamente poetico ed
ardente che abbia mai conosciuto: ed è proprio la brutale ironia delle
circostanze che ha tentato di usare i prodotti del suo genio a scopo di
distruzione.
Ma vi accorgerete che non saranno capaci di usarli, malgrado si siano
impadroniti della sua formula. Come esplosivo è inusabile. E', come dire,
troppo instabile: non c'è modo di controllarlo.
Ne so più io, forse, di qualsiasi altra persona al mondo; perché ero il più
grande amico di Baumoff e, quando morì, persi il miglior compagno che un
uomo abbia mai potuto avere. Io non ho bisogno di farne un segreto con voi,
amici: "lavoravo" a Berlino ed avevo avuto l'ordine di fare la conoscenza di
Baumoff. Il Governo lo teneva d'occhio perché era un chimico sperimentale,
lo sapete, e troppo bravo per essere ignorato. Riuscii a conoscerlo e
diventammo grandi amici; dal canto mio, scoprii che non avrebbe mai
messo a disposizione la sua capacità per nuove invenzioni di guerra. Così,
vedete, amici miei, io potei godere della sua amicizia e vivere con la
coscienza in pace: qualcosa che i nostri compagni non sempre possono fare.
Oh! Non posso fare a meno di ammettere che il nostro è un mestiere brutto,
vile e traditore: ma necessario! Proprio come il fatto che qualcuno deve pur
fare il boia. Ci sono tanti lavori sporchi da fare per mandare avanti la
Macchina Sociale!
Credo che Baumoff fosse il più entusiastico ed intelligente credente in
Cristo che sia possibile incontrare. Seppi che stava compilando un trattato
contenente le più straordinarie e convincenti prove circa le cose più
inesplicabili che riguardavano la vita e la morte di Cristo. Quando lo
conobbi, concentrava particolarmente la sua attenzione nel cercare di
dimostrare che l'Oscurità della Croce, fra la sesta e la nona ora, era stata
una cosa reale, che possedeva un enorme significato. Egli intendeva, in un
sol colpo, annullare completamente tutte le teorie riguardanti quella
opportuna tempesta o le teorie che trattavano la stessa cosa più o meno
insufficientemente, e che erano state ogni tanto ideate per spiegare
l'accaduto come se si fosse trattato di una cosa di nessun significato
particolare.
Baumoff aveva un avversario, un professore di fisica ateo chiamato
Hautch che, usando l'elemento prodigioso della vita e morte di Cristo come
il fulcro con cui attaccare le teorie di Baumoff, lo criticava sempre, sia nelle
conferenze che nei suoi scritti. In particolare, dimostrava una completa
mancanza di fede circa la teoria di Baumoff che l'Oscurità della Croce fosse
qualcosa di più che il buio di un'ora o due, ingigantito fino a farlo diventare
una completa mancanza di luce dalla poca conoscenza delle lingue orientali.
Una sera, qualche tempo dopo che la nostra amicizia era diventata molto
stretta, andai da Baumoff e lo trovai preda di una grande indignazione a
causa di un articolo del Professore che lo attaccava brutalmente, usando la
teoria del significato dell’“Oscurità” come bersaglio.
Povero Baumoff! L'attacco era indubbiamente molto intelligente: era
quello di una persona logica, bene istruita e bene equilibrata. Ma Baumoff
era qualcosa di più: era un genio! Questa è una parola che non si può usare
con tutti, ma era sua per diritto!
Mi parlò della sua teoria, e mi disse di volermi mostrare subito un piccolo
esperimento che dimostrava la sua idea. Mentre parlava, mi raccontò alcune
cose che mi interessarono moltissimo. Prima mi ricordò il fatto
fondamentale che la luce è convogliata negli occhi per mezzo di un mezzo
indefinibile chiamato Etere. Poi andò avanti e mi fece notare che per un
aspetto che più si avvicina al principio, la luce era una vibrazione dell'Etere,
con una certa quantità definita di onde per secondo, che possedeva la
potenza di produrre sulla nostra retina quella sensazione che noi chiamiamo
luce.
Assentii a queste parole, conoscendo naturalmente - come tutti -
un'asserzione così nota. Da questo punto, egli continuò con rapidi passi e mi
disse che un ineffabile e vago, ma purtuttavia misurabile oscuramento
dell'atmosfera (più grande o più piccolo a seconda della forza della
personalità dell'individuo), veniva sempre a verificarsi nella immediata
vicinanza degli esseri mortali durante i periodi di grande tensione.
Passo per passo, Baumoff mi mostrò come la sua ricerca lo aveva
condotto alla conclusione che questo strano oscuramento (in genere un
milione di volte troppo debole per poter apparire all'occhio umano) poteva
esser prodotto solo da qualcosa che aveva il potere di disturbare ed
interrompere temporaneamente, oppure rompere, la vibrazione della luce. In
altre parole, c'era un disturbo nell'Etere nelle vicinanze immediate di una
persona che soffriva, e questo aveva qualche effetto sulla vibrazione della
luce, interrompendola e producendo un'oscurità diffusa, come spiegato
prima.
«Sì?» dissi io, quando finì di parlare, e lui mi guardò come se si
aspettasse che fossi giunto ad una sicura deduzione attraverso le sue parole.
«Continua.»
«Bene», mi rispose, «non vedi? La lieve oscurità intorno alla persona che
soffre è più o meno intensa a seconda della personalità dell'uomo sofferente.
Non lo capisci?»
«Oh!» mormorai, con un piccolo sussulto di stupore e comprensione.
«Capisco quello che vuoi dire. Tu vuoi dire che l'agonia di una persona
dalla personalità comune può produrre un fievole disturbo dell'Etere con un
fievole oscuramento come conseguenza, mentre l'agonia di Cristo, vista la
sua enorme personalità, avrebbe prodotto un fortissimo disturbo dell'Etere e
perciò ne sarebbe seguita una vibrazione della luce. E questa sarebbe la vera
spiegazione dell'Oscurità della Croce; ed il fatto che una tale, straordinaria,
ed all'apparenza non naturale ed incredibile oscurità, sia stata narrata, non
diminuisce la grandezza di Cristo. Ma è una prova ancora più meravigliosa
ed infallibile della sua potenza come Dio. È così? Dimmelo!»
Baumoff si dondolò sulla sedia compiaciuto, battendo il pugno di una
mano nel palmo dell'altra ed assentendo alla mia ricapitolazione. Quanto
amava esser capito! Come il ricercatore desidera sempre essere.
«Ed ora», disse, «ti mostrerò qualcosa.»
Tirò fuori una provetta dal tappo di sughero dal taschino del panciotto, e
vuotò il suo contenuto (che consisteva in un singolo granello grigio-bianco,
circa due volte la grandezza della capocchia di uno spillo ordinario) sul suo
piatto da dolci. Lo frantumò delicatamente con il manico d'avorio di un
coltello finché divenne una polvere e, con una piccolissima quantità di
liquido che io pensavo fosse acqua, lo ridusse ad una pallina di pasta
bianco-grigia. Poi prese il suo stecchino d'oro e lo mise sopra un piccolo
fornello a spirito usato dai chimici, che era stato acceso alla fine del pranzo
come accendisigaro. Tenne quindi lo stecchino d'oro sopra la fiamma fino a
che la punta aurea divenne incandescente.
«Adesso guarda!» disse, e toccò con la punta dello stecchino la
piccolissima palla sul piatto da dolci.
Ne segui un piccolo lampo violetto e, improvvisamente, mi ritrovai a
guardare attraverso una specie di oscurità trasparente che diminuì
gradualmente in una nera opacità. Dapprima pensai che questo doveva
essere un effetto complementare sulla retina causato dal lampo. Ma i minuti
passavano, e noi ci trovavamo ancora in quella straordinaria oscurità.
«Mio Dio, amico mio! Che cosa succede?» domandai alla fine.
Mi spiegò allora che aveva prodotto con mezzi chimici un effetto
esagerato che un poco simulava il disturbo nell'Etere prodotto dalle onde
emanate da ogni persona durante una crisi emotiva o un'agonia. Le onde - o
vibrazioni - emanate da questo esperimento, produssero solo una parziale
simulazione dell'effetto che voleva mostrarmi, solo una temporanea
interruzione delle vibrazioni della luce, con la conseguente oscurità dentro
la quale entrambi sedevamo adesso.
«Quella sostanza», disse Baumoff, «sarebbe un terribile esplosivo se
usato in certe condizioni!»
Lo udii tirare boccate di fumo dalla pipa ma, invece di vedere lo scintillio
rosso della pipa, vidi solo un indistinto riverbero che guizzava e scompariva
in modo fuori del comune.
«Mio Dio», dissi, «quando finirà?» In fondo alla stanza guardai la grande
lampada a kerosene che pareva solo un punto appena brillante che
lampeggiava tremolando in maniera strana, come se la vedessi attraverso
un'immensa quantità di acqua nera e tempestosa.
«Va bene», disse Baumoff immerso nell'oscurità, «sta per finire: fra
cinque minuti questa perturbazione si calmerà e le onde di luce della
lampada brilleranno normalmente. Ma, mentre stiamo aspettando, è una
cosa grandiosa, non ti pare?»
«Sì», dissi, «è una cosa meravigliosa, ma alquanto soprannaturale.»
«Oh! Ma devo mostrarti qualcosa di più raffinato», continuò. «Aspetta
qualche minuto. L'oscurità sta finendo. Guarda! Puoi vedere la luce della
lampada molto bene. Sembra che sia sommersa in acque che bollono, non è
così? Acque che diventano sempre più chiare e calme.»
Si stava infatti verificando quello che diceva, e noi guardavamo la
lampada in silenzio, finché tutti i segni della perturbazione che
concernevano la luce cessarono. Allora Baumoff si voltò di nuovo verso di
me.
«Adesso», disse, «hai visto gli effetti casuali della semplice combustione
di quel mio materiale. Ti mostrerò ora gli effetti di quella combustione in
quella fornace umana che è il mio corpo; ed allora vedrai una delle più
grandi meraviglie della morte di Cristo riprodotta su scala piccolissima.»
Andò vicino alla mensola del caminetto e tornò con un piccolo bicchiere
da 120 gocce ed un'altra provetta chiusa che conteneva un unico granello
bianco-grigio di sostanza chimica. Tolse il tappo della provetta, scosse il
granello nel bicchiere e, con un bastoncino di vetro, lo schiacciò sul fondo
aggiungendo allo stesso tempo acqua, finché non ne ebbe messo sessanta
gocce.
«Adesso!» disse, alzandolo, e bevve il contenuto. «Aspetteremo
trentacinque minuti», continuò, «poi, mentre procederà il processo di
carbonizzazione, tu sentirai che il mio polso aumenterà, e così anche la
respirazione. Poi tornerà ancora l'oscurità in maniera più strana e misteriosa
accompagnata da fenomeni fisici e psichici, dovuti al fatto che le vibrazioni
che emanerà si mescoleranno con quelle che io posso chiamare vibrazioni-
emotive che emetterò durante le mie pene. Queste saranno enormemente più
intense, e probabilmente tu avrai l'esperienza di una straordinaria nonché
interessante dimostrazione della validità dei miei ragionamenti teorici. Io ne
ho fatto la dimostrazione su di me la settimana scorsa (e mi indicò un dito
fasciato), ed ho letto un rapporto sui risultati al Circolo. I soci sono
entusiasti, e mi hanno promesso la loro cooperazione nella grande
dimostrazione che darò il prossimo Venerdì Santo, cioè fra sette settimane.»
