la logica del desiderio, giuseppe aloe

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Il cortile di un palazzo di inizio secolo, un posto tranquillo. Un ragazzo passa interi pomeriggi, sul ballatoio, a correggere un romanzo che non riuscirà mai a pubblicare, a leggere e a seguire i curiosi movimenti dei gatti. Poi un giorno, su una bella macchina grigia, in compagnia del marito, arriva Vespa, "l'inappuntabile ritratto dello splendore"...

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In copertina: fotografia di Mirella NaniaProgetto grafico: factory design

© 2011 Giulio Perrone Editore S.r.l., RomaI edizione Giugno 2011stampato presso Cimer s.n.c., Roma

www.giulioperroneditore.it

La logica del desiderio

Giuseppe Aloe

A NinìA Manuel

How can the bird that is born for joysit in a cage and sing?

William Blake

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1.

Da qualsiasi parte prenda questa benedetta faccenda, èsempre la parte sbagliata. Alle volte, da solo, a casa, sedu-to, me la ripasso in mente, come si faceva ai tempi dellascuola, quando si doveva imparare a memoria una poesia.Leggevi un brano, posavi il libro, e ripetevi. Una terzina,una quartina. Poi riprendevi il libro e passavi a quella suc-cessiva. Alla fine ripetevi tutto. E come al solito qualche parola, un intero verso maga-

ri, non ti rimaneva a mente. Perché c’era qualcosa nel rit-mo che ti fermava, che rimaneva appeso, e così non riusci-vi ad andare avanti.Ecco, esattamente così. C’è sempre qualcosa che sfug-

ge. Qualcosa però che se non sta al suo posto, la storia nonprosegue, o se prosegue, prosegue a sbalzi, a spintoni. Fasalti di metri e metri, per poi tornare indietro. Che sia que-sto il vero andamento dei desideri? Mi chiedo.Allora devi procedere con calma, ripassare i motivi, la

struttura, le vicende, metterle una dietro l’altra, come sefosse una storia letta su un libro senza figure. E forse cosìpuoi iniziare a fare di conto. A mettere il tre prima delquattro, e il trentasei dopo il trentacinque.Altrimenti ogni elemento acquisisce un’ombra di disor-

dine e le vicende, i tempi, le frasi inevitabilmente s’intrec-ciano.

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Per questo motivo devo iniziare proprio così: anni faconobbi una ragazza, aveva vent’anni, si chiamava Vespa,eravamo vicini di casa. Abitavamo in un cortile interno diun palazzo inizio secolo. Era un posto tranquillo. Io vive-vo con mio padre.All’epoca era ancora in forze. Ogni mattina si alzava al-

le cinque, si lavava sommariamente, indossava gli abiti cheaveva già preparato la sera precedente, e usciva. Ore cinquee mezza usciva. Ci fosse il solleone o la neve. Lui usciva.Dove andava? Prendeva la strada che portava verso il cen-tro e camminava. Ritornava dopo un paio di ore rinfran-cato e sorridente.Io a quell’ora ero ancora pieno di sonno. Mi aggiravo

per casa, lui invece, vigoroso e abile, entrava dalla porta –Ancora in questo stato! mi diceva a voce sostenuta – e an-dava in poltrona a leggere il giornale. Mi ero svegliato daun paio di minuti. In quale altro stato potevo trovarmi?La nostra casa si affacciava su un ballatoio lungo e stret-

to. Fuori dalla porta avevo sistemato un tavolino di ferro euna sdraio.Ammonticchiavo i giornali sul tavolino. Giornali e li-

bri, e quando le giornate iniziavano a diventare tiepide mene stavo pomeriggi interi a leggere fuori. Devo dire che netraevo grande piacere.Delle volte distoglievo gli occhi dal libro per seguire

certe evoluzioni di gatti. Ce n’erano parecchi in quel caseg-giato. Delle forme più stravaganti. Sembravano sempre inguerra. Bande rivali. Lanciavano urla di sfida, lottavano.Ma bastava un gridaccio per disperderli. Dopo di che li ve-devi sciamare sulle scale, sui ballatoi, addirittura fuori dalportone.

