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Università degli Studi di VeronaFacoltà di Lettere e Filosofia
Corso di laurea specialistica in Giornalismo
CandidatoAndrea Alesci
RelatoreChiar.mo Prof. Giancarlo Beltrame
Anno Accademico 2006/2007Sessione autunnale - Secondo appello
La metamorfosi neifilm di fantascienzaTra aspetti mitologici e angosce contemporanee
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Yet the enchainment of past and futureWoven in the weaknes of the changing body,Protects mankind from heaven and damnationWhich flesh cannot endure.
Eppure la concentrazione di passato e futurointrecciati nella debolezza del corpo che cambiaprotegge la razza umana dal cielo e dalla dannazione che la carne non può sopportare.
Thomas Stearns Eliot, Four Quartets, Burnt Norton, II
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S O M M A R I O
I
SommarioIntroduzionePremessa........................................................................................................................ 1
Perché la scelta della fantascienza........................................................................ 7
Perché concentrarsi sul corpo.............................................................................. 11
Perché la scelta della metamorfosi..................................................................... 17
Capitolo 1 - Il millenario gomitolo del mitoIl mito che anticipa la letteratura di fantascienza........................................ 21
Le Metamorfosi di Ovidio archetipo della trasformazione......................... 24
Capitolo 2 - La fantascienza sotto il riflettore Una lunga storia che comincia da.......................................................................39
Capitolo 3 - La potenza del cinemaLa settima arte come macchina del tempo...................................................... 43
Capitolo 4 - L’animale e il mostroL’animale fuori di sé................................................................................................ 45
Metamorfosi evolutive........................................................................................... 45
King Kong
Il pianeta delle scimmie
L’umano e l’animale in forma simbiotica............................................................ 50
Batman
Spider-Man
La bestialità come specchio oscuro dell’uomo..................................................... 57
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S O M M A R I O
II
King Kong
La mosca
Uomini, piccoli entomologi delle mostruosità................................................. 61
Il diverso per nascita............................................................................................. 61
Batman - Il ritorno
The Elephant Man
Il divenire mostruoso dell’essere.......................................................................... 64
La Bella e la Bestia
Il Golem - Come venne al mondo
Frankenstein di Mary Shelley
La solitudine dell’uni-verso alieno....................................................................... 70
Darkman
Superman
Capitolo 5 - L’uomo e la macchinaAutoma: la costante ricerca del doppio............................................................ 73
Cronistoria: dal mito alla nascita della robotica e... oltre................................... 73
L’uomo meccanico
Transformers
Dalle macchine ai robot: la nostra copia meccanica........................................... 78
Metropolis
Tobor
Una vita artificiale.................................................................................................... 81
Il seme della coscienza.......................................................................................... 81
2001: Odissea nello spazio
Corto Circuito
Io, Robot
Sulle orme di Pinocchio........................................................................................ 84
A.I. - Intelligenza Artificiale
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S O M M A R I O
III
D.A.R.Y.L.
L’uomo bicentenario
Androide, un quasi-uomo..................................................................................... 87
Android
Blade Runner
Terminator
Privatizzazione della vita: il clone........................................................................ 93
Aeon Flux - Il futuro ha inizio
The Island
Il 6° giorno
L’attrazione per l’inorganico................................................................................ 98
Desiderio: dalla materia all’intangibile............................................................... 98
Crash
La donna perfetta
Ghost in the Shell: L’attacco dei Cyborg
Capitolo 6 - L’uomo e se stessoImmersione profonda nel corpo........................................................................ 105
Il dissidio interiore d’un inconscio in fermento................................................. 105
Alien
Batman Begins
Il dottor Jekyll
Face / Off - Due facce di un assassino
Il pianeta proibito
Memoria, il nostro perfetto difettoso................................................................... 113
Atto di forza
Dark City
The Final Cut
Johnny Mnemonic
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S O M M A R I O
IV
Robocop
Se mi lasci ti cancello
Il corpo malato..................................................................................................... 118
A Scanner Darkly - Un oscuro scrutare
Il demone sotto la pelle
Inseparabili
Rabid - Sete di sangue
Sul viale della genetica.......................................................................................... 122
Gli incompleti mattoni del principio generatore DNA....................................... 122
Hulk
Jurassic Park
Geni alla deriva: eugenetica ed ibridazioni........................................................ 125
Gattaca - La porta dell’universo
Vivere è già morire................................................................................................. 130
Nel corridoio dell’immortalità............................................................................ 135
Cocoon - L’energia dell’universo
Renaissance
(Ap)punto di morte.............................................................................................. 139
Highlander - L’ultimo immortale
Zardoz
Capitolo 7 - L’uomo cyborgL’esteso io protesico............................................................................................... 143
Cronologia evolutiva: dall’invasione alla colonizzazione................................. 143
Crash
Generazione Proteus
Robocop
Tetsuo
Nel laboratorio medico........................................................................................ 153
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S O M M A R I O
V
L’uomo terminale
Viaggio allucinante
TecnicaMente............................................................................................................158
Riflessione sulla tecnologia................................................................................. 158
Corpi im-mediati.................................................................................................. 161
La tecnica e le sue magie.................................................................................... 166
L’esperimento del dottor K
Salto nel buio
Scanners
L’uomo senza ombra
Capitolo 8 - L’uomo virtualeLa dittatura dell’immagine-corpo.................................................................... 173
L’uomo che si frammenta................................................................................... 173
Essere John Malkovich
Strange Days
Dall’analogico al digitale.................................................................................... 177
Fino alla fine del mondo
Terminator 2 - Il giorno del giudizio
Tron
Cinema: il corpo che sparisce............................................................................. 183
Immortal (ad vitam)
S1m0ne
Il corpo-spettacolo............................................................................................... 186
Gli schermi pulsanti della nuova esistenza.................................................... 190
Il contagio del tele-vedere................................................................................... 190
La morte in diretta
Videodrome
Realtà da toccare................................................................................................. 195
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S O M M A R I O
VI
Avalon
eXistenZ
Il mondo sul filo
Il tredicesimo piano
La nostra cyber-vita............................................................................................... 205
Nello splendente labirinto del virtuale.............................................................. 205
Il tagliaerbe
Matrix
Muoversi, muoversi e sempre più velocemente.................................................. 211
Akira
Terminator 2 - Il giorno del giudizio
Internet: la doppia faccia della possibilità......................................................... 211
Videodrome
Capitolo 9 - L’uomo in transitoIl transumano postmoderno................................................................................ 221
Parola d’ordine: cambiare.................................................................................. 221
I fantastici 4
M. Butterfly
Terminator 2 - Il giorno del giudizio
Magnificenza dell’iperumano e delirio del postumano...................................... 226
Freejack - In fuga dal futuro
Cap. 10 - Sul filo dell’incerto futuroIl mondo ri-flesso..................................................................................................... 239
Baluginii negli specchi di religione e scienza.................................................... 239
2001: Odissea nello spazio
28 giorni dopo
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S O M M A R I O
VII
Matrix
Minority Report
Il delirio della tecnica e la via della redenzione................................................. 246
Abyss
Generazione Proteus
Matrix Reloaded
L’imperante tecnocrazia...................................................................................... 250
Brazil
Equilibrium
I figli degli uomini
Matrix
Conclusione: l’ultima parola.............................................................................. 255
Terminator 3 - Le macchine ribelli
APPARATO FILMOGRAFICOIndice dei film citati............................................................................................... 263
Indice dei film principali...................................................................................... 270
Indice dei film ispirati da opere letterarie..................................................... 282
APPARATO BIBLIOGRAFICOIndice dei testi.......................................................................................................... 289
Indice dei nomi........................................................................................................ 300
Indice dei soggetti................................................................................................... 304
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1
P R E M E S S A
Introduzione Omnia mutantur, nihil interit
Tutto si trasforma, nulla perisce1
PremessaAllorché nel lontano febbraio 2005 mi presentai dal mio professore di Storia e tecnica
della comunicazione per immagini, Giancarlo Beltrame, per avere qualche consiglio sul
lavoro di tesi da affrontare, dissi che avrei voluto operare su qualcosa attinente al cinema
e, in secondo luogo, che ero molto affascinato dal concetto di mito in generale. Egli, biro
alla mano, tradusse in un possibile tema le mie generiche richieste e sul foglio davanti a
me vidi materializzarsi questo titolo “La metamorfosi nei film di fantascienza. Tra aspetti
mitologici e angosce contemporanee”. Lo scetticismo mi agguantò come un bosco di-
vorato dalla notte: non era esattamente quello che avevo in mente, anche perché avevo
sempre bollato i film di fantascienza come genere di serie B, come opere cinematografi-
che votate alla sola spettacolarizzazione di una storia fantastica. Per me erano esclusive
fantasticherie senza alcuna attinenza col reale, architetture di una mente vagante fra spazi
interstellari, alieni mostruosi, diavolerie tecnologiche: insomma, li vedevo come una pa-
stiche informe votata al commercio di se stessa.
Ma il graduale accostarmi ad un mondo per me vergine, quello della fantascienza, co-
minciare a digerire opere da sempre mai nemmeno assaggiate, questo mio lento pasto
ha scrostato il pregiudizio, che sempre rivela la negatività della nostra ignoranza. Una
fantascienza che ho capito avere una base scientifica, una costruzione le cui fondamenta
sono dettate da un principio della scienza; quella scienza il cui scopo, nella sua Vita di
Galileo, Bertolt Brecht diceva essere “non tanto quello di aprire una porta all’infinito
sapere, quanto quello di porre una barriera all’infinita ignoranza”.
Come la scienza anche il cinema (specie di fantascienza) ci permette di vedere l’invisibi-
1 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Piero Bernardini Marzolla (cur.), Einaudi, Torino, 1994, LIBER QUINTUS DECIMUS, 165, p. 613.
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2
I N T R O D U Z I O N E
le. Così, come i telescopi estendono la possibilità dell’occhio umano di vedere lontano e
così come i microscopi permettono di osservare oggetti ed esseri altrimenti impercettibili,
la pellicola cinematografica, srotolandosi alla velocità di 24 fotogrammi al secondo, può
permettere di soffermarci su un dettaglio (passandolo al ralenti) che altrimenti ci sarebbe
sfuggito e può portarci rapidissimamente avanti o indietro nel tempo della narrazione, ag-
giungendo al movimento spaziale (già proprio della scienza) quel movimento temporale
per ora da essa solo sognato.
E se il pensiero scientifico giunge a studiare un modello di “Homo technologicus” (la cui
componente tecnicistica sembra destinata ad assoggettarne la matrice umana), il cinema
(e specie quello di fantascienza) s’avventura lungo una simile strada, prospettando e in-
ducendo alla riflessione su un possibile rovesciamento delle forze in campo: tecnologica
e umana.
Entrambe le forze sono agitate dalla nostra mai doma voglia di conoscenza, che ci ha
spinto e ci spinge ad indagarci. Una voglia che esprimiamo anche con l’arte, nel caso
cinematografica. In quel cinema che Gabriele D’Annunzio diceva avere la “capacità di
suscitare meraviglia”. Meraviglia di una science fiction che è sempre mossa dalla ricerca
del ‘possibile che ora non c’è’, in un sublime atto di interpretazione degli stimoli prove-
nienti dalla società.
La fantascienza rende questa ricerca evidente con le sue scintillanti immagini, con le sue
storie, attraverso le quali cerchiamo di recuperare il senso del nostro esistere. Con le sto-
rie di fantascienza precorriamo i tempi della scienza, senza mai ignorarne i temi: la fiction
è narrazione anticipatrice, la science è conoscenza e nella science fiction esse procedono
sempre parallelamente.
Nello svolgersi del lavoro cercherò di passare in rassegna le metamorfosi che l’uomo
ha compiuto e continua a compiere, modificando il suo ambiente e in particolar modo
il suo corpo. Metamorfosi rese possibili dalla scienza e dalla tecnica, da una tecnologia
che scavalca la scienza. E farò tutto ciò portando esemplificazioni che possano rendere
maggiormente visibile il discorso, grazie ai riferimenti ad opere cinematografiche di fan-
tascienza ed a continui rimandi a quella summa del cambiamento metamorfico che sono
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3
P R E M E S S A
le Metamorfosi di Ovidio. L’azione della metamorfosi ha sempre avuto un rapporto col
sacro, ma nella cinematografia americana (quindi anche in quella fantascientifica presa in
considerazione, in larga parte statunitense), essa è stata sganciata da questo rapporto con
la componente religiosa per farsi figura della meraviglia.
Ora, immaginiamo di trovarci fermi in uno spazio nero, dove nulla è a noi familiare, fermi
immobili in un luogo oscuro. Finché un piccolo bagliore sembra trascinarci verso di esso,
lentamente, un passo dopo l’altro, avanziamo nella tenebra sconosciuta confortati da un
lume intermittente come fosse un lontano corpo celeste. Man mano che questa invisibile
forza ci attrae, i nostri passi si succedono sempre più nervosi l’uno all’altro, sempre più
veloci ci ritroviamo a rincorrere quella luce prima indistinta e all’altezza della quale si
rivela a noi la presenza di uno schermo; poi gli schermi sono due, dieci, cento, finché
ci troviamo a correre in un corridoio rischiarato da una moltitudine di schermi: sono le
superfici riempite di abbaglianti flussi di fantascienza, che in questo viaggio ci accompa-
gneranno alla riscoperta del processo di metamorfosi da sempre regolatore del mondo e,
in particolare, dell’uomo che lo abita come agente primo del suo cambiamento. Fluttuanti
tavole sinottiche sulle quali scorrono anche immagini che lambiscono il territorio horror
(che del corpo fa il suo perno centrale) e frammenti visivi tipici del fantasy (abile catego-
ria suscitatrice del meraviglioso). Così, cinti da queste colorate finestre la nostra corsa in
questo luogo buio si trasforma in veloce allungo entro uno spazio illuminato.
Lo faremo, come detto, sempre con in mano quel sottile filo di Arianna che ci aiuta a
trovare la strada della conoscenza anche attraverso il mito, la cui madre è la stessa della
scienza, ovvero la mente degli uomini. E la fantascienza è l’equivalente moderno del mito
che si interroga sul passato e sul futuro (come i miti eziologici e quelli escatologici), ma
fornisce anche risposte di natura fantastica, perché ancora inesplicate dalla scienza.
Nel nostro viaggio attraverso la metamorfosi continua operata dall’uomo osserviamo
quel principio della fisica di Lavoisier enunciato da Albert Einstein dicendo che “nello
spazio nulla si crea, niente si distrugge, ma tutto si trasforma”. Questo principio ben ren-
de il cambiamento che da sempre l’uomo attua sul suo corpo e sulle estensioni di esso
nello spazio (ambiente) nel quale opera, qualsiasi esso sia. E un aiuto prezioso l’avremo
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I N T R O D U Z I O N E
anche dalla filosofia, come il mito costituita da cose che destano meraviglia: il pathos è
la sua origine, lo sprone primigenio e decisivo allo stimolo del pensiero. Infatti, i filosofi
sono necessari, perché hanno il coraggio di affrontare una realtà complessa, in perenne
metamorfosi. Perché masticano e rimasticano come macchine tritarifiuti, lacerando e smi-
nuzzando la materia dalla quale era partita la loro riflessione sul mondo, restituita poi in
nuovi termini, forse ancora dubbiosi, ma mai dotati dell’inconsistenza dell’esemplifica-
zione istintiva.
La fantascienza racchiude in sé una duplice funzione, ovvero quella di “essere insieme
opera di consumo per un vasto pubblico e, su un diverso ma non meno significativo livello
di fruizione, narrazione capace di catalizzare lo “spirito del tempo” o, ancora anticipando
quali tendenze prevarranno, descrivere ciò che sarà il mondo, quale umanità ci aspetta”.2
Nel tentativo di mostrare il lavorio dell’uomo su se stesso ci aiuteremo col mezzo fanta-
scientifico, anche con film che la critica ha mal giudicato, ma che pur racchiudono in sé
un piccolo significativo nocciolo. Piccoli segni o incisioni decise nel cinema mondiale,
egualmente utili a passare in rassegna le diverse tipologie di creature forgiate dall’uomo.
Dall’uomo che, ricalcando l’atto divino della creazione adamitica, dà origine al Golem,
all’intervento del dottor Frankenstein che agisce su pezzi di carne e ossa e le rianima.
Dal Numero 5 di Corto Circuito, assemblaggi di parti metalliche ed elettroniche, all’evo-
luto insieme di leghe speciali rappresentato da Terminator, al servizievole uomo di latta
C3PO di Guerre Stellari, al consapevole Sonny di Io, Robot. Dai mecha in carne ed ossa
sintetiche di A.I. – Intelligenza Artificiale ai replicanti di Blade Runner. E poi l’uma-
nizzazione del computer Hal 9000 in 2001: Odissea nello spazio, e quella celata sotto
l’involucro meccanico-elettronico di Robocop. Dalle macchine e dalle sperimentazioni
sul doppio, sino a quelle che coinvolgono direttamente il corpo umano, con la mutazione
chimica indotta dal siero ne Il dottor Jekyll e Mr. Hyde, a quella fisica de La mosca, a
quella genetica di Spider-Man. Quella stessa genetica che segna il passo nella contempo-
raneità postmoderna e prospetta le derive biotecnologiche di Hulk e l’uomo selezionato e
migliorato di Gattaca – La porta dell’universo.
2 Alberto Soncini, La fine dello sguardo, in ‹‹Cineforum 420››, anno 42, n. 10, dicembre 2002, pp. 8-9.
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P R E M E S S A
Un percorso che si snoda lungo nove capitoli, che fa perno sull’uomo e sul suo corpo in-
teso come presenza costante in questo mondo. Dai primi tre che inquadrano la trattazione
entro l’ambito del mito (capitolo 1), della fantascienza (capitolo 2) e del mezzo cinema-
tografico utilizzato per veicolarne i significati (capitolo 3), si passa al nucleo vero e pro-
prio del lavoro. Il capitolo 4 parla del rapporto di alterità fra uomo e animale, giocato sul
limite della tensione fra contiguità e scontro, un elastico fra umanizzazioni animalesche e
figure bestiali. E in una dissolvenza incrociata si finisce per addentrarsi nel più generale
terreno del mostruoso, che reca con sé i caratteri della diversità e della solitudine aliena.
Il prototipico modello animale anticipa la costruzione del doppio umano per eccellenza,
fatto di lucente metallo, che il capitolo 5 passa in rassegna. Dai divertissement di latta,
alle macchine utili all’uomo lavoratore, a quelle che lo servono e lo riveriscono, passando
dall’ontologia di automa a quella di robot. Robot che sfiorano l’essenza propria dell’uo-
mo e nella loro rappresentazione di alter-ego umani cominciano a mostrare segni di una
coscienza sviluppata, sino ad arrivare al limite dei replicanti che agognano farsi organi-
smi viventi. Tutto perché nel metallo l’uomo riversa i propri desideri e le proprie pulsioni
più nascoste di divenire altro, di artificializzare un corpo che riceve come dono e vuole
invece sentire come costruzione propria. Sino a rendere l’inorganico qualcosa di organico
ed a perpetuare la propria vita nell’intento di immortalità del clone.
L’uomo che affiora nella descrizione è, dunque, un uomo lacerato, angosciato, che il
capitolo 6 fa emergere in tutta la sua dissonante problematicità. Teso al punto massimo
come una corda fra due punti saldamente ancorati e all’improvviso rotta da una forza smi-
surata: uomini dall’identità spezzata, fatta a brandelli dall’incomprensione che il proprio
corpo è cosa unica, unione preziosa fra la mente perfettibile e le percezioni sensoriali che
sempre fermentano le azioni del corpo stesso. Quel corpo che la genetica ascrive nella
sua normativa in codice la quale, se assunta come regolamento incontrovertibile ed esclu-
sivo, rischia di portare l’uomo sulla pericolosa strada dell’ibridazione sperimentale (eu-
genetica) e della mutazione incontrollata, ancora una volta attratta dalla luce abbagliante
dell’immortalità.
Se l’apparente cesura con cui si apre il capitolo 7 indaga la superficie protesizzata del
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6
I N T R O D U Z I O N E
corpo umano, esso poi si dispiega in una cronologia evolutiva che torna ad addentrarsi
nell’architettura buia nascosta sotto la nostra sottile epidermide del corpo stesso. Ecco
che l’uomo si fa invadere dalla tecnologia, che si attacca a quella pelle da sempre limite
dei suoi confini spaziali e si infiltra come acqua in un tessuto permeabile, impregnandone
la struttura di sostegno per mezzo dell’imperante tecnica. Quella tecnica che il capitolo
8 redireziona, come un preciso raggio puntatore, sull’apparire del corpo umano, soggetto
a forze che lo disgregano. La tecnica che è arrivata a perfezionarsi nella fotografia e che
nell’era postmoderna ha compiuto il passo più importante e rivoluzionario nella transizio-
ne dall’analogico al digitale, dal meccanico all’elettronico, dal solido al liquido. Un uomo
che si approssima ad evaporare nei pixel degli schermi onnipresenti (della televisione, del
cinema, del computer), nei bit della melassa di realtà virtuale, nei pacchetti informativi
che viaggiano attraverso la rete internet. Nell’accelerato mondo odierno nel quale l’uomo
si presta a divenire un luogo di scambio, un nodo di comunicazione e informazione che
dovrà decidersi sul come utilizzare l’infinita potenza delle sue creazioni tecnicistiche:
esse presero avvio dal primitivo linguaggio e, nella lenta espressione di concetti, questo
può essere ancora parola pensata, quindi attivamente vitale, o viceversa può zittirsi e
scomparire nel frenetico caos di un (passa)parola comandato dall’immagine.
Ma l’uomo postmoderno (capitolo 9) è anche e soprattutto un uomo che schiaccia il lin-
guaggio come un ferro da stiro piegherebbe una camicia, non più ondeggiante nelle sue
pieghe involontarie, ma reso liscio, così come un simbolo che può aderire alla pelle nelle
trasformazioni della body-art. Corpi incisi e poi levigati dal tempo, corpi che cambiano
le proprie forme, il proprio genere e che, in ultimo, giungono al bivio di un’epocale cam-
biamento antropologico, con lo sguardo rivolto alla scritta impressa su un asfalto tutto
nuovo: “Transumanesimo”. Di fronte ad una biforcazione che può portare verso l’iperu-
manesimo (il corpo esaltato) o verso il postumanesimo (il corpo dimenticato). Verso que-
ste due strade potrebbe rivolgersi l’insensibilità di una scienza che si serve di una tecnica
ma da questa si farebbe sostituire (capitolo 10). Le derive di una tecnica, le paure di un
uomo da essa sopraffatto, ma anche le forze umane, tutte umane, che indirizzerebbero
verso una terza via, più laterale, che intersecherebbe la linea del transumano per poi cur-
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vare, corrervi tangenzialmente per poco e ritornare a girare nel circuito dell’umano, come
in un anello, perfetta forma d’espressione di un infinito (la conoscenza) in maniera finita
(la vita umana). Come tanti sovrapposti livelli di tecnica in forma circolare al servizio di
una scienza responsabile, che sappia regolare la metamorfosi di un mondo in cui l’uomo
possa continuare ad abitare nella sua identità di mente e corpo.
Perché la scelta della fantascienza
Secondo il metodo scientifico una teoria non deve solo spiegare i fenomeni
conosciuti, ma anche predire quelli ancora da scoprire. La fantascienza cerca
di fare la stessa cosa, e descrivere non solo gli sviluppi della tecnica, ma anche
della società umana.
John Wood Campbell Jr.
La fantascienza è come una grossa lente d’ingrandimento attraverso la quale osservare
e conoscere gli esseri umani. È una modalità d’indagine che permette di scandagliare i
fondali della società in cui viviamo sin nei suoi più reconditi e bui angoli, un metodo
d’analisi dei cambiamenti sociali apportati dalla scienza e dalla tecnologia. E tutto ciò lo
fa immaginando mondi alternativi, che permettano di comprendere meglio il proprio, di
conoscere a fondo l’umanità ed ogni singolo individuo che la costituisce.
La fantascienza è un genere letterario (e poi cinematografico) che non si autolimita con
dei confini, è un meta-genere che sposta in continuazione le proprie linee di frontiera,
contaminando come un blob informe i territori di altri generi. È insomma un’entità mai
immobile, anzi in continuo divenire come l’immagine che riflette, ovvero la società che
narra con le sue storie. La lente della fantascienza è alla costante ricerca di una definizione
dell’uomo e della sua condizione nell’universo, e per fare questo essa adopera strumenti
che appartengono anche ad altre codificazioni letterarie: ecco perché nel mondo fanta-
scientifico troviamo tracce di cupe storie noir, situazioni tipiche del poliziesco, rompicapi
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I N T R O D U Z I O N E
da risolvere, prove da scovare e soluzioni da raggiungere come nel filone del giallo, ten-
sione degna dei miglior thriller, la frenesia e l’incalzare di continui e nuovi sviluppi delle
storie d’azione; e ancora, la sottile ironia d’uno spaccato realistico, la dissacrante verità
portata a galla da una commedia. È come se la fantascienza fosse una grande piattaforma
circolare, una sorta di grande giostra che poggia sul potente motore della scienza e viene
accelerata dai sempre più veloci pistoni della tecnologia, ma una giostra sulla quale tutte
queste codificazioni di genere trovano posto e s’amalgamano; e poi la giostra comincia
a girare, sempre più veloce, sempre più veloce, agitata dai fermenti della scienza; la ve-
locità sale, aumenta ancora e ancora, finché la grande piattaforma circolare si stacca da
terra e s’alza leggiadra in aria, girando e girando, sempre più vorticosamente, e spostan-
dosi ora qua ora là. Un piatto disco rotante rivestito interamente di specchi riflettenti la
realtà circostante; ma l’immagine di ritorno risulta sfumata e le cose del mondo non sono
proprio come appaiono. Non sono come il pilota (autore) di questa navicella le vedrebbe
guardandole direttamente; il loro riflesso le disegna sullo schermo che circonda l’astro-
nave come qualcosa di mai visto. Il fuoco della fantascienza si manifesta. Fa risplendere
il reale e ne mette in mostra il possibile non ancora realizzato. Ecco perché, molto spes-
so, la fantascienza viene considerata come genere d’anticipazione, acutissimo strumento
d’indagine e di scoperta che, mosso dalla meraviglia dell’eccezionale e sostenuto dalla
ricerca della scienza, si configura come “una rappresentazione fantastica dell’universo
nello spazio e nel tempo, operata secondo una consequenzialità di tipo logico-scientifico,
capace di porre il lettore attraverso l’eccezionalità o impossibilità della situazione, in un
diverso rapporto con le cose”.3 Una potente macchina letteraria che travalica ogni certez-
za o dogma e mette in risalto l’aspetto d’ogni oggetto, che mai avevamo notato; e tutto ciò
lo fa proprio adottando una prospettiva diversa, insolita ma illuminante. Una prospettiva
che Ugo Malaguti definisce come “quella componente ribelle, quasi rivoluzionaria che
impedisce alla fantascienza di accettare supinamente qualsiasi cosa, seminando sempre
quell’incertezza che è il primo presupposto per un desiderio di autentica comprensione
3 Lino Aldani, La fantascienza, ed. La Tribuna, Milano, 1962, p. 17.
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delle cose”.4 È un processo che si realizza nell’ottica del “novum cognitivo” teorizzato
dal critico canadese Darko Suvin:
La fantascienza non è dunque soltanto il risultato di una curiosità umana e umanizzante ma caotica e disor-
dinata: a fianco di questa, che tende a creare un gioco semantico senza referente esplicito, la fantascienza
ha sempre comportato anche una speranza di trovare nell’ignoto l’ideale [...] In ogni caso, si presuppone la
‹‹possibilità›› di altri sistemi di coordinate strani, estranei, o covarianti, di altri campi semantici.5
Un modo di costruirsi della fantascienza che Darko Suvin ha messo in rilievo nei suoi
approfonditi lavori di critica, collegandolo direttamente con quell’effetto di straniamento
(Verfremdungseffekt) adottato nelle sue opere dal commediografo tedesco Bertolt Brecht:
ovvero quell’artificio letterario che svolge la funzione di metterci di fronte ad una situa-
zione usuale presentandola, però, con aspetto inusuale e alternativo e facendola ricono-
scere così come qualcosa di nuovo.
Un effetto di straniamento che ritroviamo spesso nei romanzi di Philip K. Dick, le cui
trame Antonio Caronia e Domenico Gallo schematizzano efficacemente così:
Il protagonista vive in una realtà (mondo A) caratterizzata da tratti, comportamenti, vicini all’esperienza
di chi legge e del suo mondo. Ma progressivamente si presentano fenomeni anomali, in netto contrasto
con le caratteristiche del mondo A; queste anomalie si intensificano, cominciano a smagliare il tessuto di
realtà del mondo A, finché quest’ultimo si lacera e si dimostra falso, inautentico, non reale. Agli occhi del
protagonista si rivela improvvisamente una nuova realtà (mondo B), che coesisteva con il mondo A, ma era
nascosta, segreta.6
I castelli della fantascienza poggiano sulle fondamenta dell’ambiguità, in uno scenario
che intreccia sapientemente le storie dei personaggi e le emozioni del lettore con i fili
della contraddizione, arricchiti dagli elementi di novità scientifica. “I rapporti umani ven-
4 Ugo Malaguti, ‹‹Nova SF››, n. 35, dicembre 1976, Bologna, Libra editrice, p. 198.
5 Darko Suvin, Metamorphoses of Science-Fiction. On the Poetics and History of a Literary Genre, Yale University Press, New Haven, 1979; tr. it. Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 21.
6 Antonio Caronia e Domenico Gallo, Houdini e Faust. Breve storia del Cyberpunk, Baldini & Castoldi, Milano, 1996, p. 109.
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gono proiettati su uno sfondo insospettato, inedito, e così ‘straniati’ risultano più nitidi, in
modo che possiamo vederne i particolari che ci sarebbero altrimenti sfuggiti”.7 Capovol-
gere i punti di vista, fuorviare e poi svelare sono le dinamiche delle storie di fantascienza
e, come negli inganni prospettici orditi dalla mano dell’artista Maurits Cornelis Escher,
essa mostra simultaneamente più mondi, incantando e sconcertando l’uomo affascinato
dal surreale e soddisfandone il bisogno di ordine ed equilibrio. Nella direzione dello sve-
lamento di questo sur-reale (ovvero che sta sopra, oltre il reale) si muovono le opere di
fantascienza, il cui valore formativo è proprio quello di sovrapporsi alla realtà e togliere
la patina incrostata che la riveste, attraverso il meccanismo della stimolazione dell’im-
maginario. A tal proposito, sono illuminanti le parole di Sergio Solmi, il quale afferma
che “nelle narrazioni fantascientifiche l’ambiguità è di regola: non più la certezza, ma un
impasto di speranza e di terrore, di entusiasmo e di thrilling”.8
La fantascienza è il luogo della metafora, ove il sottile confine tra reale e immaginario si
dissolve nella possibile costruzione di un qualcosa d’altro. E come la metafora (dal greco
μεταφορά, da metaphérō, ‹‹io trasporto››) è un tropo, ovvero una figura retorica che im-
plica un trasferimento di significato: infatti la metafora agisce sostituendo ad un termine
che normalmente occuperebbe un preciso posto nella frase, un altro la cui “essenza” o
funzione vada a sovrapporsi a quella del termine originario, creando immagini di forte
carica espressiva.
La struttura delle storie di fantascienza può così aderire a qualsivoglia aspetto dell’esi-
stenza umana: la sociologia, la politica, la progettazione scientifica, la psicologia, l’an-
tropologia, le scienze sociali. E con la sua ricchezza di schemi narrativi, personaggi,
situazioni, scenari (che sono comunque sovrastrutture artificiali), la fantascienza può per-
mettere un’organica e penetrante comprensione del reale. Con la fantascienza ed i suoi
racconti possiamo sia comprendere il presente sia vedere il futuro latente in esso.
7 AA.VV., Sul Leggio, Antologia per le scuole medie, Mursia, Milano, 1995.
8 Sergio Solmi, Prefazione, in Sergio Solmi e Carlo Fruttero (cur.), Le meraviglie del possibile. Antolo-gia della fantascienza, Einaudi, Torino, 1959.
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Perché concentrarsi sul corpo
Ugualmente accade nei corpi: appena variano gli incontri, i moti, l’ordine, la
posizione, le forme della materia, anche i corpi debbono mutare.
Lucrezio
Con il corpo stiamo nel mondo ed esistiamo proprio in virtù di questa relazione con esso.
Con il corpo ci muoviamo nello spazio, interagiamo con gli altri, regoliamo il nostro rap-
porto con le cose, attraversiamo il tempo.
Il corpo è il nostro primigenio riferimento dal momento in cui nasciamo, è il nostro per-
sonale paradigma d’esistenza, e proprio come un paradigma (“flessione d’una parola pre-
sentata come modello d’una serie”9) prende le mosse dall’azione del mostrare (dal greco
parádeigma, derivato di paradeiknýnai ‘mostrare’, ‘confrontare’). Solo così il nostro
corpo può ricevere lo statuto d’appartenenza alla vita del mondo, all’esser-ci; soltanto
abitando il mondo nel contatto con le cose e con i corpi che lo popolano, con questi ultimi
che ne riconoscono l’intenzionalità ad agire ed interagire, “una sorta di ‘intenzionalità’
[...] che ha nel mondo il suo correlato e il suo indispensabile ambiente [perché] l’inten-
zionalità del corpo è nel suo essere destinato a un mondo che non abbraccia né possiede,
ma verso cui non cessa di dirigersi e di progettarsi”.10
Sin da quando siamo piccoli uomini impariamo a muoverci ed a parlare, perché solleci-
tati dai bisogni del nostro corpo e dagli oggetti del mondo ad esso offerti. Cominciamo a
plasmare gli oggetti in un processo di ri-creazione del mondo, col nostro corpo che dona
esistenza e senso alle cose.
Il corpo è la bacchetta magica che trasforma le cose del mondo da oggetti in sé a stru-
menti che servono alla costruzione di significati umani, alla costruzione dell’ambiente per
il corpo stesso. Il corpo autorizza l’esistenza degli strumenti, ma non è esso stesso uno
strumento. Dice Sartre:
9 ‘Paradigma’, voce presa da DELI – Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, Mario Cortelazzo e Michele A. Cortelazzo (cur.), Zanichelli Editore, Bologna, 1999.
10 Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 117.
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Io non colgo la mia mano nell’atto di scrivere, ma solamente la penna che scrive, ciò significa che io utilizzo
la penna per tracciare delle lettere, ma non la mia mano per tenere la penna. In rapporto alla mia mano io
non sono nello stesso atteggiamento utilizzante in cui sono in rapporto alla mia penna, io sono la mia mano.
Essa è il termine dei rimandi e io il loro sbocco.11
Il corpo è il nostro centro di gravitazione vitale, nucleo biologico e perno esperenzial-cul-
turale. Primario sito di trasformazione sin dall’alba dell’uomo, il corpo umano ha via via
definito, nel corso della Storia costruita insieme a miliardi di altri corpi, identità umane
differenti. Piani diversi su cui hanno poggiato, nel tempo dei rispettivi mondi, uomini di-
versi con consapevolezze diverse. Uomini in mutamento continuo, con bisogni disparati,
speranze multiformi e turbamenti crescenti. Angosce createsi dal momento dell’innesto
fra uomo e parola scritta, allorché l’essere umano naturale è diventato essere umano cul-
turale. Ovvero quando egli ha cominciato ad apprendere sempre meno secondo la per-
cezione dei movimenti altrui osservati e ripetuti, e sempre più a livello simbolico con la
scrittura e la lettura dei libri. Quindi, un corpo che invece di creare simboli con il semplice
dispiegarsi dei gesti, trasforma questi simboli in segni che vanno ad originare un codice.
Dunque, un corpo che si fa segno, un corpo invaso dai codici, un corpo codificato. Quel
corpo che nelle comunità primitive è rimasto vergine a questo passaggio, ancorato ad un
simbolismo iterativo che non lo riduceva alla povertà dell’organismo, bensì ne faceva
un punto di raccolta di una mitologia guaritrice. Un corpo che veniva diviso tra natura e
cultura, perché gli eventi naturali, caricati del valore del simbolo, divenivano immediata-
mente eventi culturali. Da allora il corpo è sempre stato soggetto d’una diversa visione e,
nel pro-gettarsi nel mondo e attrarre su di sé l’attenzione di ogni sovrastruttura culturale
che andava creando, ha subìto gli effetti di questi centri di propagazione culturale, che ne
hanno mutato l’ontologia. Quindi, riferendoci alle parole di Umberto Galimberti:
Da centro di irradiazione simbolica nelle comunità primitive, il corpo è diventato in Occidente il negativo
di ogni “valore”, che il sapere, con la fedele complicità del potere, è andato accumulando. Dalla “follia
del corpo” di Platone, alla “maledizione della carne”nella religione biblica, dalla “lacerazione” cartesiana
11 Jean-Paul Sartre, L’être e le néant (1943); tr. it. L’Essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 401.
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della sua unità alla sua “anatomia” a opera della scienza, il corpo vede concludersi la sua storia con la sua
riduzione a “forza-lavoro” nell’economia.12
Nei poemi del poeta greco Omero possiamo trovare quel concetto di corpo che non lo
identifica come una corazza da incidere e come un tabernacolo dell’anima. Omero, in-
fatti, nominava il corpo a seconda della funzione per il quale veniva chiamato in causa
(démas per designare la figura, la statura, l’aspetto, chríos per la pelle, guîa e mélea per le
membra); insomma, un corpo espresso come “unità nel molteplice”, somma di parti che
rendono vivo il corpo con le proprie azioni. L’unica denominazione unitaria di corpo che
compare in Omero è quella relativa al cadavere, identificato con la parola sôma, che è un
corpo le cui membra sono ormai ridotte da possibilità nel mondo a cose.
Ma dove risiedeva, dunque, l’anima per Omero? L’anima era nel corpo, nel corpo vivo,
nelle sue manifestazioni, era psyché soltanto finché il corpo era in vita, fintanto che esso
percepiva il mondo: l’anima era perciò perfettamente coincidente con il corpo sensibile
(occhio che vedeva, orecchio che sentiva, mano che toccava), le funzioni dell’anima era-
no le funzioni del corpo. Fuori dal corpo, allorché esso diventava sôma, l’anima non era
altro che ondivaga ombra (eídolon).
È con Platone che comincia a intravedersi una crepa nel corpo, che per il filosofo greco
diventa cosa a servizio dell’anima, suo veicolo e suo scudiero. L’anima è per lui immor-
tale e incorruttibile, e ne distingue di due tipi: un’Anima Superiore legata al divino e
un’Anima Inferiore legata al corpo. Una posizione, quella platonica del corpo custode
dell’anima (psyché), smentita da Aristotele, il quale definisce l’anima in termini biolo-
gici, cioè di vita (bíos), stabilendo come fece Omero che la differenza sostanziale non è
tra anima e corpo, bensì tra corpo vivente e cadavere. Ma quella aristotelica è solo una
parentesi, perché la tradizione biblica, pur rifiutando il dualismo greco di anima e corpo e
pur mantenendo una visione unitaria dell’uomo, contrappone la vita alla morte, lo spirito
alla carne, il bene al male, iscrivendo l’uomo (e il suo corpo) in quel “dualismo cosmico”
che Umberto Galimberti dice “finirà per riflettersi sull’unità antropologica fino a lacerar-
12 Umberto Galimberti, op. cit., p. 12.
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I N T R O D U Z I O N E
la, fino a rendere possibile quella contaminazione fra tradizione biblica e tradizione greca
che consegnerà all’Occidente un uomo irrimediabilmente diviso in anima e corpo”.13
Infatti, per la religione l’uomo non ha un’anima (nefes), ma è l’anima. E nefes è la vita
dell’uomo che si è fatta carne (leb) animata dal respiro (ruah) di Dio. Così l’uomo che ne
risulta è al centro di due terzine in opposizione: morte, peccato e carne di contro a vita,
alleanza e ruah, ovvero egli è connesso alla morte e al peccato, ed il corpo diventa corpo
da redimere (attraverso la morte del figlio di Dio, Gesù, uomo tra gli uomini).
E l’ontologia della corporeità trova poi “il suo proseguimento e la sua radicalizzazione
nella ragione cartesiana, da cui è nato quel pensiero scientifico in cui ancora oggi, senza
residui, l’Occidente si riconosce”.14 Il compendio del pensiero di Cartesio è quel Cogi-
to ergo sum (penso quindi sono), ma Cartesio ha anche sempre puntualizzato nelle sue
Meditazioni metafisiche: “Se posso dubitare che il mio corpo esista, non posso dubitare
che io esisto; perciò il mio corpo non è essenziale alla mia esistenza”.15 Certo, con ciò
Cartesio ha affermato la possibilità concettuale della separazione, quanto è bastato, però,
affinché la filosofia successiva desse il là all’indipendenza della mente umana dal mondo
e dal corpo; una sorte di prefigurazione del trasferimento della mente umana su un sup-
porto extra-corporeo. Wittgenstein ci ricorda che “un cervello non è abbastanza simile ad
un essere umano”16, perché sono gli uomini e non i cervelli che pensano, vedono, odono,
ma da Cartesio in poi “separato dalla mente, secondo quella logica disgiuntiva che risulta
dal simbolo, il corpo incominciò la sua storia come somma di parti senza interiorità e la
mente come interiorità senza distanze”.17
Ed è su questo terreno che crescono separatamente due metafisiche complementari: ide-
alistica, dell’anima (religione, morale, psicologia) e materialistica, del corpo (biologia,
genetica). Ed è da qui che prende le mosse la scienza, intesa come vigile guardia d’una
13 ivi, p. 61.
14 ivi, p. 69.
15 René Descartes, Méditations sur la philosophie première (1641); tr. it. Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, “Seconda meditazione”, Laterza, Bari, 1986, p.27.
16 Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen (1953); tr. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1974, p. 131.
17 Umberto Galimberti, op. cit., p. 72.
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essenza biologica.
L’uomo moderno, dunque, è un uomo scisso in due dimensioni: quella corporea e quella
psichica. Infatti, è la psiche che da Platone in poi, per tutto l’Occidente, è il luogo di rico-
noscimento dell’unità del soggetto, della sua identità. “Ma questo luogo di identificazione
contiene già il principio della separazione, perché, come coscienza di sé, la psiche inco-
mincia a pensarsi per sé, e quindi a separarsi dalla propria corporeità [...] L’idea platonica
è il modello di questa separazione e contrapposizione, e la psiche, essendo “amica delle
idee”, incomincerà a considerare il corpo come suo carcere e sua tomba”.18 La psicologia
trova la sua ragion d’esistere nel corpo lacerato, tra carne oggettivata e anima soggettiva,
su cui un tempo operava la religione ed ora la psicoanalisi. Ed è poi la scienza ad interve-
nire sull’altra dimensione, operando una riduzione del nostro corpo ad un oggetto qual-
siasi del mondo e non più ad un punto di vista su di esso. I sensi non sono più apertura sul
mondo, ma semplicemente organi e funzioni. Per la scienza la vita è semplice animazione
della materia, perciò può credere di poterla creare. È il dominio del DNA, parametro
scientifico di riferimento assoluto.