Aveva smesso di fumare, ma continuò a parlare con calma, come era
solito fare, per altri trentacinque minuti. Il Circolo cui alludeva era una
strana associazione di uomini uniti sotto la presidenza dello stesso Baumoff,
che avevano scelto di chiamarsi (cerco di tradurre alla meglio) come "I
Credenti e I Rivelatori di Cristo". Se mi è permesso dirlo senza pensieri
irriverenti essi erano - almeno molti di loro - uomini che si comportavano
come pazzi quando si trattava di sostenere il Cristo. Credo che vi troverete
d’accordo con me nel pensare che non ho usato un termine non corretto nel
descrivere la maggior parte dei membri di questo strano Circolo che era, a
modo suo, simile ad una di quelle società maniacalmente religiose che sono
state create da alcuni dei nostri cugini d'oltreoceano dalla mente troppo
emotiva.
Baumoff guardò l'orologio, poi mi porse il polso. «Sentimi il polso»,
disse. «Sta battendo più in fretta. Un dato interessante, capisci?»
Io assentii e tirai fuori l'orologio. Avevo notato che la sua respirazione
stava diventando più rapida, e trovai che il polso batteva regolarmente e
forte a 105 battiti. Tre minuti dopo era aumentato a 175, e la sua
respirazione era a 41. Dopo altri tre minuti, trovai il polso che batteva a 203,
ma con un ritmo regolare. Il respiro era arrivato a 49. Aveva, come sapevo, i
polmoni eccellenti ed il cuore forte. I suoi polmoni avevano una grande
capacità e, fino a quel momento, non c'era nessuna dispnea apprezzabile.
Tre minuti dopo, trovai il polso a 227 battiti e il respiro a 54. «Tu hai
molti globuli rossi, Baumoff!» dissi, «ma stai attento a non strafare.»
Mi fece un segno di assenso e sorrise; ma non disse nulla. Tre minuti
dopo, quando gli toccai l'ultima volta il polso, era arrivato a 233, e le due
parti del cuore pompavano quantità non uguali di sangue con ritmo
irregolare. Il respiro si era alzato a 67, diventando poco profondo ed
insufficiente e, in quel momento, la dispnea si rivelava sempre più notevole.
La piccola quantità di sangue arterioso che lasciava il lato sinistro del cuore
produceva uno strano blu-bianco sulla sua faccia.
«Baumoff!» esclamai, cominciando a fare rimostranze; ma lui mi fermò
con un gesto stranamente deciso.
«Va tutto bene!» disse, con voce ansante e con una piccola nota di
impazienza. «Io so sempre quello che faccio. Ricordati che ho preso la
stessa Laurea in Medicina che hai preso tu.»
Era proprio vero. Mi ricordai allora che si era laureato in Medicina a
Londra; e, dopo questa, aveva preso un'altra mezza dozzina di Lauree in
rami scientifici diversi nel suo Paese. La memoria mi rassicurava che lui
non agiva nell'ignoranza di possibili pericoli; cominciò a gridare con una
curiosa voce ansante:
«Oscurità! È il principio. Nota ogni singola cosa. Non preoccuparti di me.
Io sto bene!»
Guardai rapidamente intorno nella stanza. Stava accadendo quello che
aveva predetto, e adesso lo vedevo. Sembrava che ci fosse qualcosa di
strano nell'oscurità che diventava sempre più fitta. Era una specie di oscurità
bluastra, vaga, ma che ancora non impediva del tutto alla luce di trasparire
nell'atmosfera.
All'improvviso, Baumoff fece qualcosa che mi dette un senso di nausea.
Ritirò il polso dalle mie mani e prese una piccola scatola metallica, una di
quelle dove si sterilizzano gli aghi delle iniezioni. L'aprì e prese quattro
puntine da disegno (se così posso chiamarle) dalla forma strana.
Avevano punte di acciaio lunghe più di due centimetri mentre tutto
intorno alle capocchie, pure di acciaio, sporgevano, volte in giù e parallele
alla punta centrale, molte punte più corte, forse di pochi millimetri.
Si levò quindi le scarpe e, piegandosi, si sfilò i calzini. Vidi che sotto
aveva un paio di calzini di lino.
«Disinfettati», disse guardandomi. «Mi sono preparato i piedi prima che
tu arrivassi. Non c'è bisogno di correre rischi inutilmente.» Mentre parlava
ansimava. Poi prese una di quelle strane punte di acciaio.
«Le ho sterilizzate», disse, e subito, con gesti sicuri, le spinse dentro fino
alla capocchia, nel piede, fra la seconda e la terza diramazione dell'arteria
dorsale.
«In nome di Dio, che cosa stai facendo?» chiesi, quasi alzandomi dalla
sedia.
«Mettiti a sedere!» mi ordinò con tono di voce severo. «Non posso avere
delle interferenze. Voglio solo che tu osservi e prenda nota di tutto. Dovresti
ringraziarmi per questa opportunità, invece di crearmi confusione, dal
momento che sai che farò tutto ciò che devo fare.»
Mentre parlava, aveva spinto giù la seconda punta, fino alla capocchia,
nel piede sinistro, prendendo la stessa precauzione di evitare le arterie. Non
un gemito proveniva da lui; solo la faccia tradiva gli effetti di questo nuovo
dolore.
«Mio caro amico!» disse, osservando il mio turbamento. «Sii saggio. So
quello che faccio. Ci deve essere semplicemente il dolore, e la forma più
semplice per raggiungere questa condizione, è attraverso il dolore fisico.»
Le sue parole erano diventate una serie di suoni spasmodici mentre
ansava, e il sudore gli colava a larghe gocce sulle labbra e sulla fronte. Si
tolse la cintura poi cominciò a passarla sul retro della sedia, allacciandola
davanti alla vita, come se si aspettasse di aver bisogno di un sostegno per
non cadere.
«È una cosa non buona, dissi». Baumoff tentò di scuotere le spalle
palpitanti, il che era, a suo modo, una delle cose più pietose che abbia mai
visto, e mostrava nella sua interezza l'agonia dell'uomo, che non voleva però
esprimerla.
Adesso si puliva il palmo delle mani con una piccola spugna che
immergeva ogni tanto in una tazza contenente una soluzione. Sapevo quello
che stava per fare e, all'improvviso, lui sussultò, con un tentativo pietoso di
fare un sorriso, ma mi fornì la spiegazione del suo dito fasciato. Aveva
tenuto il dito sopra la fiamma della lampada a spirito durante il suo
precedente esperimento. Adesso, con parole ansanti, mi spiegò che
desiderava imitare il più possibile le condizioni vere della grande scena che
aveva in mente. Mi spiegò molto bene che stavamo per sperimentare
qualcosa di veramente straordinario, così che provai un senso quasi
superstizioso di nervosismo.
«Come vorrei che tu non lo facessi, Baumoff!» gli dissi.
«Non... essere... sciocco!» riuscì a rispondere. Ma le ultime due erano più
gemiti che parole perché, mentre parlava, aveva spinto fino alla capocchia
nel palmo delle mani le due rimanenti punte di acciaio.
Chiuse le mani con una specie di spasmo pieno di determinazione
selvaggia, ed allora vidi una delle punte apparire attraverso il dorso della
sua mano fra i tendini esterni del secondo e terzo dito. Una goccia di sangue
imperlava la cima della punta. Guardai la faccia di Baumoff ed egli mi
restituì con forza lo sguardo.
«Nessuna interferenza», riuscì appena a dire. «Non ho sopportato tutto
questo per niente. So quello che faccio. Guarda... sta accadendo. Prendi nota
di tutto quanto.»
Ritornò ad essere silenzioso, eccetto per il suo doloroso ansimare. Mi resi
conto che non potevo far nulla, e mi guardai intorno per la stanza con una
strana mescolanza di disagio misto ad una reale ed allo stesso tempo
mitigata curiosità.
«Oh!» disse Baumoff dopo un momento di silenzio. «Qualcosa sta per
accadere. Lo sento. Aspetta che abbia la mia... grande dimostrazione. Lo
saprò, e quello stupido Hautch...»
Assentii; ma dubito che egli mi potesse vedere, perché i suoi occhi
sembravano girati in dentro e l'iride era quasi rilassata. Guardai di nuovo
intorno nella stanza: stava cominciando una distinta - sebbene discontinua -
diminuzione dei raggi provenienti dalla lampada, che dava un effetto di luce
e ombra.
L'atmosfera della stanza era senz'altro più scura, pesante, come per un
senso di tristezza. La tinta bluastra era sempre più evidente; ma non c'era
ancora quell'opacità che avevamo sperimentato prima, quando c'era stata la
semplice combustione, se si eccettua quella discontinua e vaga diminuzione
della luce della lampada.
Baumoff cominciò a parlare di nuovo, emettendo parole mescolate a
rantoli. «Questo mio stratagemma mi dà dolore nel posto giusto.
Associazione giusta di idee e di emozioni, per ottenere risultati migliori. Mi
segui? Bisogna fare le cose uguali per quanto è possibile. Bisogna fissare la
propria attenzione sulla... scena della morte...»
Rantolò dolorosamente per pochi minuti. «Noi dimostriamo la verità del...
dell'oscuramento; ma... ma bisogna tener conto che c'è un effetto psichico
da notare attraverso i risultati del parallelismo delle... condizioni. Potrei
avere la simulazione dell'avvenimento stesso. Prendi nota.» Allora,
all'improvviso, con un'esplosione chiara e spasmodica gridò: «Mio Dio,
Stafford, prendi nota di tutto! Qualcosa sta per accadere. Una cosa
meravigliosa! Promettimi di non curarti di me. Io so quello che faccio.»
Baumoff cessò di parlare con un rantolo, e ci fu solo il suo respiro
affannoso che rompeva la quiete della stanza. Mentre lo guardavo,
frenandomi dal dirgli le molte cose che avevo bisogno di dirgli, mi resi
conto ad un tratto che non riuscivo più a vederlo molto bene; una specie di
ondeggiamento nell'atmosfera fra noi due me lo faceva sembrare in quel
momento irreale. L'intera stanza si era oscurata in maniera palese durante
gli ultimi trenta secondi. Mentre mi guardavo intorno, mi accorsi che c'era
un vortice invisibile e costante in quella straordinaria oscurità blu che
diventava sempre più profonda e che ora sembrava invadere tutto. Quando
guardai la lampada, essa mandava lampi di luce e lampi di colore blu;
l'oscurità seguiva gli uni e gli altri con una rapidità incredibile.
«Mio Dio!» udii Baumoff bisbigliare nella semioscurità, come se parlasse
a se stesso. «Come fece Cristo a sopportare i chiodi?»