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Fu proprio durante uno di questi pomeriggi che li vidi,marito e moglie, arrivare con la loro bella macchina grigia,seguiti da un camioncino. Eravamo in piena estate.Avevano comprato la villetta a due piani che copriva il

lato occidentale del cortile. Non c’ero mai stato dentro, mada fuori, in quel suo bel giallo antinebbia, mi sembrava ac-cogliente, specialmente per una coppia di giovani sposi. Lacasa dove si possono ricomporre alcuni torti e godere di in-cessanti passioni.La ragazza si muoveva veloce, come se fosse appesa al fi-

nestrino di un treno. I capelli ondulavano, seguendo la te-sta e gli occhi. Aveva gli occhi più irrefrenabili che mi siacapitato di osservare. Sembrava l’inappuntabile ritrattodello splendore.Me ne stavo seduto nella mia comoda sdraio, mentre

quei due iniziarono a trasportare suppellettili. Niente dipesante, sia chiaro. Al mobilio ingombrante ci pensavanogli uomini di fatica.Il marito, indaffarato, capelli chiari, abbastanza alto,

soddisfatto di sé, almeno all’apparenza. Leggero strato diadipe, mani robuste, dava indicazioni, portava lampade,cercava di rendersi utile. Si girava di continuo per control-lare che gli uomini trattassero i mobili come si deve. Concura e attenzione. Ogni tanto li soccorreva, quando ritene-va che il carico fosse troppo pesante. Anche la ragazza simuoveva con destrezza fra un comodino e una cassa di libri.Suggeriva il metodo più equilibrato per trasportare unacassapanca, e una volta dentro avrebbe di certo indicato ilposto giusto dove depositarla.Non era alta, ma il suo corpo esprimeva una inaccessi-

bile compattezza. Una specie di femminilità tirata verso le

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estreme conseguenze, dalla quale non potevi che rimaneresoggiogato. Dopo un po’ che li osservavo, mi accorsi chetenevo la bocca aperta, come mi capitava quando ero bam-bino davanti ai giocolieri, quelli che prendevano dieci cer-chi e li facevano volare in aria contemporaneamente e con-temporaneamente li riprendevano e li rilanciavano.Era una coppia asimmetrica. Si vedeva a colpo d’oc-

chio. D’un tratto pensai che non avessero speranze serie.Solo vanaglorie, piccole intese sessuali, entusiasmi di pic-colo cabotaggio. Agonie. Con loro la casa non avrebbe mantenuto le sue pro-

messe.Impiegarono tutto il pomeriggio a salire e scendere ar-

redi, suppellettili, mobilie. Io non mi mossi dalla mia sdra-io. Osservai la loro dedizione. L’attenzione con cui segui-vano l’andamento delle operazioni. Ne ero francamenteammirato. Mi sorpresi a sorridere più di una volta. Era unsorriso di gratitudine. Gli ero grato per qualcosa che anco-ra adesso non so cosa sia, ma riconoscevo il sentimento.Era proprio gratitudine.Il sole mi colpiva alle gambe. Si stava bene. Avevo fatto

proprio bene a non andare al mare quel giorno. Il marito sudava. Potevo vedere la sua fronte luccicare e

sulla camicia bianca formarsi aloni semicircolari. La ragaz-za sulla porta, ad un tratto, sollevò lo sguardo e mi salutò.Sembrava lieta e io risposi al saluto.

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2.

La nostra relazione iniziò qualche tempo dopo. Era la fine dell’estate. Un settembre radioso. Mai una

nuvola, mai un dissapore. Mio padre continuava ad uscirealle cinque e mezzo, mentre io trascorrevo le mie giornatea leggere sul ballatoio. Quando passava qualche inquilinonel cortile, mi salutava. Vedevo passare tutti, ora dopo ora.Una processione. Sempre a leggere! mi gridavano. Rispon-devo alzando la mano, più per giustificarmi che per ricam-biare i saluti. Ma lei no. Mai una parola di troppo, mai uncommento fuori luogo. Lineare, invece, frenetica, confusain un movimento inarrestabile. Usciva, innaffiava le pian-te. Come va? chiedeva. Bene, rispondevo. Poi rientrava. Il marito faceva orari d’ufficio lunghi e faticosi. Lo ve-

devo rientrare a casa con la sua bella macchina grigia, apri-re il garage e parcheggiare. Quando veniva fuori sembravastabile. Aveva il passo sicuro. Lo sguardo cupo. Era conquesta maschera che entrava in casa.Dovevano covare un malcontento in quella casa, pensa-

vo. E neanche di piccola natura. Chiudeva la porta con unbotto. Delle volte, a sera inoltrata, arrivava fino alle mie fi-nestre il rimbombo di discussioni furibonde. Hanno ini-ziato, diceva mio padre sollevando lo sguardo da qualcherivista. Mi avvicinavo alla finestra. Cercavo di coglierequalche parola, una frase di senso compiuto. Niente.