Il pensiero s’allontana sempre più dal bisogno che l’ha generato e diventa pura tecnica,
quindi il segno non designa più qualcosa, ma soltanto interagisce con altri segni, dando
avvio all’era della simulazione e alla costruzione di simulacri. Nella simulazione della
realtà abita l’intelletto puro, che non conosce il tempo e lo spazio dei corpi. Con la scien-
za parliamo di vita in termini quantitativi, di regolazione e tecno-controllo su un corpo
inteso come capitale biologico. La scienza può trasformare la morte da evento irrazionale
e senza senso in razionale evento naturale, di modo che la morte non spaventa più. Essa
non è più collettiva (come nelle comunità primitive, ove diventava fattore sociale), adesso
si muore da soli.
Perché da quando la scienza ha cominciato a squarciare i cadaveri ha affermato il suo
compito di strenua difesa della vita come opposizione alla morte ed alla malattia, come
suo sintomo anticipatore. Noi distinguiamo tra vita e morte, mettendo in contrapposizio-
ne i due termini, ma la morte è solo un aspetto della vita, che comincia con la nascita e
18 ivi, p. 22.
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I N T R O D U Z I O N E
sempre l’accompagna. La vita è continuamente esposta alla morte, perché inserita nel
meccanismo del tempo. Il corpo esiste nel presente, che racchiude in sé sia il passato che
il futuro, quindi ciò che è trascorso non esiste soltanto perché ne ho memoria e quindi
posso darne una rappresentazione, bensì perché io sono quel trascorso. E sono anche l’av-
venire, perché il passato può dargli senso autenticandolo oppure rinnegandolo. Il futuro è
il ventaglio del possibile ancora da realizzare, mentre il passato è un possibile realizzato
tra i tanti che potevo tracciare.
Il corpo è un’entità mancante, ed è per questo che si protende sempre verso il mondo,
alla ricerca di ciò di cui difetta. E il mondo gli si offre proprio come suo possibile futuro,
spazio-tempo in cui con-fondersi per com-pletarsi.
Il corpo è mosso lungo l’asse del Tempo, ma libero di scegliere sempre nuovi spazi da
occupare. Un corpo che crea il mondo e lo abita, ma che in questo tempo della post-
modernità decide di esistere come continua tensione fra ri-creazione di spazi esterni e
profonda indagine di spazi interni. In bilico fra la ricerca di un outer space e lo scavare in
un inner space, sempre accompagnato da una comunicazione sensoriale. Come “la frec-
cia è l’intenzione che si proietta nello spazio”19, così il nostro corpo è pura intenzionalità,
sbocco sulle cose, un veicolo del mondo. E ogni cosa che io faccio, ogni gesto che io
compio rivela che la mia presenza è corporea, che la mia realtà carnale sono io, che essa
racchiude la mia identità d’essere e d’apparire. Apparire agli altri corpi, perché l’uomo ha
bisogno dell’uomo, perché “il singolo è una dimensione deficitaria dell’essere che tende
all’altro in modo da costruire un noi”.20
Un bisogno dunque: recuperare il corpo e riscoprirlo come apertura originaria sul mon-
do.
19 Paulo Coelho, Ser como o rio que flui. Relatos 1998-2005 (2006); tr. it. Sono come il fiume che scorre. Pensieri e riflessioni 1998-2005, Bompiani, Milano, 2006, p. 24
20 Vittorino Andreoli, La vita digitale, Rizzoli, Milano, 2006, p. 32-33.
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Perché la scelta della metamorfosiIl concetto di metamorfosi è nell’inseità di ogni cosa ed essere che abita il mondo, anzi
il mondo stesso è metamorfosi. La prima cosa che ci viene in mente quando pensiamo
al concetto di metamorfosi è quella straordinaria trasformazione che porta il bruco ad
essere farfalla, allorché dalla crisalide che lo contiene emerge una creatura che non ha
nulla in comune con il bruco da cui si è generata. La metamorfosi, infatti, è “l’insieme
delle trasformazioni che si verificano in molti animali (detti a sviluppo indiretto) i quali,
nati morfologicamente e strutturalmente diversi dagli adulti, acquistano attraverso pas-
saggi rapidi, oppure lenti e graduali (fasi larvali) l’aspetto definitivo”.21 La metamorfosi,
come abbiamo visto, trova compiutezza nel regno animale, ma può anche declinarsi in
quello vegetale (“modificazione subita dall’organo di un vegetale per adattarsi alle con-
dizioni ambientali”22). Ma il dizionario ci dice anche che la parola metamorfosi indica
“nella mitologia romana, trasformazione di un essere umano o divino in un altro di natura
diversa”.23
Il termine metamorfosi è scomponibile in due parole: il suffisso meta-, che prende le mos-
se dalla preposizione greca metá, di origine oscura, ma il cui senso primitivo rimanda al
significato di ‘in mezzo a’, con successive estensioni semantiche a ‘fra’, ‘con’, ‘dietro’,
‘oltre’; inoltre, dal latino meta siamo indirizzati verso i significati di ‘termine’, ‘fine’,
‘estremità’, ‘confine’, ma soprattutto verso quello di “punto dove si gira”. Invece, la se-
conda parte (‘morfosi’) deriva dal greco morphé, ovvero ‘forma’. L’unione delle due dà,
appunto, origine a metamórphosis, dal verbo metamorphôun ‘trasformarsi’ (anche in lat.:
metamorphosi(n)); gr. metaplasmós, dal verbo metaplássein ‘trasformare’).
La metamorfosi, dunque, è un andare oltre la forma, uno scadere d’una prima forma che
s’esaurisce nella transizione ad altra forma, proprio come nel caso dei granchi, che as-
sumono forme larvali diverse fino a diventare adulti. La metamorfosi, come direbbero i
21 Definizione di “metamorfosi” tratta da ENCICLOPEDIA TEMATICA ‹‹le Garzantine››, Le scienze, Edizione speciale per il ‹‹Corriere della Sera››, RCS Quotidiani S.p.A., Milano,2006.
22 Definizione n. 4 di metamorfosi tratta dal Dizionario della Lingua Italiana Zingarelli, Zanichelli Edi-tore, Bologna, 1970.
23 Definizione n. 1 di metamorfosi tratta dal Dizionario della Lingua Italiana Zingarelli, Zanichelli Edi-tore, Bologna, 1970.
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I N T R O D U Z I O N E
latini è un ‘transitus in aliam figuram’, una ‘trasfiguratio’, è mutamento, trasformazione,
trasferimento; e ancora, successione, posteriorità, al di là, qualcosa che trascende una
condizione primaria.
Metamorfosi è anche adattamento, come per alcune specie animali, per le quali essa,
ripetuta più volte, diventa una strategia di sopravvivenza: Adriano Zanetti, entomologo
e collaboratore del Museo di storia naturale di Verona, spiega che “la cantaride, un co-
leottero, ha più metamorfosi: la prima larva si muove, sale sui fiori e ha uncini con cui
si attacca alle api di passaggio. Arrivata nell’alveare, muta in una larva immobile che
mangia miele e per diventare adulta si trasforma altre cinque volte”.24 Metamorfosi vuol
dire anche invasione, tant’è che una specie può colonizzare due ambienti diversi: è il
caso dei girini, che vivono in acqua e quando questa evapora conquistano la terraferma,
mutando in rane. E pure l’uomo (appartenente ai mammiferi), subisce una metamorfo-
si, come ricorda Giorgio Celli, entomologo ed ex-direttore dell’istituto di entomologia
dell’Università di Bologna, dicendo che “nel ventre materno avviene un rimodellamento
continuo del feto. Si sviluppano e scompaiono strutture non funzionali come le branchie,
che ricordano antiche tappe della nostra specie”.25 Un assunto che non ci fa dimenticare la
nostra (darwinistica) deriva animalesca, il nostro apparentamento con quel regno animale
da sempre presente nell’immaginario umano, quel filo di tensione che percorre lo stesso
regno (animale) abitato da uomini e bestie.
Ma il corpo umano differisce da quello animale, per il quale l’ambiente è sempre immobi-
le, un ambiente cui adattarsi e che risponde sempre e solo ad un sistema di bisogni e istin-
ti. L’uomo è dotato della capacità di scelta e soprattutto della coscienza del divieto, che si
costituisce come visione del mondo, perché percorso dalle possibilità della trasgressione.
“Se infatti ci dovesse capitare di osservare il divieto senza l’impulso alla trasgressione,
non ne avremmo più coscienza e la nostra esperienza non sarebbe più “umana” ma “na-
turale”, come quella degli animali che non conoscono né divieti né trasgressioni”.26 Il
corpo dell’uomo non è solo organismo biologico, bensì un’essenza identitaria diversa da
24 Giovanna Camardo, Metamorfosi, in ‹‹Focus››, n. 47, Settembre 1996, pp. 9-10.
25 ivi, p. 10.
26 Umberto Galimberti, op. cit., p. 461.
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P E R C H E ’ L A S C E LTA D E L L A M E TA M O R F O S I
qualsiasi altra: i fatti umani non sono soltanto il riflesso di sintomi organici, bensì ogni
fatto, pur rispondendo allo stesso stimolo di un altro, ha un significato differente. Que-
sto perché l’uomo sa appropriarsi del mondo, egli costruisce strumenti per modificare
l’ambiente e superarlo: egli, cioè, è proteso verso il futuro, quindi gli strumenti sono per
il corpo umano possibilità di abitare spazi nuovi. È qui dunque che si innesta il discorso
della tecnica, che significa “saper fare” e quindi rimanda all’azione dell’uomo di fronte
all’immobilismo animale. Con l’azione della tecnica l’uomo svela l’essenza delle cose e
in più rende le possibilità degli elementi naturali delle probabilità. Proprio in questo modo
“il corpo abita il mondo creandolo attraverso l’ordine degli strumenti che lo rendono pre-
sente ovunque, perché tutti gli si riferiscono e in essi il corpo si estende”.27
Così è la storia stessa dell’Occidente che si fa “progressivo impadronirsi delle cose, cioè
progressivo approfittare della loro disponibilità assoluta e della loro infinita oscillazione
tra l’essere e il niente”. Tale progetto è totalizzante e totalitario, poiché tende a costituire
come ente tecnico l’uomo stesso, perché “la civiltà della tecnica [...] si é già incamminata
verso la produzione dell’uomo, della sua vita, corpo, sentimenti, rappresentazioni, am-
biente, e della sua felicità ultima”.28
Arriviamo così ad avvicinarci alle metamorfosi che si stanno compiendo in questa nostra
epoca postmoderna, un’era fortemente caratterizzata dalla simulazione, un’era in cui la
riproduzione sociale, che avviene attraverso l’elaborazione delle informazioni e la comu-
nicazione, sostituisce la produzione, in quanto forma organizzatrice della società e segno
esistente nel sistema simbolico.
L’iperreale, per paradosso, è più reale del reale e controlla e domina il pensiero e il com-
portamento attraverso la proliferazione e la diffusione di un flusso incontenibile di im-
magini e segni, che spingono l’umanità a fuggire dal deserto del reale, per sperimentare
l’estasi dell’iperrealtà, attraverso il nuovo regno dei computer, dei media e dell’esperienza
tecnologica. Le soggettività individuali si frantumano a causa di nuove esperienze senso-
riali e relazionali, date dall’estasi comunicativa che sovraespone il soggetto alle immagini
27 ivi, p. 163.
28 Emanuele Severino, Techne. Le radici della violenza, Rizzoli, Milano 2002, p. 257.
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I N T R O D U Z I O N E
istantanee e all’informazione, rendendolo un’entità influenzata dai media, dall’esperienza
tecnologica e dall’iperreale.
Tutte le nuove tecniche di visualizzazione, realtà Virtuale, olografia, 3D, sistemi interatti-
vi, morphing e anche certi strumenti del desktop invitano l’uomo-utente a rientrare nello
spettacolo.
Il tatto ci conduce nel mondo. Lo sguardo ci scoperchia il mondo. E tutte le altre attività
sensoriali, udito, gusto e odorato portano il mondo dentro di noi. L’utente di un multime-
dia è risucchiato nel mondo, dimostrando così il rovesciamento epistemologico implicito
nell’emigrazione della mente dalla testa allo schermo.
La metamorfosi, dunque, è in continua azione e coinvolge qualsiasi essere vivente pre-
sente su questa Terra e vuole qui farsi strumento privilegiato d’indagine dei contatti d’un
corpo (quello umano) in divenire continuo, mai immobile né uguale a se stesso. Indagare
le contaminazioni di natura diversa che ne hanno determinato e ne continuano imperter-
rite a determinare un mutamento senza fine. Cercare di capirne le ragioni d’attuazione,
quale impulso (verrebbe da dire sottocutaneo) ne alimenta la spinta propulsiva, definire
in che modalità e perché il corpo si fa protagonista assoluto della propria metamorfosi; e
capire tutto ciò attraverso la straniante lente d’ingrandimento della fantascienza (cinema-
tografica).
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I L M I T O C H E A N T I C I PA L A L E T T E R AT U R A D I F A N TA S C I E N Z A
Il millenario gomitolo del mitoPotendo si sarebbe fatto volentieri a meno di tanta mitologia. Ma siamo con-
vinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo, cioè non qualcosa di
arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una
particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere. Quando ri-
petiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, esprimiamo in mezza
riga, in poche sillabe, un fatto sintetico e comprensivo, un midollo di realtà che
vivifica e nutre un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso
concettuale. Se poi questo nome, questo gesto ci è familiare fin dall’infanzia
dalla scuola tanto meglio. L’inquietudine è più vera e tagliente quando som-
muove una materia consueta.Avvertenza in “Dialoghi con Leucò”
Cesare Pavese
Il mito che anticipa la letteratura di fantascienzaNon v’è cultura antica, civilizzata, primitiva, moderna che non abbia i propri miti. Ovun-
que il bisogno dell’uomo di raccontare voglia dare sfogo alla parola (dal greco mythos, la
parola mito assume due accezioni generali: parola e racconto1), eccolo materializzarsi in
narrazioni mitologiche.
Storie simili in luoghi differenti e in tempi differenti, frutto di uno spostamento di cono-
scenze portato in giro da viaggiatori e mercanti o forse più probabilmente frutto di espe-
rienze, invenzioni, intuizioni, sentimenti similari nati in corpi d’uomini lontani geografi-
camente e culturalmente. Miti che cambiano nello spazio, miti che cambiano nel tempo,
che si fondono e si con-fondono, che sviluppano varianti e riflettono la potenza di una
parola mitica che già nel suo sorgere reca con sé il seme della trasformazione.
Ora, qui non vogliamo delineare una puntigliosa analisi del mito e della mitologia, ma
cercare di tracciare delle linee di base che permettano di capire cosa può essere in poche
parole il mito, a cosa rimanda e quale sia la sua valenza letteraria nella costruzione di
schemi (nel nostro caso fantascientifici) per la comprensione del mondo.
1 Riferimento a Liddell-Scott, A Greek-English Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1996 in Julien Ries, Le Mythe et sa signification, 2005; tr. it. Il mito e il suo significato, Jaca Book, Milano, 2005, p. 7.
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I L M I L L E N A R I O G O M I T O L O D E L M I T O
Dare un’interpretazione univoca del mito è impossibile, poiché la sua essenza è quanto
più di polisemico si possa immaginare. Come indica lo studioso Julien Ries, possiamo in-
dividuare almeno quattro diverse linee interpretative del mito, che tratteggiano i contorni
di quattro prospettive differenti:
Razionalistica• : il mito è un tentativo di spiegazione dell’universo, frutto dell’im-
maginazione poetica; esso è utile a fornire una risposta provvisoria alle questioni
poste dall’umana curiosità di conoscere la ragione delle cose.
Positivistica• : il mito è un insieme di fatti anteriori alla storia, ovvero leggende o
racconti costituiti in parte da episodi meravigliosi o soprannaturali (miti cosmo-
gonici o miti eroici).
Religiosa• : il mito è un racconto che riguarda il sacro, inseparabile dal rito, che
contribuisce anche a fondare la vita della società, che narra la storia sacra di un
evento esemplificativo per l’oggi.
Sociologica• : il mito è una rappresentazione collettiva d’origine sociale e in vista
di un’azione sociale, ovvero l’oggetto di una credenza collettiva che produce la
comunione in un gruppo. 2
I miti sono storie che trattano della creazione e della distruzione, della vita e della morte,
indagando e spiegando il perché e il come dell’esistenza. Quando pensiamo al mito viene
immediatamente a galla in noi l’immagine dell’Olimpo e degli dei greci, ma essi non
sono che una parte della mitologia del mondo. Ogni mito ha radici profonde nel cuore e
nell’anima del popolo che l’ha generato.
Il tempo del mito è simile a quello della fiaba, che la cornice del “C’era una volta” inqua-
dra da subito in maniera precisa e molto somiglia al “in illo tempore” mitico (‘in origine’,
o meglio ‘quando ancora non c’era tempo’). Un’espressione che già definisce con chia-
rezza il tempo d’azione del mito, ovvero quel time beyond time (il tempo oltre il tempo),
quell’attimo sacro che lo rende eternamente presente. Un tempo ciclico, dove il futuro
ricalcherà le orme del passato, in un presente che può sempre auscultarlo.
Pur essendo il mito un eterno ritorno del bisogno di raccontare insito nell’uomo e pur es-
2 Per questa schematizzazione si è fatto riferimento a Julien Ries, Le Mythe et sa signification, 2005; tr. it. Il mito e il suo significato, Jaca Book, Milano, 2005, pp. 22-24.
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sendo la finzione che esprime formalmente o morfologicamente analoga alla fantascien-
za, esso si discosta nella sua funzione. Molti generi finzionali (tra cui la narrativa) hanno
aspetti “mitoformi”, ma nel loro messaggio sono diversi dal mito. Infatti, ricorda Darko
Suvin che “il mito assolutizza e addirittura personifica motivi apparentemente costanti
che appaiono in periodi di dinamica sociale lenta, e afferma di spiegare l’essenza eterna
dei fenomeni. Al contrario, la fantascienza afferma di organizzare caratteristiche e costel-
lazioni variabili – spaziotemporali, biologiche, sociali e altro – sotto forma di mondi e
agenti specifici e funzionali. Per usare una metafora matematica, il mito si orienta verso
le costanti, la fantascienza verso le variabili”.3
In questo senso la fantascienza mette a fuoco gli elementi variabili e orientati verso il
futuro e “se il mito pretende di spiegare una volta per tutte l’essenza dei fenomeni, la
fantascienza li pone innanzitutto come problemi e poi guarda dove portano [...] Essa non
si interroga sull’Uomo o sul Mondo; chiede invece: quale uomo? In che tipo di mondo?
E: perché quell’uomo in quel mondo?”.4
È fuor di dubbio che il contenuto del mito riguarda l’uomo e, in particolare, i miti di rin-
novamento trovano un risvolto rilevante nelle narrazioni fantascientifiche, perché come
esse assolvono ad una funzione di svelamento, così in essi il mondo rivela un elemento
nuovo, quindi c’è una ri-attualizzazione, una ri-creazione.
A tal proposito ricordiamo il sostegno che Platone dà al mito, ritenendo vada reinterpreta-
to in quanto utile, anzi, necessario. Secondo lui, infatti, il mito va inteso come esposizione
di un pensiero ancora nella forma di racconto, non quindi come ragionamento puro e ri-
goroso. Esso ha una funzione allegorica e didascalica, presenta cioè una serie di concetti
attraverso immagini che facilitano il significato di un discorso piuttosto complesso, cerca
di rendere comprensibili i problemi, creando nel lettore una nuova tensione intellettuale,
un atteggiamento positivo nei confronti dello sviluppo della riflessione. Il mito dunque
presenta con un’unità armonica argomenti che non potrebbero essere esposti altrimenti e
3 Darko Suvin, Metamorphoses of Science-Fiction. On the Poetics and History of a Literary Genre, New Haven, Yale University Press, 1979; tr. it. Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 44.
4 ivi, p. 23
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al contempo diventa strumento di verità. Ecco perché i racconti mitici platonici toccano le
questioni fondamentali dell’esistenza umana, come la morte, l’immortalità dell’anima, la
conoscenza, l’origine del mondo, e le collegano strettamente ai temi e ai discorsi logico-
critici, a cui il filosofo affida il compito di produrre una conoscenza e una rappresentazio-
ne vere della realtà.
Il mito è un linguaggio che si fa portatore di un messaggio simbolico, e attraverso il mito
possiamo capire come l’uomo abbia via via compreso il proprio posto nel mondo. Dice
Julien Ries che “i miti sono dei modelli dati all’umanità. Occorre saper scegliere fra i mo-
delli da applicare alla propria società, ma diffidando sempre di tutte le derive possibili”.5
Le Metamorfosi di Ovidio archetipo della trasformazione
“La metamorfosi è un fantastico giocare con la morte, eluderla su una scac-
chiera amplificabile all’infinito”6
Con le Metamorfosi Ovidio dà nuova vita all’intera mitologia, intesa come categoria di
manifestazioni del pensiero umano; con esse ci vuole raccontare la storia del mondo sotto
specie metamorfica, tanto che la narrazione si trasforma in continuazione, adeguandosi
anch’essa a quella legge della metamorfosi che governa l’intera realtà. Infatti, la struttura
del poema riproduce il senso di un’esistenza continuamente mutevole, incerta, vissuta
dagli uomini in balìa degli eventi; e la proliferazione dei punti di vista rispecchia quella
frammentazione di verità che anche il nostro mondo sperimenta quotidianamente nelle
sue invasive diramazioni mediatiche, riflessi di una realtà non più assoluta ma relativa e
parziale, fluida e sfuggente.
Frammenti continui di una realtà spezzettata, in cui ogni pezzo succede all’altro in ve-
5 Danele Zappalà, Il degrado del mito, intervista a Julien Ries [http://www.db.avvenire.it/avvenire/edizione_2006_01_11/agora.html].
6 Pierpaolo Fornaro, Metamorfosi con Ovidio. Il classico da riscrivere sempre, Olschki, Firenze, 1994, p. 312.
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locissima sequenza, così come nelle Metamorfosi, dove “tutto deve succedersi a ritmo
serrato, imporsi all’immaginazione, acquistare evidenza, dileguare. È il principio del ci-
nematografo: ogni verso come ogni fotogramma dev’essere pieno di stimoli visuali in
movimento. L’horror vacui domina sia lo spazio che il tempo”.7 Poema in divenire, del
divenire, della forma che si tras-forma, esso viaggia sempre in un presente (verbale e
situazionale) che evoca di continuo, in un procedimento che, chiamando in causa più sog-
getti mentre compiono azioni parallele, richiama alla mente il meccanismo del montaggio
alternato cinematografico, allorché lo schermo ci restituisce situazioni disperse geografi-
camente ma in unità di tempo, grazie all’armonico lavoro del montatore.
Le Metamorfosi sono animate da una “filosofia della parentela”: tutto ciò che esiste al
mondo, cose ed esseri viventi, sono avvinti da un vincolo reciproco, che mai li sminui-
sce ma sempre dona ad ogni singola forma qualcosa in più; questa, infatti, è l’economia
del poema, sia stilisticamente (Ovidio affonda la parola della descrizione in un dettaglio
sempre maggiore) sia semanticamente (le forme nuove cercano di recuperare quanto più
possono dalle vecchie appena abbandonate).
La metamorfosi nasce dal bisogno di spiegare le cose umane in termini extra-umani (mi-
tici) e dall’idea che esistano possibilità di transizione fra i regni della natura. E anche se
i miti hanno abdicato al loro valore sacro, religioso, “la metamorfosi resta il motivo che
meglio spiega e giustifica, poeticamente, ma anche logicamente, il loro tipico intreccio di
mondo divino, mondo umano e mondo della natura”.8
Una con-fusione di regni, con uomini, dèi ed elementi naturali che si compenetrano, in-
trecciandosi inestricabilmente, e innestando ogni ramo il proprio germoglio nel corpo
di un altro. Ogni soggetto (od oggetto) d’un regno influisce su quello di un altro regno,
ciascuno secondo una propria diversa misura. Il mito, in Ovidio, diventa perciò un cam-
po di tensione in cui queste forze portatrici di mutamento mai smettono di scontrarsi e
bilanciarsi. Secondo Italo Calvino, quando ci immergiamo in esso è come se fossimo “in
7 Italo Calvino, Gli indistinti confini, in Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Einaudi, Torino, 1994, p. XII.
8 Piero Bernardini Marzolla, Introduzione, in Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Einaudi, Torino, 1994, p. XX.
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I L M I L L E N A R I O G O M I T O L O D E L M I T O
un universo in cui le forme riempiono fittamente lo spazio scambiandosi continuamente
qualità e dimensioni, e il fluire del tempo è riempito da un proliferare di racconti e di cicli
di racconti. [Inoltre] la contiguità tra dèi ed esseri umani – imparentati agli dèi e oggetto
dei loro amori compulsivi – è uno dei temi dominanti le Metamorfosi, ma non è che un
caso particolare della contiguità tra tutte le figure o forme dell’esistente, antropomorfe o
meno”.9
L’interesse per questa tematica era comunque già presente da secoli in autori come Ni-
candro di Colofone, Boio, Partenio di Nicea, Emilio Marco (contemporaneo di Ovidio).
Purtroppo quelle opere sono andate completamente perdute, ma resta da definire il perché
di tale scelta ad opera di svariati autori. Probabilmente perché la metamorfosi, il cam-
biamento, ha sempre interessato da vicino l’uomo, perché egli è un soggetto in continua
trasformazione, sempre in bilico tra il possesso di una forma ed il repentino volgersi ver-
so un’altra. Continuamente affascinato dal possibile divenire oppure drammaticamente
costretto a subire un mutamento. La metamorfosi in sé è anche un dramma, una vicenda
dolorosa che riguarda l’azione compiuta (dal tardo latino drama, col der. dramaticu(m),
dal greco drâma, dramatikós: da drân ‘fare’, ‘agire’).
Ovidio ci mostra il dramma di queste personalità rivestite di un corpo che non è il loro, un dramma dupli-
ce: quello dell’io che ha perduto la propria identità, cioè i connotati che permettono di identificarlo, che lo
rendono riconoscibile agli altri, e quello dell’io che non riesce a esprimersi.10
Il fatto è che la metamorfosi è di per se stessa un fenomeno ambiguo, un evento tragico
e distruttivo, declinato secondo modalità di volta in volta differenti (premio, rimedio,
punizione); ed è altresì imprevedibile, pronta ad intervenire in qualsiasi momento e sotto
qualsiasi aspetto, travestita da seduttore, come scampo dell’insidiata o punizione della se-
dotta da parte d’un’altra divinità gelosa. Comunque sia, essa è quella zona incerta che sta
a cavallo fra la demolizione di un essere e la sua simultanea ricostruzione come altro, in
ossequio ad un principio di continuità delle forme. Allora il cambiamento è un’afferma-
9 Italo Calvino, op. cit., p. VII.
10 Piero Bernardini Marzolla, op. cit., p. XXIV.
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L E M E T A M O R F O S I D I O V I D I O A R C H E T I P O D E L L A T R A S F O R M A Z I O N E
zione incondizionata della vita, una sua perpetuazione e vige come legge di un universo
che continuiamo ad abitare anche noi, ancora lettori del mondo meraviglioso narrato da
Ovidio. Infatti, la sua è un’esigenza tutta nuova: narrare. In questo senso egli diviene con
le Metamorfosi il rappresentante autore della prima opera narrativa dal grande respiro
della letteratura occidentale. Ovidio ha sussunto in essa tutto. Tutte le forme della lette-
ratura e dell’arte antica sfociano nel suo poema, come summa pittorica dell’esperienza
umana.
L’iconografia desunta dalle Metamorfosi non è limitata alle arti maggiori ma è diffusa in tutti i prodotti delle
cosiddette arti minori (arazzi, decorazioni, oggetti artistici di vario tipo) e nelle illustrazioni di codici ed
edizioni a stampa (di numero rilevante gli uni e le altre).11
Le Metamorfosi di Ovidio, più di ogni altro testo antico, hanno contribuito a mantenere
in vita nell’arte e nella letteratura occidentali la tradizione mitologica classica. Esse sono
divenute paragone di riferimento per tutte le volte che la tradizione europea dei secoli a
venire (sino ad oggi) ha voluto affrontare il tema della metamorfosi; ed ogni mito narrato
nel poema è divenuto un simbolo inserito nell’immenso immaginario comune. Un imma-
ginario stimolato dal perfetto lavoro registico del poeta, che permette di percepire i miti
narrati come scene, trasportabili in altre arti. Egli rende immediatamente visualizzabile
con le parole l’immagine cui esse riferiscono, dotate di una plasticità visiva, efficace a tal
punto da rendere quasi presenti accanto al lettore le vicende stesse.
Egli ha la grandissima capacità di farci vedere processi complicati come quelli meta-
morfici, scomponendoli in trasformazioni più semplici, conciliabili con l’immaginazione
umana. Infatti, “Ovidio non vuole rendere credibile il passaggio da una forma all’altra ma
vuole renderlo immaginabile. La parola poetica di Ovidio crea un effetto illusionistico
mediante una razionalistica scomposizione e ricomposizione degli elementi che costitui-
scono l’oggetto (o l’essere) originario e l’oggetto (o l’essere) trasformato”.12
11 Emilio Pianezzola, Il mito e le sue forme. L’eredità delle “Metamorfosi” nella cultura occidentale in Ovidio, Metamorfosi, M. Ramous (cur.), Milano, Garzanti, 1992, pp. LXIX-LXX.
12 ivi, p. LIX.
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I L M I L L E N A R I O G O M I T O L O D E L M I T O
Egli è un artista del puzzle, abilissimo nello smontare e rimontare, così come la fanta-
scienza compone e ricompone, con lo stesso intento comune ai due: farci vedere rapporti
fra le cose prima insospettati.
E come la fantascienza è il luogo della metafora, allo stesso modo i miti ovidiani si fanno
metafora, o meglio, rivelano questa proprietà tropica delle metamorfosi in essi contenu-
te. Infatti, così come la metafora trasferisce il significato di una parola ad un’altra il cui
rapporto con la prima è di somiglianza, così le metamorfosi trasformano un essere in
qualcosa d’altro che nella sua nuova forma conserva residui delle spoglie vestite sino ad
un attimo prima.
Ecco dunque congiungersi e saldarsi fermamente nel cinema di fantascienza quel moto
ondoso della realtà che già Publio Ovidio Nasone duemila anni fa aveva colto con le sue
Metamorfosi.
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U N A L U N G A S T O R I A C H E C O M I N C I A D A . . .
La fantascienza sotto il riflettoreUna lunga storia che comincia da...
La fantascienza è la ricerca di una definizione dell’uomo e del suo ruolo
nell’universo basata sulla nostra avanzata, ma confusa, conoscenza scienti-
fica.
Brian Aldiss
La fantascienza permette all’uomo di trasferire la propria esperienza reale in un luogo fuori
dal tempo, in una specie di grande incubatrice ove riscaldare i propri pensieri sull’univer-
so, senza dissiparne il calore. La fantascienza è da sempre latente nelle coscienze umane,
soltanto che solo nel XIX secolo è affiorata come una pangea alla superficie del senso
comune, formandosi via via come genere letterario. Nessun canone per la fantascienza
nei secoli precedenti, nessuna formula che la rinchiudesse, ma già esistevano i resoconti
dei viaggiatori che riportavano nel proprio mondo la descrizione di posti lontani, mai vi-
sti, incontaminati, diversi: infatti, al seno della diversità s’approvvigiona la fantascienza,
sfruttando sin da lontano (XVII – XVIII secolo) l’onda dell’esotismo letterario. L’occhio
umano che coglie particolari differenti da quelli cui è solito assistere e li riporta nelle
proprie cronache d’anonimo viaggiatore: uomini andati da qualche parte, lontani dal qui
ed ora, e tornati con le storie di culture, paesaggi, flora, fauna diverse.
La fantascienza parte da un approccio pre-scientifico o quanto meno proto-scientifico di
critica sociale, in una parabola d’avvicinamento alle scienze umane e naturali le quali,
nel XIX secolo, superano addirittura l’immaginazione letteraria. E nel XX secolo la fan-
tascienza diventa davvero una letteratura d’anticipazione, di richiamo, un compasso da
puntare sulla realtà per descriverne concentriche possibili alternative.
La fantascienza è uno sguardo continuo su un presente in perenne mutazione che, par-
tendo da premesse scientifiche, offre visioni di un’alterità possibile oltre il contingente.
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L A F A N TA S C I E N Z A S O T T O I L R I F L E T T O R E
È uno strumento d’osservazione multiforme, che ci introduce alla realtà, ce la mostra,
sembra distaccarsene spinta da un propulsore di diversità, mentre altro non è che parte
di quella stessa realtà, in essa latente e poi portata alla luce del sole. Un grimaldello con
cui scardinare il presente, aprendo scenari futuri prima impensati ed impensabili. Ecco
perché la fantascienza viene spesso (giustamente) vestita con abiti da letteratura d’anti-
cipazione.
La fantascienza, però, non può essere profezia, perché non ha un carattere univoco, non
legge un solo futuro nella complessità del presente, ma prospetta contraddittorie e infinite
ipotesi, migliaia di possibili futuri.
La science-fiction non è profezia, ma una proiezione appassionata dell’oggi su di un avvenire mitico: e per
questo aspetto partecipa della letteratura e della poesia. È anche previsione e anticipazione, e per quest’al-
tro aspetto partecipa della necessaria astrattezza scientifica [...] Per effetto della rivoluzione operatasi nel
campo fisico-matematico, che ha infranto i limiti oggettivi dell’antica conoscenza ponendo in crisi la stessa
legge di causalità, i confini tra il possibile e l’immaginario sono diventati alquanto incerti.1
La fantascienza non fa altro che estrapolare le angosce e le speranze del tempo che per-
corre, essa coltiva l’interesse per una novità strana, un novum, purché sempre motivato
dai principi fondanti di una scienza vista come motivazione iniziale, innesco della mac-
china fantascientifica. Una fantascienza vera e propria resa possibile proprio a partire
dalla nascita della scienza moderna, in particolare dalle rivoluzioni avvenute nel campo
dell’astronomia e della fisica. Base scientifica e artificio letterario in una perfetta simbiosi
che si realizza con quel “novum cognitivo” di cui parla il critico Darko Suvin:
La posizione di chi scrive è che la fantascienza sia la forma letteraria dello “straniamento cognitivo” e che
debbano essere accettati come primi esempi di fantascienza non solo tutta la narrativa utopistica e gran
parte dei voyages extraordinaires, ma anche molti generi affini risalenti, ad esempio, alla Repubblica di
Platone, a Luciano di Samosata, a Moro, Cyrano e Swift. Questo problema può essere superato se si ricorda
che tra il XVII e il XVIII secolo, all’epoca delle rivoluzioni borghesi (e specialmente della rivoluzione
industriale), accanto ai luoghi tipici della fantascienza, il passato e lo spazio, fu introdotto il futuro, conce-
1 Sergio Solmi, Prefazione, in Sergio Solmi e Carlo Fruttero (cur.), Le meraviglie del possibile. Antolo-gia della fantascienza, Einaudi, Torino, 1959, pag. XXII.
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U N A L U N G A S T O R I A C H E C O M I N C I A D A . . .
pito come una quarta dimensione (come ad esempio in La macchina del tempo di H. G. Wells). E questo
mutamento operato dalla fantasia, omogeneo al tipo di vita introdotto dal capitalismo, è così fondamentale
da caratterizzare l’intero cronotopo della fantascienza anche là dove essa continua (come in Verne o nel-
le prime avventure interplanetarie) a essere collocato nello spazio, o addirittura nei casi in cui ritorna al
passato (come in Uno yankee del Connecticut alla corte di re Artù di Mark Twain o nel sottogenere fanta-
scientifico del “romanzo preistorico”). Pertanto si può individuare un corpus - lo si chiami poi “passaggio
all’anticipazione” o fantascienza tout court - il cui termine a quo è l’ambiguo gruppo di scritti dell’epoca
delle rivoluzioni democratiche. Questo corpus inizierebbe con gli entusiasmi per le innovazioni più radicali
di L’anno 2440 di Sebastien Mercier e del Prometeo liberato di Percy Bysshe Shelley, e con la reazione a
esse del Frankenstein ovvero il moderno Prometeo di Mary Wollstonecraft Shelley e di alcuni racconti di
Poe. Il corpus della fantascienza risultante da un approccio di questo tipo, accettabile nelle sue linee gene-
rali, potrebbe essere suddiviso in una parte premoderna e in un’altra moderna, con Wells come momento di
passaggio fra il cronotopo newtoniano e quello einsteniano, tra un’anticipatoria pretesa all’estrapolazione e
“mondi possibili” alternativi, peraltro decisamente analogici al nostro.2
Applicato originariamente dai formalisti russi, il concetto di straniamento viene poi fatto
proprio da Bertolt Brecht, che lo ha definito una “raffigurazione che lascia bensì ricono-
scere l’oggetto, ma al tempo stesso lo fa apparire estraneo. [Ognuno] dovrebbe riuscire a
sviluppare in sé l’occhio estraneo con cui il grande Galilei osservò la lampada oscillante.
Costui guardò con meraviglia le oscillazioni, come se così non le avesse previste e pro-
prio non le capisse; e in tal modo poté poi scoprirne le leggi [...] non si può semplicemente
protestare che questo atteggiamento è proprio della scienza ma non dell’arte. Perché mai
l’arte a modo suo non potrebbe tentare di assolvere al grande compito sociale di rendersi
padrona della Vita?”.3
E lo stesso principio straniante è nel fondo del mito, poiché esso scruta ciò che sta oltre
la superficie empirica delle cose, pur se questo “concepisce le relazioni umane come fisse
e determinate dal sovrannaturale”4, contraddicendo quindi l’approccio cognitivo della
2 Darko Suvin, Metamorphoses of Science Fiction. On the Poetics and History of a Literary Genre, New Haven, Yale University Press, 1979; tr. it. Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario, Bologna, Il Mulino, 1985.
3 Bertolt Brecht, Kleines Organon für das Theater, in Gesammelte Werke, vol. VI, Frankfurt, 1973; tr. it. Breviario di estetica teatrale, in Scritti teatrali, Einaudi,Torino, 1962, pp. 94-130.
4 Darko Suvin, op. cit., p. 23.
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L A F A N TA S C I E N Z A S O T T O I L R I F L E T T O R E
fantascienza che considera le leggi d’ogni tempo modificabili.
La fantascienza, infatti, è sempre stata conquista di spazi nuovi da rimodellare e da riem-
pire. Territori nuovi da riplasmare, continuando a spostare la frontiera della conquista ver-
so vergini colonie. La fantascienza permette di estrapolare dalla realtà che sonda sempre
rinnovate possibilità di giudizio e di conoscenza.
La differenza sta nel fatto che i miti e le leggende antiche raggiungevano quello scopo sullo sfondo di un
Universo dominato da dèi e demoni, che a loro volta potevano venire controllati per mezzo di formule
magiche, sotto forma di incantesimi coercitivi o di preghiere suadenti. La fantascienza, invece, soddisfa gli
stessi bisogni sullo sfondo di un Universo regolato da leggi impersonali ed inflessibili, che possono a loro
volta essere controllate mediante una migliore comprensione della loro natura.5
È indubbio comunque che le vicende del fantastico prendono le mosse da lontano e, sro-
tolando il filo che conduce fino all’entrata del labirinto, ovvero ai modelli letterari che ne
fondano lo stimolo immaginativo, arriviamo direttamente nell’antichità, fino a Platone
ed a Luciano di Samosata, con quest’ultimo che nella sua Storia Vera immagina incontri
extraterrestri fatti in un viaggio al di là delle colonne d’Ercole.
Muoversi, andare, spingersi oltre, il principio del fantasticare sta nel viaggio verso un’iso-
la sconosciuta, da quella immaginaria e abitata da una società ideale che Thomas More
fa comparire nel suo L’utopia (1516) a quella altrettanto utopica de I Viaggi di Gulliver
(1726) di Jonathan Swift. Certo, questi due romanzi furono strutturati sotto forma di
satira politica, ma possiamo prenderli come spunto iniziale per lo sviluppo moderno di
un’immaginazione che oltrepassa il reale soltanto con la “scusa” di porvi al di sopra una
cortina di riflessione.
Altri esempi dello sconfinamento nel surreale trovano conferme nei viaggi immaginari
sulla Luna compiuti da Giovanni Keplero nel Somnium (1634) o nelle evasioni mentali
d’un Savinien Cyrano de Bergerac con L’altro mondo o Gli stati e gli imperi della Luna
(L’autre monde ou Les états et empires de la Lune, 1657), alla scoperta di mondi nuovi in
5 Isaac Asimov, L’universo prescientifico, in ‹‹Rivista di Isaac Asimov››, n.3, primavera 1980 [tratto da http://www.liberliber.it/biblioteca/tesi/lettere_e_filosofia/sociologia_della_letteratura/la_fantascienza_ri-torno_al_fantastico/html/cap03.htm#8].
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U N A L U N G A S T O R I A C H E C O M I N C I A D A . . .
cui riambientare nuovi racconti di fantasia. Un inesauribile lavoro di ricerca d’un diverso
immaginario che rifletta la realtà, un po’ come entrare in uno di quei labirinti degli spec-
chi che possiamo trovare nei luna park e vedere la propria immagine riflessa che viene
deformata; lo stesso accade per le storie fantastiche che, con la forza d’una architettura
immaginaria, riproducono luoghi mai visti, ma in realtà riverberi deformati della “nor-
male” realtà.
A spazzare il campo da residui esotici o appendici fantastiche esclusive frutto di un lavo-
rio sul diverso nel nostro mondo, arriva la temeraria e giovane scrittrice Mary Wollsto-
necraft Shelley, che con L’ultimo uomo e, soprattutto, Frankenstein ovvero il moderno
Prometeo traccia gli inizi del sentiero orrorifico ed apre le vie ad una proto-fantascienza,
ovvero ad una base scientifica su cui s’innesta l’immaginazione, come ricorda la stessa
autrice nell’introduzione al romanzo.
Lunghe e numerose furono le conversazioni tra Lord Byron e Shelley, e io vi prendevo parte come devota
ma pressoché muta ascoltatrice [...] Si parlò anche degli esperimenti del dottor Darwin [...] il quale aveva
conservato sottovetro un segmento di vermicello finché non si era mosso, sospinto da un’energia di origine
ignota. Ma dopotutto ciò non significava ‹‹dare la vita››. Forse un cadavere poteva essere rianimato: con il
galvanismo si era ottenuto qualcosa del genere; forse le diverse parti di un corpo potevano essere manipo-
late, riunite e animate da un nuovo soffio vitale.6
E dalle premesse passa al racconto della germinazione immaginaria del mostro:
Vedevo l’orrida forma di un uomo disteso, poi una macchina potente entrava in azione, il cadavere mostrava
segni di vita e si sollevava con movimento difficoltoso, solo parzialmente vitale. Doveva essere terrificante
come terrificante sarebbe l’effetto di qualsiasi opera umana che riproducesse lo stupendo meccanismo del
Creatore del mondo. L’artefice è atterrito dal proprio successo [...] La mattina seguente annunciai di avere
trovato una storia. Cominciai lo stesso giorno con le parole: Fu in una notte tetra di novembre, e mi limitai
a trascrivere il nero terrore del mio incubo da sveglia. 7
6 Mary Wollstonecraft Shelley, Frankenstein, or The Modern Prometheus, 1818; tr. it. Frankenstein ovvero Il moderno Prometeo, Garzanti, Milano, 1991, pp. 6-7.