Lo guardai con estremo disagio, mentre una pietà piena di irritazione mi
opprimeva, ma sapevo che non serviva a nulla fare delle rimostranze ora. Lo
vedevo vagamente deformato attraverso il tremolio ondeggiante
dell'atmosfera. Era come se lo stessi guardando attraverso le spire di
quell'aria calda; c'erano solo delle meravigliose onde di un colore nero-blu
che formavano degli squarci alla mia vista. Per un momento vidi
chiaramente la sua faccia, piena di un dolore immenso che in qualche modo
mi sembrava più spirituale che fisico e, sopra ogni altra cosa, c'era la sua
espressione di enorme risoluzione e concentrazione, che rendeva il suo viso
livido, madido di sudore e tormentato, ma in qualche modo eroico e
splendido.
E poi, riempiendo la stanza di onde e spruzzi di opacità, la vibrazione di
quella agonia stimolata anormalmente, alla fine ruppe le vibrazioni della
luce. Un mio ultimo, rapido sguardo intorno, mi mostrò l'invisibile etere che
ribolliva e turbinava in un modo tremendo: all'improvviso, la fiamma della
lampada si perse dentro una straordinaria chiazza di luce che manifestò la
sua posizione per parecchi minuti, brillando e spegnendosi, brillando e
spegnendosi finché, all'improvviso, non vidi né la lucente chiazza di luce,
né tutto il resto. Quindi mi persi in una notte nera ed opaca, attraverso la
quale veniva il forte e penoso respiro di Baumoff.
Passò un minuto intero, ma così lentamente che, se non avessi contato i
respiri di Baumoff, avrei detto che ne erano passati cinque. Poi Baumoff
parlò improvvisamente con una voce che in qualche modo sembrava
curiosamente cambiata, priva di tono.
«Mio Dio», disse nell'oscurità, «quanto deve aver sofferto Cristo.»
Fu durante il silenzio che seguì, che ebbi per la prima volta la percezione
di sentirmi vagamente spaventato; ma questo sentimento era troppo
indefinito e infondato - e dovrei dire quasi a livello subconscio - per poterlo
affrontare. Tre minuti passarono ancora mentre contavo i respiri quasi
disperati che mi raggiungevano attraverso l'oscurità. Poi Baumoff riprese a
parlare con quella insolita voce stranamente alterata:
«Per la Tua Agonia e Sudore di Sangue», mormorò, e lo ripeté due volte.
Era chiaro che aveva fissato tutta la sua attenzione con intensità tremenda,
nel suo stato anormale, sulla scena di morte.
L'effetto che aveva su di me quella intensità era interessante: in certo qual
modo persino straordinario. Alla meglio, analizzai le mie sensazioni ed
emozioni ed il mio stato mentale in generale, rendendomi conto che
Baumoff stava producendo in me uno stato quasi di ipnosi.
Una volta, in parte perché desideravo riprendere il mio livello mentale per
mezzo di una osservazione normale, ed anche perché mi preoccupai
all'improvviso per un cambiamento del suo respiro, chiesi a Baumoff come
stava. La mia voce attraversò in maniera strana quella impenetrabile, nera,
opacità.
Mi rispose: «Zitto, sto portando la Croce!» E allora, sapete, l'effetto di
quelle semplici parole, dette con voce senza tono in quella atmosfera tesa
quasi all'impossibile, fu così potente che, all'improvviso, con gli occhi
spalancati, vidi Baumoff in maniera chiara e vivida che portava la Croce in
una oscurità innaturale. Non la portava come i dipinti mostrano Cristo,
piegata su una spalla, bensì tenuta strettamente nella parte trasversale delle
braccia mentre la parte bassa strisciava sul terreno roccioso. Vidi anche le
venature del legno naturale, dove la corteccia era stata strappata e, sotto la
parte strascinata, c'era un ciuffo di erba che era stata sradicata e poi
trasportata e schiacciata dalle rocce fra l'estremità della croce ed il suolo
sassoso. La vedo anche ora mentre vi parlo. La sua vivezza era
straordinaria; ma era apparsa e sparita come un lampo, ed io ero ancora
seduto là nell'oscurità, contando meccanicamente i respiri, senza rendermi
conto del fatto che stavo contando.
Mentre sedevo là, mi accorsi tutto ad un tratto del prodigio che Baumoff
aveva ottenuto. Mi trovavo in una oscurità che era una vera e propria
riproduzione del miracolo dell'Oscurità della Croce. In breve Baumoff
aveva, producendo in se stesso una condizione anormale, sviluppato una
Energia di Emozioni che doveva avere nei suoi effetti, quasi un parallelismo
con l'Agonia della Croce. E, facendo così, aveva dimostrato da un punto
completamente nuovo e meraviglioso, l'indiscutibile verità della stupenda
personalità e l'enorme forza spirituale di Cristo. Egli aveva sviluppato e
fatto rivivere la realtà di quella meraviglia del mondo che è il Cristo. E per
tutto questo io non provavo altro che ammirazione, di una specie che quasi
mi stupiva.
Ma, a questo punto, sentii anche che l'esperimento doveva cessare.
Sentivo il desiderio, stranamente urgente, che Baumoff terminasse proprio
lì, e che non tentasse di rendere parallele anche le condizioni psichiche.
Avevo anche allora, a causa di qualche impulso subconscio, un vago
sentimento di pericolo che potesse venire aperta la porta a qualcosa di
mostruoso anziché acquisire una vera e propria conoscenza.
«Baumoff!» gridai, «Smettila!»
Ma lui non mi rispose e, per qualche minuto, seguì un silenzio senza
interruzione salvo che per il suo respiro affannoso.
All'improvviso Baumoff disse rantolando: «Donna... ecco... tuo... figlio!»
Bisbigliò questo molte volte con la stessa voce conturbante dalla mancanza
di tono con la quale aveva parlato dacché l'oscurità era divenuta completa.
«Baumoff!» ripetei, «Baumoff, smettila!» E, mentre aspettavo la sua
risposta, fui sollevato nel sentire che il suo respiro era meno profondo.
L'abnorme domanda di ossigeno era stata forse soddisfatta, ed il suo cuore
non doveva più reggere un tale onere.
«Baumoff!» ripetei di nuovo. «Baumoff, smettila!»
Mentre parlavo, ebbi all'improvviso l'impressione che la stanza si
muovesse un po'.
Ora avrete già notato che ero diventato conscio di un nervosismo strano e
crescente. Penso che fino a quel momento questa sia la parola che lo
descrive meglio. A quel leggero movimento che sembrò agitare la stanza
completamente buia, mi sentii ad un tratto ancora più nervoso. Provai un
brivido di paura vera e propria, senza però una causa sufficiente della
ragione che la giustificasse; perciò, dopo esser stato seduto pieno di
tensione per qualche lungo minuto, non sentendo altro, decisi di aver
bisogno di farmi forza e di tenere a bada i nervi. Ed allora, proprio mentre
ero giunto in uno stato di mente più sereno, la stanza fu scossa di nuovo da
un movimento oscillatorio che era strano e perturbante al contempo, e che
non poteva esser negato.
«Dio mio!» bisbigliai. Poi, con un impulso di coraggio, gridai: «Baumoff!
Per l'amor di Dio, smettila!»
Voi non potete aver alcuna idea dello sforzo che mi ci volle per parlare ad
alta voce in quel buio; e, mentre parlavo, il suono della mia voce mi fece
innervosire nuovamente. Essa attraversò la stanza in maniera così cruda e
vuota da farla sembrare, in qualche modo, incredibilmente grande. Mi
chiedo se riusciate a rendervi conto di come mi sentissi male, senza fare un
ulteriore sforzo per spiegarvelo.
Baumoff non rispose mai, ma lo udivo respirare un po' più pienamente,
pur sollevando il torace con dolore per il bisogno di aria. Quindi
l'incredibile scuotimento della stanza cessò, e gli successe un periodo di
calma durante il quale sentii che era mio dovere alzarmi ed andare da lui.
Ma non potei farlo. In un modo o nell'altro non avrei toccato Baumoff per
nessuna ragione al mondo. Eppure, in quel momento, non mi rendevo conto,
- come capisco invece adesso - che avevo paura di toccarlo.
Allora le oscillazioni ricominciarono, e mi sentii i calzoni scivolare sulla
sedia: allungai le gambe, puntellando i piedi sul tappeto per trattenermi in
qualche modo dallo scivolare a terra. Dire che avevo paura non descrive
affatto il mio stato. Ero del tutto atterrito! All'improvviso trovai conforto,
ma in maniera insolita, perché un'idea mi si fissò letteralmente nel cervello
e mi dette una ragione a cui afferrarmi. Era una sola frase: “L'Etere, anima
del ferro e di parecchi elementi”, che Baumoff aveva una volta usato come
testo di una straordinaria conferenza sulle vibrazioni durante i primi tempi
della nostra amicizia. Aveva formulato la teoria che in embrione la materia
era, dal punto di vista dell'aspetto primario, una vibrazione circoscritta che
attraversa un'orbita chiusa. Queste vibrazioni circoscritte erano
eccezionalmente piccole. Ma erano capaci, date certe condizioni, di
combinarsi sotto l'azione di altre vibrazioni, come note fondamentali, in
vibrazioni secondarie con forma e misura determinabili da una quantità di
fattori da stabilire. Queste avrebbero sostenuto la loro nuova forma
fintantoché non fosse accaduto qualcosa per disorganizzare la loro
combinazione o diminuire o cambiare la loro energia: la loro unità era
determinata parzialmente dall'inerzia dell'Etere fermo al di fuori del circuiti
chiusi delle vibrazioni primarie localizzate e non era nient'altro che la
Materia. Uomini, mondi e perfino universi.
E quindi aveva aggiunto una cosa che mi colpì più delle altre. Disse che,
se fosse stato possibile produrre una vibrazione dell'Etere di un'energia
sufficiente, si sarebbe potuto disorganizzare e confondere le vibrazioni della
materia. Che se avesse avuto una macchina capace di produrre tali
vibrazioni dell'Etere, si sarebbe impegnato a distruggere non solo il mondo,
ma l'intero universo, inclusi il Paradiso e l'Inferno stessi, se pure tali luoghi
fossero esistiti ed avessero avuto una loro esistenza in forma materiale.
Ricordo come lo avessi guardato sbalordito per l'importanza e la portata
della sua immaginazione. Ed ora quella conferenza mi tornò alla memoria
per aiutare il mio coraggio con la sanità del ragionamento. Non era possibile
che la perturbazione dell'Etere che egli aveva prodotto avesse sufficiente
energia da causare qualche disorganizzazione delle vibrazioni della materia
nelle immediate vicinanze, ed avesse così creato tutto intorno alla casa un
terremoto in miniatura, che l'aveva fatta oscillare dolcemente?
Ed allora, mentre questo pensiero mi occupava la mente, un altro ancora
più grande mi balenò nel cervello: «Dio mio!» esclamai forte nell'oscurità
della stanza. Potevo spiegare un altro dei misteri della Croce: la
perturbazione dell'Etere causata dall'agonia di Cristo aveva disorganizzato
le vibrazioni della materia nelle vicinanze della Croce e per questo c'era
stato un piccolo terremoto locale che aveva aperto le tombe e squarciato il
velo, probabilmente distruggendone i sostegni. E, naturalmente, il terremoto
era stato un effetto, non una causa, come i detrattori del Cristo hanno
sempre insistito nel dire.