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Eppure è così facile andare d’accordo, diceva mio pa-dre. Quest’uomo placido e preciso, che per tutta la sua vi-ta non aveva fatto altro che amare una sola donna. Miamadre. E quando c’erano delle discussioni, anche se dimodesta entità, era lui che faceva il primo passo per acco-modare il dissidio. Era semplice. Era così semplice andared’accordo.Quando uscivano insieme, invece, sembravano più se-

reni. Sarà l’aria di fuori, pensavo, guardandoli mentre sali-vano in macchina. Lui guidava, lei si accomodava a fianco,disinvolta e sfrontata. Faceva retromarcia, infilava il porto-ne e via.Non mi ero mosso quell’estate. Preferivo rimanere a ca-

sa insieme a mio padre. Avevo da fare anche alcuni lavori.Stavo correggendo un romanzo che non mi riuscì di pub-blicare. Non capisco neanche perché impiegassi tanto tem-po a correggerlo. Più andavo avanti più mi accorgevo chetutte quelle vicende messe su carta non avevano spessore,né profondità. Era il lavoro di una mente annoiata e senzadesideri. Rimanevo sul ballatoio da mattina a sera. Dellevolte riuscivo anche a dormire. Mi svegliavo sudato, con ilsole che mi inondava la faccia e il petto.All’epoca me la passavo bene, però. Diciamo così. Avevo

pochi impicci. Una disperazione latente, non esplosiva, uncorpo magro, abbastanza alto, capelli castani, portati lunghi,occhi placidi. Seguivo le influenze delle stagioni. Me ne sta-vo ore a guardare i gatti o un tiglio di fronte casa.Studiavo filosofia. Ero arrivato all’ultimo anno di cor-

so. Avevo inanellato una buona media. Ogni volta che gliportavo il libretto con il voto d’esame, mio padre rimane-va leggermente stupito. Non perché mi considerasse un

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idiota, ma perché sosteneva che non avessi costanza nellecose. Iniziavo con entusiasmo e non concludevo. Ma nonera un rimprovero, era una mera constatazione. E a dire laverità, almeno fino ad allora, ci aveva visto giusto. Comeal solito. Mi aspettava un anno impegnativo. Con la prospettiva

degli esami conclusivi e della tesi. Non volevo ciondolarmiin un lavoro senza spessore. Tutt’altro. Avevo deciso di stu-diare ancora di più durante quell’anno e finire l’universitàall’inizio della prossima estate, o al massimo in autunno.Ma per ora me la godevo. Dovevo recuperare energie, di-cevo. Riposare la testa. Cercare di non pensare troppo.Qualche tempo fa sono ripassato da quelle parti. Avevo

voglia di rivedere la casa, il cortile, la strada, la ferrovia, ilponte, il tiglio. Erano cambiate un bel po’ di cose. La stra-da era asfaltata, i piccoli orti erano diventati parcheggi, ilpergolato volato via. Nessuna traccia del tiglio. Solo i tre-ni non avevano smesso di passare. Ad intervalli imprecisi.Sentivo da lontano il rumore di ferraglia, un trambustoche nel cuore della notte non faceva altro che prenderti sue portarti via dal cuscino. Il portone era chiuso. Rimasifuori ad aspettare. Era domenica. Qualcuno sarebbe usci-to anche solo per fare una passeggiata. Ci fosse stato ancora mio padre non avrei dovuto atten-

dere molto. Di domenica se ne stava nel suo piccolo orto acurare le zucchine. Vieni ad aiutarmi, mi gridava. Ma io fa-cevo finta di non sentire. Non rispondevo. Sei un autenticovagabondo, mi diceva quando rientrava infangato e felice.Aspettai più di un’ora. Inutilmente. Possibile che da

queste parti non ci venga più nessuno, pensavo, mentre fu-mavo l’ennesima sigaretta. Così presi la macchina e me ne

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andai. Cosa volevo ottenere da quella visita? Una scossa dinostalgia? La visura catastale della mia miseria?Probabile.Ritornai a casa. Mi mancava mio padre con la sua pla-

cida agitazione. Quel modo di fare dritto e coerente, chead ogni situazione trovava un filo, una soluzione. Ora nelnuovo appartamento, nel centro della città non riuscivopiù a seguire un ritmo. L’essenziale rito della giornata. Eralui il metronomo della mia giornata. Bastava osservarlo,anche distrattamente, per sentirsi appagato, inserito in uncanale, a riparo dalle intemperanze. Nessuna turbolenza.Una vita piana, regolata. Equa.E infatti se ne accorse subito. Me lo disse una sera a ce-