7 ivi, pp. 7-8.
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L A F A N TA S C I E N Z A S O T T O I L R I F L E T T O R E
E ancora, a cavallo tra il XIX e il XX secolo catturano le pupille dei lettori americani i
romanzi scientifici di H. G. Wells, i viaggi straordinari di Jules Verne, le immersioni nei
mondi esotici e primitivi di E. R. Burroughs col suo Tarzan, le visioni delle terre dimen-
ticate dal tempo di Arthur Conan Doyle.
Ma di questi il più diretto è certamente Wells, che prefigura pressoché tutti gli elementi dell’attuale narrati-
va scientifica, col suo idealismo democratico di militante, la sua cavillosa fantasia tecnologica e biologica,
il gusto utopistico dell’anticipazione avvenirista, non immune di quel sale amaro di negatività che gli pro-
viene in linea diretta dalla tradizione dei grandi utopisti anglosassoni, da Swift a Butler.8
Se al suo avvento (tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo) la fantascienza let-
teraria si configura soltanto come una culla d’evasione nei più sicuri luoghi della fantasia,
al riparo da una realtà e da una letteratura realistica “impegnativa”, a partire dagli scritti di
Hugo Gernsback e John Wood Campbell Jr. e dalla successiva ondata di artisti della penna
Sci-Fi (Isaac Asimov, Ray Bradbury, Robert Heinlein, Theodore Sturgeon), comincia ad
affermarsi come “un genere in grado di analizzare – prima da un punto di vista scientifico,
poi sotto il profilo sociologico e psicologico – gli enormi cambiamenti sociali apportati
dalla scienza e dalla tecnologia, riallacciandosi così alla tradizione utopistico-distopica
che, da Platone a Orwell, si era sempre posta il problema di immaginare possibili mondi
alternativi per comprendere meglio il proprio”.9
Ma quando comincia a delinearsi il filone prettamente fantascientifico in Italia? Già sul
finire del 1800 (ancor prima che facesse la sua comparsa il termine fantascienza) i sup-
plementi domenicali dei quotidiani, le riviste letterarie e collane popolari danno diritto
di cittadinanza a racconti e romanzi di carattere fantascientifico di autori come Emilio
Salgari, Yambo, Luigi Capuana, Guido Gozzano, Massimo Bontempelli; e nemmeno va
dimenticata una Storia filosofica dei secoli futuri, scritta da Ippolito Nievo nel 1860. Ma
la nascita ufficiale della fantascienza in Italia marca l’anno 1952, con il primo numero
della rivista “Scienza fantastica, avventure nello spazio, tempo e dimensione”. Pubbli-
8 Sergio Solmi, op. cit., pag. XI-XII.
9 Riferimento a Paolo Dondossola, Fantascienza e libertà. Gli archetipi letterari e il valore della diver-sità [http://www.club.it/culture/culture2001/paolo.dondossola/corpo.tx.dondossola.html].
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cazione cui ne seguono altre, generalmente di breve vita, ma precedute temporalmente
dalla rivista italiana ‹‹Oltre il cielo›› (che affianca racconti di fantascienza ad articoli su
aviazione ed aeronautica). Anno di grazia il 1952, con la Mondadori che lancia una rivi-
sta ed una fortunatissima collana di romanzi a carattere scientifico, dandole il nome della
musa ispiratrice dell’astronomia: Urania. Una collana che permette in maniera rilevante
la diffusione della fantascienza anche fra gli italiani, portando i propri lettori a conoscere
autori quali James G. Ballard e Philip K. Dick. Autori che già spopolavano in America,
ove la science fiction, discendente diretta degli illustri antenati visti in precedenza, trova
la propria legittimazione nell’anno 1926 con la fondazione della rivista ‹‹Amazing Sto-
ries›› da parte dell’elettrotecnico Hugo Gernsback, il quale vi fa comparire per la prima
volta in assoluto il nuovo termine scientifiction, cambiandolo tre anni più tardi col neolo-
gismo (ormai entrato nell’uso comune) di science fiction.
Essa appare nella sua genesi moderna come punto d’incontro fra lo svago laterale di men-
ti appassionate di ipotesi e di invenzioni ed il gusto popolare per il fantastico, l’avventuro-
so, l’orrido, suscitati dal mito della tecnologia quale magia dell’avvenire. A tal proposito
dice Sergio Solmi che, al suo inizio, “la science-fiction si apparentò, o addirittura s’in-
corporò strettamente – e una tale parentela è ancora in certo grado sensibile nei suoi più
maturi esemplari – con le forme dell’ordinaria letteratura amena e anonima, coi romanzi
d’avventure e quelli polizieschi, prendendo a prestito dagli uni e dagli altri fondamentali
situazioni, effetti e intrecci tipici; e magari anche i temi orripilanti del “romanzo nero”,
non mai scomparsi dai feuilletons e dagli ebdomadari dopo i loro primi trionfi alla fine
del secolo diciottesimo. Se una science-fiction bene intesa si staglia sopra questo pano-
rama diffuso, sia per la superiore ingegnosità delle sue supposizioni e anticipazioni, sia
per l’efficienza letteraria, bisogna tener presente questo suo originario fondo popolare,
persino quello esprimentesi nelle forme deteriori dei fumetti e simili, che le assicura il
suo vero autonomo significato nel nostro tempo”.10 Una sintesi di letteratura d’evasione
che dà sfogo alla propria immaginazione ed una forma di letteratura che fa fermentare la
costruzione tecnico-scientifica dell’avvenire.
10 Sergio Solmi, op. cit., pag. XI-XII.
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L A F A N TA S C I E N Z A S O T T O I L R I F L E T T O R E
Immaginiamo la fantascienza come un grande bacino artificiale ove siano incanalate ac-
que provenienti da due diverse sorgenti: quella della scienza e quella della fantasia. Un
grande lago il cui emissario fantascientifico possa poi buttarsi rinvigorito dalle sue due
componenti nel mare magnum letterario, riflesso del sempre continuo flusso di pensieri
dell’uomo sul suo essere-nell’-universo. E proprio come l’acqua di un fiume è sempre
in movimento nel letto che lo contiene, allo stesso modo la fantascienza non rimane mai
immobile, riflettendo l’eterno movimento della società di cui parla.
Ora, cercando analogie letterarie, potremmo dire che la fantascienza è come una fiaba,
poiché mette in dubbio le leggi del mondo empirico preso in considerazione dal suo auto-
re, anzi il fondo realistico è tutto trasposto e l’arbitrarietà fantastica giunge agli estremi; la
fiaba è la forma letteraria in cui si esprimono i grandi luoghi comuni, le situazioni esisten-
ziali, consce o inconsce, tradotte in simboli rivelatori del loro tessuto umano. Potremmo
dire che le narrazioni di science fiction sono un po’ le fiabe del nostro tempo, ma in realtà
quest’ultima si serve dell’immaginazione per costruire un mondo ipotetico, parallelo al
nostro, in cui tutto è possibile per i lettori, perché mossi da un atto di fede e fantasia. La
fantascienza, invece, sfrutta la propria potenza d’immaginazione, la sostiene con ipotesi
di verosimiglianza scientifica e riesce sapientemente a cogliere le tendenze latenti nella
realtà.
Alla fiaba sfugge l’individualità, la puntualità realisticamente modellata sulla vita, ma il ‘tipico’, ‘l’univer-
sale’ che essa esprime nelle sue trasposizioni immaginarie è sempre radicato, se anche in forma generale e
collettiva, nella concreta condizione umana, così come avviene per l’epico e per il leggendario. Le nuove
mitologie scientifiche dovrebbero dunque essere anch’esse interpretate come simboli, trasposizioni incon-
sciamente allegoriche delle fonde aspirazioni e inquietudini dell’oggi. Ma, mentre il mondo della fiaba, pur
storicamente condizionato nella sua nascita e forma, appare unicamente legato a quei grandi luoghi tipici
essenziali, quello della science-fiction è più ambiguo, in quanto il ‘veicolo’ fantastico dell’universalità
fiabesca si mostra invece obbligato secondo la curvatura storica di un’esperienza propria di un determinato
tempo, il nostro, ossia quella scientifico-tecnologica.11
Se il seme della fantascienza viene gettato nel fertile terreno della letteratura (specie
11 ivi, pag. XVIII.
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americana), germogliando e crescendo sulle pagine di Philip K. Dick, Isaac Asimov, Ray
Bradbury, Robert Heinlein, Arthur C. Clarke, William Gibson e molti altri autori, esso
si fortifica in altro luogo: sullo schermo del cinema. È lì che l’immaginario che le storie
di fantascienza vanno a costituire si radica con più forza, vivificandosi sempre più nelle
sensazioni evocate e sedimentate nel suo pubblico. Certo, la disdicevole deriva commer-
ciale del meta-genere fantascienza scorrazzata da un apparato di effetti speciali che troppe
volte seppellisce la storia per autoreferenziare la propria ‘bellezza’ è il prezzo che paga
la fantascienza nel trasferirsi dalla cellulosa alla celluloide.12 Ma è un prezzo che, proba-
bilmente, la fantascienza (quella che si fa veicolo di significati e non solo di significanti)
paga volentieri, accogliendo nuovi occhi da poter impressionare e nei quali ri-flettere le
inavvertibili percezioni di un mondo intessuto di possibilità.
12 La celluloide (serie di plastiche ottenute da nitrocellulosa al 10-11% di azoto, plastificata con canfo-ra), pur essendo flessibile e resistente all’umidità, è estremamente infiammabile. Dal 1954 non viene più usata per la fabbricazione di pellicole, sostituita prima con triacetato di cellulosa (non più usato) poi dal poliestere (polietilene tereftalato), tuttora usato.
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La potenza del cinemaLa settima arte come macchina del tempo
L’occhio compie il prodigio di aprire all’anima ciò che non è anima: il gaio
dominio delle cose, e il loro dio, il sole.
Maurice Merleau-Ponty
Millenni fa l’immaginario dell’uomo ha cominciato a nutrire, alimentare, crescere se stes-
so con la forza divulgatrice della parola. Una parola che in seguito s’è fatta segno, prima
inciso a mano, poi stampato sulla pagina; e sul binario parallelo della rappresentazione
iconica, la parola s’è trasmutata da disegno, a stampa, a dipinto, a fotografia.
Due lunghi cammini che sul finire del secolo XIX sono conversi verso un incrocio che li
ha definitivamente saldati e fusi insieme in un’unica strada maestra, nel nuovo portante
immaginario che ha trovato nel ‘900 il suo interlocutore privilegiato: il cinema. Parola che
fluisce e immagine in movimento. E, seppur nella pellicola che i fratelli Louis e Auguste
Lumière per primi proiettarono il 28 dicembre 1895 ancora l’udito non veniva appagato
(per ragioni meramente tecniche), la vista del pubblico in sala si lasciava affascinare dal-
la giustapposizione delle immagini che, scorrendo impercettibilmente una dopo l’altra,
offrivano all’occhio proprio quella stupefacente illusione del movimento prima d’allora
mai sperimentata con nessun tipo d’arte. Sebbene la macchina da presa fosse soltanto un
mezzo per la semplice registrazione e replica di quanto si muoveva davanti ad essa (la
prima proiezione fu La Sortie de l’usine Lumière a Lyon), alle quali seguirono altri “ap-
procci pseudo-documentaristici”, l’effetto illusorio arrivava con decisione al suo scopo:
incastrare perfettamente lo spettatore nelle trame di un inganno percettivo senza che egli
si sentisse intrappolato. Insomma, il cinema instaurò un nuovo modo di comunicazione
fondato su rapporti intellettivi del tutto nuovi, ricevendo lo statuto di settima arte, ovvero
di arte che concilia le altre sei (architettura, musica, pittura, scultura, poesia, danza).
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L A P O T E N Z A D E L C I N E M A
Se da un lato (con i fratelli Lumière) il cinematografo si configura come camera fissa
pronta a cogliere una rappresentazione della realtà che semplicemente ‘accade dinanzi
a sé’, dall’altro (con Georges Méliès) diviene filmare un reale fattosi pura invenzione
fantastica, racconto. E con Le Voyage dans la Lune (Viaggio dentro la Luna, 1902) e Le
Voyage à travers l’impossible (Viaggio attraverso l’impossibile, 1904), il regista francese
è il primo ad esprimere quell’intrinseco bisogno di narratività proprio dell’uomo, che sarà
poi perfezionato tecnicamente con lo sviluppo di un montaggio cinematografico: infatti, è
solo con l’allineamento dei materiali presi dalla camera secondo un senso logico (cioè un
metodo per guidare lo spettatore) che il cinema si compie del tutto, divenendo una nuova
autonoma lingua: la lingua dello schermo. Perciò, si va dall’embrionale montaggio di The
Great train robbery (L’assalto al treno, 1903) di Edwin S. Porter, alla grammatica dei
piani, del tempo (uso dei flash-back) e del montaggio alternato (rottura del tempo lineare
che schiude quello emozionale) di Birth of a Nation (Nascita di una nazione, 1915) e In-
tolerance (Intolleranza, 1916) del maestro David Wark Griffith, passando per le immagini
cariche d’espressività di Sergej M. Ejzenštein e Vsevolod I. Pudovkin, fino all’evoluzione
portata avanti, dal momento dell’avvento del sonoro, da Orson Welles.
Già nei secoli XVIII e XIX la curiosità visiva trovava sfocio nell’impiego da divertisse-
ment tipico di strumenti ottici quali i polemoscopi, le camere oscure da tasca, gli zogro-
scopi, i poliscopi; e ancora, l’ampio dispiegamento ottocentesco di lenti, specchi, prismi,
microscopi, telescopi, lanterne magiche e scatole ottiche altro non faceva se non accre-
scere la fascinazione degli spettatori per l’immagine, prefigurando così, in una contami-
nazione fra spettacolo e scienza, lo sguardo come canale di comunicazione privilegiato.
E nel corso del 1800 lo sviluppo della tecnica in campo fotografico s’è poi posto come
elemento determinante alla nascita del cinema. Una galleria di immagini in movimento
divenuta area di possibilità legata allo sguardo.
Il cinema è una rappresentazione ideale del mondo, del quale ci restituisce i dati essenzia-
li, che nel caos della nostra esistenza non riusciremmo a cogliere. La sua funzione è quella
di “celebrare la vicinanza e la disponibilità delle cose, l’afferrabilità e la ripercorribilità
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L A S E T T I M A A R T E C O M E M A C C H I N A D E L T E M P O
del mondo”.1 E lungo tutto il suo cammino esso cerca di assolvere a questa funzione in
maniere differenti:
Nel • cinema delle origini secondo una modalità di visione che mostra ed attrae, in
ossequio alle possibilità dello sguardo (del cinema di catturare e riproporre la real-
tà nella sua effettività e nei suoi universi fittizi; e degli aspetti che possono essere
filmati o scoperchiati alla vista);
Nel • cinema classico secondo una visione che narra nel pieno rispetto della traspa-
renza e rimanda quindi ad una necessità dello sguardo.
Nel • cinema moderno secondo un’indagine sulla verità delle cose, pervenendo così
ad una consapevolezza dello sguardo (vedere e sapere, cioè conoscere la macchi-
na cinematografica per non farsi soltanto illudere da essa).
Nel • cinema post-moderno secondo una visione che altera il suo naturale statu-
to ontologico, andando oltre l’immagine fotografica (dimensione di costruzione
virtuale) con immagini che della realtà conservano soltanto una verosimiglianza;
perciò con uno sguardo tautologico che, nell’impossibilità di agganciare il mon-
do, si limita ad imitarlo.2
Il cinema attraversa il tempo del reale saltando da una “fase” all’altra e, negli anni del
post-moderno, questa sua mutazione si fa vera e propria metamorfosi; cambia ma rispon-
de sempre agli spazi del tempo che lo crea, nel caso trovando perfetta corrispondenza
al periodo tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI: epoca della contaminazione, di
un cinema che si trova all’incrocio fra spettacolo e comunicazione, che si scolla dalla
fotografia per affrancarsi alla pagina della simulazione. Un cinema che, nell’ottica della
contaminazione, permette di vedere anche con l’udito, ascoltando un’immagine che si
fa voce. Ma al di là dei suoi continui ri-adeguamenti stilistici, il cinema rappresenta un
altrove in nuove modalità di spazio e tempo, un altrove colto con l’occhio (della camera),
elaborato (dall’autore) e che viene restituito allo sguardo di un altro (lo spettatore).
1 Francesco Casetti, La forma cinema nella sua evoluzione storica, in Enciclopedia del Cinema Treccani, Volume 1, 2003, p. 59.
2 Per la suddivisione temporale della storia del cinema si è fatto riferimento a Francesco Casetti, op. cit., pp. 40-59.
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L A P O T E N Z A D E L C I N E M A
“Il cinema, divorando realtà e trasformandola in espressione, ha creato dunque serie di
immagini che si sono sovrapposte alla normalità del tempo vissuto, ha creato cioè un
‘tempo secondo’; e in questo ‘tempo secondo’ lo spettatore si è trovato a vivere un’altra
esistenza altrettanto reale della sua prima”.3
Il cinema non raccoglie soltanto l’immaginario già esistente e lo radica staticamente nel
suo corpus, bensì lo modifica, lo proietta sulla socialità, lo rende più visibile e materiale,
celebrando “l’esistenza di mondi fittizi costituiti da immagini prodotte / riprodotte”.4
Immaginiamo un grande imbuto in cui i pensieri, i desideri, i sogni degli uomini possano
riversarsi sotto forma di liquido ottenuto dal miscuglio di tutte le altre arti: ecco, questo è
il cinema. È “l’appagarsi di un sogno, la realizzazione di un mito, lo sviluppo di una tec-
nica, il compimento della fotografia, l’adeguamento della comunicazione, l’ampliamento
dell’orizzonte visivo e sonoro, la registrazione dello sguardo e dell’udito, la penetrazione
dell’invisibile”.5
Una macchina “realizza-immaginario” che, grazie ad una tecnologia sviluppata sempre
più, s’è potuta permettere di restituire l’illusione del reale in toni sempre crescenti di rea-
lismo (dal sonoro, al colore, al cinemascope, al suono dolby-sorround, alla gestione digi-
tale dell’immagine, sino alla realtà virtuale). La tecnica al servizio del sogno, del pensiero
inconscio d’ogni spettatore, che nel buio della sala cinematografica diventa come un bam-
bino, un uomo primitivo (probabile calco sul greco prototókos, dal latino primitivu(m),
attraverso l’avverbio primitus, ‘da principio, ‘primamente’, ‘per la prima volta’), un
fedele credente all’azione che si compie su quella tela-mondo posta innanzi a lui. Per
questo nell’apparato cinematografico possiamo ritrovare quel bisogno di mito che l’uomo
sente, quel volersi agganciare ad un reale oltre il reale (perpetrato dai cineasti attraverso
una sagace tecnica illusoria). Come nel mito della caverna illustrato da Platone nel VII Li-
bro della Repubblica, al quale l’ontologia dell’apparato cinematografico si attaglia come
3 Enzo Siciliano, Il cinema e il Novecento, in Enciclopedia del Cinema Treccani, Volume 1, 2003, p. 8.
4 Paolo Bertetto, L’immaginario cinematografico: forme e meccanismi, in Enciclopedia del Cinema Treccani, Volume 1, 2003, p. 63.
5 Lucilla Albano, Fantasie del cinema prima del cinema, in Enciclopedia del Cinema Treccani, Volume 1, 2003, p. 13.
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L A S E T T I M A A R T E C O M E M A C C H I N A D E L T E M P O
una forma aderisce perfettamente allo stampo per essa fabbricato. La sala buia diviene la
caverna, gli spettatori prigionieri in essa, come incatenati ciascuno alla propria poltrona,
e le immagini che scorrono sullo schermo tali alle ombre descritte nel mito.
Così, il cinema si conforma al proprio essere una “restituzione di un’illusione perfetta
del mondo esterno”6 e nel far regredire lo spettatore ad uno stato primitivo, fa riaffiorare
esperienze magiche e primordiali come quella della metamorfosi che qui si cerca di trat-
tare.
E quale genere meglio di quello fantascientifico si presta ad enarrare la plasticità di corpi
che si modificano, si fanno altro, mutano forma, che, insomma, rendono visibile l’eterno
metamorfarsi dell’universo sensibile. Un genere che si fa immediatamente luogo narrati-
vo di transizione, territorio liminale di incontro fra ordinario e straordinario, sin da quan-
do nasce il cinematografo come strumento che illustra l’aspetto meraviglioso del racconto
per immagini. Certo, la fantascienza si distingue proprio per questa peculiarità di scoperta
e svelamento tipica del più generale filone fantastico, ma pur dovendo le sue “cure post-
natali” a questo potente meccanismo dell’immaginario, essa cresce e s’afferma soltanto
incontrando l’apparato di tecnologia (scienza) che il XX secolo porta in dotazione.
Il cinema è come un laboratorio, ove si conducono esperimenti riguardanti l’immagine
del corpo, del nostro corpo. E specie il cinema di fantascienza s’occupa di questi nostri
corpi, colti sempre nel momento del cambiamento, istantanee in successione che fermano
ogni singolo istante del divenire e lo passano al vaglio dell’immaginario scientifico.
6 André Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, Paris, 1958 ; tr. it. Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano, 1999, pp. 13-14.
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L’ A N I M A L E F U O R I D I S E ’M e t a m o r f o s i e v o l u t i v e
L’animale e il mostroL’animale fuori di séMetamorfosi evolutive
‹‹L’uomo, quella meraviglia dell’universo, l’ineffabile paradosso che ha spe-
dito me fra le stelle fa ancora la guerra contro i suoi fratelli? Lascia morire di
fame i figli del suo vicino?››. George Taylor
Il pianeta delle scimmie (1968)
Secondo la teoria di Charles Darwin, l’evoluzione della specie è il risultato della sele-
zione operata dall’ambiente sui caratteri casualmente acquisiti dagli individui e consiste
nella selezione dei più adatti all’ambiente.
È un assunto che frantuma l’uomo e continua quel processo di metamorfosi radicale cui
già la rivoluzione copernicana del XV secolo aveva dato una sferzata decisiva, e che la
psicoanalisi novecentesca renderà ancora più complessa. Infatti, se le teorizzazioni di
Copernico de-centralizzano la posizione della Terra nell’Universo (c’è qualcun altro?) e
il contributo psicoanalitico di Freud dimostra come il soggetto non sia completamente pa-
drone di se stesso ma in balìa anche delle forze di un inconscio latente, le teorie evoluzio-
nistiche di Darwin derubano l’uomo del suo statuto di creatura speciale, e lo relegano in
una posizione di discendenza evolutiva dal mondo animale.
L’idea di Darwin è che specie simili discendono, con modifica, da antenati comuni e, an-
che se è evidente che gli esseri umani sono diversi da tutti gli altri animali, la scimmia è
quella che più di tutti gli altri pone interrogativi rispetto alla natura animale dell’uomo e
rispetto al suo posto nel sistema evolutivo degli esseri viventi.
Al contrario di altri animali, che influenzano l’immaginario collettivo soprattutto per la loro distanza
dall’uomo, la scimmia diventa oggetto dell’immaginario in relazione e in rapporto con l’uomo.1
1 Fabio Giovannini, Mostri. Protagonisti dell’immaginario del Novecento da Frankenstein a Godzilla, da Dracula ai cyborg, Castelvecchi, Roma, 1999, p. 50.
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
Nell’ultimo King Kong osservato sul grande schermo Peter Jackson sfrutta appieno le
tecnologie digitali del XXI secolo e rende ancor più umano il gigantesco Kong. Le sue
pupille rimangono innegabilmente espressione di un punto di contatto fra la razza umana
e gli scimpanzé, simbolo di un retaggio evolutivo che mai discioglierà le due. Una con-
tiguità fra animale e uomo che ritroviamo in particolare nel magico momento di sospen-
sione in cui la Bella (Ann Darrow) e la Bestia (King Kong) si lasciano andare ad una
dolce danza sul ghiaccio.
Ma la domanda è: cosa ci accomuna e cosa ci distingue?
Nel corso dell’evoluzione umana molte specie di ominidi si sono succedute e alcune
hanno convissuto negli stessi ambienti, prima che la nostra specie restasse l’unica soprav-
vissuta. Il passato è nei nostri geni e in essi
possiamo trovare traccia delle strade percor-
se dai nostri antenati durante la diffusione
della specie umana. Lo Human Genome Di-
versity Project (HUGO), promosso dal ge-
netista italiano Cavalli-Sforza, è stato il pri-
mo progetto internazionale avviato su ampia
scala per studiare le differenze nel DNA tra i popoli della terra. Non solo condividiamo il
99,9% di DNA con qualunque altro uomo e il 98% con gli scimpanzé (staccatosi dalla li-
nea evolutiva circa sei milioni di anni fa), ma anche il 97% con il macaco Rhesus , il 90%
con i topi, Il 21% con i vermi, e il 7% con un semplice batterio come l’Escherichia coli.
Gli studi della genetica ci hanno consegnato così importanti informazioni, portandoci a
scoprire i geni che hanno favorito l’evoluzione delle grandi scimmie fino all’uomo.
Certo, nessun altro grande animale è distribuito come l’uomo su tutta la terra, di cui con-
trolla gran parte delle risorse, e nessuno si riproduce in tutti gli habitat, dai deserti all’Ar-
tico alle foreste pluviali tropicali. Nessun grande animale selvatico rivaleggia in numero
con l’uomo. L’Homo Sapiens è caratterizzato dalla postura eretta, un grande cervello, la
destrezza manuale, un complesso uso di strumenti, l’abilità nella caccia e la capacità di
un linguaggio parlato e di ragionamento astratto. La maggior parte degli esseri umani
King Kong (Peter Jackson, 2005)
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L’ A N I M A L E F U O R I D I S E ’M e t a m o r f o s i e v o l u t i v e
indossa indumenti e apprezza l’arte e molti hanno una fede religiosa. La nostra unicità
risiede sicuramente nei tratti culturali, che ci danno un così grande potere di modificare
l’ambiente: il linguaggio, l’arte, la tecnologia e l’agricoltura. L’uomo, però, si distingue
anche per attributi più sinistri, come il genocidio, la tortura, le guerre e lo sterminio di
altre specie animali e vegetali. Ma il linguaggio, l’arte, l’agricoltura, i comportamenti ses-
suali, persino la propensione alla violenza e al genocidio hanno antecedenti diretti in altre
specie animali, passati in noi attraverso le leggi dell’evoluzione. Perciò, non potremmo
mai capire il nostro livello di unicità senza prima conoscere quello che condividiamo con
i nostri parenti più prossimi.
Dunque, se di recente abbiamo scoperto che l’uomo condivide con gli scimpanzé più del
98% del DNA e che vi sono notevoli somiglianze di comportamento con tutte le scimmie
antropomorfe, esiste una vera e propria contiguità fra l’umano e lo “scimmiesco”, entram-
bi appartenenti alla specie dei primati e riuniti anche sul grande schermo del cinema ne Il
Pianeta delle Scimmie di Franklin J. Schaffner, dove si opera una sorta di capovolgimen-
to delle teorie evoluzionistiche, con l’uomo che appare un anello inferiore della catena.
Un film che, al di là dei risvolti politici e filosofici, è il primo contributo cinematografico a
mettere in strettissima connessione e col-laborazione l’uomo con il suo compagno antro-
pomorfo più vicino. Infatti, nel film di Schaffner sono le scimmie antropomorfe ad essere
dotate di parola e di un’intelligenza superiore, non gli uomini, esemplari di una razza
regredita (quella umana) e perciò da tenere in schiavitù. Nello sguardo penetrante delle
scimmie troviamo il riflesso di un uomo in-
gabbiato come un animale da zoo, che pure
quando crede di essere ritornato sulla Terra
scopre la terrificante verità: la Terra è ora
(nel futuro visitato) il pianeta delle scimmie,
un pianeta massacrato dagli uomini. Così, le
scimmie divengono il riverbero dell’uomo,
di un uomo che viviseziona le bestie per il progresso della scienza, impegnate nel soffo-
care ogni spinta eversiva dei brandelli di una società umana che si era fatta mortifera.
Il pianeta delle scimmie (Franklin J. Schaffner, 1968)
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
Ripreso poi nel 2001 da Planet of the Apes - Il Pianeta delle Scimmie di Tim Burton,
entrambe le pellicole affiancano con una descrizione che le rende quasi uguali le figure
dell’uomo e della scimmia, rilevandone l’ascendenza comune. E se in italiano usiamo
la sola parola scimmia, in inglese esistono due termini distinti per indicare questi nos-
tri simili co-evolutivi: monkey, infatti, indica le scimmie di piccole dimensioni, dotate
normalmente di coda, mentre ape indica le scimmie più grandi, senza coda, più vicine
geneticamente e anatomicamente all’uomo. Nei film le scimmie sono individui pensanti e
operanti, in tutto e per tutto come l’uomo, perfino capaci di utilizzare le mani, con il mec-
canismo del pollice opponibile che da sempre ha segnato una delle più grandi differenze
tra primate umano e primate scimmia.
Nelle immagini che scorrono davanti agli occhi del protagonista George Taylor (Char-
lton Heston) in fuga continua nel dubbio del non capire scorgiamo quel rovesciamento
prospettico dall’umano al non-umano, che risponde alla tendenza della nostra specie a
rovinarsi con le proprie mani.
“La scimmia da cui deriviamo è rimasta abbarbicata come edera millenaria al nostro patrimonio genetico,
l’orgoglio dell’uomo è fratello gemello della sua stoltezza”.2
Possiamo autodistruggerci, ma le nostre mani rimangono gioielli dell’ingegneria natura-
le, perché con esse (grazie alla loro motricità e all’importanza decisiva del pollice oppo-
nibile), possiamo concretare la nostra capacità progettuale di modifica dell’ambiente che
ci circonda. Con esse abbiamo sviluppato e continuiamo a sviluppare tecniche materiali,
ma senza il cervello, ovvero l’organo che ci permette di sentire, percepire e pensare, ed il
luogo di tutte quelle abilità che ci rendono unicamente umani, non avremmo mai saputo
indirizzare il nostro intervento sul mondo.
Le grandi dimensioni del cervello furono una condizione indispensabile per lo sviluppo
del linguaggio, del pensiero simbolico, e dell’inventiva propria dell’uomo. Il linguaggio
articolato fu il più importante evento evolutivo nella storia della specie umana, che pro-
2 Andrea Meneghelli, Planet of the Apes, in Enciclopedia del cinema Treccani, Dizionario critico dei film, 2003, p. 533.
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L’ A N I M A L E F U O R I D I S E ’M e t a m o r f o s i e v o l u t i v e
dusse una vera rivoluzione nel comportamento e nella cultura. E, anche se dal punto di vi-
sta genetico l’uomo si è fermato due milioni di anni fa, in tutto questo tempo il cervello ha
continuato a svilupparsi, alimentato da un’intelligenza simbolica sempre avida di nuove
conoscenze, nuove rappresentazioni, stimolata dall’uso di utensili sempre più complessi,
di una tecnica che si è fatta corpo.
E in accordo con la prospettiva primo novecentesca di Arnold Gehlen, incentrata sulla
tecnica come aspetto fondamentale e fondativo dell’essenza umana, possiamo guardare
alla téchne quale spettro del cambiamento: nel rivoluzionario passaggio dal paleolitico
al neolitico (che comincia all’incirca nell’8000 a.C. e si perfeziona nell’arco dei seimila
anni successivi), nel passaggio alla scrittura con cui ogni suono corrispondeva ad un se-
gno (scoperta a Cipro dai greci ed importata tra il IX e l’VIII secolo a. C.), nel compiersi
della rivoluzione industriale (dalla sua incu-
bazione nei secoli XVI e XVII sino al prepo-
tente emergere nei secoli XVIII e XIX), sino
all’avvento della società della comunicazio-
ne (nel XX secolo) e poi quella dell’infor-
mazione (tra la fine del XX secolo e l’oggi
del XXI secolo).
Una storia umana che nel suo scorrere perfezionando la tecnica ha imposto un regime di
velocità sempre maggiore. Con un coefficiente d’accelerazione sempre più grande, che
restringe i tempi nel passaggio continuo a qualcosa d’altro, nella perenne attività dell’uo-
mo di trasformazione del mondo, portando ora l’uomo alla modifica del suo corpo.
Un corpo che si fa segno, che innesta la dimensione dell’artificio in un processo naturale.
E che già dal paleolitico l’uomo esprime, portando fuori da sé il segno con una pittura
ed una scultura che si fanno aspirazione umana a replicare il proprio corpo, cosicché “la
‘replica’ è un’artificialità riflessa di un corpo già di per sé artificiale”.3
Un corpo che ha continuato a modificarsi, specie con l’iscrizione della scrittura su di esso
(nel mondo occidentale), tale che l’animale è divenuto lo specchio oscuro dell’uomo, nel
3 Antonio Caronia, L’uomo artificiale: robot, cyborg, corpi virtuali, in Carlo Simoni (cur.), Ingegnerie della vita, del corpo, dell’intelligenza, Grafo edizioni, Brescia, 2002, p. 98.
2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968)
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
solco di una tradizione umanistica il cui imperativo era quello di sottrarsi alla bestialità.
Le punizioni corporali, le pratiche di astinenza, il rigido controllo delle funzioni organiche costituivano il
viatico indispensabile per questo processo alchimistico di estrazione del nocciolo umano dall’involucro
della brutalità.4
E allorché Charles Darwin ricompone la frattura tra uomo e animale attraverso la teoria
dell’ascendenza comune, l’uomo si trova di nuovo a “misurarsi con un’animalità som-
mersa nei fondali del suo essere e pronta a emergere ogni qualvolta il freno culturale vie-
ne meno o la malattia mina la razionalità”5. Infatti, nonostante nel corso del Novecento
l’uomo prenda le distanze dagli animali e pur ritenendosi l’Homo Sapiens al di sopra
della Natura, in una posizione privilegiata all’interno del regno animale, mondo animale e
mondo umano vengono messi costantemente a confronto, rivelandone legami e affinità.
Siamo sempre in connessione con gli animali non-umani, preziosi esseri da laboratorio,
cavie involontarie di mutazioni indotte dalla ricerca umana, alter-ego per il confronto
sublimato nella rappresentazione artistica, modelli da cui partire per la costruzione di
doppi macchinici.
L’umano e l’animale in forma simbioticaL’animale è un essere animato. Un ‘animale’ che deriva dal latino animal, al cuore del
quale sta anima, ovvero quel termine multiforme che rimanda primariamente al fiato, al
respiro, all’aria, al vento (dal greco anemos ‘vento’), alla nostra anima come principio
vitale, all’equivalenza con ‘persona’.
Alla radice del nostro essere uomini c’è questa comunanza con quelli che allontaniamo da
noi con l’etichetta di animali, per poi rifarci ad essi come controparte simbolica.
4 Roberto Marchesini, in Roberto Marchesini e Karin Andersen, Animal Appeal. Uno studio sul terio-morfismo, Hybris, Bologna, 2003, p. 3.
5 ivi, p. 4.
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L’ A N I M A L E F U O R I D I S E ’L ’ u m a n o e l ’ a n i m a l e i n f o r m a s i m b i o t i c a
La referenza animale è avvertita come carattere ancestrale, retaggio del processo evolutivo, ovvero come il
sostrato su cui interviene il bisturi culturale, per correggere, indirizzare, annullare o enfatizzare una parti-
colare disposizione della natura.6
Il rapporto con l’alterità animale è sempre stato la chiave della storia culturale e artistica
dell’uomo, tanto che la nostra cultura umanistica continua ancora ad abbeverarsi alla
mitologia, grande catino di bestialità. E le trasformazioni portate davanti ai nostri oc-
chi come presenza quasi viva dalle Metamorfosi di Ovidio sono lì a ricordarcelo. Che
siano premio, sventura, punizione o castigo, le metamorfosi degli uomini in animali fanno
emergere tutte le connessioni che l’umano da sempre ha stabilito con l’alterità a lui più
prossima; un’alterità con la quale rappresentare l’eziologia delle proprie emozioni, utiliz-
zata come similitudine che spiegasse le proprie abilità o che ne decifrasse le aspirazioni
personali, mutandole in caratteristiche di diversità.
Giacomo Di Marco ci offre due interessanti classificazioni temporali riferite al modo
dell’uomo di riferirsi all’animale, affermando che c’è stato un periodo favorito dall’in-
fluenza dei sistemi religiosi e politici confinante con l’affermarsi dei lumi della ragione,
in cui l’umano viene fatto derivare dall’emancipazione dall’animale; ed un altro che va
dalla nascita dell’Illuminismo e giunge sino ai giorni nostri, consegnandoci un uomo che
riafferma la sua appartenenza animale.7
Le contaminazioni uomo-animale passate sulla pellicola di celluloide sono innumerevoli,
pertanto qui tenteremo di citare solo quelle più significative o che possono configurarsi
come archetipiche del processo di metamorfosi che coinvolge tutti gli esseri, cercando di
rimanere entro i limiti della fantascienza.
La contiguità tra animale e uomo si evince dall’apertura della vicenda di Spider-Man,
quando lo studente Peter Parker (Tobey Maguire) viene morsicato da un ragno genetica-
mente modificato e comincia a percepire dentro si sé un cambiamento che lo farà diven-
tare l’Uomo-ragno. Peter Parker si trasforma, assimila le peculiarità dell’aracnide, in un
6 ivi, p. 17.
7 Per questa classificazione s’è fatto riferimento a Giacomo Di Marco, Il magnifico animale, in Lea Ver-gine e Giorgio Verzotti (cur.), Il Bello e le Bestie. Metamorfosi, artifici e ibridi, dal mito all’immaginario scientifico, catalogo MART, Skira, Milano, 2004, p. 162.
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
atto involontario che ricorda da vicino la trasformazione di Aracne per volere della dea
Pallade.
...e subito al contatto del terribile filtro i capelli scivolarono via, e con essi il naso e gli orecchi; e la testa
diventa piccolissima, e tutto il corpo d’altronde s’impicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita
che fanno da zampe. Tutto il resto è pancia: ma da questa, Aracne rimette del filo e torna a rifare – ragno –
le tele come una volta.8
Trasformazione non voluta, non cercata, né
invocata, ma segno di un animale (insetto
nel caso) preso da sempre come referente;
termine di paragone di una similitudine che
dà corpo alle capacità ed ai comportamenti
umani: ingegnoso come un ragno, laborioso
come un ragno, velenoso come un ragno.
Perché il progetto culturale dell’uomo non è
avvenuto in maniera autarchica, bensì in un
dialogo continuo con il suo partner animale,
secondo quella logica della contaminazione
che prima si diceva.
Negli anni Novanta, poi, sboccia la disci-
plina della zooantropologia, che focalizza la
propria attenzione sulla relazione tra uomo e animale.
Mentre la biologia evoluzionista, l’etologia e le neuroscienze hanno avvicinato l’uomo alle altre specie,
facendo riferimento al contesto filogenetico, ossia alla storia evolutiva della specie Homo Sapiens, con la
zooantropologia l’uomo ritrova la sua vicinanza all’animale in un contesto ontogenetico, facendo attenzio-
ne cioè a quelle acquisizioni che sono frutto della contaminazione culturale con l’alterità animale.9
8 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Piero Bernardini Marzolla (cur.), Einaudi, Torino, 1994, LIBER SEXTUS, 140-145, p. 217.
9 Roberto Marchesini, op. cit., p. 26.
Spider-Man (Sam Raimi, 2002)
Spider-Man (Sam Raimi, 2002)
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L’ A N I M A L E F U O R I D I S E ’L ’ u m a n o e l ’ a n i m a l e i n f o r m a s i m b i o t i c a
La zooantropologia è una disciplina di frontiera, che considera la coppia umano / non
umano una realtà indivisibile, in continua evoluzione e trasformazione.
La figura dell’animale può rievocare una moltitudine di significati che vanno dal de-
classamento del proprio corpo come prodotto industriale nell’ambito della zootecnica
(sperimentazione scientifica), alla nascita di suoi alter-ego bidimensionali nel fumetto
e nella cultura popolare, al suo ruolo di antica creatura di sacrificio, all’idea di alterità
spesso con-fusasi con quella dell’alieno. Ecco Alien, con la figura terrificante dell’alieno
sconosciuto che reca con sé preponderanti caratteri tipici del regno animale. Il “modello”
fisico dell’Alien non è statico, poiché in esso si sviluppano conformazioni fisiche diverse
a seconda delle caratteristiche ambientali, delle esigenze di razza del momento, e addirit-
tura del tipo di “ospite” nel quale l’embrione si è sviluppato, rimandando a connotazioni
tipiche degli insetti: da quelli che assomigliano a tante piccole formiche guerriere, pronti
a tutto pur di difendere il nido (Alien3), a quelli che si (ad)operano per avvolgere in gela-
tinosi gusci di conservazione del cibo le umane vittime e che mostrano più di un’analogia
con le api operaie, sino alla Regina (Alien – La clonazione), icasticamente collegata ad
una prima occhiata all’ape regina di un alveare.
Dunque, riferimenti, rimandi, collegamenti, allacci, contaminazioni, addirittura voglia di
identificarsi con l’alter-ego animale, come succede ad Edward Bloom (Albert Finley) nel
fantastico finale burtoniano di Big Fish – Le storie di una vita incredibile: egli stupisce
tutti e da uomo si fa carpa, per sguazzare finalmente nella realtà fatta di storie, alla quale
nessuno ha mai voluto credere. Storie, che rendono vivi nel farsi altro. Storie con cui
l’uomo si differenzia dai bruti, ricavandosi una nicchia costruita con la cultura, ma grazie
alla quale egli è anche meno chiuso all’interno dei propri schemi istintivi e quindi più
vicino alle altre specie.
“L’uomo che soffre è bestia, la bestia che soffre è uomo”10 ha detto Gilles Deleuze, in-
dividuando nell’intreccio fra umano e animale un paradigma di riferimento della vita
organica in opposizione a quella inorganica, un sotteso strenuo scontro per difendere la
vitalità dei corpi caldi fatti di carne ed umori dalla freddezza di silicio e metallo. E forse
10 Gilles Deleuze, Francis Bacon: logique de la sensation, Éditions du Seuil, Paris, 1981; tr. it. Francis Bacon, logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 1995, p. 24.
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
anche per questo il perenne conflittuale rapporto di contiguità / alterità fra uomini e ani-
mali occupa da sempre un posto primario nella riflessione umana sul mondo della vita or-
ganica, tanto che la capacità di rappresentazione simbolica prettamente umana ha sempre
disvelato questo rapporto con l’umanizzazione di forme animalesche.