«Baumoff!» gridai, «Baumoff, tu hai provato un'altra cosa. Baumoff,
Baumoff! Rispondimi. Stai bene?»
Baumoff rispose improvvisamente, in modo chiaro, nell'oscurità; ma non
rispondeva a me:
«Mio Dio! disse. Mio Dio!» La sua voce mi raggiunse come un grido di
vera agonia mentale. Stava soffrendo, in maniera ipnotica ed indotta,
qualche cosa della vera agonia di Cristo stesso.
«Baumoff!» gridai ancora e mi sforzai di alzarmi. Sentii la sua sedia che
sbatteva mentre lui si sedeva e vacillava.
«Baumoff!»
Una scossa di terremoto attraversò il pavimento della stanza, ed udii lo
stridere degli infissi e qualcosa cadere e frantumarsi nel buio. I rantoli di
Baumoff mi facevano male, ma rimasi ritto là, non osando avvicinarmi.
Allora seppi che avevo paura di lui, della sua condizione, o di qualche altra
cosa che non conoscevo. Quanta orribile paura ebbi di lui!
«Bau...» cominciai di nuovo ma, ad un tratto, ebbi perfino paura di
parlargli. E non riuscivo a muovermi. Improvvisamente, egli gridò ad alta
voce con un tono di angoscia incredibile:
«Eloi, Eloi lama sabachthani!» Ma l'ultima parola uscì dalla sua bocca
con un tono diverso, ed i suoi ipnotici gemiti di dolore, diventarono un urlo
di terrore semplicemente infernale.
E, immediatamente, un'orrida voce piena di scherno urlò nella stanza
dalla sedia di Baumoff: «Eloi, Eloi lama sabachthani!»
Dovete capire che la voce non era affatto quella di Baumoff. Non era una
voce disperata, ma una voce che scherniva in maniera incredibile, bestiale e
mostruosa.
Nel silenzio che seguì, rimasi agghiacciato dalla paura. Sapevo che
Baumoff non rantolava più. La stanza era completamente silenziosa, il
luogo più paurosamente silente di tutto questo mondo. Poi mi voltai per
fuggire, ma inciampai con il piede nell'orlo del tappeto, che era invisibile, e
caddi a testa in giù. Vidi un mare di stelle dopodiché, per molto tempo -
certamente alcune ore - rimasi senza conoscenza.
Quando rinvenni e mi ritrovai nel presente, mi opprimeva un gran mal di
testa che escludeva tutte le altre sensazioni. Ma l'oscurità era sparita. Mi
rotolai su un fianco e, vedendo Baumoff, dimenticai perfino il dolore alla
testa. Era rivolto in avanti verso di me; i suoi occhi erano spalancati ma
opachi. La sua faccia era enormemente gonfia e c'era un non so che di
“animalesco” in lui. Era morto, e la cintura che gli circondava la vita e il
dorso della sedia, lo tratteneva dal cadere in avanti sopra di me. La lingua
gli era uscita da un angolo della bocca. Ricorderò sempre come appariva:
più che un uomo, sembrava una bestia umana dall'espressione bieca.
Mi allontanai da lui, ma non cessai mai di guardarlo fino a che raggiunsi
l'altra parte e la porta che chiusi dietro di me. Allora riacquistai un po' di
equilibrio e rientrai; ma non c'era nulla da fare.
Baumoff era morto di un attacco di cuore, non vi era dubbio. Io non sarei
stato così sciocco da suggerire ad una giuria sana mentalmente che era stato
posseduto da qualche Mostro dello Spazio che scimmiottava il Cristo. Ho
troppo rispetto per il mio carattere di uomo sensato per suggerire seriamente
tale ipotesi. Lo so che può sembrare che parli con scherno, ma che cosa
posso fare se non schernire me stesso ed il mondo quando non oso
ammettere - nemmeno segretamente a me stesso - quali sono i miei
pensieri?
Baumoff morì certamente di un attacco di cuore; quanto al resto, io fui
ipnotizzato a crederci. Però, c'era vicino alla parete opposta un mucchietto
di vetro che era stato una volta un bellissimo vaso veneziano, e che era
caduto a terra da una mensola saldamente fissata alla parete.
Vi ricorderete che avevo sentito cascare qualcosa quando la stanza aveva
oscillato. Ma allora, la stanza aveva davvero oscillato? Devo smettere di
pensare, perché mi gira la testa.
L'esplosivo di cui parlano i giornali? Sì, è di Baumoff; questo lo fa
sembrare vero, non è così? Essi ebbero l'oscurità a Berlino dopo
l'esplosione: non lo si può negare. Il Governo sa soltanto che le formule di
Baumoff sono capaci di produrre grandi quantità di gas nel più breve tempo
possibile. Certo è un esplosivo ideale. Lo è. Ma sospetto che si dimostrerà
essere un esplosivo, come ho già detto e come è stato provato, un po' troppo
indiscriminante nella sua azione, per fare esultare l'uno o l'altro dei
contendenti.
Forse questo si rivelerà una fortuna, anzi una salvezza, se le teorie di
Baumoff che riguardano la possibilità di disorganizzare la materia sono
vicine alla verità.
Qualche volta ho pensato che ci potesse essere una spiegazione più
normale della cosa orribile che accadde alla fine. A Baumoff può essere
scoppiato un vaso sanguigno nel cervello, a causa dell'enorme pressione
arteriosa che l'esperimento aveva provocato; la voce che udii, lo scherno,
l'orribile espressione e lo sguardo bieco, può darsi che non fossero nulla più
che uno sfogo immediato, un'espressione della naturale obliquità di una
mente sconvolta, che così spesso fa cambiare all'improvviso un lato della
natura umana e produce un'inversione di carattere. Questa inversione è il
complemento del suo stato normale. E, certamente, il povero Baumoff
aveva normalmente una attitudine religiosa che era di reverenza e di lealtà
verso Cristo.
A rinforzare questa spiegazione, ho anche frequentemente osservato che
la voce di una persona che soffre di uno sconvolgimento mentale, spesso
cambia, come per miracolo, ed assume frequentemente una qualità
repellente e disumana. Cerco di pensare che questa spiegazione si adatti a
questo caso. Ma non riuscirò mai a dimenticare quella stanza. Mai!»
Il Mar dei Sargassi
Quando fu passato un anno, ed ancora non c'erano notizie della nave
Graiken, anche i più ottimisti tra gli amici del mio vecchio compagno,
avevano cessato di sperare. Forse la nave doveva essere affondata in
qualche luogo.
Eppure Ned Barlow, nei suoi nascosti pensieri - io lo sapevo - nutriva
ancora la speranza che la nave facesse ritorno a casa. Povero, caro, vecchio
amico: come comprendevo il suo dolore!
Perché era proprio con la Graiken, che la sua fidanzata era partita quel
grigio giorno di gennaio di dodici mesi prima. Aveva deciso di fare quel
viaggio per ragioni di salute; e da allora - eccetto una lontana segnalazione
riportata dalle Azzorre - non c'erano state notizie da nessuna parte del
misterioso oceano; la nave e tutti quelli che portava, erano completamente
spariti.
Eppure Barlow sperava. Non diceva nulla in realtà ma, a volte, i suoi
pensieri più intimi venivano a galla, e si rivelavano attraverso il flusso delle
sue parole. Così venivo a sapere in un modo indiretto ciò che pensava
veramente.
Il tempo non lo faceva guarire.
Accadde più tardi, che la mia attuale fortuna mi capitasse all'improvviso.
Morì mio zio ed io - fino allora povero - divenni un uomo ricco. In un
attimo, sembra, ero divenuto il proprietario di case, terreni e denaro; anche -
e agli occhi miei era una cosa ancora più importante - di un bello yacht
attrezzato di vele da prua a poppa, registrato per circa duecento tonnellate.
Sembrava quasi incredibile che questo battello fosse mio, ed io volevo
precipitarmi a Falmouth e partire. In tempi passati, quando mio zio era stato
molto gentile, mi aveva invitato ad accompagnarlo per dei viaggi intorno
alla costa o in altri posti, così come gli passava per la mente; eppure mai,
neanche nei momenti più speranzosi, mi era passato per la mente che un
giorno quella nave potesse essere mia.
Ed ora mi affrettavo a prepararmi per un lungo viaggio in mare, perché
per me il mare è ed è sempre stato, un buon compagno.
Eppure, pur con tante prospettive davanti, non ero completamente
soddisfatto, perché volevo che Ned Barlow venisse con me, ed avevo paura
di chiederglielo.
Avevo la sensazione che, a causa di quella perdita terribile, egli dovesse
odiare completamente il mare; eppure non riuscivo ad essere contento al
pensiero di lasciarlo ed andarmene da solo.
Di recente non era stato bene, ed un viaggio in mare gli avrebbe giovato,
solo che non gli facesse riemergere ricordi tristi.
Alla fine mi decisi a suggerirglielo, e lo feci due giorni prima della data
fissata per la partenza.
«Ned», gli dissi, «tu hai bisogno di un cambiamento.»
«Sì», assentì lui stancamente.
«Vieni con me, vecchio mio», continuai diventando più ardito. «Io mi
metto in viaggio con lo yacht. Sarebbe meraviglioso averti...»
Con mia grande meraviglia si alzò e venne verso di me, pieno di
eccitazione.
«Gli ho dato un dispiacere adesso», pensai. «Sono uno sciocco!»
«Andare a fare un viaggio in mare», disse. «Mio Dio, darei...»
Si fermò subito e rimase fermo in maniera sconcertante davanti a me, con
la faccia tremante di emozione repressa. Stette in silenzio per pochi secondi,
cercando di riprendersi, poi continuò con calma: «Dove andiamo?»
«In qualunque posto», risposi, guardandolo attentamente perché ero
rimasto sorpreso dalle sue maniere.
«Non lo so ancora. In qualche posto nuovo. Sai è bello poter andare
proprio dove ci piace. Io riesco appena a rendermene conto!»
Smisi di parlare perché Ned si era voltato e guardava fuori dalla finestra.
«Verrai, Ned?» quasi gridai, perché avevo paura che rifiutasse.
Fece un passo indietro e mi si avvicinò.
«Verrò!» disse, e nei suoi occhi c'era l'espressione di una singolare
eccitazione che cominciò a farmi pensare a cose strane; ma non dissi nulla,
mi limitai a dirgli quanto mi avesse fatto piacere.
2
Avevamo navigato per due settimane ed eravamo soli nell'Atlantico...
almeno per quanto potevamo vedere. Io mi appoggiavo alla ringhiera di
poppa, guardando in basso la scia che ribolliva: eppure non notavo nulla,
perché ero perso in pensieri alquanto penosi. Si trattava di Ned Barlow. Si
era comportato stranamente, molto stranamente, da quando avevamo
lasciato il porto. Tutto il suo atteggiamento mentale era stato quello di un
uomo pervaso e influenzato dall'eccitazione. Io gli avevo detto che aveva
bisogno di un cambiamento, ed avevo confidato nel fatto che quello
splendido tonico che è la brezza marina, lo avrebbe aiutato a ristorare la sua
mente ed il suo corpo: ebbene, ecco qui quel pover'uomo che si comportava
in maniera fatta apposta per causarmi dell'ansia circa il suo stato mentale.