na. Ma già da qualche giorno era agitato. Mi guardava consospetto. Il sospetto appariva di rado nei suoi occhi, ma daqualche tempo faceva capolino. S’insinuava nei suoi pen-sieri, e poiché era un uomo trasparente, ecco che lo vede-vo, anche se accennato. Era lì nel suo sguardo. Era sospet-to e apprensione.Cosa sta succedendo qui? mi chiese addentando una

mela. Lo guardai. Cosa vuoi che succeda? Amico mio, dis-se – mi chiamava così quando doveva dirmi cose spiacevo-li, cercando di mettere un riparo al suo amore paterno – ioti osservo. Forse non te ne sei accorto, ma io osservo i tuoimovimenti. Che fai, la spia? dissi cercando di metterla sulridere. Non c’è niente da ridere. La ragazza è sposata. Nonmi piace. Non mi piace per niente. Come era riuscito a scoprire la tresca? Pensavo di esser-

mi mosso con grande discrezione. E invece aveva capitotutto. Cercai di negare finché mi riuscì, poi dovetti cede-re. Sì, avevo una relazione con la ragazza sposata. E da

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quanto durava? Da poco. Vai a casa sua o la porti qui? Du-rante tutta la discussione mi guardò fisso, come a studiareogni mio impercettibile cedimento. Abbassai la testa. En-trambe le cose, dissi e non so perché mi vergognai.Forse aveva ragione mio padre: ne stavo approfittando.

Stavo approfittando della sua estrema fragilità. Era una ra-gazza incantevole, certo, ma anche debole, incapace di re-sistere ad una vicinanza troppo stretta.Che fosse così fragile l’avevo capito quasi subito. Mi ba-

stava tenerle lo sguardo fisso, mentre lei innaffiava i fiori,per scorgere la pulsazione estenuante di un nervosismo. Diun moto d’imbarazzo immediato che si comunicava conun eccesso di movimento, con la posa di chi si sente osser-vato e sostituisce alla spontaneità l’affettazione, il gestocompiuto come da manuale. Era chiaro che aveva notatoil mio sguardo fra un geranio e una pianta grassa.Le rivolgevo qualche parola, del tutto incoerente, come:

le piante stanno bene? E lei, quasi rasserenata, si girava ver-so di me, con le sue mani guantate, e prendeva a risponde-re, che sì, le sembrava, in effetti non era una specialista inmateria, ma se ne prendeva cura con grande piacere, in-somma le sembrava che stessero bene. Almeno a vederle.Anche da qui, continuavo io, anche da qui sembra chestiano bene. Era lei che non stava bene, mi dicevo. Troppoindaffarata, troppo inquieta. Nasconderà qualche amante,mi dicevo rientrando in casa. Senza un motivo plausibile,infatti, mi ero andato convincendo che il marito non riu-scisse a placare la sua irrefrenabile malinconia.Poi, una mattina che mi ero appisolato sui fogli del ro-

manzo, qualcuno mi scosse. Mi toccava la spalla. Era untocco tenue, niente di irruento, ma francamente fastidio-

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so, perché mi risucchiava da un abisso nel quale mi trova-vo a meraviglia. Aprii gli occhi, e anzi stavo per inveirecontro mio padre, invece mi fermai. Era lei. Aveva colma-to la distanza. Aveva salito le scale e si era seduta sull’altrasedia del ballatoio.Da vicino – non l’avevo mai vista così da vicino – era

ancora più incantevole. Muoveva la bocca lentamente,come se stesse parlando ad un sordo. Mi stava dicendoqualcosa, ma io ero ancora confuso dal sonno. Cercai di al-zarmi, di rimettermi in ordine, tirando su il busto. Aggiu-stando i capelli che pensavo scomposti. Si scusava di aver-mi svegliato, ma si era accorta di aver finito il saponedella lavatrice, gliene potevo dare un po’. Certo che glienepotevo dare un po’. La feci accomodare in casa. Rimase inpiedi vicino alla porta, pronta a scappare.Era come se volesse qualcosa e nel contempo la rifiutas-

se. Gli diedi un sacchetto con il sapone. Ma è troppo, dis-se, più tardi esco e vado a comprarlo. Non ti preoccupare,mio padre fa le scorte. Ne abbiamo un ripostiglio pieno disaponi, dentifrici, ammorbidenti e cose varie.Stai tranquilla, risposi. Quando ci stringemmo la mano

notai che la sua tremava debolmente. Si staccò e mi sorri-se. Poi uscì.