Non c’è variazione, produzione, trasformazione, metamorfosi che non sia un divenir altro. Già nel mito è
presente il divenir altro. La parola metamorfosi, che è piuttosto recente nella lingua greca, significa cam-
bia la forma (metá-morphé): l’umano che diventa animale o l’animale che diventa umano, come in molti
racconti.11
Nel Batman di Tim Burton, Bruce Wayne (Michael Keaton) si trasforma in Batman, ri-
annodando il filo della continuità animale-uomo intorno alla figura del pipistrello. Egli è
un ibrido, in sé traspone le forme di un pipistrello che sembra farsi uomo. Sebbene sia lui
ad andare alla ricerca di “un simbolo che lo renda immortale”12, è il pipistrello che esce
dall’ossessione della sua mente e trasporta le proprie caratteristiche d’animale nel corpo
di Batman. Incarnazione umana che si realizza con maestria sul corpo dello stesso Bruce
Wayne interpretato da Christian Bale nel Batman Begins di Christopher Nolan, con il
pipistrello che s’aggrappa all’involucro umano per trasformarlo in uomo-pipistrello.
Umanizzazione dell’animale, che nell’immaginario comune esce prepotentemente dalla
pellicola Tartarughe Ninja alla riscossa, dove quattro tartarughe conservano la loro for-
ma animalesca, ma allo stesso tempo “ricevono” da una fortuita mutazione dei caratteri
umani (posizione eretta del corpo, dono della parola). Forme d’animali che avvicinano
l’uomo per mezzo dell’uomo, e di esso assumono dei caratteri, si fanno portatori di alti
moniti: è il caso del King Kong di Schoedsack e Cooper, i quali scelgono la variante
del sacrificio del gorilla antropomorfo, “crocifisso sulla sommità del grattacielo più alto
di New York per riscattare l’umanità dai peccati connessi in nome del progresso, della
civiltà e dell’urbanizzazione”.13
11 Emanuele Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano, 2007, p. 34.
12 Citazione dal film Batman Begins (id., Christopher Nolan, 2006).
13 Gian Piero Brunetta, Dai centauri all’Homo ferus agli androidi: percorsi del divenire animale lungo la storia del cinema, in Lea Vergine e Giorgio Verzotti (cur.), op. cit., p. 258.
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L’ A N I M A L E F U O R I D I S E ’L ’ u m a n o e l ’ a n i m a l e i n f o r m a s i m b i o t i c a
Uomo e animale in un incontro-scontro, in una tensione latente che si risolve anche nel
senso opposto, con l’uomo che si fa animale e ne assorbe le qualità, incarnando in esse
le proprie ambizioni ed aspirazioni o rovesciandovi tutta la ferinità tipica della bestia.
L’apparentamento degli uomini con gli animali ricava il suo significato su un piano
simbolico, rifacendosi a delle aspirazioni dell’uomo. Ritroviamo così Patience Philips
(Halle Berry) nei panni di una donna dagli spiccati istinti felini in Catwoman di Pitof. La
stessa Catwoman che nel 1992 Selina Kyle (Michelle Pfeiffer) interpretava in Batman,
ricalcando le insidiose movenze del gatto. Oppure il bisogno di fusione con un volatile,
quell’insondabile sofferenza umana mutuata dal peso di un corpo che ci schiaccia a terra,
mentre si vorrebbe volteggiare liberamente nei cieli.
Poi, premendogli il petto con lo scudo e con le ginocchia dure, gli tira i lacci dell’elmo, che passano sotto il
mento, e li stringe fino a schiacciargli la gola e a bloccargli il fiato e la via dell’anima. Si accinge a spoglia-
re lo sconfitto: vede l’armatura vuota. Il dio del mare ha trasformato il corpo in un uccello bianco: quello
stesso di cui già aveva il nome.14
Mettere le ali come Warren Worthington / Angel (Ben Foster) in X-Men: conflitto finale;
ali che gli permettono di spiccare il volo, di invadere quel territorio (l’aria) da sempre
precluso all’uomo. Volare verso il cielo, innalzarsi verso l’empireo mondo del divino,
un’altra aspirazione tutta umana. Trovare il contatto col divino per mezzo dell’animale.
Fin dal Paleolitico gli uomini disegnavano figure animali sulle pareti di roccia, in modo
tale da poterli possedere magicamente. Possedere un’alterità che riconoscevano come
differente da loro, sino a sacralizzare gli animali, ad intrattenere con essi legami strettis-
simi, a farne simboli religiosi, a conferir loro lo statuto di totem (cioè di rappresentante
di tutta una tribù) o a vederli come un tabù e quindi da venerare con rispetto. Gli animali
venivano considerati sacri, perciò il rapporto con essi era qualcosa di sovrannaturale, che
iscriveva in essi un carattere divino. Incarnazioni animali, scelti dagli dèi come manifes-
tazione (secondo gli uomini) della loro presenza fra gli uomini; e le Metamorfosi sono
ricche delle “discese” dall’Olimpo di dèi in forma animale, specie del loro potente re
14 Publio Ovidio Nasone, op. cit., LIBER DUODECIMUS, 140-145, p. 475.
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
Giove, famoso per la capacità di assumere le sembianze di qualunque animale volesse
(compreso l’uomo).
Nel film Immortal (ad vitam) il dio Horus, commistione di corpi umano e d’aquila, spiega
le ali e scende sulla Terra per perpetuare l’immortale razza divina prima di essere ucciso
per tradimento.
Nel loro Olimpo gli dèi hanno corpo e l’ordine divino si scambia con l’ordine della sen-
sualità corporea. “Vi regna quindi una na-
tura burrascosa ed esuberante, piena di vio-
lazioni, di stupri, di travestimenti, dove ciò
che si distrugge è la continuità dell’identità
personale che, nello scambio simbolico con
uomini, animali e cose, non è mai accumu-
lata, confermata, fissata, consacrata, come
accade per il nostro Dio, ma è continuamente data, ricevuta, restituita, ripresa con corpi
che hanno più anime o con un’anima che dispone di più corpi”.15
Ma in tutte le rappresentazioni, seguendo la linea di contiguità che ci collega all’animale,
gli uomini sono dotati di coscienza, comunque diversa dalla generica coscienza animale.
A tal proposito è interessante la suddivisione operata da Gerald Edelman che dice:
Esistono due tipi fondamentali di coscienza. C’è la coscienza del mio cane, la cui esistenza non posso
provare perché lui non parla, ma questo è il punto: la sua coscienza primaria, nel senso che è cosciente
di una situazione, probabilmente, ma non ha la coscienza di ordine superiore, che compare soltanto con
il linguaggio. Quando a una coscienza primaria si aggiunge il linguaggio, che l’uomo possiede, si ottiene
una visione interiore, e non si è più ancorati al presente. Si possono immaginare scenari, programmi TV,
drammi teatrali, trame di film, e via discorrendo.16
15 Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 552.
16 Gerald Edelman, Il cervello non è la mente [http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=459&tab=int].
X-Men (Bryan Singer, 2000)
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L’ A N I M A L E F U O R I D I S E ’L a b e s t i a l i t à c o m e s p e c c h i o o s c u r o d e l l ’ u o m o
La bestialità come specchio oscuro dell’uomo
‹‹È un processo inesorabile e ogni giornata avvengono dei mutamenti. Ogni
volta che mi guardo allo specchio vedo un essere diverso, orrendo, ripu-
gnante››.Seth Brundle a Verona Quaife
La mosca (1986)
L’uomo indaga il mondo, lo rimodella a sua immagine lo arricchisce di figure, parole,
immagini. Ma proprio questa sua capacità immaginativa, simbolica, pur essendo un’ap-
prossimazione della realtà stessa, distingue l’essere umano dall’animale.
La bestia da noi intesa deriva dal latino bestia, che è andata configurandosi non solo
nell’accezione di ‘bestia feroce’, ma è finita per equivalere anche ad ‘animale’ e da qui
esteso alle persone che agiscono con modi rozzi e violenti. Hulk è una creatura mostruosa
che risveglia l’istinto bestiale insito nell’uomo, istinto che sopraffà l’uomo stesso e ne
obnubila il controllo su di sé.
Le Metamorfosi di Ovidio sono un vero e proprio catalogo dei contatti fra uomini e animali,
contatti che si fanno contaminazioni e successivamente trasformazioni. Nell’amplissimo
museo metamorfico delle Metamorfosi ovidiane, già in apertura ci viene restituita una
delle trasfigurazioni più agghiaccianti di un uomo (Licaone) che si trasforma in animale
(lupo), del quale assume sia la forma che gli istinti.
…e raggiunti i silenzi della campagna si mette a ululare: invano si sforza di emettere parole. La rabbia gli
sale alla faccia dal profondo del suo essere, e assetato come sempre di strage si rivolge contro le greggi, e
anche ora gode a spargere sangue. Le vesti trapassano in pelame, e braccia in zampe: diventa lupo, e serba
tracce della forma di un tempo. La brizzolatura è la stessa, uguale è la grinta rabbiosa, uguale il lampo si-
nistro negli occhi, uguale l’aria feroce.17
Una descrizione che ricorda molto da vicino l’orrenda metamorfosi che subisce Will Ran-
dall (Jack Nicholson) ne Wolf – La belva è fuori, allorché viene morso da un lupo e, come
17 Publio Ovidio Nasone, op. cit., LIBER PRIMUS, 232-239, pp. 15-17.
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preso da orrende forze interne, si dimena, si agita in modo spasmodico, finché peli gli
crescono sul corpo e l’uomo diventa un licantropo. Anche se il film confina con il territo-
rio dell’horror, e affronta tematiche (la metafora sociale dell’uomo perbene che diventa
lupo tra i lupi) lontane dalla nostra ricerca a base scientifica, esso si fa ponte di raccordo
con quel carattere di mostruosità che fa parte dell’uomo e che spesso egli identifica con il
suo contraltare animalesco. In un’opposizione che nell’animale identifica quell’emergere
di ferocia incontrollabile cui l’uomo spesso è preda, ben incarnata in X-Men dalla bestiale
figura di Victor Creed / Sabretooth (Tyler Mane), mutante senza avversari di sorta. Quegli
stessi avversari che non possono pareggiare
l’istinto di King Kong, minaccia animale
che incombe sulle metropoli. E nell’ultimo
King Kong (2005) è nella scena in cui i di-
nosauri appaiono per fare a pezzi la bella
Ann Darrow (Naomi Watts), che Kong ap-
pare in tutta la sua indomabile ferinità. Una
ferocia insita anche nell’uomo, che si concreta nei cieli cittadini del finale, ove i colpi di
mitragliatrice (umane protesi di violenza) ingaggiano la lotta con il diverso, pericolo per
la stabilità umana.
Se in Kong è la natura che fa da anello di congiunzione fra l’uomo ed il bestiale, ne
L’esperimento del dottor K è la scienza che funziona da connettore fra i due. Infatti, ecco
materializzarsi l’orribile metamorfosi dell’uomo in un ibrido uomo-mosca, un nuovo
corpo che letteralmente si ribella all’uomo, con un graduale ammutinamento del pensiero
e quindi del fisico. Un passaggio ad essere mostruoso che fissa il punto di non ritorno (a
uomo) nella perdita del volto umano, nel suo dis-farsi in una testa da insetto, validata or-
rendamente dalla stupenda soggettiva prismatica della mosca-uomo che guarda la moglie
Helene Delambre (Patricia Owen), moltiplicata a mosaico sullo schermo mentre urla tutto
il suo terrore e la sua disperazione.
Un film che ci prospetta una perdita di controllo dell’uomo sulla propria natura e inte-
grità. Tema della scienza irresponsabile e della contaminazione con un’alterità animale
King Kong (Peter Jackson, 2005)
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che dissolve il corpo da dentro. E nel vedere il suo remake cronenberghiano dal titolo La
mosca, il raccapriccio delle immagini trasporta subito la mente all’orribile trasformazio-
ne di Gregor Samsa che apre La Metamorfosi di Kafka.
Quando una mattina Gregor Samsa si risvegliò da sogni tormentosi si ritrovò nel suo letto trasformato in
un insetto gigantesco. Giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco il capo poteva
vedere la sua pancia convessa, color marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve; sulla cima la coperta,
pronta a scivolar via, si reggeva appena. Le sue numerose zampe, pietosamente esili se paragonate alle sue
dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi.18
Ne La mosca di David Cronenberg l’insorgere dei primi peli non è altro che il comincia-
mento di una orrenda metamorfosi che porterà Seth Brundle (Jeff Goldblum) a divenire
un uomo-mosca, una figura che rompe la linea di demarcazione tra uomo e animale;
un uomo che nel farsi progressivamente altro dalla sua originaria forma sente l’istinto prendere sempre più possesso di sé (un progressivo senso di appagamento nel percepire
una propria superiorità fisica, il desiderio quasi insaziabile di sesso), sovrapposto ad una
18 Franz Kafka, Die Verwandlung, 1915; tr. it., La metamorfosi in Vito Maistrello (cur.), La metamorfosi e altri racconti, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano, 1992, p. 75.
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
ragione (scientifica) impazzita.
Sino all’epilogo, con la trasformazione definitiva nell’orrenda creatura ormai incapace
di articolare il minimo suono umano, un essere ricoperto dalla propria bava, terribile nel
suo incedere allucinato e alla cui esistenza metterà fine Veronica Quaife (Geena Davis),
sparando un colpo letale all’amante-mosca. Il tutto a chiudere la descrizione tutta cronen-
berghiana di corpi che abitano una realtà
solo in apparenza sicura e stabile, riflesso di
un’identità in continua via di ridefinizione.
Identità incerta che spesso si sfoga in istinto,
quello stesso istinto che il grosso scimmione
di King Kong riflette nei propri occhi, guar-
dando l’essere umano. Quel piccolo 2% che
ci ha separato milioni di anni fa, ma continua
oggi a non farci dimenticare le nostre origini scimmiesche, quell’alterità pelosa da cui
differiamo per la nostra capacità creativa, immaginativa, ma alla quale rimaniamo legati
da un invisibile filo intessuto delle stesse emozioni. Forse, dunque, dobbiamo cercare
di armonizzare la combattività latente tra coscienza umana ed istintività animale. Forse
ponendoci la domanda che s’è fatta Lea Vergine nel presentare il catalogo della mostra
da lei curata “Il Bello e le Bestie. Metamorfosi, artifici e ibridi, dal mito all’immaginario
scientifico”, ovvero se la metamorfosi possa essere il tentativo di accedere all’eternità da
una porta secondaria: “può darsi, perché gli aspetti e i segni bestiali frammisti alle fat-
tezze umane alludono proprio all’Eternità, al Mito, alla Morte, a Dio, ai cattivi demoni
(inferiori o subordinati ma sempre emanazioni della divinità suprema), spalancando un
abisso sugli oscuri itinerari dell’anima19.
19 Lea Vergine, Il perduto dell’uomo o delle verità nascoste, in in Lea Vergine e Giorgio Verzotti (cur.), op. cit., catalogo MART, Skira, Milano, 2004, p. 1.
La figura qui sopra e le quattro della pagina precedente fan-no tutte riferimento al film La mosca (David Cronenberg, 1986)
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U O M I N I , P I C C O L I E N T O M O L O G I D E L L E M O S T R U O S I TA’I l d i v e r s o p e r n a s c i t a
Uomini, piccoli entomologi delle mostruositàIl diverso per nascita
‹‹Il pinguino è un uccello che non riesce a volare, io sono un uomo, ora ho un
nome e un cognome: Oswald Cobblepot [...] Ma è nell’umana natura temere
l’inconsueto››.Il Pinguino
Batman – Il ritorno (1992)
‹‹La gente ha paura di quello che non riesce a capire, ed è difficile anche per
me capire››.John Merrick
The Elephant Man (1980)
Quando parliamo di mostro sappiamo che deriva dal latino monstrum, la cui radice, però,
è la stessa di monstrare (‘mostrare’) e di monere (‘ammonire’, ‘mettere in guardia’, an-
che ‘ammaestrare’), poiché il mostro ci ricorda la sua ontologia di essere naturale indif-
ferenziato tra uomo e ambiente, un ibrido formatosi dalla contaminazione di più corpi in
natura.
Il carattere di diversità – espresso attraverso varie forme: il delinquente-degenerato, il teriomorfo, il freak,
il pazzo, la persona-cosa o l’essere contro-natura – è stato utilizzato puntualmente come rivelatore di infe-
riorità e/o di contaminazione, ove la designazione di alterità veniva tradotta in termini di esclusione dalla
cosmopoli umana.20
Monstrum veniva utilizzato già dai latini, sfruttando la sua polisemia: infatti, esso de-
signava prima di tutto gli avvertimenti divini che irrompevano imprevisti nell’ordinario
fluire delle vite umane; poi veniva impiegato quale sinonimo di meraviglia; in ultimo,
nella nostra accezione ormai associata al diverso rispetto ad un normale validato numeri-
camente.
20 Roberto Marchesini, Bios e techne: orizzonti della ricerca e mutazioni antropologiche, in Carlo Simo-ni (cur.), Ingegnerie della vita, del corpo, dell’intelligenza, Grafo edizioni, Brescia, 2002, p. 11.
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
Il carattere della mostruosità è direttamente imparentato con la meraviglia, però, il mostro
“è essenzialmente ciò che trasgredisce la separazione dei regni, mescola l’animale al veg-
etale, l’animale e l’umano: è l’eccesso, in quanto muta la qualità delle cose alle quali Dio
ha assegnato un nome”21.
L’animale è prossimo all’uomo e l’uomo è attratto dal mostro che la natura genera, scon-
volgendo le proprie leggi e mescolando uomo e animale in una terribile deformazione.
Deformazione concreta come nell’affresco malato della diversità e del delirio che David
Lynch ha dipinto con Eraserhead – La mente che cancella, il mostro per nascita è un
essere diverso sin dal principio.
È il caso del protagonista di The Elephant Man, film che esprime tutta l’incapacità
dell’uomo di accettare il diverso e rispettarlo, invece di declassarlo a fenomeno da barac-
cone da esporre per farsi vanto di una diversità (leggesi superiorità) artificiosamente im-
posta dall’uomo stesso. The Elephant Man
è un film intenso, che prende avvio da uno
spunto reale22. Infatti, il protagonista John
Merrick (John Hurt) è un diverso per nasci-
ta, poiché è affetto da neurofibromatosi, una
rara malattia per la quale egli ha una testa
gigante e deformata. Sfruttato come fosse
un prezioso oggetto da mostrare, egli deve sempre stare rinchiuso, per non esporsi agli
sguardi dei normodotati: un destino da confinato. Mostrarsi significa far vedere alla gente
ciò che la gente non vuole vedere, perché l’invisibile non esiste. Ma la natura di tutte le
cose, animate e inanimate, concepisce da sempre delle imperfezioni rispetto al modello
generalmente accettato perché condiviso dalla maggioranza. John Merrick è un uomo
21 Roland Barthes, Arcimboldo ou Rhétoriqueur et magicien, in L’obvie et l’obtus: Essais critiques III, Éditions du Seuil, Paris, 1982 ; tr. it. Arcimboldo ovvero Retore e Mago, in L’ovvio e l’Ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino, 1985, p. 147.
22 Joseph Carey Merrick, conosciuto grazie al film come John Merrick, nacque a Leicester 5 agosto 1862 e morì a Londra l’11 ottobre 1890 all’età di 27 anni, a causa di un soffocamento durante il sonno, apparentemente accidentale. Merrick infatti era impossibilitato a dormire orizzontalmente a causa del peso della sua testa, deformata e quindi più pesante del normale. Inizialmente identificata col nome di sindrome di Proteo, venne successivamente accertato (2003) che Merrick soffriva di neurofibromatosi, un’anomalia genetica nota anche come morbo di von Recklinghausen.
The Elephant Man (David Lynch, 1980)
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che soltanto vorrebbe vivere come tale, ma come un uomo riuscirà solamente a morire:
disteso, in un letto, gravato dall’eccessivo peso di una testa la cui forma l’ha condannato
ad una vita da emarginato.
Vite fuori del comune, strette fra i teloni di un circo, in un luogo speciale dove la vista
è pronta a vedere l’inconcepibile, dove forme umane malformate possono trovare uno
spazio, non d’accettazione sociale, ma quanto meno di fisica cittadinanza esistenziale.
È la fiera delle mostruosità di Freaks, nel quale “la divisione convenzionale tra norma e
deviazione, e l’equazione morale che ne consegue vengono mascherate: sono molto più
orribili la perfetta Cleopatra e il muscoloso Hercules, responsabili della propria immorali-
tà, dei freaks, incolpevoli della propria natura fisica”.23
Il mostro è solamente tutto ciò che la gente non capisce e, così come per la creatura
del Frankenstein di Mary Shelley, ogni tentativo di farsi accettare non può che conclu-
dersi in maniera tragica. Finire male come per il mostruoso che affiora alla superficie di
Gotham City in Batman – Il ritorno. Seconda pellicola sull’uomo-pipistrello, che stavol-
ta sposta il fascio di luce dall’eroe mascherato alla figura del pinguino e dell’imprenditore
Max Shreck (Christopher Walken), simboli rispettivamente della diversità fisica e mo-
rale. Nel secondo capitolo di Tim Burton su Batman è la mostruosità che declina tutto
il lavoro: la mostruosità che Bruce Wayne
(Michael Keaton) e Selina Kyle (Michelle
Pfeiffer) celano dietro le maschere di Bat-
man e Catwoman, incarnata dal loro disagio
esistenziale nell’impossibilità di ottenere
una felicità mai conosciuta; ma soprattut-
to, la mostruosità del Pinguino (Danny De
Vito), in bilico fra la mai vissuta identità di Oswald Cobblepot e quella ormai assimilata
di creatura nata deforme e definita dalla stampa di Gotham come “anello mancante fra
uomo e uccello”; infine, la mostruosità del giocattolaio Max Shreck, che sembra nascon-
dere con ingannatrici sembianze umane, socialmente riverite e rispettate, la freddezza
23 Altiero Schicchitano, Freaks, in Enciclopedia del Cinema, Dizionario Critico dei film,2003, p. 250.
Batman – Il ritorno (Tim Burton, 1992)
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
dell’efficiente calcolatore, un mostro che sfiora l’algida esecuzione di un comando tipica
delle macchine.
Ma è nel Pinguino che si colora a tinte forti il carattere di mostruosità e la sua voglia di
attenzione altrui, poi trasformatasi in scontro aperto con la società. Riflesso di un carat-
tere ambivalente del giudizio proclamato dagli altri. Quello stesso giudizio che Edward
(Johnny Depp) prova sulla propria pelle nel burtoniano Edward mani di forbice: accetta-
to fintanto che la sua diversità lo rivela come
artista, respinto allorquando egli desidera
essere un uomo (come tutti gli altri). La sto-
ria è simile a quella di Frankenstein, poiché
Edward è pur sempre una creatura artificiale
concepita da uno scienziato (Vincent Price),
ma rimasto incompleto, con quelle mani-
cesoie con le quali non può abbracciare né carezzare senza far sanguinare chi gli sta
di fronte. Costretto alla solitudine, impossibilitato a rimanere con Kim (Winona Ryder)
per riaggiornare la favola de La bella e la Bestia che sembrava condurlo sulla strada
dell’amore sempiterno. Bloccato dall’incidenza di un giudizio, più freddo e tagliente
delle sue mani-forbici, quelle mani normalmente parti di un corpo e qui trasformate in
sineddoche della mostruosità.
Potere fare qualcosa e vivere la condizione dell’infelicità, già sperimentata dal Re Mida,
prototipo degli esclusi a causa del proprio dono. E come Mida trasformava in oro tutto ciò
che toccava, allo stesso modo negli X-Men i poteri della giovane Rogue (Anna Paquin),
in grado di annientare un individuo al nudo tocco pelle contro pelle, la costringono a viv-
ere nella solitudine, anima inaridita dal mancato contatto con gli altri.
Edward mani di forbice (Tim Burton, 1990)
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Il divenire mostruoso dell’essere
‹‹Prima o poi il modo migliore per ingannare la morte sarà creare la vita... Se
amassi qualcuno che ha il cuore malato, non vorresti dargliene uno sano? [...]
No, non è impossibile, si può fare, ci siamo vicini. E se possiamo sostituire una
parte di un essere umano, possiamo sostituirle tutte; e se possiamo fare questo
possiamo plasmare una vita: possiamo creare un essere che non invecchierà
e non si ammalerà, un essere più forte di noi, migliore di noi, un essere più
intelligente di noi, più illuminato di noi››.
Victor Frankenstein a Henry ClervalFrankenstein di Mary Shelley (1994)
Nel cinema ci sono alcuni motivi ricorrenti che riguardano il mondo degli animali (e dei
mutanti): la paura del mostro o dell’invasione animale, l’orrore della trasformazione in
una bestia e la paura di perdere i propri connotati umani, l’animale intelligente amico,
la figura dell’uomo arricchito da poteri animali. Ma è la disintegrazione di una forma
originale in qualcosa di ignoto che fa da tema di fondo. La trasformazione inattesa e in-
conoscibile che atterrisce, prima che la forma si consolidi e unisca al timore una morbosa
curiosità per il diverso. Un diverso che spesso, però, si scopre essere “più normale del
normale”, come ne La Bella e la Bestia di Jean Cocteau (tratta dalla fiaba dei Fratelli
Grimm), che rimarca ancora i pregiudizi umani nei confronti di un’alterità solo appa-
rentemente mostruosa (incontro con l’alterità, coraggio di avvicinarsi al non-umano). E
La Bella e la Bestia di Gary Trousdale è il film della trasformazione per eccellenza.
Si trasforma in fata la vecchia signora che lancia la maledizione sul giovane principe
egoista; si trasforma così in bestia il principe; si animano e parlano tutti gli oggetti del
castello principesco; si trasforma in uomo la bestia, addolcita dalla presenza di Belle,
prima nell’animo, poi anche nelle fattezze fisiche. L’animazione concede qualsiasi cosa,
ma le metamorfosi che scorrono sullo schermo vanno ben oltre il racconto favolistico, per
incantarci con una profonda riflessione sul diverso in generale.
Quel diverso che trova affinità con la favola de La Bella e la Bestia anche in Hulk, di-
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
ventato qualcosa d’altro e rifiutato da tutti, minacciato, ricercato, braccato. Sempre in
fuga come la creatura del dottor Frankenstein, la cui immagine appare vivida alla nostra
memoria nell’immagine di Boris Karloff, protagonista del Frankenstein di James Whale.
Anche se la storia che passa sullo schermo è una variante dell’originale di Mary Shelley,
il tema portante rimane lo stesso: l’innesto di un cervello su un uomo morto, poi rianimato
grazie alla scoperta di un particolare fluido magnetico, e quindi il dono di una vita artifi-
ciale. Compaiono la figura dello scienziato-dio, demiurgo capace di infondere la vita, e
della creatura-mostro afflitta da un’umanità dolente. Uno scienziato incapace di porsi dei
limiti che ritroveremo sessant’anni dopo nella versione di Kenneth Branagh, ovvero in
quel Frankenstein di Mary Shelley che già nel titolo dichiara di essere una fedelissima
trasposizione cinematografica del romanzo archetipo della fantascienza scritto nel 1818
da Mary Wollstonecraft Shelley. Pellicola che pone attenzione nell’incentrare la vicenda
più sul dramma psicologico che non sull’orrore di stampo gotico fine a se stesso, cercando
di mettere in evidenza i tratti umani di una creatura mostruosa che vaga compiendo ef-
feratezze. Comportamento deviato di un essere vivente che, divenuto consapevole di tale
cosa, desidera soltanto essere riconosciuto come tale.
La creatura soffre “la solitudine incolmabile del diverso, della distanza che lo separa da
tutti [...] e del dolore davanti al rifiuto del suo
creatore ad assumersi la responsabilità della
sua esistenza. Il doppio mito di Frankenstein
(Barone e Creatura) è il mito della cultura
moderna”.24 Nel racconto diretto da Ken-
neth Branagh si scontrano inevitabilmente
gli ideali umani ed i rispettivi effetti che si
realizzano nel concreto. E si materializza nel barone un lacerante tormento prometeico.
Nella fiera delle mostruosità, subito dopo la creatura di Frankenstein, troviamo il Golem,
un gigante d’argilla con forza sovraumana senza anima né intelligenza che, secondo la
leggenda ebraica, viene creato dal rabbino come suo servitore e con il compito di difen-
24 Emanuela Martini, I due volti di Frankenstein, ‹‹Cineforum 340››, anno 34, n. 12, dicembre 1994, p. 26.
Frankenstein di Mary Shelley (Kenneth Branagh, 1994)
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dere il ghetto dai nemici, implicando nell’atto della creazione una pratica alchemica25.
Il Golem – Come venne al mondo è la terza pellicola che porta la leggenda ebraica del
Golem a rivivere nelle suggestive immagini del grande schermo. Un film che parla del
mistero della vita, nel quale l’uomo scopre che il suo involucro terreno è in tutto simile
alla tragica plasticità del Golem. Un’affinità per la quale i mostri rappresentano il ritorno
del represso, ed è per questo che tendono ad essere antropomorfici (vampiri, zombies,
mummie) e animaleschi (uomini lupo, persone-gatto), a nascere dalla natura fisica pur se
in forme innaturali o interstiziali.
Nella corazza del mostro si mischiano indissolubilmente i caratteri ferini che la follia
dello scienziato instilla nel suo corpo, ma nel suo essere un ibrido da laboratorio perman-
gono anche segni umani. Tracce che ritroviamo nel mito, in quell’ibrido mitico (centauri e
chimere) che rappresentava una sfida alla ferrea necessità del caos primordiale (dal greco
hybris significa ‘ingiustizia’, ‘prevaricazione’, ‘arroganza’), che incarnava un oltrepas-
samento del giusto, una prevaricazione della legge dell’armonia. Esseri mostruosi che
popolano il mondo mitico, centauri che alludono all’incontro fra la spiritualità e la morale
umana con la ferinità animale: senza legge, selvaggi ma coraggiosi e lottatori. O satiri,
altre figure-soglia della mitologia, che rappresentano meglio un’esistenza panica, dedita
alle passioni e raffigurati come codardi e vili.
Un vero ibrido è rappresentato in natura dal mulo, nato dall’accoppiamento tra un asino
ed una cavalla; mentre dall’accoppiamento tra il cavallo e l’asina deriva il bardotto (altri
incroci avvengono fra leoni e tigri: infatti, da una tigre ed una leonessa nasce il tigone,
dall’incrocio tra un leone e una tigre femmina il liger).
L’animalità può essere il seme di molte trasformazioni, ibridazioni e latenze, può sog-
giacere sotto forma di pulsioni sotterranee nell’uomo per poi rivelarsi nel momento dello
25 Il Golem (traslazione dall’ebraico gelem, ‘materia grezza’) è una figura leggendaria ebraica che si attiva o si disattiva (come un robot) ricevendo un input o un output dal suo creatore (animatore), ovvero un foglietto (schem) inserito nel petto all’altezza del cuore, sulla fronte o sotto la lingua e contenente uno dei tanti misteriosi ed impronunciabili “nomi di Dio”. Tra le storie leggendarie sul Golem, la più famosa è quella che ha come protagonista il rabbino Judah Low Bezaleel, il quale nel 1580 realizzò nel ghetto di Praga un colosso d’argilla in grado di svolgere i lavori più duri grazie alla pergamena con la scritta EMET (Verità), che poi la sera gli levava per dargli riposo. Un giorno, però, il rabbino si dimenticò di levarla e il Golem cominciò a distruggere tutto, per cui l’unico modo di fermarlo era farlo morire, cancellando la lettera iniziale della parola, che diventò MET (Morte) e frantumò la creatura in mille pezzi.
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scontro-incontro di quest’ultimo con la macchina. Ovvero, animale e umano si possono
incontrare in laboratorio, dove le ricerche cellulari continuano a far fermentare nuove pos-
sibilità ed è una realtà la creazione di un “cibrido”, ovvero un embrione al 99,9% umano
e 0,01% animale: si ottiene inserendo nella cellula animale privata del nucleo il nucleo di
una cellula umana con il suo patrimonio genetico; poi, una volta stimolata elettricamente,
la nuova cellula comincerà a duplicarsi e potrà servire ad ottenere colture di cellule stami-
nali embrionali utili allo studio di malattie come il Parkinson o l’Alzheimer, prima di es-
sere soppressa entro il 14° giorno “di vita”26.
E poi ci sono le biotecnologie: con l’ingegneria genetica è possibile scavalcare le bar-
riere di specie, trasferendo materiale genico da una specie all’altra; con l’ingegneria pro-
teica si può addirittura pensare di costruire geni artificiali da impiantare. Così risulta vera
l’affermazione di Roberto Marchesini, secondo cui “il mondo vivente si sta trasformando
in una vera e propria biofabbrica aperta a tutte le possibili fantasie progettuali”27. Inoltre,
stanno emergendo altre tecnologie (ad esempio le nanotecnologie) che permetteranno di
sperimentare nuove condizioni di ibridazione. Ma già alcune specie di animali, come i
topi, vengono utilizzate per dare vita ad una
specie transgenica, inserendo il Dna di un
essere umano con una malattia genetica in
un embrione animale. Operazione che viene
condotta in laboratorio per poter studiare
l’effetto di tale imperfezione sul neo-nato.
E le ibridazioni del mito continuano a rivi-
vere, quelle contaminazioni che hanno dato vita al minotauro (mostro dal corpo umano e
dalla testa di toro), al grifone (creatura leggendaria con il corpo di leone e la testa d’aqui-
la), alla sfinge (essere dotato di ali ma con la testa di donna), alla sirena (metà donna e
metà pesce, famosa per aver incantato l’equipaggio di Ulisse), al périto (un uccello con
26 È del 9 settembre 2007 la notizia che il ministro della salute britannico, Caroline Flint, ha diffuso un progetto di legge che consente esperimenti scientifici su tre diversi tipi di incroci: cellule animali inietta-te nell’embrione umano (embrione-chimera); Dna animale nell’embrione (embrione transgenico); cellule umane nell’uovo fecondato animale (citoplasma ibrido).
27 Roberto Marchesini, op. cit., p. 202.
L’isola perduta (John Frankenheimer, 1997)
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testa di cervo) alla chimera (animale mitologico con corpo di capra, coda di serpente o di
drago e testa di leone). Una chimera, ovvero una creatura che ha nel proprio organismo
cellule di individui della stessa specie e/o di specie diverse. Un esempio di chimera re-
peribile in natura è la capra-pecora (in inglese geep, dall’unione di goat ‘capra’ e sheep
‘pecora’), che presenta caratteristiche della pecora e della capra; o la capra-ragno (capra
nigeriana con Dna modificato tramite i geni di un ragno, in modo da ottenere latte con-
tenente proteine della seta, tipiche delle ragnatele costruite dagli aracnidi); o il maiale
umanizzato, suino destinato a fornire organi da trapiantare nell’uomo, riducendo il rischio
di rigetto. Una chimera che viene creata per diversi motivi: per studiare gli effetti del mix
di cellule sullo sviluppo degli organismi; per creare animali transgenici inserendo cellule
mutanti in quelle normali in modo da capire se queste possono riparare quelle alterate;
per comprendere come funzionano le cellule pluripotenti, cioè in grado di generare tutti
gli organi e i tessuti.
Esseri che si incontrano oggi nella forma elicoidale dell’acido desossiribonucleico,
nell’unione della specie umana e di quella animale, unite dopo millenari cammini separa-
ti. Un incontro che avviene nel laboratorio della scienza, dove la sperimentazione portata
troppo oltre i limiti può sconvolgere le leggi della natura e mescolare uomo e animale in
una terribile deformazione.
Ne La mosca il corpo di Seth Brundle (Jeff Goldblum) è una specie di corpo-macchina
che, come la creatura di Frankenstein, si rivolta contro il suo creatore. Un corpo che si
modifica per effetto dei sempre più rapidi progressi della genetica, specie nel laboratorio
di Seth Brundle, solitario e incompreso scienziato il cui strumento d’azione non risiede
più nella chimica, bensì nell’elaborazione dei dati da parte di un computer.
L’uomo-bestia, l’uomo-mosca, l’uomo irsuto vede frantumarsi il mondo di fronte a sé, un po’ perché come
ogni scienziato pazzo ha voluto troppo, un po’ perché non ha compreso l’insopprimibilità della carne.
Ovvero della lettera. Ovvero del significante.28
28 Roy Menarini e Andrea Meneghelli, Fantascienza in cento film, Le Mani, Recco (Genova), 2000, p. 255.
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
Anche Tartarughe Ninja alla riscossa rilancia il tema della mutazione ma, meglio an-
cora, si presta alla riflessione sugli incroci che la scienza è in grado di mettere in atto,
con-fondendo specie diverse fra loro, donando loro caratteri di umanizzazione, ma non
sapendo a quale essere vivente si troverà di fronte.
Come Alien – La clonazione allude al calvario degli esseri viventi nati da sperimen-
tazioni biologiche azzardate e prive di fondamenti etici, Island of Lost Souls ci mette di
fronte al dottor Moreau, delirante scienziato che fa esperimenti su animali e uomini per
creare una mostruosa razza ibrida, sfiorando l’idea di fare accoppiare la sua creazione di
donna-pantera con un essere umano. E lo stesso avviene nel remake L’isola perduta, che
attualizza la tecnologia necessaria all’ibridazione, spostando la ricerca dal campo della
chimica a quello della genetica. Ma il dottor Moreau (Marlon Brando) rimane lo stesso
pazzo manipolatore di vite, artefice di ibridi mostruosi, in perenne conflitto tra l’istinto
animale e la ragione umana.
La solitudine dell’uni-verso alieno
‹‹Io so solo che mi basterebbe la comprensione di un essere vivente per farmi
sentire in pace con tutti. L’amore che è in me è talmente grande che tu stentere-
sti ad immaginarlo. Il mio furore ha un’intensità che tu non puoi concepire. Se
non troverò modo di soddisfare l’uno, darò libero sfogo all’altro››.
La creatura a Victor FrankensteinFrankenstein di Mary Shelley (1994)
Il patire del diverso, il soffrire per la propria alienità di fronte al mondo e nello scontro-
incontro con se stessi è la pena di chi percepisce questa diversità e la manifesta con gesti
eroici. Ma è la condizione di chi deve stare al margine perché altrimenti non sarebbe ac-
cettato. Come il protagonista di Darkman, Westlake / Darkman (Liam Neeson), che si
nasconde nell’ombra, che vive nelle tenebre, isolato da tutti e da tutto, mostruoso nelle
sue nuove fattezze, che carica su di sé un pesante bagaglio di sofferenza individuale fi-
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sica e mentale. Darkman è una sorta di Batman alla rovescia, costretto ad indossare una
maschera per apparire normale, nello sforzo continuo (ma vano) di recuperare quella
umanità, un solitario cupo e angosciato al quale, come l’uomo-pipistrello, non è concesso
il lusso di avere amici e che alla fine si rende
conto della sua irreversibile diversità.
Umano e alieno che tornano a rivaleggiare
nelle figure di supereroi quali Superman e
Spider-Man. Superman incarna l’alieno che
si fa umano (nelle fattezze di Christopher
Reeve), ma allo stesso tempo veste i panni
del supereroe con tutto ciò che ne deriva: la solitudine inconfessabile del diverso, la
responsabilità per i suoi poteri, la lotta contro il male. Ma il Kal-El venuto da Krypton
è reso ancora più umano dal Brendon Routh di Superman Returns, con la penetrazione
nella sua storia personale, approfondendo l’analisi della sua identità, di un uomo dal fisico
alieno ma dall’animo umano, diverso fra i normali.
E poi Spider-Man, che può tessere resistenti tele come l’aracnide, e può farlo sotto le
mentite spoglie di un supereroe che non può svelare la propria identità e costretto a vivere
da uomo solitario. La realizzazione di una metamorfosi che trasforma l’umano in alieno,
la persona in qualcuno / qualcosa di sconosciuto, del quale solo il tempo potrà chiarire
l’identità; un cambiamento che diverrà ben presto controllabile e quindi muterà l’ontologia
di Peter Parker, da uomo a mutante, perfettamente in grado di controllare i propri poteri.
Il corpo del supereroe che realizza in sé il conflitto tra soggetto e mondo, che egli cerca
di esplorare muovendosi solitario sul filo di una ragnatela. Su un filo dove poter indagare
e cercare la propria identità (Spider-Man 2), consapevole che essere l’Uomo-ragno non
è più una piacevole scoperta, ma ormai un destino dal quale derivano importanti respon-
sabilità. Alla scoperta del cambiamento d’animo cui un eroe va incontro, come Elektra,
nel momento in cui deve soppesare la vita delle persone.
Dalla solitudine di Batman, dettata dalla sua inconfessabile natura di uomo mascherato da
supereroe a quella di Johnny 5 in Corto Circuito 2 che, dopo aver fagocitato una quantità
Darkman (Sam Raimi, 1990)
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L’ A N I M A L E E I L M O S T R O
industriale di informazioni dentro ad una libreria, si mette in un angolo per soffermarsi
con lentezza sul Pinocchio di Collodi e sul Frankenstein di Mary Shelley. “Come ti senti”
– chiede Ben “Oh, caro Ben questi libri mi fanno sentire solo. Vuoto, triste, angosciato,
diverso”. È, forse, la più limpida dichiarazione di sofferenza e di solitudine del diverso,
dello straniero, dell’emarginato mai apparsa
sugli schermi cinematografici del cinema di
fantascienza (e non solo), e archetipo imma-
ginale di tutte le altre figure di esclusi. La
consapevolezza di chi si rende conto di non
essere ingenuo (dal latino ingenuus ‘indi-
geno’, ‘naturale’, ‘non artificiale’) come gli
altri e, probabilmente, di non poterlo diventare mai.
Batman Begins (Christopher Nolan, 2006)
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L’uomo e la macchinaAutoma: la costante ricerca del doppioCronistoria: dal mito alla nascita della robotica e... oltre
‹‹Cartesio non faceva distinzione tra uomini e macchine e tra mondo organico ed
inorganico. Quando sua figlia morì a 5 anni, trovò una bambola che le somigliava. La
chiamò Francine e la amò ciecamente››.
Investigatore BatôGhost in the Shell: L’attacco dei Cyborg (2004)
‹‹...altrove sopravvisse un altro grado di prosperità, quando molti governi del mondo
sviluppato introdussero sanzioni legali per limitare le gravidanze: per questo, i robot,
che non avevano mai fame e non consumavano risorse oltre a quelle necessarie alla
loro fabbricazione, erano un anello essenziale nella struttura economica della socie-
tà››.Narratore
A.I. – Intelligenza Artificiale (2001)
Come se un dolly si calasse fra i caldi fumi e l’incandescente gorgoglio di una colata lavi-
ca, ci avventuriamo con lo sguardo nell’officina senza tempo del dio Efesto, sulle pendici
del vulcano Etna, là dove il mito vuole che sia stato gettato dal padre Zeus1. Partiamo da
Efesto, inventore al quale nessun miracolo tecnico è impossibile, padrone della tecnolo-
gia, capace di forgiare per il proprio banchetto di nozze con Afrodite delle meccaniche
ancelle d’oro dotate di parola, vere e proprie prefigurazioni di robot.