Non si era parlato molto dopo aver lasciato la Manica. Quando avevo
l'occasione di parlargli, molte volte non mi dava retta, oppure mi rispondeva
con un monosillabo o due: ma non mi rivolgeva mai la parola.
Inoltre, passava tutto il suo tempo sul ponte fra i marinai e con alcuni
parlava a lungo; ma con me, il suo compagno ed amico, non parlava mai.
Un'altra cosa mi sorprese molto. Barlow dimostrava un grande interesse
per la posizione del battello e della sua rotta: il tutto fatto in un modo che
non lasciava dubbio alcuno sulle sue conoscenze di navigazione.
Una volta tentai di esprimere la mia sorpresa circa le sue vaste
conoscenze e gli chiesi come le aveva acquisite, ma l'unica risposta che
ottenni fu un completo silenzio, e da allora non gli parlai più.
Sapendo questo, si può facilmente comprendere come i miei pensieri,
mentre osservavo la scia dell'acqua, mi disturbassero.
All'improvviso sentii una voce vicino a me.
«Vorrei parlare con lei, Signore.»
Mi voltai di scatto. Era il mio Capitano e, qualcosa nella sua faccia, mi
disse che non tutto andava bene.
«Bene, Jenkins, parla.»
Lui si guardò intorno come se temesse che qualcuno lo ascoltasse: poi mi
si avvicinò di più.
«Qualcuno ha messo in disordine i compassi, Signore», disse piano.
«Che cosa?», domandai in fretta.
«Qualcuno ha interferito, Signore. I magneti sono stati mossi, e quel
qualcuno sapeva quel che faceva.»
«Che cosa vuoi dire?», domandai. «Perché mai qualcuno li dovrebbe
toccare? Che vantaggio ne trarrebbe? Tu devi sbagliarti.»
«No, Signore, non mi sbaglio. Sono stati toccati nelle ultime quarantotto
ore, e da qualcuno che capisce quello che fa.»
Lo guardai. L'uomo era proprio sicuro. Mi sentii perplesso.
«Ma perché lo avrebbe fatto?»
«Questo non lo so, Signore; ma è una cosa seria, ed io voglio sapere
quello che devo fare. Mi pare che ci sia qualcosa che non va. Io darei un
mese di paga per sapere chi è stato: questa è la verità.»
«Bene», dissi, «se sono stati toccati, deve essere stato uno degli ufficiali.
Tu hai detto che la persona che ha fatto questo sapeva quel che faceva.»
Lui negò con la testa. «No, Signore...» cominciò, e poi si fermò
all'improvviso. Il suo sguardo incontrò il mio. Credo che lo stesso pensiero
fosse venuto a tutti e due simultaneamente.
Mi fece un cenno con la testa. «Ho avuto i primi sospetti da un po' di
tempo, Signore», continuò; «ma vedendo che è...» Non sapeva come
continuare.
Mi staccai dalla ringhiera e mi drizzai. «A chi ti riferisci?» gli chiesi
seccamente.
«Ma a lui, Signore: il signor Ned.»
Avrebbe continuato, ma io lo fermai.
«Non una parola di più, Jenkins!» gridai. «Il signor Ned Barlow è un mio
amico. Tu parli troppo: la prossima volta accuserai me di spostare i
compassi!»
Andai via, lasciando il piccolo Capitano Jenkins senza parole. Avevo
parlato con grande foga e veemenza per metter da parte i miei sospetti.
Tuttavia ero molto perplesso e non sapevo che cosa fare o dire, perciò,
alla fine, non feci nulla.
3
Una mattina presto, circa una settimana dopo, aprii gli occhi tutto ad un
tratto. Giacevo sulla mia cuccetta, ed il giorno cominciava ad entrare
attraverso gli oblò.
Avevo una vaga sensazione che non tutto andasse bene e, sentendomi
così, feci l'atto di afferrare l'orlo della cuccetta per mettermi a sedere, ma
non riuscii a farlo perché i miei polsi erano tenuti fermi da un paio di
manette di acciaio.
Completamente confuso, mi lasciai cadere sui cuscini; poi, mentre
riflettevo assai perplesso, sul ponte sopra la mia testa risuonò uno sparo,
seguito da un secondo e da un suono di voci e di passi. Quindi ci fu un
lungo periodo di silenzio.
Una sola parola mi venne in mente: ammutinamento! Le tempie mi
dolevano un po', ma mi sforzai di mantenermi calmo e di pensare. Poi, ad
un tratto, mi misi a cercare la ragione di tutto quello. Chi era e perché?
Passò forse un'ora durante la quale mi posi centomila domande.
Improvvisamente udii una chiave che girava nella toppa della porta. Dunque
ero stato chiuso dentro! Quando la porta si aprì, il cameriere entrò nella
cabina. Senza guardarmi, andò all'armadietto e cominciò a rimuovere le
armi.
«Qual è il significato di tutto questo, Jones?» gridai drizzandomi su un
gomito. «Che cosa è accaduto?»
Lo stolto non rispose nulla, ma continuò ad andare e venire portando via
le armi dalla mia cabina per metterle in quella vicina cosicché, alla fine,
cessai di interrogarlo e rimasi silenzioso, ripromettendomi un giorno di
vendicarmi.
Quando ebbe rimosso tutte le armi, il cameriere cominciò a frugare nei
cassetti della tavola, vuotandoli di tutto ciò che poteva essere considerato
un'arma o un attrezzo.
Dopo aver finito il lavoro, sparì, chiudendo a chiave la porta dietro di sé.
Trascorse un po' di tempo e, alla fine, verso le sette, riapparve,
portandomi questa volta un vassoio con la colazione. Dopo averlo posato
sulla tavola, venne verso di me, e cominciò ad aprire le manette che avevo
ai polsi. Poi, per la prima volta, parlò.
«Il Sig. Barlow desidera che le dica, Signore, che lei potrà circolare libero
nella sua cabina appena prometterà di non causare guai. Se vorrà qualcosa,
io ho l'ordine di procurargliela.» E si avviò in fretta verso la porta.
Da parte mia ero rimasto senza parole per la sorpresa e la rabbia.
«Un minuto, Jones! gridai», proprio mentre stava per lasciare la cabina.
«Spiegami gentilmente che cosa vuoi dire. Tu hai detto il Sig. Barlow. È a
lui che devo tutto questo?» Ed indicai i ferri che l'uomo teneva in mano.
«Sono i suoi ordini», mi rispose quello e si voltò di nuovo per lasciare la
cabina.
«Io non capisco», dissi attonito. «Il Sig. Barlow è mio amico, e questo è il
mio yacht! Con quale diritto tu osi prendere ordini da lui? Lasciami uscire!»
Mentre gli urlavo questo ordine, saltai giù dalla cuccetta e mi lanciai
verso la porta, ma il cameriere, invece di tentare di chiuderla, la spalancò e
se ne andò via in fretta permettendomi in tal modo di vedere che due
marinai erano stazionati nel corridoio.
«Andate subito sul ponte», dissi con ira. «Che cosa fate quaggiù?»
«Ci dispiace, Signore, ma ci farebbe un vero piacere se non ci causasse
delle noie. Noi non la lasceremo assolutamente passare. Non faccia degli
sciocchi errori!»
Dapprima esitai, poi andai verso la tavola e mi misi a sedere. Avrei fatto
comunque del mio meglio onde preservare la mia dignità.
Dopo avermi chiesto se poteva lasciare i vassoi, il cameriere mi lasciò con
i miei pensieri Come potete immaginare, questi non erano affatto piacevoli.
Eccomi prigioniero nel mio stesso yacht, ed a causa di un amico che avevo
amato e protetto per molti anni. Oh! Era una cosa troppo incredibile e
pazzesca! Per un po', dopo aver lasciato la tavola, mi misi a camminare per
la cabina; poi, tornato più calmo, mi sedetti di nuovo e tentai di mangiare
qualcosa.
Mentre facevo colazione, il mio pensiero principale verteva sul motivo
per il quale il mio vecchio amico mi trattava così; poi cominciai a chiedermi
come aveva fatto a impadronirsi dello yacht.
Molte furono le cose che ricordai: la sua familiarità con l'equipaggio - il
che avevo attribuito ad una temporanea forma di pazzia - e l'aver spostato i
compassi (perché ora ero certo che lo avesse fatto lui stesso). Ma perché?
Quello era il grande interrogativo.
Mentre pensavo e ripensavo a tutto questo, mi ritornò in mente un
incidente capitato sei giorni prima. Era successo proprio il giorno in cui il
Capitano mi aveva detto che i compassi erano stati spostati e cambiati.
Barlow, per la prima volta aveva abbandonato il silenzio che covava ed
aveva cominciato a parlarmi, ma in un modo così strano da farmi provare
preoccupazione per la sua sanità mentale, dato che mi aveva raccontato
delle strane storie e di una idea che gli era venuta in mente. Inoltre, con fare
imperioso, esigeva che la rotta dello yacht dovesse esser messa nelle sue
mani.
Era stato molto incoerente, e chiaramente doveva trovarsi in uno stato di
notevole eccitazione mentale. Aveva farneticato di navi abbandonate e
parlato di un vasto mondo di alghe in maniera allucinata. Una volta o due,
durante questo sorprendente e sconnesso discorso, aveva menzionato il
nome della fidanzata, ed allora il ricordo di quel nome mi fornì la prima
idea di quella che poteva forse essere la soluzione dell'intero affare.
Magari avessi incoraggiato le sue strane parole, invece di farlo parlare di
altre cose; ma non lo avevo fatto perché non potevo sopportare di sentirlo
parlare così.
Eppure, con quel poco che ricordavo, cominciai a formarmi una teoria.
Mi sembrava che potesse aver nutrito qualche idea - formatasi Dio solo sa
come - che la sua fidanzata (ancora viva) fosse a bordo di qualche nave
abbandonata nel mezzo di un enorme mondo di alghe, così lo aveva
chiamato lui. Avrebbe potuto spiegarsi meglio se non avessi tentato di
discutere con lui; e così persi tutto il resto.
Eppure, riandando a ritroso, mi sembrava che senza dubbio egli doveva
alludere all'enorme Mar dei Sargassi, quel vasto mare di alghe grande come
l'Europa continentale, nonché cimitero di tanti naufragi nell'Atlantico.
Senza dubbio, se si proponeva di cercarla in quel posto, doveva essere
temporaneamente impazzito. Ed io non potevo far nulla. Ero prigioniero e
non potevo far nulla.
4
Trascorsero otto giorni di venti forti e variabili ed io ero ancora
prigioniero nella mia cabina. Dagli oblò che si aprivano a poppa e su
ciascun lato - dato che la mia cabina occupava tutta la lunghezza della
poppa - avevo una buona visuale dell'oceano che ci circondava, e che
adesso aveva cominciato ad essere pieno di grandi chiazze galleggianti di
alghe del Golfo. Alcune di esse erano lunghe centinaia e centinaia di metri.