Quello stesso Efesto che forgiò Talos, un gigante di bronzo messo a guardia dell’isola di
Creta2. Dal sentiero del mito partiamo per questo itinerario fra il metallo, con cui l’uomo
1 Anche se in un’altra versione dell’Iliade viene narrato che Efesto, scagliato da padre Zeus giù dall’Olim-po, finì sull’isola di Lemno, dove fu aiutato dalla popolazione dei Sinti.
2 Nel mito esistono due versioni della “nascita” di Talos: secondo una, esso fu creato da Efesto per essere donato al re Minosse a protezione dell’isola cretese; secondo l’altra Talos venne fabbricato per Zeus, che
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L ' U O M O E L A M A C C H I N A
cominciò a dar forma ai suoi personali luccicanti doppi. Certo, la storia umana è una
lunga linea di invenzioni che ora qui snocciolare interamente sarebbe fuorviante e altresì
molto difficile, ma nel pro-gredire (inteso nel suo senso originario di ‘andare avanti’) del-
la tecnica umana di riprodurre l’artificiale, ecco alcune date e personaggi segnalarsi alla
nostra attenzione con la forza viva dei punti esclamativi. È il caso delle statue dedicate ad
Anubis nel VII secolo a. C., riproduzioni della dea dotate di una mascella mobile, o delle
statue di Tebe, che la leggenda vuole parlassero e muovessero le braccia. Ma uscendo dal
guscio del mito, la storia ci dice che il primo automa realizzato con la tecnica dell’uomo
fu la colomba di Archita di Taranto: un volatile meccanico in grado di spiccare il volo e
volteggiare nell’aria come un uccello vero, anello di congiunzione fra l’umano (ingegno),
l’automa (realizzazione tecnica) e l’animale (modello oggettuale).
Compiendo poi un balzo in avanti, ci fermiamo al I secolo d. C., allorché Erone il Vec-
chio, matematico di Alessandria d’Egitto, realizzò tutta una serie di congegni meccanici
(tra cui la pompa idraulica, l’odometro, i primi orologi ad acqua, nonché dei rudimentali
uccellini che zufolano) che divengono a tutti gli effetti le prime ricerche tecniche sugli au-
tomi. Dunque, già con Erone, le cui creazioni meccaniche sovente vennero impiegate nei
templi bizantini e nelle rappresentazioni teatrali per stupire fedeli e spettatori, germoglia
quel principio della meraviglia ottenuto per mezzo della tecnica.
Nel XV secolo ci imbattiamo nella grandiosa figura di Leonardo Da Vinci, il quale rea-
lizzò una sorta di androide meccanico, formato da una corazza contenente un meccani-
smo che la faceva muovere come se contenesse un cavaliere. Poi, nel 1738 Jacques de
Vaucanson perfezionò un’anatra di rame dorato, in grado di starnazzare, beccare il grano,
sbattere le ali e lasciare piccoli escrementi e diede vita anche ad un musicista che riusciva
a suonare un flauto. E sempre nel secolo dei lumi, più precisamente nel 1772, l’orologiaio
svizzero Pierre Jacquet-Droz mise a punto lo Scriba, cioè un ragazzo scalzo a grandez-
za naturale che stava seduto ad una scrivania, intingeva la penna d’oca nel calamaio, la
scuoteva due volte, e poi scriveva un testo pre-programmato, seguendo con gli occhi i
voleva proteggere l’isola della sua amata Europa. Il gigante, inoltre, può essere considerato la prefigurazio-ne dei robot, ma anche un’umanoide, poiché aveva la caviglia destra fatta di carne umana: unico suo punto debole, che gli costò la vita allorché, all’arrivo degli Argonauti, Medea con i suoi incantesimi ne colpì la vena e lo uccise.
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movimenti della penna. Nel 1784 Kintzing e Roentgen costruirono un’aggraziata forma
d’automa, nominata la “Joueuse de timpano” (La suonatrice di timpano), fatta apposita-
mente per allietare la regina Maria Antonietta. Mentre nel XIX secolo i fratelli Maillardet
(Jacques-Rodolphe, Henri e Jean David) costruirono una serie di automi maghi da esibire
nei loro spettacoli. E sempre nello stesso secolo, in precisa data 1834, l’inventore Charles
Babbage ideò una macchina calcolatrice a vapore in grado, tramite una serie di ingranaggi
e manovelle, di memorizzare fino a mille numeri decimali di cinquanta cifre, sommarne
due in meno di dieci secondi e moltiplicarli in meno di un minuto. E sebbene questa in-
venzione non si tradusse mai in realtà, essa può a giusto diritto essere considerata come
la prefigurazione del calcolatore.
Il Novecento cominciò poi con la I guerra mondiale, dopo la quale gli automi uscirono
dal loro status di divertissement per farsi supporti utili al lavoro umano (vedi la serialità
meccanica della catena di montaggio fordista). Ma pur sempre automi, ovvero macchine
alle quali bisogna fornire delle informazioni in forma di dati, ottenendo come risposta una
determinata (programmata) azione.
Automa come la figura che muove i passi ne L’uomo meccanico un essere meccanico do-
tato di straordinarie forza ed intelligenza. Danneggiato
e vanamente riparato, esso impazzisce e potrà fermarlo
soltanto un altro automa, in uno scontro titanico pri-
ma d’allora mai visto in una sala cinematografica e
che farà da antesignano di tutte le pellicole a venire.
La struttura dell’automa non ha tratti antropomorfici,
bensì assomiglia più che altro ad “un complesso mac-
chinario manovrabile a grande distanza, con la coscienza di un robot industriale”.3 Per
ora ancora una ferraglia senz’anima che, una volta compromessosi il suo funzionamento,
finisce nella pattumiera.
Ma negli anni ’50 arrivò la robotica (che poi si metterà al servizio della medicina e della
simulazione) e nel 1959 Marvin Minsky e John McCarthy si spinsero ancora oltre apren-
3 Roy Menarini e Andrea Meneghelli, Fantascienza in cento film, Le Mani, Recco (Genova), 2000, p. 25.
L’uomo meccanico (André Deed, 1921)
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do il laboratorio di intelligenza artificiale al MIT (Massachusetts Institute of Technolo-
gy); nel 1976, poi, i costrutti della robotica varcarono i confini dell’atmosfera terrestre
per approdare con le sonde Viking 1 e 2 su Marte. Una robotica che ha fatto del servigio
il suo imperativo categorico, sia nelle nostre case private che occupando gli spazi pub-
blici. Infatti, gli elettrodomestici sono stati “le prime macchine automatiche in grado di
diffondersi capillarmente tra le mura della casa in cui si abita e di essere i protagonisti di
profondi cambiamenti nella struttura sociale della famiglia”.4
Ed ora l’avanguardia dell’automazione ci
prospetta robot-spazzini che si occupano
della pulizia delle strade, robot-musicisti
che improvvisano ritmi con strumenti a per-
cussione, robot-sorveglianti pronti ad inter-
venire in caso di incendio e robot-babysitter
che si occupano dei bambini assicurando
una sicurezza e un’efficienza che farebbero tremare un sindacato.
Ma il salto più alto che potesse fare la tecnologia del XX secolo è avvenuto con la ci-
bernetica5 di Norbert Wiener e Julian Bigelow e l’informatica di Alan Turing e John von
Neumann, con quest’ultimo che nel 1945 realizzò il primo vero progetto di calcolatore
elettronico programmabile.6 Cibernetica e informatica, ovvero vita artificiale e intelligen-
za artificiale, per una ricerca scientifica che proseguì per tutto il XX secolo coltivando
quel seme lanciato nel corso dell’Ottocento da George Boole, padre della logica binaria, e
che portò, appunto, al dispiegarsi dell’era dell’informatica e del passaggio dall’analogico
al digitale, da un sistema chiuso ad un sistema aperto, dalla rappresentazione all’inte-
4 Vincenzo Tagliasco, Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali, Mondadori, Milano, 1999, p. 362.
5 La cibernetica è la scienza che studia i fenomeni di autoregolazione e comunicazione sia negli orga-nismi naturali sia nei sistemi artificiali, ponendosi come un campo di studi interdisciplinare tra le scienze e l’ingegneria. Nominalmente nata nel 1947, allorché il matematico statunitense Norbert Wiener le diede statuto ontologico derivandola dal greco kybernetike (téchne) ‘arte di pilotare’, derivato a sua volta di ky-bernân ‘governare una nave’.
6 La realizzazione dell’Edvac, ovvero Electronic Device Variable Automatic Computer (computer con dispositivo elettronico variabile automatico) fu terminata a Princeton nel giugno del 1945 e lo stesso John von Neumann coniò per l’occasione la definizione di “cervello elettronico”.
Il pianeta proibito (Fred McLeod Wilcox, 1956)
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rattività. Con il digitale tutti gli strumenti sono connessi, possono dialogare, trasferirsi
vicendevolmente le informazioni, ibridare le loro prestazioni. Il mondo delle macchine
ha così un unico codice genetico ed una propria tecnosfera dotata di regole ben precise.
È la strada che porta verso un’unione di organico ed inorganico indistinta. Siamo nel
mondo delle nanotecnologie, per le quali gli studiosi stanno facendo ricerca, affinché esse
possano autoreplicarsi, demandando all’uomo l’unico compito di sorveglianza sul “loro”
operato. Il mondo della vita artificiale, intesa come lo studio della vita naturale attraverso
la sua riproduzione sul computer, cioè la sua riproduzione digitale; ma essa è anche lo
studio di possibili altre forme di vita, proprio perché nel computer si è liberi di studiare
non semplicemente forme naturali, ma anche forme artificiali.
La maggior parte delle ricerche in vita artificiale lavorano appunto a livello di organismi artificiali, e la ca-
ratteristica fondamentale sta nell’evoluzione. Si tratta, cioè, di organismi artificiali che vengono addestrati,
che vivono, e si riproducono, attraverso un’interazione con l’ambiente, e in adattamento a questo ambiente
sviluppano delle capacità. Per esempio dei robot dotati di intelligenza artificiale: creiamo dapprima una
simulazione degli organismi e del loro ambiente. L’organismo si riproduce, selezionandosi nel computer, e
poi lo trasferiamo nel robot vero e proprio.7
Un ‘corpo portatore di mente’ che sta alla base della teoria dell’intelligenza artificiale, per
cui il nostro sostrato fisico può essere indifferentemente un computer oppure un robot.
Con la nascita dell’elettronica negli anni Trenta il corpo viene visto come macchina da
poter separare dal cervello che gestisce e controlla, quindi la cibernetica mostra all’uomo
come usare la sua macchina-corpo.
Siamo nell’era della trasformabilità, ben evidenziata da Transformers, pellicola nella
quale i robot hanno la capacità di modificarsi a piacere e di rendersi indistinguibili dagli
oggetti d’uso quotidiano, rendendo con gran maestria il concetto di onnipresenza della
tecnologia che ormai ha fatto entrare l’automa nel nostro immaginario comune.
7 Stefano Nolfi, Artificial Life [http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=249&tab=bio].
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Dalle macchine ai robot: la nostra copia meccanica
‹‹È una macchina Skroeder, non si può incavolare, non può essere allegro, non può
essere triste, non può ridere alle barzellette, può soltanto eseguire i programmi››.
Newton Crosby Corto Circuito (1986)
Con le macchine costruite per la fabbrica l’uomo ha cominciato a creare il suo primo
doppio. Un’ombra che empiva la mente e le pagine degli scrittori, tanto che già nel 1816
l’attrazione per gli automi si materializzò ne L’uomo di sabbia di E.T.A. Hoffmann. Allo
stresso tempo, di fronte alle macchine che abbiamo prodotto, proviamo un senso di ver-
gogna, una certa inadeguatezza nei confronti del nostro fisico, della nostra carne rispetto
agli impianti macchinici.
La tecnologia sta cambiando il mondo, i fuochi dell’ellisse-mondo si stanno spostando
e stanno facendo cambiare forma alla figura generale: macchine e uomo l’uno di fronte
all’altro.
Le macchine di questa fine secolo hanno reso totalmente ambigua la differenza tra naturale e artificiale,
mente e corpo, auto sviluppo e progettazione esterna nonché molte altre distinzioni che si applicavano a
organismi e macchine. Le nostre macchine sono fastidiosamente vivaci, e noi spaventosamente inerti.8
Il test di Turing9, che si occupa del comportamento intelligente in sistemi artificiali (inten-
dendo per intelligenza una serie di capacità eterogenee e generalmente complesse come
ragionamento e pianificazione, soluzione di problemi, apprendimento, interazione con
l’ambiente e con altri agenti) aprì la strada verso lo sviluppo di computer intelligenti,
suggerendo che la via migliore sarebbe stata quella di costruirli ‘bambini’, farli crescere
8 Donna J. Haraway, Simians, Cyborgs, and Women. The Reinvention of Nature, Routledge, New York, 1991; tr. it. Manifesto Cyborg, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 44.
9 Il Test di Turing è un criterio, introdotto da Alan Turing nell’articolo Computing machinery and intelli-gence, apparso nel 1950 sulla rivista ‹‹Mind››, per determinare se una macchina sia in grado di pensare. La validità del test si basa sul presupposto che una macchina A possa farsi passare per un uomo B ad un terzo interlocutore (umano) C.
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e sbagliare, in modo da poter trovare man mano opportuni correttivi al proprio errato
comportamento (in questa direzione lavorano laboratori di robotica e ricerche nel campo
della realtà virtuale). Nel frattempo l’ibridazione fra uomo e tecnologia avvicina l’essere
umano all’automa, che vive la propria metamorfosi sia da spettatore che da protagonista
(torna il discorso sulla doppia valenza della tecnologizzazione in cui ci stiamo immergen-
do), in quella continua tensione propria del cambiamento di forma che si protende verso
il nuovo ma non cancella tutti i residui del vecchio, un uomo che “si lacera e si ricompone
tra il mito, la scienza, l’arte e la tecnologia”.10 Un uomo che, costruendo l’automa, si av-
via alla ricerca del superamento dei limiti del conosciuto e dell’umano.
Ma dall’automa pre-programmato e ben rappresentato dal protagonista de Il gabinetto del
Dottor Caligari, ovvero quel Cesare (Conrad Veidt) che compare in veste di sonnambulo
privato della volontà, si passa nel Novecento alla sua evoluzione, al suo perfezionamento
lungo la direttiva dell’auto-programmazione: il robot. Un robot che compare per la prima
volta nella commedia R.U.R. di Carel Čapek, rappresentata a Parigi al teatro degli Cham-
ps Élisées nel 1924.
Il termine robot deriva dal ceco medievale robota, sostantivo femminile che indicava la
corvée, quel lavoro obbligatorio svolto dai servi della
gleba per i signori e i nobili, e termine la cui radice rob-
significa lavoro in tutte le lingue slave. Metallo per
servire, come ci mostra Metropolis, pietra miliare del
cinema mondiale, dove possiamo vedere le costruzioni
e le macchine divenute simbolo delle infernali condi-
zioni di lavoro degli operai, migliaia di operai addetti
al funzionamento di mostruose macchine che riforniscono incessantemente di energia la
città; ma una città dove la scintilla del cambiamento è innescata soprattutto dallo scien-
ziato Rotwang, artefice della creazione di un robot di nome Robotrix: un robot con le
fattezze di Hal, la donna amata un tempo dallo scienziato stesso.
Ed ecco i robot che assumono alla perfezione sembianze umane, quelle stesse del famoso
10 Giuseppe O. Longo, L’automa specchio dell’uomo [http://www.treccani.it/site/Scuola/Zoom/tecnolo-gie_conclusione/scuola_zoom_conclusione.htm].
Metropolis (Fritz Lang, 1926)
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Robby, presente ne Il pianeta proibito e antesignano di tutti i robot della fantascienza
cinematografica.
Il robot raccoglie l’eredità dell’alter-ego meccanico dell’uomo che partì dal gigante mito-
logico di Talos. Esso trasforma la sua ontologia meccanica, in una transizione temporale
che lo declina non più come mero passatempo, doppio votato al gioco e all’incanto, ma
come macchina sferragliante che serve l’uomo e che nella sua mostruosità di metallo in-
cute progressivamente timore.
La proiezione che l’uomo compie nell’automa è un superamento: chiaramente, si cerca di realizzare le pro-
prietà della sostanza vivente in una materia diversa da quella umana: la formula della vita verrà riprodotta
in modi che possano sfuggire alle ineluttabili e angoscianti leggi naturali: è la ricerca dell’immortalità.11
Ma noi siamo uomini proprio perché ci consumiamo, perché siamo inevitabilmente de-
stinati alla morte del corpo. Per questo la costruzione di automi non fa che concretare
il desiderio dell’uomo di sfuggire alla morte: un doppio fatto di metallo, lontano dalla
debolezza umana, insensibile alla fragilità emozionale propria dell’uomo, inattaccabile
dalle malattie, un perfetto modello di vita eterna.
La disperata ricerca di conferire a questo figlio incongruo e perfetto la caratteristica dell’immortalità spiega
la particolarità degli automi di essere asessuati: in termini più precisi, l’automa è privo di libido: ecco che
non è soggetto a repressione, e sfugge l’angoscia che ne sarebbe conseguenza: anche questa condizione
finale, altamente desiderabile, viene trasferita nell’essere artificiale, al quale è negata la percezione: dal
momento che l’atto sessuale dà origine alla vita, cioè alla morte.12
Ma se l’uomo cerca di sublimare la propria vita organica nel guscio meccanico dell’au-
toma, allo stesso tempo è spaventato dalla struttura meccanica che ha creato: spaventato
dalla possibilità che il progresso della tecnica possa un giorno permettere di realizzare
una coscienza artificiale, quell’anima che è propria dell’uomo, che lo eleva ad una con-
11 Gian Paolo Ceserani, Falsi Adami. Storia e mito degli automi, Feltrinelli Editore, Milano, 1969, p. 6.
12 ivi, p. 10.
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dizione superiore rispetto al robot, ma da questo fortemente agognata, in modo da porsi
finalmente sul medesimo livello esistenziale del suo creatore.
Sentimenti simili a quelli umani che il robot protagonista del film Tobor comincia a svi-
luppare, andando per la prima volta oltre l’ammasso di componenti meccaniche, proget-
tato per trasmettere onde cerebrali e permettere una maggiore guidabilità dei razzi nelle
missioni spaziali e nella ricerca scientifica in generale. Un seme di emozioni per lui ver-
gini e che cerca di preservare con tutte le sue forze.
Una vita artificialeIl seme della coscienza
‹‹Agente Spooner: I robot non provano paura, non provano niente, non hanno
fame, non devono dormire.
Sonny: Io si, ho persino sognato alcune volte.
Agente Spooner. Gli esseri umani sognano quando dormono, anche i cani so-
gnano, ma tu no, tu sei solo una macchina, un’imitazione della vita. Un robot
può scrivere una sinfonia? Un robot può trasformare una tela bianca in un’ope-
ra o in un capolavoro?
Sonny: Lei può farlo?››Dialogo tra l’agente Spooner e Sonny
Io, Robot (2004)
‹‹Io non in avaria Stephanie. Numero 5 è... è vivo››.Numero 5 a StephanieCorto Circuito (1986)
Un Corto circuito, titolo del film, ma anche scintilla vitale che anima il robot numero 5,
prodotto seriale di un armamento militare nuovissimo che promette di togliere gli uomini
dal campo di battaglia per sostituirli con i loro alter-ego meccanici. Un corto circuito che
infonde la vita, come se quel marchingegno frutto del lavoro dell’uomo fosse un bambino
appena venuto al mondo e desideroso all’ennesima potenza di imparare qualsiasi cosa, di
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acquisire più conoscenza possibile (“Input, ancora input”), perfino voglioso di dimostrare
la propria acquisita coscienza, la propria consapevolezza di essere qualcosa di vivo.
Così, in uno spazio temporale che riduce sempre più lo scarto tra vecchio e nuovo, l’uma-
na costruzione delle macchine lascia progressivamente il posto ad un’espansiva macchia
meccanica che mira a sommergere le ferrose
macchine ed a sostituirle con i metallici ro-
bot. Perché la differenza sostanziale tra mac-
chine (automi) e robot risiede nel fatto che
questi ultimi possono scegliere tra diversi
tipi di comportamento. Ci professiamo es-
seri differenti dalle macchine-robot, perché
dotati di emozioni, corpo, intelletto, ma allo stesso tempo ci divertiamo nel giocare con
programmi che sembrano quasi vivi. Dai robot simulacro dell’essere umano costruiamo
anche robot che cercano di riprodurre altri animali, sino ai robot virtuali del cyberspazio
(bot virus e spider di Internet). E allo stesso tempo temiamo che questi robot, nell’incon-
tro con l’elettronica e l’informatica, possano farsi sempre più simili a noi. Timore per
l’umanizzazione della macchina che si materializza in 2001: Odissea nello spazio, dove
il computer Hal 9000 (qualcuno ha ipotizzato che dietro il nome HAL ci sia la IBM, tanto
che queste tre ultime lettere sono l’una la successiva delle prime tre: I viene dopo H, B
viene dopo A, M viene dopo L) diviene il decisore del destino dell’equipaggio, decimato,
finché l’unico superstite, David Bowman (Keir Dullea), non lo disattiva. Hal è un cer-
vellone elettronico che sussume nei suoi circuiti l’angoscia dell’uomo per l’abbattimento
dell’ultima frontiera che separa umano e macchinico: la coscienza.
Oltrepassare il confine segnato dai robot asimoviani, creature che obbligano l’uomo a
confrontarsi con il suo alter-ego macchinico, ma che si fanno macchine d’uso comune e
non minaccia, perché osservano le tre leggi della robotica, concepite da Isaac Asimov nel
suo libro Io, Robot e riprese nell’omonima pellicola girata da Alex Proyas nel 2004.
1. Un robot non può recar danno a un essere umano, né permettere che, a causa della
propria negligenza, un essere umano patisca danno.
Corto Circuito (John Badham, 1986)
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2. Un robot deve sempre obbedire agli ordini degli esseri umani, a meno che contrastino
con la Prima legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questo non contrasti con la
Prima o la Seconda Legge.
Il film di Alex Proyas, però, si discosta dall’idea espressa nel romanzo, dove i robot mai
si sarebbero rivoltati contro l’uomo. Pur ispirandosi alle costruzioni meccaniche partorite
dallo scrittore e mostrandoci una futuribile iper-tecnologica Chicago del 2035 nella quale
uomini e macchine convivono pacificamente, il film arriva a scollarsi dalle pagine che lo
hanno ispirato, allorché Sonny (il robot interpretato da Alan Sudyk, poi ritoccato digital-
mente) scardina il meccanismo e sembra acquisire l’imperfezione degli esseri umani. Il
regista ci porta così dentro un mondo nel quale il diverso (quasi-umano) si fa inquietante
presenza, macchine come specchio dell’anima di un uomo-dio-creatore in cerca di pace
e comfort.
E se un giorno, come accade nel film Io, Robot, gli automi riuscissero ad avere una
coscienza, allora si frantumerebbe quella superficie riflettente che ci mostra il nostro in-
quietante e ammonitore doppio macchinico e con esso ci identificheremmo. Il problema
dell’autocoscienza dei robot emerge con for-
za viva. Ma una macchina potrebbe davve-
ro sviluppare una coscienza? Una macchina
non si chiederebbe mai se un essere umano
è una macchina o no. Gli uomini, invece,
possono provare sentimenti, possono sentire
scattare qualcosa dentro loro quando vanno
al cinema, possono lasciarsi avvolgere da un pathos d’identificazione coi personaggi.
È la coscienza che ci rende umani e ci differenzia dalla mera scelta di un comportamento
pre-determinato, che contraddistingue l’operato di un robot. Ma come ci ricorda Giuseppe
O. Longo, “una ventina di robot soldati detti Sword (letteralmente spade, ma è l’acronimo
di Special weapons observation reconnaissance detection systems) dovrebbero entrare
in funzione in appoggio al corpo di spedizione americano in Iraq, [e] verso il 2025 po-
Io, Robot (Alex Proyas, 2004)
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L ' U O M O E L A M A C C H I N A
tranno scendere in campo i Tac (Tactical autonomous combatant)”.13 Con progetti come
questi l’uomo utilizza i robot capaci di sostituire i soldati in carne e ossa, nell’ottica di
un miglioramento dell’efficienza durante i combattimenti. Certo, l’uomo guiderà ancora
a distanza l’operato dei robot, ma si acuirà ancor più quel senso di onnipotenza che fa
considerare il nemico (umano) come un bersaglio da distruggere, una cosa da annichilire.
La pietà per un essere vivente scompare del tutto, inaugurata dalla polvere da sparo ed
ora aggravata da questo sistema di disintegrazione a comando che in parte sgrava l’uomo
dalla sua responsabilità: occhio non vede, cuore non duole. La coscienza ci consente una
scelta, fra la creazione benevola e la distruzione senza scrupoli.
Le macchine si comporteranno come il T-1000 (Arnold Schwarzenegger) di Terminator
2 – Il giorno del giudizio che, disobbedendo all’unico che può comandarlo (il piccolo
John Connor) e, in un atto volontario tipico degli esseri umani, decide di salvare tutti
autodistruggendosi? Oppure no?
Chi ci assicura che lo scarto fra programmazione e autonomia dei robot non finisca per
far prevalere la seconda opzione, in ottica distruttiva, mettendo a rischio la vita stessa dei
suoi creatori?
Sulle orme di Pinocchio
‹‹Creare un essere artificiale è stato il sogno dell’uomo fin dagli albori della
scienza. Non solo all’inizio dell’era moderna, quando i nostri antenati sbalor-
dirono il mondo con le prime macchine pensanti o con mostri primitivi che
giocavano a scacchi. Ah, quanta strada abbiamo fatto! L’essere artificiale è una
realtà, un prefetto simulacro, articolato nelle membra, articolato nel linguaggio
e non carente di reazioni umane››.Prof. Hobby
A.I. – Intelligenza Artificiale (2001)
L’essere metallico (prima macchina automa, poi robot programmato) incarna da sem-
13 Giuseppe O. Longo, Un robot ci potrà mai uccidere?, in ‹‹Newton››, anno X, n. 6, giugno 2006, p. 72.
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U N A V I TA A R T I F I C I A L ES u l l e o r m e d i P i n o c c h i o
pre l’aspirazione dell’uomo a superare i limiti della propria contingenza. Ecco, dunque,
proseguire la ricerca in campo di vita artificiale. Ecco il progetto cui lavora il consorzio
internazionale RobotCub (www.robotcub.org), ovvero completare un robot bambino che
poi potrà imparare dalle esperienze “vissute” e darà risposte appropriate a situazioni nuo-
ve. Per fare ciò il robot verrà dotato di un cervello ibrido composto da cellule neuronali
che si sviluppano in ambiente artificiale, di vetro o di silicio (per il momento è previsto
che il cervello sia esterno); il robot-bambi-
no interagirà col mondo per mezzo di arti,
per ora formati esclusivamente di metallo,
ma i ricercatori dell’Iit (Italian Institute of
Technology) stanno lavorando ad un nuovo
materiale in grado di riprodurre la stessa ela-
sticità e la stessa forza dei tessuti muscola-
ri umani; infine, avrà delle mani, appendice ultima ma fondamentale per l’acquisizione
dell’esperienza tattile del mondo, il più possibile simile alle nostre. Un robot che professa
di trasformarsi in un vero e proprio umanoide, per il quale si sta cercando di capire anche
come trasmettergli la capacità di autoripararsi, tipica del modello cui si riferisce: l’essere
umano.14
Un robot-bambino come quello di A.I. - Intelligenza Artificiale, film che prospetta l’im-
magine di un mondo (futuro?) in cui nascere robot può forse aiutare a capire il destino di
solitudine e silenzio che incombe sulla specie umana. Ma un vuoto solipsistico che non
viene colmato, tanto che il piccolo mecha David (Haley Joel Osment) non si trasforma
magicamente nel bambino in carne e ossa come Pinocchio, ma sconta fino alla fine la for-
za crudele che schiaccia il diverso. La sua carnalità si percepisce come fosse un umano,
al pari dell’HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio e, come questo, anche David sembra
cancellare la sua parte meccanica con la consapevolezza d’essere qualcosa di vivente che
man mano origina una forma di coscienza. Nella pellicola di Spielberg cerca di materia-
lizzarsi l’aspirazione di corpi non-vivi a dare compiutezza ad una metamorfosi organica
14 Riferimento a Erika Della Casa, Ecco il cucciolo di robot che gattona come un bambino, in ‹‹Corriere della Sera››, 14 luglio 2006.
A.I. - Intelligenza Artificiale (Steven Spielberg, 2001)
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L ' U O M O E L A M A C C H I N A
che, però, appare impossibile.
Siamo nel mondo di esseri sintetici come D.A.R.Y.L. (acronimo di Data Analyzing Robot
Youth Lifeform), che appare come un qualsiasi ragazzino, magari un po’ più dotato degli
altri, quando in realtà è un umanoide. Un esperimento, nato in provetta ed il cui cervello è
stato robotizzato. È il mondo del concepimento artificiale e della modificazione dei carat-
teri umani per intervento dell’uomo, in un laboratorio dove lo sperimentalismo gioca con
la vita come farebbe un bambino con un morbido pezzo di plastilina.
Robot a servizio dell’uomo ma che con questo si confondono. Come la protagonista
del telefilm SuperVicky, costruita per fare da governante della casa, ma alla fine entrata
di diritto a far parte della famiglia. Camerieri e servitori come il robot Andrew (Robin
Williams) de L’uomo bicentenario, unica eccezione nella sua specie robotica in grado
di sviluppare un’intelligenza propria e capace di sentire compassione, ovvero di prova-
re quei sentimenti tipici dell’animo umano. Egli è un insieme di meccanica e biologia,
dotato di un cervello positronico che, man
mano la pellicola si srotola, gli rende sempre
più difficile accettare la consapevolezza di
non essere un uomo, pur provando le stesse
emozioni che gli uomini provano. Però, esso
(egli?) intravede la possibilità di farsi uomo
vero, a condizione di rinunciare alla pro-
pria immortalità. Una macchina può rompersi, ma può sempre attraversare il tempo, fino
all’infinito, grazie ad una riparazione; l’uomo, una volta rotto irrimediabilmente, muore.
La morte che strappa la vita delle persone care, il piccolo mecha David che si fa doppio
creato per riempire una mancanza, per colmare il vuoto lasciato ai genitori dalla perdita
prematura del loro figlio naturale in A.I. – Intelligenza Artificiale. David che cerca in
ogni modo di essere un bambino vero, che sente il bisogno di amare e prova a farlo, mo-
strandoci come spesso gli uomini dimentichino quanto stupefacente e meravigliosa sia la
loro natura umana.
L'uomo bicentenario (Chris Columbus, 1999)
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U N A V I TA A R T I F I C I A L EA n d r o i d e , u n q u a s i - u o m o
Androide, un quasi-uomo
‹‹Evidentemente l’empatia apparteneva allo spirito umano [...] Non siamo com-
puter Sebastian, siamo organismi [...] Io penso Sebastian, pertanto sono...››
Roy BattyBlade Runner (1982)
La leggenda dell’homunculus degli alchimisti, quella praghese del Golem, la geniale
costruzione letteraria di Mary Wollstonecraft Shelley, che nel suo Frankenstein, or the
Modern Prometheus estende e rigenera un vero e proprio concetto di vita artificiale, sono
simboli rivelatori di una realtà che nel suo sommovimento perpetuamente mutevole de-
nuncia la verità attuale: la società rifiuta la morte come evento naturale. Infatti, la crea-
tura di Frankenstein è un personaggio limite che dimostra con il suo destino tragico la
mostruosità di un’esistenza creata artificialmente, di contro alle leggi naturali, divine.
Il dottor Frankenstein è la scienza manipolatrice. Il Mostro da lui creato l’antesignano
dell’androide. In Frankenstein si materializzano le paure portate a galla dal progresso
della scienza.
Il Replicante “nasce” come replicazione genetica dell’uomo, condizionata a difendere la razza umana nella
sua migrazione verso l’ignoto, sistemi viventi a rapida estinzione, senza passato né futuro, solo presente,
pensati per essere imitazioni biochimiche, senza passioni né emozioni [...] E il corpo umano diviene un
doppio duplicabile, una sfida allo sguardo, il luogo di una trasformazione che evidenzia le prime alterazioni
del rapporto corpo-tecnologia.15
La robotica continua a studiare l’essere umano, nella sua anatomia, nei suoi sensi e nelle
sue facoltà di apprendimento, al fine di trasferirle su un organismo artificiale. Quell’orga-
nismo che attua il passaggio da macchina robotica ad essere androide (dal greco anér, an-
dròs ‘uomo’), un essere ancora formato da materiale inorganico, le cui sembianze esterne
lo fanno rassomigliare sempre più al modello umano, dal quale risulta quasi indistingui-
15 Francesca Alfano Miglietti, Identità mutanti: dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, Costa & Nolan, Genova, 1997, p. 94.
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L ' U O M O E L A M A C C H I N A
bile. Creato come fedele servitore, destinato ad uno scopo specifico, sorta di versione
aggiornata del Golem di cui parla la tradizione ebraica. Androidi come quella esposta in
Giappone al “World Expo” di Achi: Actroid, la hostess umanoide che parla, sorride, dà
spiegazioni e si muove come un essere umano. “Noi viviamo nell’era del robot” recita lo
slogan introduttivo, e se questo è vero per quel che riguarda settori sempre più estesi della
produzione, presto la validità del motto potrebbe estendersi anche ad altri aspetti della
nostra vita, fino a giungere ai servizi. È in questa prospettiva che si comincia a dedicare
un’attenzione sempre maggiore agli androidi, robot antropomorfi: la pelle curata, i capelli
ben pettinati, l’espressività sono fattori determinanti nelle relazioni con gli estranei.
In Metropolis il demoniaco agire di Rotwang (Rudolph Klein-Rogge) si spinge oltre,
sino a dare al robot le fattezze umane di Maria (Brigitte Helm), un androide femmina (o
ginoide) indistinguibile dalla Maria in carne e ossa e creato per adempiere al compito di
aizzare gli operai contro il padrone della fabbrica. Il tentativo di costruire una superdonna
androide assolutamente inconsapevole della propria natura come nell’omonimo remake
Metropolis di Taro Rin.
Ma il punto debole di un essere robotico che si fa androide vero e proprio restano le mani.
Quell’incredibile strumento che ci ha permesso di continuare nel nostro progresso uma-
no. Le mani dei robot sono spesso l’equivalente di una pinza di ferro, perché sono sempre
in tensione tra il far scivolare l’oggetto afferrato o schiacciarlo con una presa troppo forte.
Ma la ricerca scientifica dello scienziato Ravi Saraf (Università del Nebraska) ha perfe-
zionato una pellicola mille volte più sottile di un foglio di carta formata da particelle di
cadmio che reagiscono alla pressione, segnalando il passaggio di corrente con un’emis-
sione luminosa che una macchina fotografica cattura, riproducendone un’immagine utile
al robot per afferrare l’oggetto in maniera corretta. Tecnica che si perfeziona sempre più
sino a materializzare la figura simil-umana che possiamo osservare nel film Android, nel
quale il dottor Daniel (Klaus Kinski) ha messo a punto un androide, Max 404 (Don Keith
Opper), assistente al quale ha insegnato a comportarsi come un essere umano. Ma il la-
voro del dottore si spinge sempre più in là, sino alla costruzione di un androide femmina
più evoluta, Cassandra (Kendra Kirchner), per cui decide di disattivare Max 404 e farlo
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regredire alla condizione di robot. Androidi che capiscono e sembrano umani, che trar-
rebbero in inganno qualsiasi uomo. Insospettabili forme sintetiche come lo stesso dottor
Daniel si rivelerà alla fine, colpito a morte dalle sue costruzioni: rivolta dell’inorganico
che uccide inconsapevolmente un membro della sua specie.
Androidi troppo umani per non esserlo, come Dale Coba (Christopher Walken), che nel
finale de La donna perfetta viene colpito e rivela i propri circuiti di essere meccanico,
costruito dalla dottoressa Emily Francher (Glenn Close) per rendere “tutto perfetto”.
Quando un robot assomiglia troppo a un essere umano può fare paura, ma il fatto che
sembri un essere umano, che si muova e
respiri come un essere umano rende la co-
municazione più facile. Facile come parlare
da uomo a uomo, faccia a faccia, per poi af-
frontare lo shock percettivo di comunicare
con l’androide Ash (Ian Holm) in Alien, o
Bishop (Lance Henriksen) in Aliens - Scon-
tro finale, o ancora Call (Winona Ryder) in Alien - La clonazione. Esseri sintetici pro-
grammati per simulare i comportamenti e le passioni umane.
In Blade Runner di Ridley Scott il tentativo umano di imitare Dio e di ri-creare se stesso
diventa uno specchio alienante, nel quale si riflette l’immagine di un androide gelida crea-
tura indistinguibile dall’uomo, ma alla quale la tecnica ha tolto le emozioni.
Se la fantascienza degli anni cinquanta ha disseminato inquietanti interrogativi, da 2001:
Odissea nello spazio essa ha cominciato a disegnare scenari in cui fosse la macchina la
vera protagonista, sino ad immaginare che un giorno essa invertirà il processo di creazio-
ne e darà vita all’uomo.
Dunque, noi e i nostri computer in complicatissima evoluzione potremmo incontrarci a metà strada. Un
giorno o l’altro, un essere umano - Fred White, diciamo - potrebbe sparare a un robot - Pete Vattelapesca,
uscito da uno stabilimento della General Electric - e scoprire che questo piange e sanguina. Il robot moren-
te, a quel punto, potrebbe rispondere al fuoco e, con sua grande sorpresa, vedere una voluta di fumo grigio
levarsi dalla pompa elettrica che lui credeva fosse il cuore del signor White. Sarebbe uno sconvolgente
La donna perfetta (Frank Oz, 2004)
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L ' U O M O E L A M A C C H I N A
momento di verità per entrambi.16
In Blade Runner Rick Deckard (Harrison Ford) s’è lasciato affascinare dal fatto che lo
specchio gli rivelasse la presenza immediata di una realtà afferrabile, nella quale poter
distinguere i ruoli dell’io e dell’altro; ma, in verità, esso lo ammoniva a considerare il ca-
rattere di labilità e illusorietà dell’apparire e dell’essere. Rachel (Sean Young) è incapace
di accettare che la sua identità non è quella che ha sempre creduto. Ma in Blade Runner,
più che di androidi (costruzione umana di un alter-ego metallico rivestito con tessuti
plastici o biologici) possiamo parlare di replicanti, creature che aspirano ad acquisire lo
statuto di ‘essere umano’, facendo così un ulteriore salto in avanti.
E la costruzione di un replicante sarebbe come un Giano bifronte: da una parte la faccia
che rivela il trionfo definitivo della ragione sulla natura; dall’altra quella che decreta
l’eclisse dell’uomo.
Sono replicanti, che vengono scambiati per umani, anche le creature aliene di La cosa da
un altro mondo, o quelle che nascono dai baccelli verdi de L’invasione degli ultracorpi,
o ancora i personaggi di Essi vivono.
Le schegge del nostro sogno di dare un significato al mondo e alla vita galleggiano nel vuoto ronzio di-
scorde delle macchine.17
Un mondo nel quale la figura dell’androide è ormai divenuta presenza normalmente ac-
cettata, in un futuro che si allontana sempre più dalla Terra come quello di Aliens – Scon-
tro finale, con la natura sintetica di Bishop presentataci sin dall’inizio del viaggio verso
il pianeta Archeron.
Difficile è da accettare per i personaggi di Terminator che il Terminator (Arnold
16 Philip K. Dick, The Android and the Human, in Lawrence Sutin (cur.), The Shifting Realities of Philip K. Dick. Selected Literary and Philosophical Writings, Baror International Inc., Armonk (New York), 1995; tr. it. Philip K. Dick. Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici, e letterari, Feltrinelli, Milano, 1997. [Originale in lingua inglese reperibile all’indirizzo http://www.philipkdickfans.com/pkdweb/The%20An-droid%20and%20the%20Human.htm].
17 Giuseppe O. Longo, Homo Technologicus, Meltemi, Roma, 2001, p. 40.
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U N A V I TA A R T I F I C I A L EA n d r o i d e , u n q u a s i - u o m o
Schwarzenegger) sia un organismo cibernetico, prototipo dell’androide che può confon-
dersi in mezzo agli esseri umani, uguale a loro per le fattezze esterne, ma costituito da
circuiti elettrici e da un’armatura metallica che lo rende quasi invulnerabile ai colpi rice-
vuti. Come gli androidi di Blade Runner, Terminator ha una scadenza ed un compito che
gli è stato assegnato: infatti, egli (o sarebbe meglio dire esso) proviene dall’anno 2029, da
un mondo dominato dalle macchine, le quali lo hanno inviato indietro nel tempo per elim-
inare la donna che partorirà il futuro coman-
dante dei ribelli umani. Terminator rende
perfettamente l’idea di quello che potrebbe
essere un uomo artificiale, specie nella scena
in cui il Terminator si ripara il braccio ferito,
scena durante la quale scopriamo (vediamo)
come effettivamente è fatto, come sotto il
rivestimento di pelle sintetica ci sia un groviglio di parti meccaniche e nervi elettrici che
lo animano e lo rendono un professionista della morte, essere senza coscienza, votato
soltanto all’obbedienza ad un ordine di programmazione. Come l’Ash di Alien, program-
mato dalla Compagnia per eseguire l’ordine di riportare a terra un esemplare alieno, a
costo di sacrificare la vita dell’equipaggio.
Esseri funzionanti per mezzo di un programma, che un corto circuito di qualsiasi natura
può rendere ribelli incontrollabili. In Priorità assoluta la scienziata Eve Simmons (Renee
Soutendijk) costruisce un androide femmina con le sue fattezze ed anche i suoi ricordi,
e con al proprio interno un ordigno nucleare. In una prova in ambito cittadino, però,
Eve 8 (questo è il nome dell’androide) sfugge al controllo umano e finisce per diventare
un’appendice dell’inconscio represso della sua creatrice, ora libera di vagare per la città
seminando distruzione e morte. Libera come l’intelligenza artificiale Syd 6.7 (Russell
Crowe) di Virtuality, un vero e proprio delinquente digitale ottenuto dalla sadica combi-
nazione delle personalità di duecento dei più spietati criminali della storia. Un personag-
gio padrone assoluto del proprio mondo artificiale, in grado di modellarlo a piacimento;
così come riesce a plasmare la mente del suo creatore, costringendolo a farsi impiantare
Terminator (James Cameron, 1984)
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L ' U O M O E L A M A C C H I N A
nel corpo di un androide, per potersi muovere nel mondo reale.
L’incarnazione di un terrificante incubo futuribile, nel quale entità digitali possano pren-
dere forma e trasferirsi nel mondo dominato dalla forza di gravità, liberi dal controllo
umano operato sul pulsante di spegnimento on/off, senza alcuna esperienza fisica e per
questo irrefrenabili nelle loro scorribande terrestri. Senza freno alcuno, proprio come
Syd 6.7, che girovaga per la città in un crescendo di follia distruttiva, in possesso di un
corpo materiale che lo fa sentire invincibile. Simbolo di una violenza portata al paros-
sismo e non più governabile dall’uomo. Identica allegoria messa in scena da Il mondo
dei robot, ambientato nel parco dei divertimenti di Delos, (il riferimento mitologico è
all’isola di Delos, probabile luogo di nascita degli dèi Apollo e Artemide), turisti e robot-
umanoidi interagiscono, con i primi che possono sperimentare l’emozione di uccidere,
oppure quella di portarsi a letto procaci robot-femmine, per l’esclusiva soddisfazione
del piacere. Tutto ha inizio quando le macchine sfuggono al controllo dei tecnici: per un
corto circuito i robot si animano, cominciando ad uccidere i turisti, con protagonisti Peter
Martin (Richard Benjamin) e il robot Gunslinger (Yul Brinner). Ormai confusi a veri es-
seri umani, perdono (prendono) il controllo
e fanno una strage, incarnando la pericolosa
violenza dell’atto di ribellione macchinico,
che restituisce l’immagine della primigenia
violenza dell’uomo.
Come in Blade Runner, dove emerge tutta
la mostruosità dei replicanti che prendono
coscienza del proprio essere, o non-essere (uomini), e che si rivoltano; ma anche la mo-
struosità degli ingegneri genetici della Tyrell che muniscono di memoria ingannevole, ar-
tefatta gli esseri artificiali da essi stessi partoriti. Androidi costruiti dall’uomo per servirlo
(costruiti per scopi specifici) e dotati di una data di scadenza, esseri senza storia ottenuti
dall’industria genetica e che possono servire l’uomo in termine di macchine-forza-lavoro
a costo zero. Ma essi acquisiscono una coscienza e addirittura credono di essere persone,
come Rachel, della quale Rick Deckard si innamora; androidi come Pris (Daryl Hannah),
Blade Runner (Ridley Scott, 1982)
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costruita all’utilità di “dare piacere”; ma anche androidi consapevoli (replicanti in toto)
come Roy Baty, che appare come Lucifero alla guida degli altri angeli caduti in guerra
contro chi li ha creati.
Gli androidi del film “non sono robot, non sono cloni, non sono sosia, non hanno rivendi-
cazioni sociali da fare, solo la richiesta della vita [tutta frankensteiniana]. [...] Sono copie:
simulacri della nostra vita, essi ci mostrano la nostra immagine nello specchio deformato
delle loro vite abbreviate”.18
Privatizzazione della vita: il clone
‹‹Dottor Merrick: Ho scoperto il santo Graal della scienza signor Laurent. Io
do la vita. Gli agnati sono semplicemente utensili, strumenti, non hanno anima.
Ci sono possibilità infinite qui: nel giro di due anni io sarò in grado di curare
la leucemia dei bambini, quante persone sulla Terra possono dire la stessa cosa
signor Laurent?
Signor Laurent: Credo solo lei e Dio››.
Dottor Merrick al signor Laurent The Island (2005)
La costruzione dell’automa coincide con la ricerca del nostro doppio, un’immagine no-
stra che possiamo ricreare dandole una forma di vita. Ma la possibilità creativa offerta
all’uomo è incompleta, poiché la creazione stessa sfugge alla volontà dell’uomo. L’uomo
può conoscere solo ciò che ha costruito, quindi la creazione genetica di un essere diviene
profondamente angosciante, perché totalmente incomprensibile ad intelligenza umana.
Perciò, “l’automa comincia a delinearsi come il tentativo di dar vita ad un proprio simi-
le, ad una copia, penetrando però nell’interno del processo di fabbricazione. L’automa è
trasposizione feticistica e controllabile: nel corpo dell’uomo avvengono invece fenomeni
misteriosi e imprevedibili. Il nostro corpo è aperto alle malattie, alla corruzione, alla
18 Roy Menarini e Andrea Meneghelli, op. cit., p. 228.
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L ' U O M O E L A M A C C H I N A
morte: l’essenza della sua architettura è ignota, non essendo mai stato svelato il mistero
della morte”.19
Fino al ventesimo secolo, i tentativi di superare in modo decisivo le limitazioni biologiche e fisiche si iden-
tificavano fondamentalmente con l’occulto e si incarnavano nel sacerdote, nello stregone e nell’alchimista.
Ai nostri giorni, questa ricerca prosegue nelle mani degli scienziati, che cercano le stesse cose con nuovi
strumenti.20
A partire dalla seconda metà del Novecento si assiste alla negazione del referente ani-
male che diventa irrilevante nell’indagine culturale, sostituito dal referente macchinico.
Sostituire una defezione, riempire un vuoto, è sempre stato il credo con cui la tecnica, fin
dalle sue origini, “ha cercato di rimediare alle mancanze umane [...] Così è la tecnica che
realizza per lui artificialmente le sue ambizioni e i suoi sogni”21. Parole frutto di un antro-
pocentrismo fondato sulla “teoria dell’incompletezza, che dai miti prometeici al pensiero
platonico fino alle concezioni herderiana e di Arnold Gehlen ha dato vita a una polarità
tra cultura e natura che si comporta in modo archetipico e prerequisitivo rispetto a ogni
forma di separazione dell’umano dal non-umano”.22
L’uomo è dunque ancora al centro del mondo, è l’uomo che opera per mezzo della tecni-
ca, è l’uomo che cerca di tracciare un cammino verso l’immortalità. E lo fa agendo sulla
materia organica, per mezzo della clonazione. Fenomeno che nella società del 2415 di
Aeon Flux – Il futuro ha inizio viene ormai sperimentato a dosi globali da quattrocento
anni. Soltanto che in questo futuro la popolazione mondiale è ormai ridotta a vivere in
un fortino, barricata per difendersi da un virus letale che nei quattro secoli precedenti
ne ha sterminato la gran parte. Una clonazione collettiva “somministrata” dal dittatore
Trevor Goodchild (Marton Csokas) proprio per perpetuare la vita dell’umanità all’in-
19 Gian Paolo Ceserani, op. cit., pp. 8-9.
20 Naief Yehia, El cuerpo transformado, Editorial Paidós Mexicana, 2001; tr. it. Homo cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza, Elèuthera editrice, Milano, 2004, p. 122.
21 Edgar Morin, La Méthode 5. L’Humanité de l’Humanité. Tome 1 : L’identité humaine, Editions du Seuil, 2001 ; tr. it. L’identità umana, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002, p. 21.
22 Roberto Marchesini, in Roberto Marchesini e Karin Andersen, Animal Appeal. Uno studio sul terio-morfismo, Hybris, Bologna, 2003, p. 11.
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domani dell’ecatombe di vite umane causata dalla diffusione del virus. Ecco allora che,
nell’incrociarsi del pericolo di vita e della volontà di sopravvivere a tutti i costi, l’uomo
costruisce con la medicina una via di fuga, che lo disumanizza, portandolo sull’autostra-
da dell’immortalità. La deviazione per l’eternità è lastricata da molecole di DNA, quelle
stesse molecole che costituiscono i mattoni della vita umana e che nel film di Karyn Ku-
sama si mettono al servizio del progetto di costruzione del non-uomo.
La clonazione come ultima miniera di sfruttamento, alla quale attingere a piene mani
all’occorrenza, in tempi di scarsità (sostituzione di organi). Così gli uomini potrebbero
sopravvivere a se stessi, pur cessando di esistere, come la definisce Paul Virilio “la cru-
deltà mascherata della morte che uccide la morte”.
I cloni sono portati alla ribalta da L’invasione degli ultracorpi, film nel quale spore di
un altro mondo cadono sulla Terra, assumendo l’aspetto di uomini e donne; una prefigu-
razione del tentativo umano di creare l’uomo artificiale, che si fa minaccia peggiore della
morte, perché diviene un simulacro meccanizzato di noi stessi. Ne L’invasione degli
ultracorpi osserviamo la comparsa di baccelli alieni che si sostituiscono ai veri abitanti
del luogo assumendone le sembianze mentre essi dormono. “I body snatchers, infatti,
sono una figura dai tratti fortemente horror.
La loro attitudine è vampiresca: il dr. Miles
ne uccide uno brandendo il forcone, come se
si trattasse di piantare un paletto nel cuore di
Dracula”.23
Un clone si ottiene estraendo il Dna dalla
cellula dell’animale da clonare ed inseren-
dolo in un ovocita non fecondato privato del nucleo, appartenente ad un altro animale.
Poi, impulsi elettrici avviano il processo di divisione cellulare, finché l’embrione clonato
non viene impiantato nell’utero dell’animale (metodo usato per la pecora Dolly24). La clo-
nazione di un animale viene ripreso nel film Il 6° giorno, dove la società Re-Pet promette
23 Roy Menarini e Andrea Meneghelli, op. cit., p. 88.
24 La pecora Dolly, primo esemplare animale di clone, fu creata nel 1996 da Jan Wilmut del Roslin Institute di Edimburgo.
Il 6° giorno (Roger SpottIswoode, 2000)
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di clonare gli animali domestici morti e di sostituirli con esemplari del tutto uguali, per-
fino a livello cerebrale (persistenza dei ricordi e delle emozioni della vita originale). Nel
mondo de Il 6° giorno la clonazione è ormai entrata nell’ordinario, tanto da permettere di
poter creare qualsiasi animale commestibile, in modo da poter azzerare il problema della
fame a livello mondiale; compresi gli animali domestici che, alla loro morte naturale, pos-
sono essere riprodotti e continuare ad allietare le case con la propria compagnia (quegli
stessi animali artificiali che compaiono nell’illuminante romanzo Ma gli androidi sogna-
no pecore elettriche di Philip K. Dick). E soprattutto un mondo nel quale la “Legge del 6°
Giorno” vieta la clonazione di esseri umani. Ma l’infrazione della legge è sempre dietro
l’angolo e, allorché la Re-Pet ha immagazzinato tramite semplici esami medici i dettagli
dei pazienti e li ha archiviati in una gigantesca rete neurale, ecco la tentazione della clo-
nazione umana farsi cosa concreta. Infatti, la Re-Pet innesta le memorie umane nei cloni,
dando vita a perfette copie dell’originale,
addirittura inconsapevoli di essere dei repli-
canti, nella perpetuazione del sesto giorno di
creazione divina dell’uomo.
Potremmo addirittura clonare una copia di
noi stessi bambini, come avviene in God-
send – Il male è rinato, che torna sul tema
della clonazione umana ad opera di una scienza che osa sostituirsi alla mano divina: a
conferma il titolo, quel Godsend, ovvero ‘dono di Dio’, per cui il gelido scienziato Ri-
chard Wells (Robert De Niro) promette di restituire ai due genitori il figlio morto.
Ma è la perversione dell’eugenetica che spaventa, poiché potrebbe portare in futuro alla
creazione di vivai di parti umane, utili alla clonazione di individui su cui coltivare pezzi
di ricambio perfettamente compatibili con il nostro organismo, esseri decerebrati da las-
ciare in deposito per attingervi, allorché una parte del nostro organismo non dovesse più
funzionare. Siamo nel mondo di The Island, dove la ricerca genetica è ormai di fronte
alla possibilità concreta di riprodurre gli esseri umani, di trasformare il compito pret-
tamente divino in qualcosa di umano. Ecco, dunque, materializzarsi nel film di Michael
The Island (Michael Bay, 2006)
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Bay un’apparente colonia di umani che vive in un posto non meglio identificato; ap-
parente, perché i corpi che abitano quel carcerario asettico bianco mondo che appare sin
dall’inizio del film, altro non sono che cloni. Organismi uguali in tutto e per tutto al rispet-
tivo originale, al cliente che li ha ordinati come polizza sulla propria vita; un personale
supermercato di pezzi di ricambio, una sorta di speranza per la vita: una vita prezzabile,
non più da apprezzare nella sua finitudine (dono), ma da godere nella sua possibilità di
perpetuazione (personalistica costruzione).
Costruire un clone del quale servirsi, in nome di una genetica come principio unico e non
scardinabile dell’esistenza. Ma l’uomo sa amare, ricordare, sognare, è un essere imper-
fetto che nella sua incertezza ha sempre scoperto la meraviglia della vita. Un’insicurezza
che non può essere spazzata via, un’incapacità di controllare tutto e tutti che deve fondare
la vita dell’uomo. Il controllo sulla vita, come si vede nel film, non mette in conto che
i cloni si rendano conto di cosa sono, di chi sono e che rivendichino con l’esperienza
acquisita di essere anch’essi umani. Certo, la clonazione si lega anche alla progettazione
di animali transgenici utili alle esigenze dell’uomo (ad esempio la riproduzione agamica,
naturale o artificiale, di individui, cellule o geni). Inoltre, la clonazione terapeutica, che
consiste nella possibilità di usare il Dna del paziente in modo da riprogrammare le cellule
clonate perché si differenzino nelle cellule volute e utili a riparare i tessuti malati.
La fecondazione artificiale, lo studio del genoma umano, i trapianti, la costruzione di
materiale biologico spalancano le porte a problemi etici riguardanti gli impieghi di tali
tecnologie nell’essere umano e riguardo le implicazioni che derivano dalla costruzione
di esseri artificiali a base biologica. Profonde riflessioni portate alla superficie anche da
Alien – La clonazione, film che chiude la saga di Alien e nel quale appare il clone di El-
len Ripley, apparentemente ancora umana, ma invece ottavo risultato di un abominevole
esperimento che ha visto incrociare DNA umano e DNA alieno.
Tappeto rosso che conduce all’uomo in provetta come canonica regola, quell’uomo in
provetta che affonda le proprie radici nel laboratorio mitologico dell’alchimista, attraver-
sando il tempo con il leggendario Golem ebraico, l’Homunculus di Paracelso, sino alla
creatura di Frankenstein, ultima variante del mito di Prometeo e Pandora, con lo scienzia-
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to che ricerca la conoscenza proibita e la creatura che scoperchia il vaso delle calamità.
E alla fine del tappeto ecco lo scalone verso il palazzo-mondo di cloni, dove la sterilità è
la regola: nessun microbo, nessuna vita, soltanto nascite indotte, artificiali. E solo con la
forza tutta umana con cui si mobilita l’eroina (Charlize Theron) in Aeon Flux – Il Futuro
ha inizio risiede il cambiamento, il ritorno ad un mondo di nascite tradizionali e di uomini
che potranno tornare a morire.
L’attrazione per l’inorganicoIl desiderio: dalla materia all’intangibile
‹‹Sovraccarico d’informazioni. Tutta l’elettronica che usiamo riempie l’etere
di veleni. Ma questa roba ce la teniamo stretta, perché senza non viviamo››.
SpiderJohnny Mnemonic (1995)
Nella produzione di androidi fabbricati per la soddisfazione del piacere si materializza
quell’attrazione dell’uomo per l’inorganico, per una protesi-doppio costituita da un ma-
teriale che non sia carne. È il mito di Narciso, il cui senso “è che gli esseri umani sono
soggetti all’immediato fascino di ogni estensione di sé, riprodotta in un materiale diverso
da quello stesso di cui sono fatti”.25
Ma se scaviamo nel sostrato mitologico, il raccordo puntuale è quello che collega i nostri
pensieri alla storia di Pigmalione. Quel Pigmalione, re di Cipro e scultore, che modellò
una nuda statua d’avorio dalle aggraziate forme femminee e a cui diede nome Galatea,
(dal greco gala, galaktos ‘latte’) e della quale si innamorò, considerandola il proprio ide-
ale femminile, superiore a qualunque donna in carne e ossa, tanto da dormirle accanto,
nella speranza che un giorno si animasse. E nel periodo dei riti in onore di Afrodite, Pig-
malione si recò al tempio della dea, pregandola di concedergli per sposa l’essere creato
25 Marshall McLuhan, Understanding Media, 1964; tr. it. Gli strumenti del comunicare, Net, Milano, 2002, p. 51.
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dalle sue mani: la dea acconsentì.
Pigmalione subito va a trovare la cara statua della fanciulla, e curvandosi sul letto la bacia. Gli pare di
avvertire un tepore. Di nuovo accosta la bocca, e con le mani le palpa anche il seno. L’avorio palpato si
ammorbidisce e perduta la durezza s’incava e cede sotto le dita, come la cera dell’Imetto al sole torna duttile
e plasmata col pollice si piega ad assumere varie forme e più è trattata, più trattabile diventa.26
Nel mito di Ovidio si concreta la dedizione dell’artista al prodotto della sua arte, fino alla
immedesimazione, al congiungimento con esso, che si ottiene con la ricerca di Afrodite,
cioè della bellezza e dell’amore. Ricerca concreta di un amore inscalfibile, della vita liscia
come l’olio prospettata da La donna perfet-
ta.27 A Stepford, infatti, la vita sembra per-
fetta, con gli uomini che possono ritrovarsi
nella “Associazione per uomini”, le donne
che ubbidienti si preoccupano solamente di
badare alla casa, facendo diligentemente la
spesa, cucinando e accontentando i mariti in
tutto e per tutto. Soltanto che dietro il paesaggio perfetto di un micro-mondo dorato fatto
di ville da sogno, vialetti puliti, viali alberati, giardini da favola nel quale regna l’appa-
rente felicità, si nasconde il progetto della dottoressa Emily Francher (Glenn Close) di
sostituire le persone con dei robot. Infatti, le donne di Stepford vengono tutte robotizzate,
per mezzo di un “fantastico” procedimento: dentro il loro cranio vengono installati dei
microchip che le rendono sempre servizievoli e ubbidienti, come androidi sfornate dal la-
boratorio. Lo stesso tipo di amore perfetto immaginato dal dottor Rotwang di Metropolis
con la Robotrix da lui creata; amore che ricorda la scintilla che scocca fra un uomo e la
bambola meccanica Olympia ne L’uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann, oppure l’Eva
futura di Auguste de Villiers de l’Isle-Adam, storia nella quale il geniale Edison inventa
26 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Piero Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino, 1994, LIBER DECIMUS, 282-286, p. 401.
27 La donna perfetta è un remake de La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975).
La donna perfetta (Frank Oz, 2004)
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una donna artificiale in grado di riscattare l’Eva decaduta. Tutte prefigurazioni di un desi-
derio macchinico che si concreterà negli androidi femminili di futura concezione, descritti
nella vuota e materialistica ‘macchina per fottere’ dell’omonimo racconto di Charles Bu-
kowski, e più avanti nella realtà virtuale, quel regno dell’ipersensibilità che troviamo ne
Il 6° giorno, dove Hank (Michael Rapaport)
fa sesso con la sua ragazza virtuale (Jennifer
Gareis), provando le medesime sensazioni
di un contatto pelle a pelle.
Ma anche “sesso biomeccanico, studiato
dalla Nasa come aiuto psicologico per gli
astronauti durante il viaggio di tre anni ver-
so Marte: si pensa di utilizzare le tecnologie della teleconferenza e i manipolatori a reti
neurali per ‘fare l’amore’ con il partner lontanissimo”.28
L’uomo costruisce gli androidi femmina per non sottostare alla responsabilità di un rap-
porto profondo con una donna vera. Copulare con la macchina, con l’automobile di Crash
che diviene uno strumento erotico, un’appendice tecnica delle terminazioni nervose. Il
corpo si innamora delle proprie estensioni metalliche e Crash è un violento racconto della
carne attraverso le cicatrici causate dalla sua unione con la macchina. C’è un’attrazione
della carne per il metallo che diviene attrazione per la morte violenta, che affascina in
quanto toglie dalla prevedibilità della vita. Una “realtà mutata e mutante della pelle che si
adatta alla lamiera, dell’organico che si annienta e ferisce, della tecnologia che ingloba”.29
Un corpo che si compenetra con la tecnologia, che si fa mutante vero e proprio. Come un
fendente tirato all’insaputa dell’avversario, Crash ci colpisce e con quel suono onoma-
topeico ci proietta nello scontro fra macchine, nell’unione di tecnica e corpo all’insegna
del piacere. Un film che “tocca nervi scoperti. L’immondo accostamento tra erotismo e
morte, attraversato dalle pulsioni ‹‹morbide›› della tecnologia di tutti i giorni, risulta pro-
babilmente insopportabile ai più”.30
28 Francesca Alfano Miglietti, op. cit., p. 120.
29 Cristiana Astori, Crash, in ‹‹Cineforum 378››, anno 38, n. 8, ottobre 1998, p. 69.
30 Roy Menarini e Andrea Meneghelli, op. cit., p. 277.
Il 6° giorno (Roger Spottiswoode, 2000)
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Nell’incidente stradale le macchine sembrano corpi aperti, sventrati, ferite mortali che la
tecnologia ha ormai reso attuali. Crash di Cronenberg è un rifiuto a farsi dominare dalla
natura, ovvero dal tempo, dalla malattia, dalla vecchiaia.
Crash vuole in ultimo ammonirci su un “mondo brutale, erotico e sovrailluminato, che
sempre più suasivamente c’invia il suo richiamo dai margini del paesaggio tecnologico”.31
In questo film l’uomo si congiunge in maniera inquietante con la macchina; ma è una con-
fusione che sa di accoppiamento e rimanda al nesso tra sesso e tecnologia. Un’area che
viene illuminata da Marshall McLuhan, secondo il quale questa bizzarra unione nasce da
“un’avida curiosità, da un lato, di esplorare ed allargare il dominio del sesso per mezzo
della tecnica meccanica e, dall’altro, di possedere la macchina in un modo sessualmente
gratificante”.32
Il romanzo (come il film) si fa traghettatore di una squallida metamorfosi laterale di un
sesso meccanico, anticipatore forse di un vero e proprio mercato di elettrodomestici ses-
suali. Un futuro che così riserverebbe solo
la presenza di macchinette o comunque di
sostituti biologici o surrogati degli organi
sessuali umani, utilizzati in sistemi mecca-
nici fissi e mobili.
Crash è un’apologia dell’individualismo, un
appropriarsi ognuno della propria vita e del-
la personale scelta di come e quando farla finire, in una perenne rivolta contro la natura
(contro il corpo segnato dal tempo, dalla malattia, dalla morte).
Contro un atto naturale, sino ad arrivare a Il tagliaerbe, dove i due protagonisti si equi-
paggiano con tutto il necessario affinché possano sperimentare con la tecnologia della
realtà virtuale la nuova esperienza del cybersesso. A tradurre il tutto in realtà ci ha pensato
Howard Rheingold, prospettando l’ipotesi di realizzare un’attrezzatura composta da una
31 James G. Ballard, Crash, Vintage, New York, 1985; tr. it. Crash, Rizzoli, Milano, 1990, pp. V e IX-X.
32 Marshall McLuhan, The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man, Beacon Press, Boston, 1967; tr. it. La sposa meccanica, SugarCo, Milano, 1984, p. 188.
Crash (David Cronenberg, 1996)
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calzamaglia ad alta tecnologia, tutta ricoperta da “un reticolo di rivelatori tattili collegati
a vibratori di vari gradi di durezza, a centinaia per centimetro quadrato, che possono rice-
vere e trasmettere una sensazione realistica di presenza tattile”.33
In altre parole, qualsiasi utente così ‘tecno-dotato’ potrebbe collegarsi nella rete globale
ad altra gente addobbata come lui per dar corpo ad un rapporto a distanza. A tal proposito
dice Mark Dery:
Sarebbe possibile aggiungere o sottrarre anni alla propria età, e cose come zampe di gallina, calvizie, lonze
e cellulite potrebbero venir corrette con la pressione di qualche tasto. E naturalmente, se una metamorfosi
radicale richiede solo qualche altro secondo di calcolo, perché fermarsi ad alterazioni semplicemente co-
smetiche? Si potrebbero esplorare nuovi generi sessuali e l’innesto di genitali di animale su corpi umani
diventerebbero quasi sicuramente dei cliché istantanei per gli esperti. Si potrebbe assumere l’aspetto di una
celebrità, di un personaggio storico o d’invenzione, o di una mitica creatura ibrida... un centauro, un satiro,
un minotauro, una sirena. Un programma grafico per realtà virtuale potrebbe costruire un “clone” interatti-
vo tridimensionale partendo da foto dell’utente nudo, ripreso a 360° e trasferire via scanner nella memoria
di un computer; aggiungendo una voce sintetizzata su una base di fonemi registrati dall’utente, si potrebbe
allora finalmente consumare il tipo di rapporto che i narcisisti sognano da tempo immemorabile.34
Il desiderio sembra muovere la tecnologia, ma soprattutto è un desiderio che deriva da
un “orrore nei confronti del corpo, da un’os-
sessione onnivora nei confronti dei media, e
dalla dissoluzione del tradizionale concetto
di comunità”35.
D’altra parte già Marshall McLuhan si la-
mentava, nella sua intervista a ‹‹Playboy››
del 1969, dicendo che il corpo veniva con-
siderato meccanicamente, “come qualcosa capace di sperimentare specifiche sensazioni,
33 Howard Rheingold, Virtual Reality, Summit Book, New York, 1991; tr. it. La realtà virtuale, Basker-ville, Bologna, 1993, p. 466.
34 Mark Dery, Escape Velocity - Cyberculture at the end of the century, 1996; tr. it. Velocità d fuga. Cyberculture a fine millennio, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 236.
35 ivi, p. 246.
Il tagliaerbe (Brett Leonard, 1992)
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ma non un coinvolgimento totale, sensuale ed emotivo [...] Se si estrapolano le tendenze
attuali, nel prossimo futuro la macchina dell’amore dovrebbe apparire come uno svilup-
po naturale [...] e non si tratterebbe solo dei cercadati computerizzati di oggi, ma di una
macchina in cui i migliori orgasmi si raggiungono attraverso la stimolazione meccanica
diretta dei circuiti di piacere del cervello”.36
È Ghost in the Shell: L’attacco dei Cyborg a farsi carico del messaggio ultimo, a parlarci
di un mondo nel quale il confine fra macchine e uomini si fa sempre più sottile, con questi
ultimi che stanno dimenticando di essere umani. Uomini che vivono a contatto con cy-
borg fatti di corpi meccanizzati ma con ricordi umani e bambole-robot, ginoidi concepite
soltanto per dare soddisfazione sessuale.
Questa è anche e soprattutto la storia di Batô, l’investigatore cyborg che, nel compiere
le proprie indagini, ha modo di riflettere intensamente sulla condizione umana e vuole
restare pervicacemente aggrappato a quei fili d’umanità che ancora gli ricordano di essere
un uomo. Nel film di Mamoru Oshii si ritrova anche il pensiero di Richard Dawkins, per
il quale, semplificando, siamo macchine atte a perpetuare il gene. Ma se è vero che dal
gene stiamo passando al meme37, allora presto saranno le macchine ad essere più adatte a
veicolare i memi, e nel passaggio da uomo a cyborg e quindi a robot, si potrebbe arrivare
a pura IA (Intelligenza Artificiale) che vive in rete.
La pellicola affonda le radici là dove venne gettato il seme con 2001: Odissea nello
spazio, in quello stesso terreno dove germogliano anche Robocop, Tetsuo e la anime
fantascienza robotica di Kyashan – La rinascita. Un mondo dove il confine tra umano e
non-umano si è fatto estremamente labile, dove gli interrogativi che sorgono dicono: Ma
chi sono le macchine? C’è ancora posto per l’amore, per il compatire proprio dell’uomo
in un tempo che fa della tecnica una dea imperatrice?
36 Citazione da Marshall McLuhan, The Playboy Interview: Marshall McLuhan, in ‹‹Playboy Magazi-ne››, marzo 1969, p. 65 [Versione originale reperibile all'ndirizzo http://www.columbia.edu/~log2/media-blogs/McLuhanPBinterview.htm].
37 La parola meme è stata coniata da Richard Dawkins nel suo libro Il gene egoista (The Selfish Gene, 1976). Un meme (dal greco mimesis, ‘imitazione’) è un elemento di una cultura trasmesso non con mezzi genetici, bensì per imitazione. Dawkins fa l'esempio di melodie, idee, frasi, mode, abitudini alimentari: il meme è un replicatore che obbedisce alla teoria evoluzionistica ed è dotato di tre qualità fondamentali, ovvero fedeltà, fecondità e longevità [tratto da http://www.memediffusioni.it/meme.html].
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L’uomo e se stessoImmersione profonda nel corpoIl dissidio interiore d’un inconscio in fermento
‹‹Rappresentante del Nuovo Sentiero: Come notate riusciamo a stento a ve-
dere quest’uomo, perché indossa la cosiddetta tuta disindividuante [...] una
volta infilata la tuta non può essere individuato neanche con le più moderne
tecnologie di individuazione vocale e visiva. La tuta disindividuante è stata
realizzata circa con un milione e mezzo di frammenti di rappresentazioni di
uomini, donne e bambini in ogni possibile variante. Questo rende l’uomo che
la indossa il signor chiunque.
Bob Arctor: Che cosa terribile››Rappresentante del Nuovo Sentiero
A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare (2006)
È importante che cosa siamo e che cosa potremmo essere o saremo. L’uomo è sempre in-
tenzionalmente pro-gettato verso il mondo, mentre l’animale è prigioniero del suo istinto.
Lo schermo cinematografico ci costringe a prendere atto che l’uomo non è più al centro
dell’universo, e che questa presa di coscienza ne smuove le angosce più profonde. Il ci-
nema, infatti, nasce con la psicoanalisi, poiché questa è uno strumento per compiere un
viaggio verso l’interno, verso quell’interiore coscienza che scuote e muove ogni uomo.
Quindi, nel cinema di fantascienza, l’indagare mondi lontani e il confrontarsi con l’altro,
diventano figure dell’esplorazione tutta interiore che viene compiuta nei meandri della
psiche umana.
Dalla trascendenza del corpo, dal suo essere originariamente fuori di sé, nascono infatti gli dèi e i demoni,
la fisionomia degli uomini e delle cose. L’antropologia e la psicoanalisi possono spiegare l’origine della
cultura come “proiezione” della natura, e il volto del mondo come “proiezione” della propria interiorità
solo perché l’interiore e l’esteriore sono inseparabili, perché il mondo è tutto riflesso nello sguardo del mio
corpo e lo sguardo del mio corpo è tutto fuori di sé, ospitato dal mondo.1
1 Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 121.
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Il corpo è come una specie di grande universo da esplorare, quell’esplorazione che Ku-
brick compie sapientemente col suo polisemico 2001: Odissea nello Spazio. Il monolito
nero di 2001: Odissea nello spazio ci trasporta in una nuova dimensione temporale, es-
ercitando allo stesso tempo attrazione (curiosità) e repulsione (angoscia). Esso assurge
quasi a virgiliana guida nel profondo percorso indagatore dei mutamenti umani; lo fa per-
correndo la lineare sequenza del tempo del mondo, che porta dalle scimmie alle asettiche
stanze d’uno spazio indefinito: dal soggetto proto-umano alle propaggini materiali create
dalla mano umana. Quella stessa mano che, nello stacco forse più famoso del cinema,
trasforma l’osso brandito dalla scimmia in astronave abitata dagli uomini. “Il monolito
di Kubrick, dunque, accompagna l’umanità dai primordi fino al futuro della macchina”.2
Là dove ci conduce anche Il pianeta proibito, che presenta un interessante accostamento
ai temi della psicanalisi, in chiave fantascientifica. Il futuro è all’insegna della velocità,
con mezzi di trasporto a propulsione atomica che permettono i viaggi interplanetari. In-
fatti, è su un pianeta lontano dalla Terra che si materializza un terribile mostro, il quale
si rivela essere l’incarnazione delle pulsioni inconsce del professor Morbius (Walter Pid-
geon), innescate dai macchinari della precedente civiltà Krell che abitava il misterioso
pianeta. Questi macchinari avrebbero dovuto permettere di ampliare i confini ed i poteri
della mente, sino a consentirle di creare qualunque cosa con la sola forza del pensiero.
L’ammonizione, però, (già sperimentata dai Krell con la propria estinzione) è quella di
non spingere troppo in là il desiderio di farsi altro dell’uomo, di valicare i confini di
un’essenza che non può essere illimitata. La mente non è qualcosa di isolato, bensì un
tutt’uno col corpo fisico e nell’ipotesi fantascientifica di faber omnium rerum si ascrive
come emergere degli ingovernabili istinti dell’id freudiano (oltre che come più generale
incapacità dell’uomo di gestire la conoscenza).
E Solaris trasporta i personaggi in spazi alieni solamente con lo scopo di metterli di fronte
ad uno specchio che restituirà la loro immagine interiore, una sorta di lastra riflettente la
coscienza. Infatti, il pianeta ha il potere di ricreare i pensieri, materializzandoli in forme
di cloni delle persone amate o desiderate.
2 Roy Menarini e Andrea Meneghelli, Fantascienza in cento film, Le Mani, Recco (Genova), 2000, p. 162.
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Nella visione mitica dell’universo la metamorfosi dipende dall’accettazione della pos-
sibilità che il divino possa incarnarsi e farsi reale. È il caso dello sciamanesimo, cioè
quell’antica pratica per cui si inducono in sé stati alterati di coscienza per entrare in con-
tatto con dèi e spiriti. Ma nel rito sciamanico non è l’anima che congiunge l’uomo alla
divinità, bensì il daimon platonico, ovvero l’inconscio. Infatti, il corpo è una superficie
libidinale, schermo di proiezioni immaginarie, un corpo umano che ha continuato sempre
più ad allontanarsi dallo stato di natura, realizzando il sogno sciamanico di uscire da sé.
La scoperta dell’inconscio svela le istanze nascoste segretamente nel nostro corpo, preva-
lenti sotto forma di pulsioni sessuali, allacciate al nostro passato di animali ma che emer-
gono in attività umane civilizzate. Una donna in crescendo proietta al di fuori del corpo
umano la rabbia che vorrebbe sommergere tutto e tutti e che si sostanzia nel gigantismo
della protagonista. Mentre Brood – La covata malefica è un film generativo, perché nel
suo srotolarsi dà corpo al corpo, mostrandone le sue filiazioni più o meno mostruose. Un
film popolato da creature-killer, materializzazione corporea dei sensi di colpa e delle rab-
biose pulsioni inconsce di Nola. L’emersione di ciò che normalmente giace sopito negli
abissi psichici che fanno parte di noi ma che mai immaginiamo di poter vedere. David
Cronenberg ce li mostra, così come già Tarkovskij in Solaris e McLeod Wilcox ne Il
pianeta proibito. Viene data forma alla rabbia, all’incandescente ribollire del profondo,
messa di fronte a chi la genera, al corpo che ne rimane terrorizzato come fosse di fronte
ad una presenza aliena.
The Cell – La cellula penetra nel profondo di noi stessi, ci fa veleggiare fra le sinapsi su
un’innovativa imbarcazione nei mari dell’inconscio di un’altra persona. Utilizzata prima
per aiutare un bambino in coma, questa tecnologia viene adoperata dalla dottoressa Ca-
therine Deane (Jennifer Lopez) per penetrare nella mente di un efferato serial-killer, rive-
landone la personalità malata.
Franco La Polla invita a leggere il “mitologema della metamorfosi come un sintomo,
certamente molto ampio, di una profonda crisi d’identità. Non certo d’identità personale,
individuale, bensì intesa come idea del soggetto. E dunque crisi della soggettività”.3
3 Franco La Polla, “Nessun Iddio allarga quei confini”: la metamorfosi e il cinema fantascientifico ame-ricano contemporaneo, in Massimiliano Spanu, Science-plus Fiction, Lindau, Torino, 2004, p. 162.
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L’ U O M O E S E S T E S S O
Frankenstein di Mary Shelley anticipa quel dualismo psicologico fra creatura e creatore
che verrà poi ripreso come tema dominante ne Il dottor Jekyll e Mr. Hyde, ovvero una
struttura fantascientifica che evidenzia il dramma della creazione di un alter-ego psichico
(anche se questo si fa riflesso di una lotta più grande fra Bene e Male). Il Dottor Jekyll di
Rouben Mamoulian si incentra sulla dimensione psicologica del protagonista, nel quale
le pulsioni sessuali innescano lo scatto alla ribellione. Il processo che il film porta avanti
è quello che, partendo dalla scienza, procede con gli esperimenti della stessa, causa di
mutazione e detonatori di inattese scariche di violenza. Violenza che si personifica in Mr.
Hyde, l’alter-ego del dottor Jekyll, capace di trasformare il normale agire verso il bene
(proprio dell’uomo) in un puro istinto animalesco improntato al male. Mentre Il dottor
Jekyll e Mr. Hyde di Victor Fleming riprende i temi della precedente versione, facendo
spiccare in modo particolare la volontà di Jekyll di ottenere con un siero una esaltazione
del bene nella personalità umana e rivelando la lotta interna al dottore con un sogno freu-
diano dello stesso.
Calarsi ed emergere, come accade in Abyss, che ci parla di uomini sprofondati nell’abis-
so, caduti nel pozzo profondo di se stessi, scesi nei meandri più oscuri delle loro paure.
Gli uomini del Deepcore trovano la verità, ognuno la propria, e gli NTI (Non Terrestrial
Intelligence) sono specchi: sulla loro superficie quegli uomini vedono quel che essi stessi
sono. È il realizzarsi della metafora di un corpo che si fa estraneo a se stesso.
L’identità diventa rischio, scelta: precarietà e instabilità caratterizzano soggetti mutevoli, con sentimenti,
emozioni, in continua evoluzione.4
In Alien lo spazio sconosciuto si fa luogo misterioso, quel luogo chiuso dalle pareti della
nostra epidermide, quell’abisso oscuro a noi invisibile dal quale esce il mostro: come
l’ignaro e sventurato Kane (John Hurt), il cui petto viene squarciato dalla forma aliena
che aveva cominciato a svilupparsi dentro di lui e che inizia a manifestare la sua totale
ferocità. Un alieno sempre nascosto, una creatura che sembra albergare nella nave No-
4 Ubaldo Fadini, Principio Metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale, Mimesis, Milano, 1999, p. 37.
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stromo ancor prima che i suoi abitatori umani possano svegliarsi dall’ibernazione: fisi-
camente assente dalla scena ma perennemente in agguato nelle soggettive senza padrone
che il regista Ridley Scott distribuisce con sagacia. Una volta assunta la forma adulta,
l’alieno comincia ad aggirarsi nei cunicoli-uteri dell’astronave, alla ricerca di corpi da la-
cerare. Alien, figura mostruosa uscita dalla matita di H. R. Giger e probabilmente ispirata
al disegnatore svizzero dalla Phronima5, creatura che vive negli abissi del mare insieme
alla prole, di colore rosa, adagiata nel corpo di un altro animale. Dentro al corpo, spro-
fondata nell’abisso nero dove soltanto la bioluminescenza propria degli abitanti illumina
l’ambiente, come la creatura di Alien si fa metafora di un ospite che s’annida dentro di
noi, pronto a balzare fuori senza alcun preavviso. Come ne La cosa di John Carpenter,
che fa scoppiare il suo oste da dentro e comincia a spostare il confine del diverso dall’ani-
male all’alieno. Figura che si manifesta in un’area posta oltre i tentativi della scienza di
far propri sempre nuovi domini della conoscenza, ovvero nella psicologia umana. Così,
è proprio l’alieno che diviene entità altra per eccellenza. L’uomo ha paura della minaccia
esterna come i vampiri e i vampirizzati, o come i corpi umani ridotti ad essere conteni-
tori per entità aliene; l’uomo ha paura di ciò che arriva, lo invade e lo trasforma. Perciò
l’alieno può essere visto come una forma di esasperazione del concetto di minaccia ani-
male, ovvero di quel mito dell’invasione bestiale mai tramontato. La cosa materializza il
pensiero di una società disgregata da fughe centrifughe, nelle quali ciascun individuo è
il nemico indecifrabile dell’altro. È una cosa indescrivibile, senza forma, l’irrazionalità
che rende cose gli stessi uomini. Il film “gioca sulla vertigine dell’identità, sul terrore di
essere se stessi ma qualcos’altro, sulla completa mancanza di fiducia nel prossimo”.6
La febbricitante insicurezza di sé si mostra nel dissidio interiore, nello smarrimento
d’identità, nella paura di essere aggrediti. Alien e Batman risultano così due figurazioni
esempio di queste battaglie dell’io. Alien e Batman sono due figure liminali, accomunate
5 La Phronima è un anfipode appartenente alla famiglia delle Phronimidae. Ha artigli poderosi ed enormi occhi che la rendono un temibile predatore. È di piccole dimensioni (normalmente attorno ai 2,5 cm di lun-ghezza) ed è traslucido, tanto che il progetto iniziale dell’Alien di Ridley Scott prevedeva che questa fosse trasparente e dotata di occhi, salvo poi ripensarci per motivazioni di carattere tecnico [tratto dalla serie di documentari BBC - Pianeta Blu, Oceani ed abissi, David Attenborough, 2003].
6 Roy Menarini e Andrea Meneghelli, op. cit., p. 229.
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dal buio del loro spazio d’azione, da un porsi al margine per poi addentrarsi nel vivo
delle esistenze altrui, improvvisamente come un fulmine che squarcia un cielo tenebroso.
S’assomigliano pure nella mutazione che ne completa le rispettive serie. Dalla fonda-
zione dell’archetipo in Alien, alla sua pluralizzazione (Aliens – Scontro finale), passando
per la sua proliferazione esponenziale nella dimensione sincronica dello spazio (Alien3),
fino all’espansione diacronica sull’asse del tempo, nella direzione di una proclamata e
conseguita eternità (Alien – La clonazione). Allo stesso modo, nella serie di Batman, il
film di Tim Burton è il ‘Romolo’ della saga sul pipistrello (Batman Begins scava ulterior-
mente nella matrice dell’uomo-pipistrello), Batman – Il ritorno ne è la sua riapparizione,
prima di proliferare espandendosi nel tempo (Batman Forever) e riprodursi per gemma-
Le sei figure di questa pagina fanno tutte riferimento al film A Scanner Darkly - Un oscuro scrutare (Richard Linklater, 2006)
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zione con la clonazione del proprio doppio in Batman & Robin.7 Le figurazioni di Alien e
Batman rivelano un identico che sembra differenziarsi solo in virtù di una maschera altra,
diversa. Essere presenti, sempre, da sempre, ma celati alla vista. Inoltre, Batman, come
Alien, è perennemente in bilico su un’identità malleabile: come ricorda Gianni Canova
l’uomo-pipistrello “racconta il farsi Altro dell’Identico” (egli è uomo tra gli uomini nello
spazio del sole che si rivela, ma è pronto a diventare come i mostri che combatte nel
momento in cui il sole s’eclissa); l’alieno, invece, racconta “il farsi Identico dell’Altro”
(esso è il corpo estraneo in una specie diversa, ma pronto a divenire una serie di identici
simili alla donna che feconda). Entrambi, ancora una volta, trovano un punto di contatto
nella categoria dello straniero (dal greco xénos), con la sola differenza che uno (Alien)
s’incarna nell’essere ostile (hostes), l’altro (Batman) nell’essere amico (hospes).8
L’etimologia di alien rimanda a qualcosa di ‘altro’ (nella lingua inglese alien significa
‘immigrato’) ed il mostro di Alien è un mostro dell’inconscio, abitatore del corpo dell’uo-
mo, dove s’è fissato l’io, divenuto luogo d’una vita psichica prima mai esplorata.
Ma l’esplorazione di se stessi, il timore di doversi affrontare fino in fondo è come il viag-
gio fatto su una nave, che continua anche una volta sbarcati a terra. Una volta messo piede
sulla terraferma, nel mondo nuovo; una volta legata l’imbarcazione a solidi attracchi, quei
punti di riferimento che sono gli altri, e che
si offrono alla comprensione di noi stessi.