Eppure, sembrava che andassimo avanti verso il centro del Mar dei
Sargassi. Questo potei appurarlo da una carta marina che avevo trovato in
uno dei cassetti, e la rotta l'avevo potuta seguire mediante un compasso
speciale conficcato nel soffitto della cabina.
E così i giorni passavano uno dopo l'altro e, ad un certo punto, ci
trovammo in mezzo a delle alghe così spesse che, in certi momenti, il
battello trovava difficoltà ad avanzare attraverso la superficie del mare che,
intanto, aveva assunto una apparenza curiosa, come se fosse cosparso d'olio,
nonostante il vento fosse ancora molto forte.
Fu più tardi, in quello stesso giorno, che incontrammo un banco di alghe
così grande che dovemmo ruotare il timone e fare il giro intorno a quella
massa. Dopo, dovemmo ripetere la stessa esperienza molte volte; e fu in
questa situazione che ci trovò la notte.
La mattina seguente stavo all'oblò di poppa e potevo vedere, ad una
considerevole distanza, un enorme banco di alghe che sembrava non finisse
mai, che correva parallelo alla nostra fiancata. Sembrava addirittura che, in
certi punti, quella massa si alzasse di qualche metro sopra il livello del mare
circostante.
Mi fermai a guardare per molto tempo, poi mi spostai dall'altra parte, a
babordo. Là trovai che un banco assai simile si allungava anche lungo
questo fianco. Era come se navigassimo in un immenso fiume, le cui basse
rive erano formate da alghe invece che da terra.
E così, quel giorno passò ora dopo ora, con le alghe che crescevano
sempre più e sempre più vicine. Verso sera, qualcosa fu avvistato: si trattava
dello scafo di una nave lontana e scura, senza alberi, con l'intera chiglia
coperta di escrescenze di un verde opaco che presentava chiazze marroni
alla luce del sole morente.
Vidi quella chiglia solitaria dall'oblò a poppa, e quella vista mi creò una
moltitudine di domande e di pensieri.
Senza dubbio dovevamo essere penetrati nella parte centrale e sconosciuta
dell'enorme Mar dei Sargassi, il grande gorgo dell'Atlantico, e quella
doveva essere una nave abbandonata, perduta molto tempo prima per il
mondo dei vivi.
Proprio mentre il sole tramontava, ne vidi un'altra; questa era più vicina, e
possedeva ancora due alberi che si stagliavano solitari e nudi contro il cielo
scuro. La nave non doveva essere a più di un quarto di miglio dall'estremità
delle alghe. Mentre la sorpassavamo, sporsi il capo fuori dall'oblò per
guardarla. La stavo ancora osservando, quando il tramonto ne offuscò la
visione e, in un momento, la nave sparì dalla vista, perduta nella solitudine
che ci circondava.
Durante tutta quella notte, sedetti vicino all'oblò ed attesi, guardando e
ascoltando: infatti, il mistero tremendo di quell'inumano mondo di alghe mi
attirava.
Dall'aria non proveniva alcun suono; anche il vento produceva un rumore
fievole fra le vele e le attrezzature e, sotto di me, l'acqua oleosa non dava
nessun rumore di onde. Tutto era completamente inumano.
Verso mezzanotte, la luna si alzò a babordo e, da allora fino all'alba, potei
rimirare un mondo spettrale di alghe, senza alcun suono, fantastiche,
silenziose, ed incredibili sotto la luna.
Quattro volte il mio sguardo captò la sagoma di altrettanti scafi che si
ergevano sopra le alghe che ci circondavano, scafi di vascelli perduti in
tempi remoti. Una volta, proprio mentre una strana alba appariva nel cielo,
mi sembrò che un fioco e lungo lamento venisse fluttuando verso di me
attraverso quell'immenso mare di alghe.
Colpì i miei nervi tesi, e mi rassicurai dicendomi che doveva essere il
grido di qualche solitario uccello marino. Eppure, la mia immaginazione mi
spingeva a trovare qualche altra spiegazione, molto meno ovvia.
Il cielo ad oriente cominciò a schiarirsi con l'aurora, e la luce del mattino
aumentò quasi di nascosto sopra quell'enorme oceano di alghe, fino a che
mi sembrò raggiungere con i suoi raggi l'orizzonte grigio. Solitario, intorno
a noi, come una vasta strada d'olio, si stendeva quello strano golfo a forma
di fiume che avevamo navigato.
Ora potei notare che i banchi di alghe erano più vicini, ed un pensiero
sgradevole si impadronì di me. Quella vasta fenditura che ci aveva
permesso di penetrare proprio nel centro del Mar dei Sargassi, avrebbe
potuto chiudersi?
Ciò avrebbe significato che, inevitabilmente, ci sarebbe stata un'altra nave
fra quelle perdute, un altro mistero senza spiegazione di quell'oceano
impenetrabile. Resistei a questo pensiero, e ritornai al presente che mi
circondava.
Senza dubbio il vento doveva essere diminuito, perché ci muovevamo
lentamente, ed inoltre ciò era dimostrato dall'avvicinarsi dei banchi di alghe.
Le ore passavano e, quando il cameriere mi portò la colazione, la misi
davanti ad un oblò e là la mangiai, perché non volevo perdere nulla di
quegli strani dintorni in cui ci stavamo addentrando senza indugi. E così
passò la mattina.
5
Fu circa un'ora dopo pranzo che osservai come il canale aperto fra i
banchi di alghe si restringesse quasi minuto dopo minuto con una velocità
paurosa. Non potevo fare nulla, eccetto guardare e far congetture.
Spesso lottavo contro questo pensiero con la remota speranza che ci
stessimo avvicinando certamente a qualche parte più stretta che ci avrebbe
consentito di lasciare il golfo che si apriva così lontano fra le alghe.
A mezzogiorno passato, i banchi di alghe si erano avvicinati così tanto,
che qualche massa sporgente scalfiva i fianchi dello yacht mentre passava.
Fu allora, con quella massa sotto la mia faccia, a pochi metri dagli occhi,
che scoprii l'immensa quantità di vita che si muoveva fra gli odiosi banchi.
Moltissimi granchi camminavano in mezzo alle alghe e, una volta,
qualcosa d'indistinto si mosse nel profondo di una vasta estensione di alghe.
Che cosa fosse non posso dirlo sebbene, dopo, mi fosse venuta un'idea; ma,
tutto ciò che vidi, fu qualcosa di scuro e luccicante. Prima che potessi
vederlo meglio, lo avevamo già sorpassato.
Il cameriere mi stava portando il tè quando, dall'alto, venne un suono di
grida e, quasi immediatamente, si udì un lieve sobbalzo. L'uomo depose il
vassoio che stava portando, e mi guardò con un'espressione stupita.
«Che cosa c'è, Jones?» gli chiesi.
«Non so, Signore, credo che siano le alghe,» rispose.
Corsi all'oblò, sporsi la testa e guardai avanti. La poppa sembrava
incagliata in una massa di alghe e, mentre guardavo, questa venne sempre
più avanti verso poppa.
Pochi minuti dopo c'eravamo passati in mezzo, ed ora ci trovavamo
dentro un pezzo di mare che era libero dalle alghe. Qui, sembravamo andare
alla deriva più che navigare poiché la velocità era molto ridotta.
In questo frattempo ci fermammo, con il battello che ondeggiava fra le
alghe ed era tenuto fermo da due piccole ancore calate da prua e da poppa,
sebbene io non mi rendessi conto di questo che più tardi. Mentre
ondeggiavamo, potei vedere davanti a me dal mio oblò una cosa che mi
sorprese.
Là, distante meno di trecento piedi, dentro quel mare tremolante, giaceva
incastrato un vascello. Aveva avuto tre alberi maestri ma, di questi, solo
l'albero di mezzana era rimasto. Lo guardai forse per un minuto, respirando
appena per il crescente interesse.
Tutto intorno al parapetto, apparentemente ad una altezza di una decina di
piedi, si ergeva una specie di palizzata formata, per quanto ne potessi
capire, da tela, corde e pali. Mentre mi chiedevo l'uso di quelle cose, udii la
voce del mio amico che chiamava di sopra:
«Graiken, olà!» gridava. «Olà, Graiken!»
Udendolo, quasi sussultai. Graiken? Che cosa voleva dire? Guardai fuori
dall'oblò. I raggi del sole che tramontava brillavano di luce rossa sopra la
prua, e mostravano le lettere del nome e del porto: ma erano troppo lontane
perché potessi leggerle.
Corsi verso il tavolo per vedere se ci fosse un binocolo nei cassetti. Ne
trovai uno nel primo che aprii. Corsi di nuovo verso l'oblò, lo raggiunsi, e
me lo portai agli occhi. Sì, lo vidi chiaramente: il suo nome era Graiken, ed
il porto era quello di Londra.
Spostai gli occhi dal nome a quella strana palizzata tutto intorno. C'era del
movimento a poppa e, mentre guardavo, una porzione della palizzata si
mosse, ed apparvero la testa e le spalle di un uomo. Mi misi quasi a gridare
per l'eccitazione provata a quel movimento. Riuscivo a stento a credere a
ciò che vedevo. L'uomo agitò un braccio, ed un saluto indistinto ci
raggiunse attraverso le alghe; poi sparì. Un momento dopo, una dozzina di
persone riempirono l'apertura, e vidi distintamente la faccia e la figura di
una ragazza.
«Aveva ragione, dopotutto!» mi sentii dire ad alta voce, quasi senza
nessuna intonazione, tanto era il mio stupore.
Subito andai alla porta e cominciai a battere con i pugni.
«Fammi uscire, Ned! Fammi uscire! gridai.»
Sentivo che potevo perdonarlo per tutte le offese ricevute. No, in più, ed
in un modo strano, sentivo che ero io che avevo bisogno di chiedergli
perdono. Tutta la mia amarezza era svanita, e volevo solo essere libero per
poter essere di aiuto nel salvataggio.
Ma, sebbene gridassi, non venne nessuno e, alla fine, ritornai all'oblò per
vedere quali fossero gli ulteriori sviluppi di quella vicenda.
Attraverso le alghe vidi ora un uomo portarsi le mani alla bocca per
urlare. La sua voce mi raggiunse sotto forma di un fievole, rauco suono; la
distanza era troppo grande perché qualcuno a bordo dello yacht potesse
distinguere le parole.
Dalla nave naufragata, la mia attenzione fu attratta all'improvviso da una
scena più vicina. Una tavola di legno venne calata giù sulle alghe e, poco
dopo, vidi il mio amico scendere da una corda e saltarci sopra.
Avevo aperto la bocca per gridare che lo avevo perdonato, e che volevo
esser libero per dare una mano in quel salvataggio incredibile. Non appena
formai le parole, queste mi si gelarono sulle labbra perché, sebbene le alghe
apparissero molto dense, era chiaro che non potevano sopportare un peso
così considerevole, e la tavola con Barlow sopra affondò nelle piante marine
fino a metà del petto.
Lui si voltò, ed afferrò la fune con entrambe le mani; nello stesso istante
emise un alto grido di terrore e cominciò ad arrampicarsi su per la fiancata
dello yacht.
Appena i suoi piedi lasciarono le alghe, io pure emisi un breve grido.
Qualcosa si era attorcigliata intorno alla sua caviglia sinistra, qualcosa
oleosa, morbida, frastagliata. Mentre guardavo, un'altra si alzò dalle alghe e
cercò di afferrargli la gamba, ma non ci riuscì ed iniziò ad agitarsi invano.
Altre vennero fuori protendendosi verso di lui mentre si arrampicava.
Poi vidi delle mani che si sporsero e presero Barlow per le ascelle. Lo
sollevarono con forza e con lui una massa di alghe che conteneva qualcosa
di duro da cui uscivano molte braccia che si contorcevano.
Una mano armata di coltello colpì e, subito dopo, quella cosa odiosa
ricadde fra le alghe.
Per pochi istanti rimasi a guardar in su; poi molte facce apparvero alla
ringhiera e vidi degli uomini che indicavano qualcosa con le braccia e le
mani tese. Ed un coro di voci rauche, piene di terrore e meraviglia, si alzò
sopra di me.
Mi voltai in fretta per guardar giù, nella massa traditrice di quello strano
mondo di alghe. L'intera superficie, fino ad allora silente, era tutta un
movimento ondeggiante, come se la vita fosse spuntata ad un tratto in quella
zona desolata.
Il movimento ondulatorio continuò e, improvvisamente, il mare di alghe
si gonfiò in centinaia di posti formando dei rigonfiamenti in forma di
collinette ondeggianti. Da queste uscirono robusti tentacoli, centinaia e
centinaia, che venivano verso lo yacht.
«I Pesci del Diavolo!», gridò una voce sul ponte. «Piovre! Mio Dio!»
Poi udii la voce del mio amico che urlava: «Tagliate le corde di
ancoraggio!»
Questo deve essere stato fatto subito perché, immediatamente, fra noi ed
il mare di alghe, ci fu uno spazio sempre maggiore di acqua schiumosa.
«Tirate via, ragazzi!» sentii Barlow urlare; nello stesso istante udii il
rumore di qualcosa nell'acqua sul fianco sinistro. Corsi a vedere, e trovai
che una fune era stata portata fino alla parte opposta delle alghe, e che gli
uomini ci stavano liberando in fretta dall'invasione di quegli orrori.
Mi precipitai a destra e dall'oblò vidi che, come per magia, ci separavano
dal Graiken solo una striscia di alghe e circa cinquanta piedi di acqua
semplice. Sembrava inconcepibile che fosse la copertura di tanto orrore.
Poi la notte calò in fretta, nascondendo tutto, ma su dai ponti cominciò a
venire un suono di martelli in azione che continuò tutta la notte, anche
quando io, stanco per aver vegliato la notte precedente, mi addormentai,
svegliandomi ogni tanto al rumore dei martelli.
6
«La sua colazione, Signore». La voce del cameriere risuonò abbastanza
rispettosa. Mi svegliai di colpo. Di sopra continuava il rumore persistente,
ed allora mi rivolsi al cameriere per una spiegazione.
«Non so esattamente, Signore», fu la sua risposta. «Si tratta di lavori che i
carpentieri fanno ad una delle scialuppe di salvataggio». Ed andò via.
Mangiai la colazione vicino all'oblò destro, guardando la lontana Graiken.
Le alghe erano calme e noi eravamo nel mezzo di un piccolo lago.
Mentre guardavo la nave, notai del movimento sulla sua fiancata, ed
allora afferrai il cannocchiale. Dopo averlo aggiustato, riuscii a vedere che
c'erano parecchie piovre attaccate in posti diversi e i loro tentacoli si
stendevano a forma di stella lungo tutta la parte bassa della fiancata.
Ogni tanto un tentacolo si staccava e si agitava a caso. Questo aveva
attirato la mia attenzione. La vista di quelle creature, unita alla scena
straordinaria della sera precedente, mi dette il modo di indovinare l'uso della
grande barriera intorno alla Graiken. Ovviamente era stata eretta come
protezione contro quegli orrendi abitanti di quello strano mondo di alghe.
Da questi pensieri, passai al problema di raggiungere e salvare
l'equipaggio dell'altra nave. Non riuscivo a pensare in quale modo farlo.
Mentre stavo riflettendo e mangiando, mi colpirono delle voci sul ponte.
Poi Barlow dette un ordine e, quasi subito, ci fu un tonfo nell'acqua a
sinistra.
Misi fuori la testa dall'oblò e guardai. Avevano messo in acqua una delle
scialuppe. Ai bordi della barca era stata aggiunta una parete che finiva in un
tetto. Tutta la costruzione sembrava un canile.
Di sotto, ai due angoli acuti della barca, erano fissate due assi ad un
angolo di trenta gradi. Parevano ben assicurate. Mi resi subito conto della
loro funzione. Avrebbero permesso alla scialuppa di passare sopra il mare di
alghe invece di sprofondarci dentro.
A poppa della barca era fissato un forte anello da catena nel quale era
fissata l'estremità di un rotolo di fune di Manila larga un pollice. Lungo i
fianchi della barca, e più in alto sopra il bordo e dentro la costruzione,
c'erano i buchi per i remi. Da un lato, sul tetto, c'era una botola. Pensai che
questa idea era molto ingegnosa, e che molto probabilmente sarebbe stata la
soluzione per il salvataggio dell'equipaggio della Graiken.
Dopo pochi minuti, un uomo lanciò giù una scala di corda e scese fino al
tetto della barca. Aprì la botola e si calò nell'interno. Notai che era armato di
un revolver e di una delle corte sciabole dello yacht.
Era chiaro che il mio amico valutava molto bene le difficoltà che
dovevano superare. Dopo pochi secondi, un altro uomo seguì, e poi altri
quattro, armati allo stesso modo. Alla fine scese Barlow.
Vedendolo, mi sporsi quanto più possibile e gli urlai:
«Ned, Ned, vecchio mio!» gridai. «Fammi venire con te!»
Ma non sembrava udirmi. Notai la sua faccia mentre chiudeva la botola
sopra di sé. Aveva una strana espressione rigida che rassomigliava alla
mancanza di vita di un sonnambulo.
«Maledizione!» mormorai, e poi non dissi altro. Ma la mia dignità
soffriva nel supplicarlo davanti all'equipaggio.
Dall'interno della barca udii la voce di Barlow un po' soffocata.
Immediatamente, quattro remi furono infilati nei fori mentre, da fessure
davanti e dietro la costruzione, furono spinti fuori altri due remi con dei
passacavi inchiodati alla parte piatta.
Questi, pensavo, dovevano assolvere al compito di aiutare a far voltare la
barca, mentre quello a prua serviva prima di tutto per premere le alghe sul
davanti onde permetterle di passarci sopra più facilmente.
Un altro ordine soffocato venne dall'interno di quella imbarcazione
dall'aspetto strano e, immediatamente, i quattro remi si immersero e la barca
si mosse verso le alghe, trascinando la fune a poppa mentre veniva mollata
dal ponte sopra di me.
La prua armata di remo entrò nelle alghe. Con una specie di impeto si
rialzò, e l'intera imbarcazione sembrò saltare dall'acqua giù in quella massa
tremolante.
Adesso mi resi conto del perché i remi fossero stati posti così. Infatti nulla
si poteva vedere dalla barca, la cui sola porzione superiore guazzava fra le
alghe.
Mi misi a guardare. C'era la probabilità di vedere uno spettacolo
prodigioso e, dal momento che non potevo aiutare, avrei almeno usato gli
occhi.
Trascorsero cinque minuti durante i quali non accadde nulla mentre la
barca procedeva lentamente verso la nave naufragata. La scialuppa era
avanzata per circa venti o trenta metri quando, all'improvviso, un rauco
grido che proveniva dalla Graiken mi colpì le orecchie.
Il mio sguardo si spostò dalla barca alla nave, e vidi che la gente a bordo
aveva spostato un pezzo della barriera da una parte e agitava le braccia
disperatamente per avvertire la scialuppa di tornare indietro. Fra gli altri
potevo vedere la ragazza che aveva captato la mia attenzione la sera prima.
Per un momento rimasi a guardare, poi tornai con gli occhi alla scialuppa.
Tutto era calmo.
La barca aveva percorso un quarto della distanza, ed io cominciavo a
persuadermi che avrebbe terminato il viaggio senza essere attaccata. Poi,
mentre guardavo con ansia, da un punto fra le alghe davanti alla barca,
venne come un'onda tremolante che fece tremare le piante marine in una
maniera strana. Subito dopo, una massa enorme venne fuori attraverso il
groviglio delle alghe, spargendole in tutte le direzioni e quasi capovolgendo
la scialuppa. Innanzi tutto la creatura si era rizzata sulla parte posteriore; a
questo punto ricadde con un forte tonfo e, nello stesso momento, i suoi
mostruosi tentacoli si diressero verso la barca. Afferratala, le si
attorcigliarono intorno in modo orribile. Era chiaro che voleva tentare di
trascinare la barca sott'acqua.
Dalla barca giunse una intesa scarica di colpi di revolver. Ma, sebbene la
bestia si contorcesse, non lasciò la presa. Poi gli spari cessarono, ed io vidi
il lampo della lama delle sciabole. Gli uomini tentavano di tagliare i
tentacoli attraverso i fori dei remi, ma con scarsi risultati.
Tutto ad un tratto, l'enorme creatura sembrò fare uno sforzo per
capovolgere la barca. Vidi la scialuppa quasi sott'acqua inclinarsi su un
fianco e, a questa vista, mi sentii impazzire di rabbia perché volevo aiutarli
e non potevo.
Ritirai la testa dall'oblò e mi guardai intorno. Volevo rompere la porta
della cabina, ma non avevo nulla con cui farlo.
Poi il mio sguardo cadde sulla testata della cuccetta che era messa in una
scanalatura mobile. Era fatta di legno di tek, molto solido e pesante. La tirai
fuori e, con la cima, cercai di sfondare la porta.
I pannelli si ruppero dall'alto in basso, perché sono un uomo abbastanza
forte. Diedi un altro colpo, e spezzai completamente i due battenti della
porta. Posai quindi la testata e mi precipitai fuori. Non c'era nessuno a far la
guardia. Tutti dovevano essere sul ponte a guardare il salvataggio. La stanza
delle armi era alla mia sinistra ed io ne avevo in tasca la chiave.
In un minuto l'aprii e tirai fuori dalla rastrelliera un grande fucile da
elefanti. Afferrai una scatola di cartucce, strappai il coperchio, e mi misi
tutto il contenuto in tasca; poi salii in fretta la scaletta. Il cameriere stava
fermo lì vicino. Si voltò sentendo i miei passi. La sua faccia era bianca, e
fece un paio di passi verso di me timidamente.
«Essi sono, essi sono...» cominciò, ma non lo lasciai finire.
«Fuori dai piedi!» urlai, poi lo spinsi da parte e corsi avanti.
«Tirate dentro quella fune!» gridai. «Mettetevi in fila per farlo! Che
volete fare? Star qui come delle civette a guardarli affogare?»
Gli uomini avevano bisogno solo di un capo che dicesse loro quel che
c'era da fare e, senza mostrare segni di insubordinazione, afferrarono la
corda che era assicurata alla poppa della nave e la tirarono indietro
attraverso le alghe insieme alla piovra.