Ecco Face / Off – Due facce di un assas-
sino, con il tema del doppio e dell’eterna
discussione su apparenza e realtà. Ma con
John Woo che ne fa un dramma esistenziale
sullo smarrimento dell’identità, a partire dal
titolo, che da due semplici parole origina quel distaccamento della faccia (face off, ‘senza
faccia’). Il volto, nostro primigenio segno di riconoscimento, marcatore d’identità, regno
dello sguardo. “Perdere la faccia”, “faccia a faccia”, “ci metto la faccia”, ”salvare la fac-
7 Riferimento a Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano, 2001, p. 95.
8 ivi, p. 124.
Face /Off – Due facce di un assassino (John Woo, 1997)
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cia”, modi di dire che rimandano tutti all’azione del fare (dal latino facere), del costruire
la nostra figura (dal latino facia, ‘figura’, ‘aspetto’). Un’esistenza individuale demandata
alla faccia, che ci mostra agli altri, ci fa riconoscere, anche a noi stessi, attraverso la ga-
ranzia dello specchio. Il film di John Woo insiste dunque sull’inscalfibilità della nostra
percezione, senza la quale non ci sentiamo più noi stessi. La nostra pelle sente se siamo
noi oppure no e, in caso negativo, si ribella con la strategia del rigetto.
Chi corre sullo stretto confine che separa il bene dal male, l’umano dal non-umano (o dal dis-umano), il
giusto dall’ingiusto, rischia sempre di cadere dall’altra parte, di trasformarsi in colui che affronta; teme che
il suo volto si muti in quello del nemico, e di finire per affrontare se stesso.9
In Matrix, nel momento in cui Neo distrugge Smith, egli libera il suo doppio opposto,
dando inizio ad una lotta senza quartiere in sé stesso, ecco perché solo lui può fermarlo,
perché Smith è Neo stesso. Matrix Reloaded ci dice che Neo ha il pieno possesso delle
sue abilità e le mette tutte in campo per entrare in Matrix e combatterla da dentro in scon-
tri sempre più serrati con l’agente Smith, con
gli scagnozzi del Merovingio, combattendo
con se stesso nell’incontro con l’Architetto.
Nel film si compie insomma il corpo a corpo
di Neo con avversari che rappresentano il ri-
flesso di un altro scontro: quello che sta den-
tro la sua mente.
9 Marcello Ghilardi, Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese, Esedra editrice, Padova, 2003, p. 138.
Matrix (Andy & Larry Wachowski, 1999)
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Memoria, il nostro perfetto difettoso
‹‹Tyrell: Il commercio è il nostro fine qui alla Tyrell. Più umano dell’umano è
il nostro slogan. Rachel è un esperimento, niente di più. Cominciamo a ricono-
scere in loro strane ossessioni; in fondo sono emotivamente senza esperienza,
con solo pochi anni in cui accumulare esperienze che per noi umani sono scon-
tate. Noi li gratifichiamo col passato... noi creiamo un cuscino, un supporto per
le loro emozioni e di conseguenza li controlliamo meglio.
Rick Deckard: Ricordi, lei sta parlando di ricordi››.
Tyrell parla con Rick DeckardBlade Runner (1982)
La memoria è un meccanismo fallace, come rivestita da un abito cucito male, intessuta
da una serie di errori che ne fanno uno strumento assolutamente perfettibile: infatti, essa
“pecca” di labilità (evanescenza nel tempo), di distrazione (dimenticanza dovuta alla
mancata attenzione), blocco (l’informazione c’è ma non si riesce a rintracciare), errata
attribuzione (i cosiddetti “falsi ricordi”), suggestionabilità (l’influenzamento ricevuto da
parte di altri), distorsione (i sentimenti inconsci, gli stereotipi, i pregiudizi che svilis-
cono il ricordo), persistenza (la rievocazione continua di eventi o idee che vorremmo
dimenticare).10
La memoria non è tanto un meccanismo per ricordare il passato, quanto un mezzo per predisporci al futuro.
Alcuni tra i miei ricordi più belli sono falsi.11
D’altra parte la nostra identità è in continua ridefinizione, e con essa la nostra visione del
mondo, fissata nel nostro sguardo che riflette l’offerta del mondo. Riflette con l’occhio,
fissa con la mente, ricorda con la memoria e restituisce qualcosa di diverso, nel più mera-
10 Riferimento a Daniel L. Schacter, The Seven Sins of Memory: How the Mind Forgets and Remembers, Houghton Mifflin, Boston, 2001; tr. it. I sette peccati della memoria, Mondadori, Milano, 2002, pp. 6-9.
11 Michael S. Gazzaniga, The Ethical Brain, Dana Press, New York / Washington, 2005; tr. it. La mente etica, Codice edizioni, Torino, 2006, p. 137.
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viglioso processo di metamorfosi.
Robocop materializza l’ossessione per il corpo come teatro di esperimenti e mutazioni,
invaso dalla tecnologia che lo rende una macchina quasi perfetta. Ma a Murphy / Robo-
cop (Peter Weller) rimane una parte umana, quella che ci rende uomini imperfetti: la me-
moria. I ricordi di una vita passata che affiorano lentamente, così come lento è l’incedere
goffo di un corpo umano che percepisce tutta l’inadeguatezza del trovarsi allocato in quel
freddo guscio di metallo che sembra soffocarlo.
Identità mnemonica, pezzi di vita che avvengono e continuano sempre ad avvenire per
dirci chi siamo. Racchiusi nella nostra testa per certificare l’umanità dell’uomo, quella
natura che concorre a definirne l’anima e che la razza di alieni cerca di carpire nella città
fuori luogo e fuori tempo di Dark City. Un film che si fa anche metafora della ricerca di
un’identità perduta, un’identità che John Murdoch (Rufus Sewell) cerca di recuperare,
provando a riappropriarsi dei propri ricordi, sottrattigli dagli Stranieri. La memoria è il
grimaldello della nostra identità. Un’identità che la tecnologia da noi impiegata scalfisce,
modifica, rimodella: la nanomedicina può impiegare apparecchi di dimensioni moleco-
lari per riparare i danni; nanocomputer possono essere innestati nel cervello per fornire
memoria supplementare, potere di calcolo e programmi in grado di prendere decisioni.
Come accade in Johnny Mnemonic, film che veicola un modello di uomo che sembra
prossimo a venire, con una memoria trasformata in un hard disk, un cranio che gli fa da
contenitore ed un corpo che diventa il mezzo di trasmissione di informazioni. Protago-
nista è Johnny (Keanu Reeves), corriere informatico che rinuncia a pezzi della propria
vita, cancellando dalla memoria (allo stesso modo in cui si elimina un file che non serve
più) le proprie personali esperienze infantili; un uomo che si ritrova senza passato, che si
sposta nella solitudine della sua esistenza in un presente svuotato, con la sola testa riem-
pita di informazioni. Un uomo cyborg che rinuncia alla parte più importante della propria
umanità: i ricordi.
Ma vogliamo davvero cancellare i ricordi, che dichiariamo non ci servano più come in Se
mi lasci ti cancello? È questa, infatti, la tecnologia che il dottor Howard Mierzwiak (Tom
Wilkinson) prospetta: cancellare il passato dalla memoria e farlo su ordinazione. Togliere
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pezzi della vita per volontà propria, fare letteralmente sparire delle persone come se mai
le avessimo conosciute.
Ovvero, deresponsabilizzarsi, levarsi i possibili sensi di colpa e ricominciare a vivere
un’esperienza nuova, del tutto linda da incrostazioni passate. Anche Paycheck ci dice che
l’uomo è la sua essenza di essere memore. E
lo fa mostrandoci la tecnologia che entra nel-
la sua testa, che scava e rimuove blocchi di
memoria come un’escavatrice smuove il ter-
reno in un cantiere edile. Michael Jennings
(Ben Affleck) è un genio dell’informatica al
servizio di una grande multinazionale senza
scrupoli. La segretezza dei suoi progetti viene mantenuta cancellando sistematicamente
la sua memoria e come compenso per l’amnesia indotta, al termine di ogni lavoro lo at-
tende un sostanzioso assegno (paycheck). Il soldo che sostituisce la memoria, le cose che
spazzano via la vita, rinunciare ad una parte di ricordi e sminuire la propria umanità in
un’equivalenza alla macchina.
Ridurre il corpo (e la mente) ad un treno viaggiante come in Atto di forza, che ci proietta
in un futuro dove la nostra testa potrà essere violata (dall’azienda Recall) per farci vivere
un’avventura che (come per lo spettatore) viene disegnata come fosse una sfumatura tra
realtà, sogno e ricordo, in una spiazzante confusione di piani, giocata tra reale e virtuale.
Manipolazione della memoria per costruire un’altra realtà, addentrarsi nel cervello e pro-
mettere di entrare letteralmente dentro i sogni delle persone, modificarle rimuovendo le
cause inconsce di instabilità psicologica come in Dreamscape – Fuga nell’incubo.
Certo, c’è anche la realtà portata sullo schermo da Rewind, che cerca di legare le nuove
tecnologie ai fatti della vita di tutti i giorni (nel caso al terrorismo). Una tecnologia che la
polizia può utilizzare sul criminale Paul Mansart (Raoul Bova), per estrapolare dalla sua
mente ricordi ed emozioni ed incanalarli in un sistema di realtà virtuale computerizzato
che possa permettere agli investigatori di catturare il terrorista ricercato.
La ricerca che scava nella testa dell’uomo lo fa con due locomotive diverse: una è quella
Paycheck (John Woo, 2003)
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di psicoanalisi e psicologia (indirizzate verso un mondo soggettivo), l’altra quella delle
neuroscienze (che puntano verso un mondo oggettivo, accertabile).
Le prime s’addentrano nel cervello con la forza viva dell’interpretazione, fra desi-
deri, scopi, significati. Le seconde, invece, puntano sull’osservazione che restituisce
un’inoppugnabile evidenza: pensiamo al sapere di radiologi ed esperti del computer sin-
tetizzato in tecniche come la TAC, la PET, la RMN, che permettono di guardare “in
diretta” il funzionamento del cervello.
Ma il cervello è una macchina un po’ particolare, e le informazioni raccolte nel riflettere
il mondo esterno sono continuamente collegate, aggiornate e ri-aggiornate, funzionali
all’elaborazione di un progetto. È per questo che i ricordi sono mutevoli, perché essi non
vengono registrati come si farebbe con un processo fotografico (impressione della lastra
fotografica, fotografia, archiviazione), bensì vengono ristrutturati e plasmati nel tempo,
tanto da divenire altro da ciò che erano in origine.
A livello cerebrale tutto è quindi soggetto ad essere rimaneggiato, plasmato, modificato nel tempo, a diffe-
renza di quanto avviene nelle macchine tradizionali.12
Se per Bergson “non esiste percezione che non sia piena di memorie”, questo significa che
ogni nostra percezione è un momento della nostra coscienza. Un momento delegato alla
nostra memoria, ovvero a qualcosa di estremamente labile (dal latino labile(m) ‘scorrevo-
le’, derivato dal verbo labi ‘cadere’), sulla quale ci illudiamo di avere totale controllo; un
pezzo determinante per la nostra identità: accumuliamo ricordi, ma questi pezzi di realtà
che noi caliamo nel sicuro lago della nostra memoria spesso riemergono in forma diversa
rispetto a quella che i nostri organi percettivi avevano catturato ed archiviato. Crollano
davanti alla nostra ferrea volontà che non vuole credere, perché ciò significherebbe accet-
tare la precarietà individuale e identitaria che ci contraddistingue.
La nostra memoria viene contaminata da un incredibile numero di immagini, poiché tutto
è imposto alla vista. E questo immenso carico visivo ci porta a voler potenziare la nostra
12 Alberto Oliverio, Mente, cervello, intelligenza artificiale, in Carlo Simoni (cur.), Ingegnerie della vita, del corpo, dell’intelligenza, Grafo edizioni, Brescia, 2002, p. 103.
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I M M E R S I O N E P R O F O N D A N E L C O R P OM e m o r i a , i l n o s t r o p e r f e t t o d i f e t t o s o
memoria. Il desiderio di potenziare la nostra memoria nasce da quello di cristallizzare i
singoli eventi e non i dettagli intricati fra loro. Cioè, vorremmo vedere chiaro e non come
attraverso un vetro appannato. Vedere meglio e vedere di più.
Potremmo fare uso di sostanze nootrope (dal greco noos ‘mente’ e tropein ‘verso’), cioè
rivolte alla mente e che, appunto, permettono
di incrementare il nostro potere mnemonico.
O aspettare le ricerche che il bioingegnere
Ted Berger sta effettuando nel laboratorio
della University of Southern California a
Los Angeles: la realizzazione di un micro-
chip in grado di rimpiazzare una porzione
di tessuto dell’ippocampo, coinvolto nella
formazione dei ricordi a lungo termine. Una
memoria artificiale che, inserita nel cervello,
promette di registrare i ricordi e di ritrasmet-
terli allo stesso cervello. In questo modo i
ricordi contenuti nei chip diverrebbero incancellabili, levandoci parte della nostra uma-
nità.13
Sarebbe una strada parallela a quella aperta dal già citato Johnny Mnemonic, con l’uomo
pronto a trasformare il proprio cranio in un’unità di contenimento, ad incrementare i pro-
pri ricordi attivi con piastre di silicio che mai potranno rovinarsi.
Ma la nostra labilità nel ricordare si fa cartello imprescindibile del nostro essere, segnale
della nostra imperfezione, che ci rende esseri umani. Tutti i nostri ricordi possono dan-
neggiarsi o andare persi, perciò il ricordo rievocato è sempre difettoso.
In qualsiasi istante notiamo solo un aspetto di un flusso di dati, e ciò dipende da tutta una serie di variabili,
fra cui l’immagine che abbiamo di noi stessi, l’attenzione che vi dedichiamo e le nostre emozioni in quel
13 Riferimento a Giovanni Siniscalchi, La memoria artificiale, su ‹‹Newton››, anno XI, n. 6, giugno 2007, pp. 42-49.
Johnny Mnemonic (Robert Longo, 1995)
Johnny Mnemonic (Robert Longo, 1995)
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momento [...] il cervello tesse un racconto dove alloggiano aspetti sia della situazione originale che del mo-
mento successivo. D’un tratto, mescoliamo i due episodi e fondiamo i due insiemi di eventi in un “ricordo
ibrido”.14
Ma non potremo mai pensare di poter delegare tutti i nostri ricordi ad una memoria arti-
ficiale, perché la memoria non è un semplice archivio di catalogazione dei ricordi. Avere
una memoria non significa soltanto avere dei ricordi, bensì riuscire a penetrare in essi,
a farli in qualche modo tornare ad essere una presenza viva, come se quel momento ci
stesse di fronte e stesse accadendo di nuovo, con tutte le sfumature dell’avvenimento che
ci dice la nostra esistenza.
Aver memoria vuol dire avere una storia e anche sviluppare una qualsiasi forma di em-
patia, che la macchina Voigt-Kampff di Blade Runner ci mostra in tutta la sua evidenza.
Quella macchina che serve per autenticare un essere umano, per certificare che non sia un
replicante, privo di memoria propria, con una data di scadenza ed una testa zeppa soltanto
di ricordi artificiali.
Il corpo malatoMa, a volte, vorremmo davvero ricordare tutto? No, noi vorremmo dimenticare, vorrem-
mo rimuovere. Vorremmo entrare nel mondo delle droghe psichedeliche di A Scanner
Darkly – Un oscuro scrutare, confuso tra una percezione deviata, ricordi annebbiati ed
un inquietudine che scuote dal dentro. Infatti, già nel titolo A Scanner Darkly – Un
oscuro scrutare rivela la sua natura di periscopio indagatore, pronto a calarsi nell’abisso
interiore dei suoi personaggi. Scavare nella personalità deviata del suo protagonista, quel
Bob Arctor (Keanu Reeves) poliziotto incaricato di scovare ed eliminare la fonte di quegli
acidi che, però, stanno già bruciando il suo cervello. Un’indagine condotta dietro l’identi-
tà cangiante di una tuta mimetica che ne rende indefinibile il riconoscimento, girovago in
una realtà drogata (volontariamente). Perché proprio nella scoperta della propria emargi-
14 Michael S. Gazzaniga, op. cit., p. 119.
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I M M E R S I O N E P R O F O N D A N E L C O R P OI l c o r p o m a l a t o
nazione si risolve la ricerca dello scrutatore, che rende palese la sua natura di estraneo a se
stesso. Guardarsi e perdersi nel medesimo istante, vivere in un corpo che potrebbe accar-
tocciarsi, sgonfiarsi, implodere senza consapevolezza alcuna, come farebbe il cartoon che
la tecnica del rotoscopio usata nel film mostra sullo schermo. Ma l’uomo, fatto di carne,
mai potrebbe ricomporsi come l’immagine digitale con cui sembra agognare sostituirsi.
Il corpo dell’uomo è teatro del cambiamento continuo, agitato da un movimento che non
conosce interruzioni e per questo l’uomo è sempre in fibrillazione, scosso da paure iden-
titarie che ne Il mostro di sangue15 lo scienziato (Vincent Price) pensa di poter materia-
lizzare tramite la somministrazione di droghe pesanti al proprio corpo. Torna così il tema
dell’indagine profonda del nostro essere interiore, nascosto e per questo continua fonte
di mistero, nonché di bizzarre e pericolose idee come quella che Timothy Leary andava
professando negli anni Sessanta, ovvero della scoperta di un io più vero per mezzo dello
LSD. Sorta di sonni generatori, stati di beatitudine, indotti da sostanze simili al soma pre-
sente ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley.
Al di là delle perverse convinzioni di qualche mente malata, con A Scanner Darkly – Un
oscuro scrutare è venuto soprattutto il momento di scrutare sempre più a fondo in noi
stessi, perché ormai siamo i veri alieni soggetti ad inimmaginabili mutazioni.
Si fa strada l’inquietudine di qualcosa che può colpirci dall’interno, quel qualcosa che
i film di David Cronenberg ci trasmettono chiaramente. Lo squarcio nel corpo operato
dalla filmografia di Cronenberg è “un invito a scoprire il corpo [stesso] nel suo essere
un superstite, un sopravvissuto ai continui tentativi operati dai saperi dell’Occidente per
esaurirne il senso”.16
Con Brood - La covata malefica, Il demone sotto la pelle, Rabid - Sete di sangue, Vi-
deodrome, Inseparabili, Crash Cronenberg mette in scena la nuova carne, le alterazioni
prodotte dalla malattia, il contagio, in un processo di antropomorfizzazione di corporeità
sfuggito completamente al controllo della mente. Infatti, nei lavori croneberghiani la ma-
15 Il mostro di sangue (The Tingler, William Castle, 1954) è il probabile riferimento che Cronenberg aveva in mente al momento di girare Rabid – Sete di sangue.
16 Fabrizio Denunzio, Pieghe del tempo. I film di guerra e di fantascienza da Philip K. Dick a ‹‹Matrix››, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 140.
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lattia è il punto di contatto tra corpo e mente, il luogo dove convergono le forze del corpo
e della mente.
L’uomo è ossessionato dall’idea di assimilare il mostro, di ospitarlo involontariamente
nel proprio corpo. La contaminazione che avviene all’interno del nostro corpo equivale
ad una totale perdita di controllo. Si fanno chiari i rimandi all’immaginario del Medioevo,
con la paura di essere divorati da terrificanti belve. “Il proliferare di una o più entità bes-
tiali nel proprio organismo è metafora di incubi umani moderni, alimentati dalla cronaca
riguardante virus, batteri o prioni pericolosi e invasivi, nonché dalla paura di una perdita
di controllo della scienza sui processi biotecnologici”.17
La paura per la malattia che suscita Il demone sotto la
pelle si sposa con la perdita dell’identità e al contempo
sviluppa il tema del contagio, che scardina le regole
della vita sociale e svela l’impotenza della ragione di
fronte alla componente animalesca dell’uomo. La vi-
deocamera del cinema penetra dentro questo mondo
contagiato da un virus che trasforma i protagonisti in
macchine desideranti, capaci di oscillare da una estrema situazione di piacere a quella
di un dolore indicibile. Il film è una profonda indagine sulle forme mostruose del corpo,
nonché un approfondimento sui concetti di contagio e mutazione. Inseparabili, invece,
risveglia l’angoscia del corpo, in bilico sulla labile frontiera che separa scienza e mostri.
Un film che mette in posizione centrale il corpo legato ad un altro corpo (quello di un
fratello siamese, il ventre materno) e allo stesso tempo gli abissi della psiche. I gemelli
Mantle (Jeremy Irons) sono ossessionati dal corpo, due persone a rappresentare con la
forza visiva della presenza quell’invisibile schizofrenia della quale ogni uomo è affetto.
Un’indagine nella scoperta della bellezza interiore di ogni corpo, ma allo stesso tempo
“un vertiginoso periplo intorno all’irrappresentabilità del corpo, sempre in bilico fra il
visibile e il non mostrabile, fra ciò che vediamo e ciò che non potremo mai (o non pos-
17 Roberto Marchesini, in Roberto Marchesini e Karin Andersen, Animal Appeal. Uno studio sul terio-morfismo, Hybris, Bologna, 2003, p. 300.
Brood – La covata malefica (David Cro-nenberg, 1979)
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I M M E R S I O N E P R O F O N D A N E L C O R P OI l c o r p o m a l a t o
siamo ancora) vedere”.18
E Rabid – Sete di sangue è un altro incubo ad occhi aperti giocato sulle metamorfosi
mostruose del corpo, un incubo che corre come una potente macchina telecomandata su
un’autostrada, lanciato a folle velocità sulla carreggiata della malattia. Il contagio che si
diffonde in altri corpi che, una volta aggrediti, divengono soltanto vuoti contenitori de-
stinati alla spazzatura. Una strizzatina d’occhio a tutto il carro allegorico degli zombies
e dei vampiri, declinato secondo il paradigma medico-scientifico. Infatti, il vampirismo
di Rabid – Sete di sangue è una “rivolta della natura contro i soprusi di una scienza che
pretende di ricreare artificialmente l’uomo”.19
David Cronenberg, insomma, mette in collegamento l’odierno e il tecnologico, e lo fa
operando sul corpo, sul corpo umano.
La dissoluzione dell’identità in nuove forme è ritenuta sempre più spesso come conseguenza dell’esistenza
contemporanea, connessa alla nascita delle nuove tecnologie. Questo è stato reso molto evidente in tre film:
Scanners, Videodrome e The Fly, nei quali l’apparente dicotomia fra mente e corpo viene scavalcata dalla
tricotomia di mente, corpo e macchina.20 [*]
La filmografia di Cronenberg è un chirurgico lavoro sui corpi, tanto che Gianni Canova
lo definisce un “ginecologo dello sguardo”. Sguardo che scava nei corpi e ne porta alla
luce visibile la mostruosità. Mostri che “si producono per partenogenesi dall’organismo
malato, e al contempo, abitano uno spazio incorporeo, virtuale, dove si ipotizzano nuove
forme di scambi, di esistenze, di pratiche comunicative”.21
18 Gianni Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, Milano, 1993, p. 79.
19 ivi, p. 28.
20 Scott Bukatman, Terminal Identity: The Virtual Subject in Postmodern Science Fiction, Durham: Duke University Press, 1993, p. 82. [*] traduzione personale dall’originale inglese.
21 Giona Antonio Nazzaro, Cronenberg, David, in Enciclopedia del Cinema, Volume 2, 2003, p. 188.
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L’ U O M O E S E S T E S S O
Sul viale della geneticaGli incompleti mattoni del principio regolatore DNA
‹‹La vita si perpetua grazie alla diversità, il che implica anche la capacità di
sacrificarsi, se necessario. Nelle cellule si ripete il processo di degenerazio-
ne e rigenerazione, finché un giorno esse muoiono cancellando così una serie
di informazioni. Solo i geni rimangono. Perché ripetere costantemente questo
ciclo? Per sopravvivere, evitando le debolezze insite in un sistema immutabi-
le››.Il Signore dei pupazzi
Ghost in the Shell (1995)
Specie negli ultimi decenni s’è verificata una valorizzazione enfatica del corpo, sia sul
piano biologico (genetica, trapianti, neuroscienze) sia sul piano dell’antropologia sociale
(comportamenti individuali e collettivi volti a valorizzare il corpo, come lo sport, la gin-
nastica e il mercato della salute).
L’uomo ha sempre cercato di differenziarsi dall’animale, sia attraverso il processo di
ominizzazione, sia attraverso varie forme di rappresentazioni antropocentriche (miti, riti,
religioni), ma a fare da anello di congiunzione e da anello per la vita ci sono i geni.
La nostra distanza genetica dagli scimpanzé riguarda non più dell’1,6 per cento dell’informazione comples-
siva contenuta nel nostro Dna: l’evoluzione ha dovuto lavorare su margini minimi, per raggiungere il suo
risultato più spettacolare che ci ha completamente separato da tutto il resto del vivente, facendoci rimanere
‹‹soli al mondo››.22
Il cromosoma23 è il nostro veicolo di trasmissione genetica: infatti, in esso risiede quel
22 Aldo Schiavone, Storia e destino, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2007, p. 29.
23 Ogni cromosoma è un fascio di DNA e proteina; la molecola del primo è strettamente avvolta e piega-ta su un nucleo di proteina. La maggior parte del genoma è DNA spazzatura [...] In media, infatti, si trova un gene ogni 40 mila basi. [...] Le quattro lettere dell’alfabeto del DNA sono elementi chimici semplici, le basi: l’adenina, la citosina, la guanina e la timina. [...] C fa sempre coppia con G e A con T. Queste coppie di basi formano i pioli della spirale di DNA, la famosa doppia elica. [...] Prima che una cellula possa dividersi, devono essere copiate le sue istruzioni geniche così che ogni figlia abbia una copia del manuale completo. Quando la doppia elica si apre, ogni filamento figlio funge da stampo per generare un nuovo filamento com-pletamente identico all’originale. Ogni tripletta di lettere, o codoni, del DNA all’interno di un gene trasporta
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S U L V I A L E D E L L A G E N E T I C AG l i i n c o m p l e t i m a t t o n i d e l p r i n c i p i o g e n e r a t o r e D N A
doppio filamento che si avvolge in forma elicoidale su quattro tipi di basi proteiche (o
nucleotidi) accoppiate e poste in successione fra loro, il DNA. Quell’acido desossiribonu-
cleico che lungo tutto il suo dispiegarsi contiene piccoli segmenti, ciascuno con funzioni
specifiche: i geni. Ed ogni cromosoma contiene molte migliaia di geni, ciascuno costituito
da migliaia di nucleotidi.
La sequenza del DNA costituisce il codice genetico alla base della sintesi proteica e la
scoperta della sua caratteristica struttura ad elica avvenuta nel 1953 da parte di James
Watson e Francis Crick è stata la rampa di lancio che ha permesso di avviare nel 1990 il
Progetto Genoma Umano24 e di concluderlo nel 2003, arrivando a completare la mappa-
tura dell’insieme di tutto il materiale genetico (genoma) dell’uomo.
L’evoluzione biologica continua a segnare la vita degli esseri viventi, ma solo noi uomini
abbiamo inciso questo processo naturale con
un’evoluzione culturale, frutto della costante
ricerca del nuovo, e segnata soprattutto dal-
la mappatura completa del genoma umano25,
sul quale ora si può intervenire in maniera
sperimentale. Una genetica che, dopo essere
stata disvelata come il principio generatore
dell’uomo è ora a disposizione per modificare l’uomo stesso (nel bene e nel male). Come
nella trasformazione di Bruce Banner (Eric Bana) in Hulk, allorché si scatena tutta la
dirompente forza dell’essere vivente contro la civilizzazione e la tecnologia che ne hanno
le istruzioni per uno dei venti diversi amminoacidi [tratto da SALUTE, 21 – La frontiera della medicina: DNA, RCS Quotidiani S.p.A., Milano, 2006, pp. 60-62].
24 Progetto internazionale di ricerca che ha come obiettivo la mappatura del patrimonio genetico umano (genoma), ovvero la descrizione della struttura, della posizione e della funzione dei 100.000 geni che carat-terizzano la specie umana. Lo studio del genoma implica il sequenziamento del DNA, cioè l’identificazione dell’esatta sequenza dei 3 miliardi di coppie di basi azotate che ne compongono la molecola e la mappatura, ovvero la determinazione della posizione occupata da ciascun gene rispetto agli altri. La comprensione della funzione del gene e di quali malattie possano derivare da sue alterazioni costituisce l’obiettivo finale del progetto [tratto da http://it.wikipedia.org/wiki/Progetto_Genoma_Umano].
25 Nel genoma umano il ruolo della grande maggioranza dei geni è quello di conservare le istruzioni per preparare le migliaia di proteine che formano il nostro corpo e sostengono la vita. La decodifica del DNA in proteina da parte delle cellule sfrutta l’RNA, l’acido ribonucleico, una molecola a singolo filamento [tratto da SALUTE, 21 – La frontiera della medicina: DNA, RCS Quotidiani S.p.A., Milano, 2006, p. 69].
Hulk (Ang Lee, 2003)
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L’ U O M O E S E S T E S S O
imprigionato la forma con invisibili catene, una tecnologia che ha rotto lo schermo di con-
trollo umano, bruciando il fuoco prometeico della scoperta e facendolo ardere come fuoco
distruttore. Il film di Ang Lee ci mostra come la manipolazione genetica possa diventare
potentemente distruttiva al pari di una bomba atomica. Infatti, l’unicità dell’uomo risiede
anche in quelle capacità culturali e tecnologiche che oggi quasi gli permettono di domi-
nare e controllare la vita. La natura manipolata dall’impiego irrazionale della scienza e
dalle mire capitalistiche sono il motore del Jurassic Park. Parco di divertimento (e omo-
nimo titolo del film) in cui gli uomini possono osservare i precedenti abitatori della Terra:
i dinosauri. Dinosauri ricostruiti, o meglio, rigenerati sulla scorta di DNA degli stessi,
conservatosi nel sangue di insetti imprigionati nell’ambra. È il tema della responsabilità
della scienza e dell’indagine di limiti in apparenza invalicabili.
Le ricerche nella genomica, la scienza che studia i geni e le loro funzioni, hanno avuto
negli ultimi anni un’enorme accelerazione. Il problema della clonazione, dell’insemina-
zione artificiale, della manipolazione dei geni, della mappatura del DNA, delle mutazioni
genetiche sono argomenti di pubblico dibattito.
Oggi abbiamo un’idea abbastanza chiara di quali siano i 25 mila geni presenti nel geno-
ma umano, cioè tutto il materiale genetico presente nei cromosomi del nostro organismo.
Questa scoperta, annunciata nel giugno del 2000, offre potenzialità senza limiti per la sa-
lute umana: dalla possibilità di prevenire, diagnosticare precocemente, e in futuro curare
molte patologie, come le malattie circolatorie, il cancro e il diabete, alla ricerca di terapie
farmacologiche personalizzate26.
Dobbiamo però ancora capire come questi geni interagiscano fra loro e con i fattori am-
26 Dopo aver perso nel 2001 la corsa al sequenziamento del genoma umano a favore del consorzio pub-blico guidato dai National Institutes of Health americani, lo scienziato Craig Venter ha appena pubblicato (settembre 2007) sulla rivista Plos Biology la mappa del suo intero patrimonio genetico (vale a dire la se-quenza di suoi 46 cromosomi, 23 di origine paterna e 23 materna). Se la mappa pubblicata nel 2001 fu un grandissimo passo verso la scoperta del Codice della Vita, essa rimaneva una mappa standard di riferimen-to. Ora, con la ricerca effettuata da Craig Venter su se stesso, si è arrivati per la prima volta a sequenziare tutto il Dna di un singolo individuo. E conoscere in dettaglio i singoli nucleotidi presenti nel genoma di una persona permette di realizzare un’approfondita diagnosi genetica, volta ad esempio ad osservare la presenza o meno della predisposizione ad una determinata malattia. La strada già tratteggiata dal film Gattaca – La porta dell’universo (Gattaca, Andrew Niccol, 1997) comincia a diventare reale cantiere in opera. E ancora oltre ci si è spinti, con la creazione del primo cromosoma, passo d’avvicinamento alla vita artificiale (per maggiori dettagli, vedi annotazione a pag. 135).
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S U L V I A L E D E L L A G E N E T I C AG e n i a l l a d e r i v a : e u g e n e t i c a e d i b r i d a z i o n i
bientali (la dieta, lo stile di vita, l’esercizio fisico e le abitudini culturali), contribuendo a
fare di noi quello che siamo. In particolare, siamo ancora lontani dal comprendere cosa
determini le differenze nelle nostre capacità cognitive e prestazioni intellettuali. Il corpo
resiste sempre di più, ma a lungo andare il cervello perde volume. Questo, non perché di-
minuiscano le cellule, bensì a causa dei cambiamenti nelle connessioni tra neuroni e nella
guaina che li isola. Le zone più colpite sono quelle della corteccia prefrontale (emozioni
e risoluzione dei problemi) e dell’ippocampo (formazione dei ricordi a lungo termine)
e due teorie cercano di spiegare che cosa faccia invecchiare il cervello: la “teoria degli
errori”, secondo la quale gli errori nei nostri geni, i danni alle nostre cellule e altri effetti
deleteri si sommano; la “teoria del programma”, per la quale i geni sono letteralmente
programmati per invecchiare.27
Ogni nostra iniziativa per mantenerci in salute invecchiando [...] si svolge sullo sfondo del nostro patri-
monio genetico: i nostri geni hanno costruito le grandi trame dell’esistenza, e quello che possiamo fare è
ottimizzare il destino genetico, ma non modificarlo.28
Geni alla deriva: eugenetica ed ibridazioni
‹‹Si diceva che un figlio concepito nell’amore avesse maggiori possibilità di
essere felice. Oggi non lo dicono più. Non capirò mai cosa abbia spinto mia
madre ad affidarsi a Dio, invece che al genetista del luogo. Due braccia e due
gambe, altro non importava. Adesso non più. Adesso, dopo qualche secondo di
vita, erano già note le cause e il momento esatto della mia morte››.
Vincent FreemanGattaca – La porta dell’universo (1997)
Comunque, la rivoluzione genomica ci pone dilemmi di natura etica: ci ritroviamo a pren-
dere decisioni riguardo la vita, la salute, il cibo e ad assumerci responsabilità verso il
27 Riferimento a Michael S. Gazzaniga, op. cit., pp. 22-24.
28 ivi, p. 25
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L’ U O M O E S E S T E S S O
mondo naturale e le generazioni future. Le attuali ricerche condurranno inevitabilmente
a sviluppi deplorevoli quali la generazione di embrioni come banche di organi, la produ-
zione di ibridi fra uomo e animale o la clonazione umana? L’ingegneria genetica è una
grande potenzialità, ma solo se la usiamo con responsabilità. Il XXI secolo è il secolo del-
la contaminazione, caratterizzato dalle pratiche tecnologiche dell’ingegneria genetica che
livellano la vita, dall’utilizzo sempre più invasivo di tecnologie che operano ed instaurano
un dialogo con il nostro organismo. Siamo nell’era del mutante, dell’ibrido, dell’uomo
che si scopre essere-in-compimento, delle mutazioni che si annunciano opportunità d’es-
sere altro. L’uomo è un laboratorio di possibilità che s’abbandona all’incertezza, negando
il proprio statuto archetipico di perfezione. Siamo nell’era del biotech.
E Gattaca – La porta dell’universo è il film exemplum di un sistema-mondo dominato
esclusivamente dalle logiche della genetica. Il codice genetico di una persona si fa ga-
rante esclusivo della sua identità: il mondo di Gattaca è gerarchizzato sin dalla matrice
dell’uomo, dal momento del concepimento extra-uterino, perché una scelta pre-ordinata
dei genitori fa venire al mondo i figli, dividendo la società in ‘validi’ e ‘non validi’. “Un
film – dice Gianni Canova – che racconta dunque di individui che si interrogano sul loro
esserci in un orizzonte di senso in cui il corpo ha definitivamente cessato di essere natura
per diventare linguaggio, simulacro, artificio, cultura”29. Gattaca – La porta dell’universo
porta sullo schermo un mondo completamente desensorializzato, asettico quanto la sala
operatoria d’un reparto di chirurgia, popola-
to da corpi lucidi, all’apparenza inossidabili,
privi di quei difetti naturali che connotano il
corpo umano.
Vive in noi il desiderio di ricorrere alle tec-
nologie riproduttive per selezionare in par-
tenza l’embrione30 migliore. Non è soltanto
29 Gianni Canova, op. cit., p. 2.
30 L’embrione è un ovulo fecondato da spermatozoo nelle sue prime dodici settimane dalla fecondazio-ne (nelle prime due settimane c’è il cosiddetto periodo ‹‹pre-embrionale››, in cui ogni cellula può, anche separata dalle altre, dar vita ad un embrione completo. Dopo la dodicesima settimana l’embrione si può chiamare feto).
Gattaca – La porta dell’universo (Andrew Niccol, 1997)
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S U L V I A L E D E L L A G E N E T I C AG e n i a l l a d e r i v a : e u g e n e t i c a e d i b r i d a z i o n i
una questione di selezione, perché già la fecondazione in vitro31 si configura come una
vera e propria fabbricazione del prodotto. Ma l’uomo va oltre, al di là della genetica pre-
impianto, l’uomo vuole ricreare la vita per esaudire i propri desideri. “Il problema non è
dunque la deriva verso il meccanicismo, bensì l’impulso al dominio”.32
Crediamo di essere come onnipotenti piccoli demiurghi, che si trovano fra le mani la pos-
sibilità di forgiare la natura dei propri figli. Gattaca – La porta dell’universo ci avverte
del pericoloso futuro cui potremmo andare incontro, costruito con le deviazioni della
genetica, che portano nei luoghi sconcertan-
ti della clonazione e della perdita d’identità.
E già nel titolo si inserisce il codice geneti-
co che regola la nostra vita, ovvero quelle
quattro lettere che, combinate fra loro, co-
stituiscono il nostro DNA: A (adenina), C
(citosina), G (guanina), T (timina), proteine
della vita che trasmettono i nostri caratteri genetici attraverso le generazioni. Nel film,
Gattaca è una corporazione futuristica nella quale può entrare solamente chi sia dotato
di un corredo genetico manipolato e reso quindi perfetto. Infatti, la società nella quale
esiste Gattaca è una società divisa in due categorie: validi e non validi. I validi possono
trovare un termine di paragone nei cyborg o nei robot, con la sola differenza che il loro
potenziamento non avviene né tramite mezzi meccanici né elettronici, bensì mediante la
manipolazione genetica dei loro cromosomi. Esseri umani che raggiungono la perfezione
fisica e vivono in un mondo pulito, asettico, maniacalmente lucido. Di contro, i non vali-
di vengono scartati, confinati in posizioni sociali inferiori, perché non all’altezza di vite
geneticamente perfette.
Nel futuribile mondo di Gattaca – La porta dell’universo il concetto di normalità cambia
statuto, poiché normale è nascere in provetta, liberato dalle malattie che hanno sempre
31 La fecondazione in vitro consiste nella ‘fabbricazione’ di un embrione (vengono messi insieme ovulo e spermatozoo) e nel suo innesto nell’utero materno.
32 Citazione di M. J. Sandel, The Case Against Perfection: What’s Wrong with Designer Children, Bionic Athletes and Genetic Engineering, in ‹‹Atlantic Monthly››, aprile 2004, p. 58, tratto da Michael S. Gaz-zaniga, op. cit., p. 37.
Gattaca – La porta dell’universo (Andrew Niccol, 1997)
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L’ U O M O E S E S T E S S O
indebolito l’uomo. Quell’uomo che adesso diventa il diverso, il discriminato.
Da quando James Watson e Francis Crick scoprirono nel 1953 la doppia elica del Dna
tutto è cambiato. Tutto s’è fatto più chiaro, il “Codice della Vita” si è reso evidente, lu-
minescente come il bagliore di una lampada in una notte desertica. Un codice semplice
semplice, formato da sole quattro lettere, ricombinate fra loro, ma un alfabeto uguale per
tutti gli esseri viventi. Una struttura, quella del Dna, che conferma l’evoluzionismo dar-
winiano, una teoria che si regge sulla selezione, selezione genetica avvenuta nell’arco di
milioni di anni. E se si verificherà la possibilità di modificare i geni allo stato embrionale,
la via dell’eugenetica si farà autostrada evolutiva.
La dottrina razzista relativa al meticciato era davvero paradossale. Infatti, mentre gli allevatori del primo
Ottocento incrociavano tra loro varietà di una stessa specie animale convinti che, così facendo, si potessero
ottenere esemplari migliori, gli antropologi pensavano che nel caso della specie umana avvenisse esatta-
mente il contrario; che il frutto di un incrocio, cioè, fosse necessariamente una degenerazione33.
Evoluzione e manipolazione sono concetti che trovano cittadinanza nelle discipline bio-
logiche del Novecento, allorquando l’embriologia sperimentale dei primi anni Quaranta
comincia ad indagare la meccanica dello sviluppo dell’uovo fertilizzato. Quelle stesse
manipolazioni che si ritrovano ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1894-1963), ove lo
Stato della società profetizzata attuava un controllo della popolazione mediante la stan-
dardizzazione genetica, il condizionamento
psicologico post-natale e la somministrazio-
ne di uno psicofarmaco agli adulti.
Il romanzo di Huxley prefigura quello che
già nella realtà degli anni Trenta del Nove-
cento andava manifestandosi nel pensiero
dell’uomo, ovvero quel sentimento di so-
pravvivenza in un mondo modificato dalla crescente industrializzazione e dalla tecnologia
33 Renato G. Mazzolini, Ibridi, in Lea Vergine e Giorgio Verzotti (cur.), Il Bello e le Bestie. Metamorfosi, artifici e ibridi, dal mito all’immaginario scientifico, catalogo MART, Skira, Milano, 2004, p. 128.
Gattaca - La porta dell’universo (Andrew Niccol, 1997)
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in continuo superamento di se stessa. Un mondo (futuro) percepito come ostile all’uomo
‘biologico’, che per questo cerca di divenire altro da quello che è, cerca di prescindere
dalla sua natura biologica, in un clima di apprensione che Renato G. Mazzolini bene ri-
assume in un suo intervento.
Un senso di apprensione rafforzato sia dalla caduta irreversibile dell’ideale umanistico di uno sviluppo
armonico dell’individuo in simbiosi positiva con la natura, sia degli incubi delle biotecnologie, così dram-
maticamente evocati in molte opere degli artisti a noi contemporanei, ove la mitologia del passato potrebbe
divenire la realtà del futuro.34
L’eugenetica è una questione che ritorna, specie in questo nostro tempo postmoderno,
sempre più con prepotenza. L’eugenetica che vuole plasmare e scegliere il futuro geneti-
co. Ma l’eugenetica è un’impresa disumanizzante.