La fune tesa aveva raddrizzato la barca, che così poteva navigare bene
sebbene quella bestia schifosa fosse stesa tutto intorno.
«Tirate forte!» urlai. «Qualcuno di voi vada a prendere i coltelli del
dottore: qualunque cosa che tagli!»
«Questo va bene, Signore!» disse il Nostromo che aveva preso da qualche
parte una formidabile lancia a doppia lama per le balene.
La barca, ancora sotto l'impeto dato dal nostro tirare, cozzò contro la
fiancata dello yacht proprio sotto dove aspettavo io col fucile. Il corpo del
mostro si era portato sulla poppa; i suoi due occhi - mostruose orbite del
mare profondo - guardavano orribilmente dietro i tentacoli.
Appoggiati i gomiti sulla ringhiera, presi la mira direttamente sull'occhio
destro. Mentre premevo il grilletto, uno dei suoi tentacoli si staccò dalla
barca e girò vorticosamente verso di me. Ci fu un fortissimo rumore mentre
sparavo direttamente dentro l'enorme occhio e, nello stesso istante, qualcosa
strusciò contro la mia testa.
Da dietro risuonò un grido: «Attento, Signore!» e, davanti agli occhi, mi
lampeggiò la fiamma dell'acciaio e qualcosa di tagliato mi cadde dapprima
sulle spalle e poi sul ponte.
Giù dal basso, l'acqua veniva mossa fino a spumeggiare, e tre o quattro
tentacoli si alzarono in aria per poi finire addosso a noi.
Un tentacolo afferrò il Nostromo alzandolo come un bambino. Due
coltelli brillarono, e l'uomo cadde sul ponte da un'altezza di dodici piedi
insieme ad una porzione tagliata del tentacolo.
Io avevo ricaricato l'arma, e corsi in avanti lungo il ponte per non essere
afferrato dai tentacoli che flagellavano come fruste la ringhiera e
l'impiantito.
Sparai ancora nel corpo del mostro, e poi ancora. Al secondo sparo tutti i
feroci movimenti della creatura cessarono e con un guizzo si inabissò e non
la vedemmo più.
Un minuto dopo aprimmo la botola del tetto della costruzione e facemmo
uscire gli uomini: il mio amico uscì per ultimo. Erano molto scossi, ma in
buona salute. Mentre Barlow saliva la scaletta, io mi avvicinai a lui e lo
presi per le spalle. Mi sentivo stranamente confuso. Sentivo di non avere
una posizione sicura a bordo del mio yacht. Ma tutto quello che dissi fu:
«Grazie a Dio sei salvo, vecchio mio!» e sentivo proprio quello che
dicevo.
Mi guardò in un modo pieno di dubbio e, perplesso, si passò una mano
sulla fronte.
«Sì», rispose, ma la sua voce non aveva vita eccetto la perplessità che
sembrava possederlo. Per qualche minuto mi guardò come se non mi
vedesse, ed io fui colpito ancora dall'espressione immobile e tesa del suo
viso.
Subito dopo andò via - senza mostrare amicizia o inimicizia - e cominciò
a scendere sul fianco della nave per entrare nella scialuppa.
«Vieni su, Ned!» gridai. «Non va bene: non riuscirai mai in quel modo.
Guarda!» e tesi il braccio indicando.
Invece di guardare si passò ancora la mano sulla fronte con un gesto di
perplessità e dubbio. Poi, con mio grande sollievo, cominciò a risalire
lentamente.
Raggiunto il ponte si fermò per quasi un minuto, senza dire una parola,
voltando le spalle alla nave. Poi, sempre senza dire una parola, camminò
lentamente fino alla parte opposta e poggiò i gomiti sulla ringhiera
guardando indietro la rotta per la quale lo yacht era arrivato.
Da parte mia non dissi nulla e dividevo la mia attenzione fra lui e gli
uomini, lanciando qualche sguardo alle alghe che si muovevano e che
sembrava circondassero la Graiken.
Gli uomini tacevano, ed ogni tanto guardavano Barlow come se
aspettassero nuovi ordini. In quanto a me, sembrava che mi ignorassero.
Passò quasi un quarto d'ora. Poi, all'improvviso, Barlow si drizzò agitando
le braccia gridando:
«Viene! Viene!» Si voltò quindi verso di noi con la sua faccia trasfigurata
e gli occhi che brillavano in maniera quasi maniacale.
Attraversai di corsa il ponte e mi avvicinai a lui. Guardai verso poppa ed
ora vedevo quello che lo aveva eccitato. La barriera di alghe che avevamo
attraversato durante l'ultima parte del viaggio si era divisa, ed ora si poteva
vedere una specie di fiume di acqua oleosa che si allargava e mostrava il
mare. Anche mentre lo guardavo diventava sempre più largo e gli immensi
banchi di alghe sembravano muoversi a causa di qualche spirito invisibile.
Stavo ancora guardando meravigliato, quando un grido dei marinai giunse
da tribordo. Voltandomi in fretta, vidi che quel movimento divisorio stava
continuando anche nella massa di alghe che giacevano fra noi e la Graiken.
Lentamente le alghe si dividevano come se un invisibile cuneo fosse
inserito 1ì dentro. La corrente di acqua libera dalle piante acquatiche
raggiunse la nave naufragata e passò oltre. Adesso non c'era più nulla che
potesse impedire il salvataggio dell'equipaggio della nave.
7
Fu la voce di Barlow che dette l'ordine di gettare le funi di ancoraggio e
allora, mentre un vento leggero ci era contrario, una barca fu mandata avanti
e lo yacht fu trascinato verso la nave. Una dozzina di uomini stavano pronti
con i fucili sul castello di prua.
Mentre ci avvicinavamo, cominciai a distinguere le facce dell'equipaggio:
degli uomini stranamente brizzolati e dall'aspetto di vecchi. Fra di loro, con
la faccia pallida per l'emozione, c'era la fidanzata del mio amico. Non credo
che potrò mai più rivivere un momento così straordinario.
Guardai Barlow: fissava la fanciulla dalla faccia bianca con una
straordinaria fissità di espressione che non era quella di un uomo sano di
mente.
Pochi minuti dopo, eravamo con le navi fianco a fianco, schiacciando tra
le fiancate di acciaio uno dei mostri dell'oceano che stava ancora attaccato
tenacemente alla Graiken.
Ma non ci feci caso perché mi ero voltato ancora a guardare Ned Barlow
che barcollava lievemente; proprio quando i vascelli si toccarono, si portò le
mani alla testa e cadde a terra come morto.
Gli fu dato del brandy e fu portato nella sua cabina; intanto noi avevamo
vinto e ci eravamo liberati di quell'orribile mondo di alghe prima che
riacquistasse conoscenza.
Durante la sua malattia, seppi dalla sua fidanzata come, durante una
terribile notte di un anno prima, la Graiken fosse rimasta coinvolta in una
fortissima tempesta ed avesse perso gli alberi. Conseguentemente, era
andata alla deriva trascinata dal vento, per poi finire circondata da grandi
banchi mobili di alghe e, alla fine, si era trovata prigioniera dell'immobile
Mar dei Sargassi.
Mi raccontò dei loro tentativi per liberare la nave dalle alghe e degli
attacchi delle piovre. E, a poco a poco, mi raccontò anche altre cose che non
fanno parte di questa storia.
A mia volta le raccontai del nostro viaggio e dello strano comportamento
del suo fidanzato. Aveva voluto prendere il comando dello yacht ed aveva
parlato tanto di un grande mondo di alghe. Le dissi che io, dal canto mio,
credendolo folle, non gli avevo dato ascolto.
Lui allora aveva agito di testa sua e, se non lo avesse fatto, lei avrebbe
certamente finito i suoi giorni circondata dalle alghe e da quegli orribili
animali delle acque profonde.
La ragazza ascoltò con sempre maggior serietà e, a molte riprese, dovetti
rassicurarla che non nutrivo risentimento alcuno per il suo fidanzato; al
contrario, avevo avuto torto io. Scosse la testa ma sembrò sollevata.
Durante la guarigione di Barlow scoprii, con grande sorpresa, che non si
ricordava più di avermi imprigionato.
Sono convinto, infatti, che per giorni e settimane egli deve aver vissuto in
una specie di sogno, in uno stato di supertensione, durante il quale credo
che fosse in grado di captare delle sensazioni particolari che non potevano
essere afferrate da persone in uno stato di salute normale.
Prima di chiudere c'è un'altra cosa da dire. Il Capitano e i due ufficiali
erano stati rinchiusi nelle loro cabine da Barlow. Il Capitano soffriva per
l'effetto di una ferita causatagli da uno sparo nel braccio ricevuto quando
aveva tentato di opporsi a Barlow, che voleva impadronirsi del comando.
Appena lo liberai giurò di vendicarsi. Ma, essendo Ned amico mio, trovai
il modo di calmare Capitano ed ufficiali e far loro dimenticare i sentimenti
di vendetta. Questi si estinsero e... beh, ma questa è un'altra storia…
Indice
Gli incubi marini di Hodgson, di Gianni Pilo
Nota bibliografica
L’ORRORE DEL MARE
Il mostro
Lamie
Il mare
La bestia orribile
Dio, Dio, perché non mi aiuti?
Il Mar dei Sargassi
Tascabili Economici Newton, sezione dei Paperbacks
Pubblicazione settimanale, 29 maggio 1993 Direttore responsabile: G.A. Cibotto
Registrazione del Tribunale di Roma n. 16024 del 27 agosto 1975 Fotocomposizione: GI Grafica Internazionale, Roma
Stampato per conto della Newton Compton editori s.r.l., Roma presso la Rotolito Lombarda S.p.A., Pioltello (MI)
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Quarta di copertina
HODGSON
L'ORRORE DEL MARE
Il mare vede sorgere dalle sue profondità degli esseri mostruosi e
soprannaturali che non è possibile in alcun modo controllare. Così, i
personaggi cui dà vita Hodgson sono costretti ad affacciarsi ogni volta sul
baratro dell'Ignoto dove la realtà e i simboli si fondono in un insieme
terrorizzante. Hodgson ha visto nel mare il lato occulto e spaventoso che
genera le tenebre e i mostri marini.
William H. Hodgson nacque nell'Essex, in Gran Bretagna, nel 1877. Figlio
di un pastore protestante, s'imbarcò giovanissimo e rimase in mare per otto
anni. Questo periodo influenzò profondamente la sua attività letteraria che
iniziò nel 1906 in Francia dove si era tra-sferito. Tra i suoi libri più famosi
vanno citati The House on the Borderland (da cui trasse ispirazione
Lovecraft per il suo ciclo de I Miti di Cthulhu), The Ghost Pirates, del 1909,
e The Night Land, del 1914. Arruolatosi nell'esercito inglese in occasione
della prima guerra mondiale, morì in combattimento sul suolo francese
nell'aprile del 1918.
Gianni Pilo è nato a Tripoli nel 1939. Scrittore, critico, saggista e
antologista, è uno dei maggiori esperti di Narrativa Fantastica sia a livello
italiano che mondiale. Ha vinto numerosi premi letterari in Italia e all'estero.