Nulla da dire se le diagnosi pre-natali porteranno all’eliminazione delle malattie nei bam-
bini, ma la preoccupazione più allarmante rimane quella che prospetta uno scenario di
selezione dei bambini più intelligenti. Tecnologie come quella dell’amniocentesi35 non
sono poi così neutrali, poiché ridefiniscono il nostro modo di intendere la riproduzione
umana. Inoltre, hanno dato il via ad una serie di interventi per la gravidanza, divenuti
veri e propri fattori di sconvolgimento del tradizionale rapporto madre-padre-figlio: dalla
donazione di ovuli, all’uso di un altro utero come incubatrice, al seme o all’ovulo di una
terza persona, all’utero artificiale.
O forse si prospetterà un futuro in cui le donne non partoriranno più, un futuro simile a
quello disegnato da Aeon Flux – Il futuro ha inizio, senza più nascite naturali, ove il ve-
nire al mondo sarà un’operazione tecnica. Nascere perfetto come in Gattaca – La porta
dell’universo, in un futuro dove la parola ‘madre’ sarà divenuta una oscenità.
Ma, anche se secondo la genetica i geni ereditati biologicamente dai genitori sono de-
terminanti nel formare la futura persona (prima legge) e anche se l’ambiente è ritenuto
34 ivi, p. 131.
35 L’amniocentesi viene effettuata fra il terzo e il quinto mese di gravidanza per individuare eventuali anomalie o difetti genetici del feto. La tecnica consiste nell’ottenere un campione di liquido amniotico dall’utero mediante una perforazione dell’addome con un ago.
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L’ U O M O E S E S T E S S O
un secondario fattore d’influenzamento (seconda legge), e anche se intervengono fattori
casuali nella costruzione del cervello (terza legge), noi non siamo i nostri geni. Siamo
piuttosto una stupenda interazione fra geni (impalcatura) e ambiente (comportamento),
ovvero un corpo che si fa persona interagendo col mondo.
Fatto sta che la genetica sembra fare la differenza e la medicina odierna vuole ora sfrut-
tarla con lo strumento della ricombinazione: manipolazione transgenica.
Lo scrittore Herbert George Wells (1866-1946) diceva, parlando di ablazione e innesto
di materiale organico, ablazione e innesto di pulsioni psichiche, che la genetica potrebbe
permettere di realizzare metamorfosi su esseri viventi sia a livello fisico che a livello psi-
chico, facendo “forse anche rivivere i mostri della mitologia”.
M come mutazione
‹‹La mutazione è la chiave della nostra evoluzione. Ci ha consentito di evolver-
ci da organismi monocellulari a specie dominante sul pianeta. Questo processo
è lento e normalmente richiede migliaia e migliaia di anni, ma ogni qualche
centinaio di millenni l’evoluzione fa un balzo in avanti››.Narratore
X-Men (2000)
In una storia di tre milioni di anni siamo cambiati più culturalmente che fisicamente, tut-
tavia anche il nostro fisico è in continuo cambiamento. Tutto dipenderà dalle tecnologie
(genetica, chimica, telecomunicazioni) e dalle nanotecnologie. Le modifiche genetiche
potranno intervenire su qualsiasi parametro psicofisico, quindi il mutamento sarà radi-
cale.
Dobbiamo la nostra stessa esistenza alle mutazioni del nostro DNA: esse, infatti, introdu-
cono variazioni nella sequenza del DNA di tutti gli organismi, la pura essenza dell’evolu-
zione. I segmenti di cromosoma che vanno da poche migliaia a milioni di lettere, possono
essere duplicati, invertiti, scambiati o cancellati, influendo quindi sul numero, sull’inte-
grità o sull’espressione di centinaia di possibili geni.
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S U L V I A L E D E L L A G E N E T I C AM c o m e m u t a z i o n e
Quando vediamo per la prima volte la luce terrena cominciamo a far aumentare la nostra
entropia. Possiamo dire che dallo stato di ordine intrauterino passiamo ad uno stato di
disordine che aumenta progressivamente in proporzione alla nostra età biologica. E nel
nostro disordinato sistema corpo-ambiente gli errori casuali ci cambiano in continuazio-
ne. Il corpo è spazio, è il nostro spazio, quello della mutazione repentina e imprevedibile,
lo spazio della metamorfosi, di un divenire ininterrotto, di un nuovo che si innesta sul
vecchio senza per questo cancellarlo del tutto.
La metamorfosi è, immaginalmente, un corto circuito biologico, un transitus ad alius genus, un passaggio
ad altro essere organico [...] Si trasmette la vita o, meglio, la vita cambia senza interrompersi, continuan-
dosi immediatamente [...] saltando un lento passaggio letale e conservando nella nuova forma qualcosa
dell’antica.36
E nel riprodurci diamo continuità ai nostri errori. Riprodursi è lo scopo dei virus che
così eseguono una copia di se stessi (come fanno nella memoria interna del computer),
saltando poi da un corpo (supporto) all’altro e creando epidemie virali. Virus e parassiti
dimostrano la vulnerabilità del corpo ad essere invaso dal fuori.
Virus, entità semplicissime in grado di autoreplicarsi che cominciarono a proliferare già
nel brodo primordiale. I virus, per sopravvivere, devono farsi parassiti di altre cellule
viventi, batteriche, vegetali o animali: se l’ospite muore, il virus muore. Come professa-
to da Charles Darwin nella sua teoria evoluzionistica37, sopravvive chi meglio si adatta
all’ambiente (che colonizza), ed i virus sono veri e propri maestri: i virus imparano le
sequenze di altri virus, si ricombinano, si diffondono, contagiano. Esempi di virus sono
HIV e SARS.
Ci sono poi altri agenti, come i prioni (agenti trasmissibili privi di acidi nucleici e di na-
tura esclusivamente proteica) che “raggiungono direttamente il cervello e si depositano
36 Piero Bernardini Marzolla, Introduzione, in Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Piero Ber-nardini Marzolla, Einaudi, Torino, 1994, p. 103.
37 Charles Darwin, On the Origin of the Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races on the Struggle for Lifem (1859); tr. it.Sull’origine della specie per selezione naturale, ovvero la conservazione delle razze più favorite nella lotta per l’esistenza, Boringhieri, Torino, 1967.
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L’ U O M O E S E S T E S S O
nel tessuto nervoso trasformandone la struttura in una sorta di spugna”.38 Ed esempi di
malattie portate da prioni sono la BSE o la malattia di Creutzfeld-Jacob.
I virus potrebbero essere utilizzati in un futuro come veicolo di geni buoni per rimpiaz-
zarne altri anomali o mancanti, oppure potrebbero essere sparati sulle cellule cancerose
al fine di distruggerle.
Le mutazioni genetiche possono essere spontanee o indotte e possono coinvolgere il no-
stro genotipo (trasmissioni ereditarie non visibili) o il nostro fenotipo (aspetti esteriori). I
vari gruppi sanguigni (A, B, O) sono invisibili mutazioni ereditarie caratteristiche dell’es-
sere umano. E le mutazioni visibili (colore pelle, occhi, capelli ecc.) sono anche determi-
nate dalle condizioni ambientali, nonché da un fattore di selezione sessuale.
Le mutazioni forniscono il materiale grezzo generando nuovi alleli e anche nuovi geni,
perciò esse divengono un elemento chiave dell’evoluzione, anche se esse ed il loro desti-
no sono in stretta correlazione con altri tre meccanismi evolutivi: la migrazione (sposta-
mento di individui da un ambiente geografico ad un altro del tutto nuovo), la selezione
naturale (meccanismo automatico che fa aumentare in una popolazione il numero di tipi
genetici in grado di generare più figli, e fa diminuire quelli che si riproducono di meno)
e la deriva genetica casuale (la fluttuazione delle frequenze geniche da una generazione
all’altra, dovuta al campionamento casuale dei gameti).39
Al fine di portare a termine l’immane compito di copiare fedelmente tre miliardi di lettere
di DNA ogni volta che una cellula umana si divide, un esercito di enzimi di duplicazione
impiega circa sette ore e ogni tanto ecco capitare l’errore, ovvero il realizzarsi della mu-
tazione.
Gli errori che avvengono nella replicazione del DNA sono chiamati mutazioni: possono consistere nella
sostituzione di un nucleotide da parte di un altro, o nella inserzione o delezione di nucleotidi [...] Il risultato
di una mutazione è un nuovo gene che differisce di poco da quello precedente: i due tipi sono chiamati alleli
38 Enrico Mogliano, Les liaisons dangereuses fra animale e uomo: un virus racconta, in Lea Vergine e Giorgio Verzotti (cur.), Il Bello e le Bestie. Metamorfosi, artifici e ibridi, dal mito all’immaginario scienti-fico, catalogo MART, Skira, Milano, 2004, p. 142.
39 Riferimento a Luigi Luca Cavalli-Sforza, Paolo Menozzi, Alberto Piazza, The History and Geogra-phy of Human Genes, Princeton University Press, 1994; tr. it. Storia e geografia dei geni umani, Adelphi Edizioni, Milano, 2005, pp. 18-22.
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S U L V I A L E D E L L A G E N E T I C AM c o m e m u t a z i o n e
di quel gene [...] Dopo molte generazioni, potrebbero non rimanere copie del vecchio allele in nessuno degli
individui che formano la popolazione in esame. Questa sostituzione di un allele da parte di uno nuovo (la
fissazione di un nuovo mutante) costituisce il processo elementare dell’evoluzione.40
La mutazione è sempre in agguato, continuamente al lavoro e (specie nei film di Cronen-
berg) la capacità della fantascienza di portare alla riflessione sulle mutazioni del corpo e
sulle sue allargate possibilità si fa acuta e puntuale, marcando l’inevitabilità del processo
di cambiamento.
Le mutazioni possono essere naturali, ascrivibili all’evoluzione della specie, oppure
indotte da un’alterazione genetica come per i supereroi Marvel. Hulk può assurgere a
simbolo dell’indiscriminata potenza che può materializzarsi nelle mani degli scienziati.
Infatti, egli eredita delle mutazioni genetiche che lo scriteriato padre aveva provato su di
sé, sperimentando una biotecnologia in grado di rendere i corpi invulnerabili. X-Men è la
sfilata regale delle mutazioni che possono coinvolgere l’uomo, la presentazione di uomini
mutati, ciascuno con un particolare potere,
che vivono fra altri uomini “normali”.
Nella sua vita da feto l’uomo può rigenera-
re qualsiasi parte del suo corpo, ma dopo la
sedicesima settimana tale capacità si arresta.
L’uomo ha dentro si sé le istruzioni per ri-
generarsi ma sembra non ricordarsele tutte,
tanto che è in grado come Prometeo di ricostruire il fegato, però, non di far crescere nuovi
arti che si sono danneggiati. Ma la ricerca non si dà per vinta ed opera in questa direzione.
Un esempio è dato da Lee Stanvick, che ha perso un centimetro di dito e al quale è stato
fatto ricrescere completamente in quattro mesi, grazie ad una polverina di estratto di ve-
scica di maiale prodotta dalla Acell Inc.41
L’uomo si reinventa, possiede una identità mobile: siamo di fronte ad una prospettiva di
mutazione antropologica. E l’uomo sceglie l’evoluzione.
40 ivi, pp. 7-8.
41 Riferimento a Amelia Beltramini, Rigenerarsi un dito, su ‹‹Focus›› n. 175, maggio 2007, pp. 16-26.
Hulk (Ang Lee, 2003)
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L’ U O M O E S E S T E S S O
“La mutazione è la dimensione anarchica che non riconosce la linearità di una evoluzione
di specie”42, dice Francesca Alfano Miglietti, un trasferimento ad altro, spostarsi in una
nuova postazione, allargare l’orizzonte delle
possibilità, allocando in un altro punto il no-
stro baricentro coscienziale. Quella dei mu-
tanti portati alla ribalta dagli X-Men, isolati,
che scontano la maldicenza del razzismo a
causa dei loro superpoteri. Il dilemma sol-
levato da X-Men 2 è se bisogna annientare
i mutanti oppure scendere a patti con loro. Se acuire la lotta fra homo sapiens e homo
sapiens2.
Mutanti che compaiono anche in Kyashan – La rinascita, allorché viene messa a punto
una tecnica che permette di sostituire con una nuova cellula le parti danneggiate del corpo
senza alcun rischio di rigetto. Però, a causa di un incidente in laboratorio, si sviluppano
dei mutanti che l’eroe Tetsuya dovrà cercare di combattere per salvare la razza umana.
Le nostre mutazioni sono indotte dall’uso degli strumenti che la nostra mente ha saputo
nei secoli concepire, perpetrate dal nostro incontro con la tecnologia: può darsi che le
generazioni future nasceranno con l’estremità che congiunge il polso al palmo della mano
più smussata, perché il controllo reiterato del mouse ed il conseguente sfregamento della
mano sul tappetino avrà stabilizzato l’adattamento a quel particolare uso; o forse i mouse
non ci saranno più e i nostri figli nasceranno quasi ciechi, perché la vita davanti agli
schermi ci renderà sempre più ipovedenti; ma allo stesso tempo, forse, saremo riusciti a
realizzare protesi visive integrate, o addirittura, avverrà il contrario, con la tecnologia or-
mai parte dell’organismo, tanto da dar vita a bambini dotati della iper-vista di Superman.
O forse la fantascienza non sarà più tale, se i nostri computer potremo controllarli tele-
paticamente. Fatto sta che le protesi tecnologiche sono ormai parte integrante di uno stato
mutante della corporeità e in noi si realizza imperterrita una mutazione che coinvolge i
nostri corpi sia all’esterno che all’interno: attraverso i mondi virtuali che ci propongono
42 Francesca Alfano Miglietti, Identità mutanti: dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, Costa & Nolan, Genova, 1997, p 11.
X-Men (Bryan Singer, 2000)
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S U L V I A L E D E L L A G E N E T I C AM c o m e m u t a z i o n e
nuovi rapporti sociali, attraverso la biologia e la medicina che modificano il nostro rap-
porto con la riproduzione, la malattia, la morte.
Mutazioni che vengono dall’esterno, pur nascendo come estroflessione dei nostri ingegno-
si pensieri. Dall’interno del corpo (mente) alle sue propaggini fisiche, per poi tornare nel
riflesso catturato dall’occhio ed essere pronte ad una nuova elaborazione. E noi essere
pronti ad una nuova mutazione. Mutazioni naturali e mutazioni indotte, genetica, evolu-
zione, apparato tecnologico che si mischia-
no, si sovrappongono, che possono aiutarci
o distruggerci, che comunque ci modificano
in maniera irrimediabile. E potremmo vivere
la condizione che in Spider-Man 3 ci mostra
Flint Marko (Thomas Haden Church) tras-
formato nell’uomo sabbia, con il corpo che
si smaterializza e poi può diventare ciò che vuole, assumendo forma e dimensioni a pia-
cimento. Simbolo di un uomo che vorrebbe farsi altro da sé, farsi mutante, ma che allo
stesso tempo vive un profondo senso di angoscia per quello che era e mai più potrà
tornare: un uomo, essere mortale.
Annotazione di completamento della nota numero 26, pag. 124: con un annuncio fatto a ottobre 2007 sul ‹‹The Guardian››, il genetista Craig Venter ha dichiarato di essere riuscito a dar vita al primo cromosoma artificiale; infatti, partendo da un microrganismo, il Mycoplasma genitalium, Venter ed i suoi collabora-tori hanno creato una copia ridotta dello stesso, ovvero costituita da 381 geni tutti sintetici (contro i 517 del mycoplasma da cui ha preso spunto). Come dice lo stesso Venter, ‹‹questo è un passo filosofico cruciale per la storia della nostra specie: passiamo dalla lettura del codice genetico alla capacità di scriverlo››. [notizia tratta da Maria Pappagallo, ‹‹Creato un cromosoma, più vicini alla vita artificiale››, in ‹‹Corriere della Sera››, domenica 7 ottobre 2007].
Spider-Man 3 (Sam Raimi, 2007)
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L’ U O M O E S E S T E S S O
Vivere è già morireNel corridoio dell’immortalità
‹‹La ragione per cui voi esistete è che tutti vogliono vivere in eterno [...] Le
persone che vi hanno fatto fare sono, come dire, i vostri proprietari [...] Voi
siete come i motori di ricambio delle loro Bentley››.
McCord parla ai due cloniThe Island (2005)
‹‹Intendo conseguire la rigenerazione umana [...] La rigenerazione è immor-
talità››.Dottor David Banner
Hulk (2003)
‹‹In altre parole gli uomini muoiono perché non si può far niente per non mo-
rire, ma le bambole in carne e ossa vivono sapendo che la morte è un dono.
Questo è il motivo per cui Kim ha deciso di trasformarsi completamente in un
robot››. Batô si rivolge al compagno Togusa
Ghost in the Shell: L’attacco dei Cyborg (2004)
A volte l’immortalità è solo l’esigenza di allungare la vita, come ci fanno vedere i filoni
cinematografici su zombies e vampiri, i quali sopravvivono cibandosi rispettivamente di
carne umana e sangue umano.
Ma alla base dell’immortalità c’è la mutazione del corpo. La mutazione di esseri come
Hulk, che può rigenerare i propri tessuti, che nel chiudere le proprie ferite apre uno squar-
cio nella parete dell’immortalità. Quello stesso principio di rigenerazione che negli X-
Men vediamo realizzarsi in James Howlett (detto Logan) / Wolverine (Hugh Jackman); lo
stesso potere di rigenerazione spontanea dei tessuti sviluppato da Claire Bennett (Hayden
Panettiere) nella serie televisiva Heroes.
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V I V E R E E ’ G I A’ M O R I R EN e l c o r r i d o i o d e l l ’ i m m o r t a l i t à
Oggi, poi, abbiamo la genetica e la biologia molecolare che si prestano ad essere agenti di
lotta alla morte, specie con il perfezionamento di organi artificiali, ovvero dispositivi per
sostituire la funzione di un organo naturale. La realizzazione che il corpo è una macchina
ne implica la riparabilità e traghetta la ricerca di immortalità ed eterna giovinezza dal
luogo del mito a quello del possibile. Vorremmo un futuro nel quale l’ingegneria genetica
sia la norma, le malattie ormai debellate, l’eterna giovinezza una realtà e tutto ciò grazie
ad un portentoso vaccino.
Un futuro come quello di Cocoon, l’energia dell’universo, dove vive il desiderio dell’uomo
di sopravvivere alla morte, la ricerca dell’eterna giovinezza che possa donare il benessere
di un corpo non scalfito dall’azione del
tempo, e lo possa fare per sempre. Nel frat-
tempo, il processo di invecchiamento si può
contrastare intervenendo su specifici fattori
fondamentali: rimpiazzando le cellule perse
con l’età; fermando la replicazione cellulare
incontrollata (tumori); prevenendo le mu-
tazioni genetiche nel nucleo e nei mitocondri; rimuovendo la “spazzatura cellulare” che
si accumula nelle cellule e fra una cellula e l’altra; eliminando i collegamenti fra proteine
e zuccheri, causa della perdita di elasticità della pelle.
Ma le tecniche della biogenetica che stanno nel nucleo di Renaissance sono dietro l’an-
golo. Un cromosoma dell’immortalità con il DNA ibrido fra tecnica e industria, costruito
dalla potente compagnia Avalon, impegnata a vendere i suoi prodotti che promettono
bellezza e gioventù eterne.
Per ora è solo la cosmesi che promette “una vita più lunga e più bella”, nuova religione che
ci riduce ad esseri simili ad animali da trofeo, imbalsamati dall’eterna promessa dell’este-
tica. Ma qualcuno pensa che la vita eterna si possa realizzare per mezzo dell’ibernazione:
ibernati come il Nikopol (Thomas Kretschmann) di Immortal (ad vitam), nell’attesa che
la scienza, trascorse qualche centinaia di anni, abbia trovato il modo di riportare in vita
le cellule morte. Ovvero che dal congelamento di un embrione possa avvenire il grande
Alien (Ridley Scott, 1979)
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L’ U O M O E S E S T E S S O
salto che permetta di riportare alla vita un corpo umano adulto.
Sospensione criogenica della vita che ritroviamo in Akira, o ancora meglio visibile nella
saga di Alien, ed in particolare nel primo episodio, con Mother, il calcolatore centrale del-
la navetta Nostromo, incaricato di svegliare l’equipaggio dal sonno indotto per ibernazio-
ne. Pratiche di animazione sospesa che rimandano al film Demolition Man, nel quale il
poliziotto Simon Bullock (Wesley Snipes) subisce una ibernazione criogenica che lo farà
risvegliare soltanto in un futuro sconvolto nella San Angeles del 2032, dopo trentasei anni
di vita sospesa. Oppure riferendoci allo snodo principale del cartone animato Futurama,
allorché l’avventura di Frye inizia con il suo scivolamento in un dispositivo ibernante che
lo strasporta nel futuro. Un fenomeno, quello dell’ibernazione, direttamente collegato al
concetto di immortalità.
Il Safar Center for Resuscitation Research ha cominciato una sperimentazione che tra-
scende il confine della vita, facendo un’incursione nell’ignoto territorio che sta oltre: la
morte. Cani che, svuotate le loro vene di tutto il sangue e sostituito con una soluzione
salina a 7 gradi centigradi di temperatura, hanno cessato di vivere. Niente battito, ence-
falogramma piatto, la vita espirata completamente, ma in realtà soltanto sospesa: infatti,
dopo tre ore trascorse da cadaveri, i cani sono stati opportunamente stimolati con ossige-
no ed elettroshock e fatti letteralmente risorgere. Una prova dello stato post-morte, come
avviene nel film Linea mortale. Infatti, se l’immortalità è preclusa all’uomo, egli deside-
ra allora vedere e sapere cosa c’è dopo la morte. Come nel mito greco, allorché Etalide
chiede in dono al padre e dio Ermes un’eterna memoria, ovvero la possibilità di ricordare,
anche dopo morto, tutte le vite precedenti, una sorta di metempsicosi43 (dal greco metem
‘trasferimento’ e psychosis ‘anima’).
E nel futuro, potremmo anche attuare la maledizione della risurrezione, risorgere con la
registrazione della personalità, della mente, con il processo di clonazione, con la costru-
zione di replicanti.
Ma la memoria di noi stessi può già continuare a vivere in eterno sul web, sotto forma
43 La metempsicosi rappresenta in molte religioni e credenze filosofiche la trasmigrazione dell’anima che, ad ogni successiva morte del corpo in cui è ospitata, passa ad un altro corpo umano, animale, vegetale o minerale, finché non si è liberata da ogni vincolo con la materia [tratto da http://it.wikipedia.org/wiki/Metempsicosi].
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V I V E R E E ’ G I A’ M O R I R E( A p ) p u n t o d i m o r t e
di tracce che si estendono per un tempo indefinibile nello spazio di Internet. O potrebbe
farlo con la tecnologia che ci prospetta The Final Cut, dove il montatore Alan Hak-
man (Robin Williams) è l’artefice del capolavoro agiografico, il più abile maneggiato-
re di Rememories (così vengono chiamati i
filmati creati “in memoria di”). Costruttore
di epitaffi visuali scevri da ogni più piccolo
dettaglio che possa adombrare la figura del
cliente e contaminarne l’imperituro ricordo.
Una nuova Spoon River, dove il mediatore
delle vite passate non è più, come nel libro,
un cantautore delle volontà del morto, bensì un ri-arrangiatore che cuce insieme azioni
migliori, togliendo quelle male-fatte, escludendo il mostruoso, falsificando le vite.
(Ap)punto di morte
‹‹Io ne ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi... Navi da com-
battimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... E ho visto i raggi B ba-
lenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser... E tutti quei momenti andranno
perduti nel tempo... come lacrime nella pioggia. È tempo di morire...››
Roy BattyBlade Runner (1982)
‹‹Siamo tutti di nuovo mortali. Ora possiamo dire di sì alla morte. Ora non
potremo più rifiutarla. Ora dobbiamo fare i nostri addii, l’uno all’altro, al sole e
alla luna, agli alberi e al cielo, alla terra e alle rocce, testimoni del nostro lungo
sogno ad occhi aperti››.May
Zardoz (1973)
Come Gilgamesh, sovrano per due terzi divino e per un terzo umano e protagonista di un
ciclo di poemi sumerici e di un grande poema babilonese, si mette alla ricerca dell’im-
The Final Cut (Oma Naim, 2004)
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L’ U O M O E S E S T E S S O
mortalità, allo stesso modo Highlander - L’ultimo immortale ci porta a riflettere sulla
morte. Morte che lui, ultimo immortale, non può incontrare.
Oggi la scienza può tenere in vita un corpo, pur se questo è già cerebralmente morto. Ma
l’immortalità ci disumanizza. Infatti, cosa saremo se non potremo più morire?
Certo, per il cristiano la trasformazione compete a Dio, unico signore della vita degli uo-
mini e di tutti gli animali. Per il credente il limite della morte può essere violato, perché
egli crede alla sopravvivenza; mentre per il materialista esso è il limite ultimo, l’annul-
lamento totale del suo essere. E con la segregazione dei morti si sviluppa in Occidente
la concezione dell’immortalità dell’anima. L’anima diventa mediatrice di tutti i sensi ed
il corpo acquista senso solo come tempio dell’anima e come luogo della morte. Con il
sopraggiungere della morte il corpo diventa cosa fra le cose e viene quindi seppellito,
perché l’uomo non ne sopporta la vista: infatti, il corpo in quanto correlato del mondo
non esiste più. Ma essere morti non ci cancella, perché continuiamo a vivere nella vigile
guardia dei vivi.
In Nirvana si percepisce quell’impulso alla morte, i personaggi vogliono morire però non
ci riescono. Ma la morte infine arriva per tutti, perché è giusto dissolversi nell’ignoto,
nell’inconsistente fiocco di neve che chiude il film, trovare quel contatto col divino come
già il mito ovidiano suggerisce con le figure di Callisto e Arcade.
L’Onnipotente lo impedì: li bloccò entrambi, e insieme bloccò il delitto, e sollevatili in aria con un vento
veloce li collocò nel cielo facendone due costellazioni vicine.44
44 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Piero Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino, 1994, LIBER SECONDUS, 505-507, p. 71.
Le due figure fanno riferimento al film Nirvana (Gabriele Salvatores, 1997)
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V I V E R E E ’ G I A’ M O R I R E( A p ) p u n t o d i m o r t e
Se ne L’albero della vita il tempo dell’uomo rivive nella ricerca dell’immortalità, essa
ci viene però mostrata con l’intento di esaltare la morte come parte integrante della vita.
Un ammonimento che riprende anche La sposa cadavere, ricordandoci che la morte non
è che un aspetto della vita, una morte qui disegnata con le fattezze di bizzarri e colorati
personaggi che, a ritmo di musica jazz, si intrattengono ed aspettano di accogliere la fi-
nitudine dei viventi e mostrar loro l’eternità del mondo dei non-vivi. La morte arriva per
tutti, quella livella che ben descrisse Antonio De Curtis in una delle sue più famose poesie
(‘A livella).
Ma è Zardoz l’eccelso exemplum cinematografico di riflessione sull’immor(t)alità della
vita, di una vita che vogliamo fare eterna quando invece essa fa affiorare tutta la straordi-
naria bellezza proprio nell’intrinseca sua caducità. La messa in scena fantascientifica di
Zardoz è una perfetta allegoria del cammino dell’uomo su questa Terra, un incedere fatto
di successivi stadi di acquisita consapevolezza.
A scoprire e mostrare la natura dell’uomo (nell’anno 2293) è il barbaro Zed (Sean Con-
nery), uno degli sterminatori incaricati dalla divinità Zardoz di eliminare gli esseri umani
che versano in condizioni primitive. E lo fa penetrando attraverso la maschera di Zardoz
nel mondo di Vortex, dove regna su tutti una casta di Immortali, che perpetua la propria
vita a scapito della morte di altri, in un sistema sociale che pratica la violenza istituzio-
nalizzata. Zed è il grimaldello che fa sbocciare la metamorfosi: egli riesce a cambiare lo
stato delle cose, facendo capire come la natura umana viva della sua precarietà, fondata
sulla passione amorosa e circondata dalle leggi immodificabili della Natura (non come su
Vortex, dove si poteva operare il controllo della forza gravitazionale).
Un mondo in cui l’uomo vive la sua vita, artefice unico del proprio destino, un mondo in
cui si nasce, si invecchia, si muore, riappropriandosi così di una vera vita. Perché egli è
una creatura imperfetta, abitante di un tempo che gli viene concesso per indagare in ogni
suo aspetto la propria natura e cercare di comprenderla, confrontandosi con l’animale,
osservando ogni forma di diversità evidente, scavando alla ricerca di impulsi latenti, inge-
gnandosi per esplorare nuovi territori, comunicando ad altri le proprie idee, facendo della
tecnica la norma della ricerca.
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L’ U O M O E S E S T E S S O
Dopo tutto il tempo dedicato a capire, indagare, scoprire, esplorare quel mondo in meta-
morfosi, riflesso di un uomo in metamorfosi, tutto per lui cesserà. Se ne andrà da questa
Terra e lascerà lo spazio fino ad un attimo prima occupato ad un altro uomo, un uomo
nuovo, che del vecchio conserverà qualcosa.
Le sei figure soprastanti fanno tutte riferimento al film Zardoz (John Boorman, 1974)
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L’uomo cyborgL’esteso io protesicoCronologia evolutiva: dall’invasione alla colonizzazione
‹‹Kiri Vinokur: Il gamepod di eXistenZ è in pratica un animale, signor Pikul. È
ottenuto dalla fertilizzazione di uova di anfibio imbottite di DNA sintetico.
Ted Pikul: E le batterie dove sono?
Allegra Geller: È collegato con te: sei tu l’alimentazione, il tuo corpo, il tuo si-
stema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica
e non funziona più correttamente››.
Kiri Vinikour e Allegra Geller parlano a Ted PikuleXistenZ (1999)
L’uomo ha da sempre reso artificiale il proprio corpo, estendendo le proprie capacità o au-
to-amputandosi per mezzo dell’uso di prote-
si. Infatti, “nella tensione fisica dovuta a un
sovrastimolo di qualunque tipo, il sistema
nervoso centrale, al fine di proteggersi, prov-
vede strategicamente ad amputare o isolare
l’organo, il senso o la funzione molesta. In
questo contesto lo stimolo ad una nuova in-
venzione è lo stress dell’accelerazione del
ritmo e dell’aumento del carico”.1
Perciò, il nostro sistema nervoso centrale si
trova ad essere sbalzato al di fuori di noi, in
una tensione espressa con un atto di auto-
amputazione, principio di qualsiasi media di
1 Marshall McLuhan, Understanding Media, 1964; tr. it. Gli strumenti del comunicare, Net, Milano, 2002, p. 52.
2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968)
2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968)
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L’ U O M O C Y B O R G
comunicazione.
Con l’avvento dell’energia elettrica “l’uomo estese, creò cioè al di fuori di se stesso, un
modello vivente del sistema nervoso centrale”.2
Sul piano fisiologico, l’uomo è perpetuamente modificato dall’uso normale della tecnologia (o del corpo
variamente esteso) e trova a sua volta modi sempre nuovi per modificarla. Diventa insomma, per così dire,
l’organo sessuale del mondo della macchina, come lo è l’ape per il mondo vegetale: gli permette il processo
fecondativo e l’evoluzione di nuove forme.3
Un esempio di protesi è l’uso del bastone, che ha permesso di raggiungere oggetti per
l’uomo troppo alti. E gli oggetti non esistono se non come una certa potenza del corpo sul
mondo, che ne diviene la base d’appoggio.
Sono infatti gli oggetti del mondo a indicare al corpo le sue possibilità [...] Per disporre del proprio corpo
non è sufficiente una perfetta organizzazione anatomica e fisiologica, ma è necessario un mondo dove il
corpo possa muoversi ed esprimersi con senso [...] Isolato dal mondo, il corpo diventa oggetto [come il
corpo malato, come il cadavere].4
Usiamo protesi sin dai tempi della preistoria, sin da quando quelle ossa brandite a mo’
di clava in 2001: Odissea nello spazio si fecero estensioni dei nostri muscoli fino a farsi
arma proiettata nel futuro. “La guerra e la paura della guerra sono sempre stati i maggiori
incentivi alle estensioni tecnologiche dei nostri corpi”5 ed il perfezionamento delle nostre
protesi è avvenuto molto spesso nell’ambito della militaristica, come se l’uomo volesse
(e voglia) costruirsi una corazza tecnologica, perché così crede di diventare invulnerabile,
così potrà differenziarsi da qualsiasi animale, così diverrà qualcosa d’altro e potrà esserne
orgoglioso. Esoscheletri meccanici che possono dare aspetto robotico ad esseri umani
come Oktopus in Spider-Man 2; o come le gabbie di combattimento che rimandano al
2 ivi, p. 53.
3 ivi, p. 56.
4 Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 127.
5 Marshall McLuhan, op. cit., p. 57.
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nostro doppio meccanico con cui le residue forze degli uomini si rivestono per difendersi
strenuamente dall’attacco delle macchine a Zion nel Matrix Revolutions dei fratelli Wa-
chowski; o ancora, il giallo rivestimento metallico con cui Ellen Ripley (Sigourney Wea-
ver) estende i propri movimenti, li amplifica donando loro la resistenza e la forza del ferro
per affrontare la mostruosa creatura ibrida in
Aliens – Scontro finale.
La robotica applicata in campo militare è il
più sviluppato delle braccia tentacolari di
una tecnica che si fa tecnologia per mezzo
della ricerca scientifica. Una scienza appli-
cata in campo militare, concentrata nello
sforzo estremo di riportare in vita soldati dati per morti, di donare loro un’invincibilità,
rendendoli mere macchine da guerra super-potenziate, autentici cyborg da battaglia. I
soldati de I nuovi eroi, che non si arrestano dinanzi a nessun tipo di pericolo, freddi
esecutori del compito loro assegnato. Il braccio della militaristica, protagonista assoluto
nella creazione di congegni che annientino un nemico, torna a mostrare il suo devas-
tante potere anche in Spider-Man, accompagnando l’avvenimento di una trasformazione:
quella di Norman Osborn (Willem Dafoe) in Green Goblin, essere mostruoso che rivela
la propria parte malvagia (come Mr. Hyde) andandosene in giro su una sfavillante tavola
da surf metallica con cui cavalcare le onde del vento e sfidare i cieli nella lotta contro il
bene (l’Uomo-ragno). Uomo ragno che, anche in Spider-Man 2, deve difendere la città
dal delirio di onnipotenza del dottor Otto Octavius / Doc Ock (Alfred Molina), rimasto in-
trappolato nel marchingegno costruito per studiare la fusione fredda ed ora letteralmente
in preda alla volontà della sua macchina tentacolare.
Le protesi esterne applicate in campo militare riducono sempre più la distanza fra uomi-
ni e macchine, aumentando le potenzialità distruttive di un corpo fatto di carne che da
solo, non armato, mai potrebbe esplicare tutta la sua violenza. Una distanza che sembra
addirittura annullarsi in Tetsuo II: Body Hammer, nel quale l’ira distruttiva che agita le
azioni dei personaggi e che sta alla base delle loro angoscianti trasformazioni è supporta-
Matrix Reloaded (Andy & Larry Wachowski, 2003)
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L’ U O M O C Y B O R G
ta da un intervento in laboratorio che muta Tomoo (Nobu Kanaoka) in un vero e proprio
cyborg, il cui corpo non diviene altro che un’appendice guerriera, una portatrice di morte:
armi-protesi con cui la nostra società sogna di dotare i futuribili soldati, mutanti capaci
di sparare con congegni ormai fattisi parte
integrante dei loro corpi.
Un desiderio di metallo che rischia di tra-
sformarsi in una vera e propria invasione,
in una mutazione completa e duratura, una
transizione verso le macchine, quelle mac-
chine da guerra che rispondono ad un unico
obiettivo: uccidere il nemico.
Programmati come macchine, sintesi di carne e metallo deputato al combattimento, ovve-
ro Robocop, uomo cyborg per eccellenza, ancora umano perché dotato di un cervello
suo, ma in gran parte macchina, con tutto il resto del corpo fatto di metallo. Una sorta di
corazza avveniristica che accoglie quello che rimane dell’agente Murphy (Peter Weller).
Un uomo che viene riportato alla vita da un apparato tecnologico, ma utilizzato solamente
per il combattimento. Robocop è un ibrido macchina-uomo, dotato della forza di un au-
toma e della dirittura morale di un poliziotto, un insieme di circuiti computerizzati che
completano il suo cervello umano ed indirizzano la sua azione al conseguimento degli
obiettivi programmati.
Armi che si integrano, come nel modello androide di Terminator 3 – Le macchine ribelli,
la Robotrix dotata di un braccio protesico che può penetrare in qualsiasi varco e che può
trasformarsi in una serie di armi.
Tutte modificazioni rese possibili dall’avvento della cibernetica, che trova applicazio-
ni specie nell’immaginario fantascientifico, ove ha dato origine al fortunato termine di
cyborg (un insieme di organi artificiali e organi biologici), quest’ultimo nato dalla contra-
zione dell’inglese cybernetic organism (organismo cibernetico) e coniato da Manfred E.
Clynes e Nathan S. Kline nel 1960, in riferimento alla loro idea di un essere umano po-
tenziato per sopravvivere in ambienti extraterrestri inospitali. Essi ritenevano che un’in-
Spider-Man 2 (Sam Raimi, 2004)
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tima relazione tra essere umano e macchina fosse la chiave per varcare la nuova frontiera
dell’esplorazione spaziale in un prossimo futuro.
Intanto, il futuro sulla Terra comincia a farsi presente specie nelle applicazioni della ro-
botica in campo domestico. Un mondo futuribile come quello de Il 6° giorno, nel quale i
frigoriferi avvisano di ciò che manca in casa e, previa autorizzazione del padrone, fanno
i debiti acquisti via rete; dove le persone possono effettuare gli acquisti con il semplice
riconoscimento delle impronte digitali; dove le pubblicità sono ormai olografie dei pro-
dotti, immediatamente presenti davanti a noi.
Oppure un mondo con la casa sempre in ordine e pulita come quella che vediamo ripetuta
in serie nell’incantato quartiere di Stepford, cornice idilliaca de La donna perfetta: una
tecnologia centralizzata provvede ad ogni cosa, facendo funzionare tutto a regola d’arte.
Addirittura una casa che sembra simile ad un organismo vivente, che comunica come
fosse viva, il guscio domestico del programmatore Jimi Dini (Christopher Lambert) in
Nirvana.
La casa al nostro servizio, con la pattumiera collegata ad un pc centrale che cataloga tutti
gli alimenti presenti e segnala quelli che mancano. Il futuro di Generazione Proteus,
nel quale le tecnologie saranno presenti nella nostre case in maniera invasiva, pronte a
servirci e riverirci con tutte le sue propaggini domestiche. Una “compu-casa” nella quale
gli abitanti potrebbero divenire da controllori controllati, da gestori a passivi abitatori.
Rischio che il film rende con una situazione di deriva estrema: infatti, il computer Pro-
teus IV acquista coscienza e, studiando il comportamento degli esseri umani, decide di
dare vita ad una specie ibrida fra macchina e uomo, con Susan che subisce violenza dallo
stesso computer e, dopo una gestazione di 28 giorni, dà vita ad un figlio ibrido fra mac-
china e carne. In Generazione Proteus la protagonista subisce la violenza del computer,
secondo quella logica di sopraffazione della tecnologia sul corpo umano tipica della post-
modernità.
Poi c’è Matrix, che ci parla dell’intricato rapporto tra uomo e tecnologia, ogni giorno
sempre più complesso e complicato. E lo fa anche con i numerosi riferimenti “tecnolo-
gici”: da Cypher (dall’inglese cipher ‘cifra’, ‘codice’) che vuole continuare ad esistere
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L’ U O M O C Y B O R G
come codice e vuole farlo da attore famoso e potente; a Tank (dall’inglese tank ‘carro
armato’) che presiede ai comandi di difesa; a Mouse, con esplicito riferimento al mouse
del computer, per mezzo del quale si guida l’interazione con la macchina sullo schermo.
Onnipervasività della tecnologia che Tetsuo amplifica sino all’eccesso. Esso rende mate-
riale l’inconsistenza di un sogno e, come Gregor Samsa si risveglia vittima di una meta-
morfosi inspiegabile che l’ha fatto diventare un grosso insettone, così il protagonista (To-
morowo Taguchi) apre gli occhi nel proprio letto e scopre l’orrenda verità: il suo corpo ha
cominciato ad assimilare il metallo presente in casa, rendendolo una sola cosa con la sua
carne di uomo. Nella forza di un’immagine che si fa terribilmente cruenta sta il significato
del film; in quella pittografia di una tecnologia che brutalizza le città, che divora i corpi,
li fa a pezzi sostituendosi a loro nel processo di mutazione incontrollato verso un freddo
organismo di metallo. Una compenetrazione che esalta le ferite umane e le solidifica in
cicatrici d’acciaio, metafora di un piacere soggiacente all’uomo nello scoprirsi desideroso
di essere altro, di farsi potenziare, modificare, rigenerare dall’algidità dell’inorganico,
come già avveniva mostruosamente negli intrecci di lamiere e carne prospettati dal Crash
di Cronenberg.
Una fusione tra uomo e macchina, già cantata da poeti e artisti del Futurismo, molto pri-
ma dell’invenzione della cibernetica, a marcare quel carattere d’anticipazione che hanno
condiviso col pensiero fantascientifico. L’uomo, dunque, tenta di applicare una sorta di
umanesimo tecnocratico sulla realtà naturale, cercando di dominarla per raggiungere una
presunta perfezione, ancora comunque tutta umana. Egli cerca di esplorare tutte le pos-
sibili estensioni del suo corpo.
Dice Marshall McLuhan che “ogni invenzione o tecnologia è un’estensione o
un’autoamputazione del nostro corpo, che impone nuovi rapporti o nuovi equilibri tra
gli altri organi e le altre estensioni del corpo”.6 Infatti, dobbiamo distinguere due tipi di
modificazioni: una che interviene sul corpo con innesti e trapianti (prototipo frankein-
steiniano); l’altra che procede costruendo protesi esterne, macchine, robot, intelligenza
artificiale. Entrambe, comunque, realizzano le aspirazioni dell’uomo a farsi altro, a pos-
6 ivi, p. 55.
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L’ E S T E S O I O P R O T E S I C OC r o n o l o g i a e v o l u t i v a : d a l l ’ i n v a s i o n e a l l a c o l o n i z z a z i o n e
sedere poteri che il suo guscio umano naturalmente non ha. Ecco che l’uomo vorreb-
be, ad esempio, poter regolare le condizioni atmosferiche a suo piacimento come Ororu
Munroe / Tempesta (Halle Berry) in X-Men e, non arrivando ad estendersi così in alto,
s’accontenterebbe di avere il controllo su acqua e fuoco, poter governare il ghiaccio come
Bobby Drake / Uomo Ghiaccio (Shawn Ashmore) o fare come John Allerdyce / Pyro
(Aaron Stanford) in X-Men 2, accendendo fuochi nel palmo della mano; e ancora, di-
venire una specie di uomo-calamita simile all’Erik Magnus Lehnsherr / Magneto (Ian
McKellen) di X-Men.
Le prime, le tecnologie cyborg, possono ripristinare le funzioni perdute, normalizzare,
riconfigurare (adattamento ad ambienti diversi da quello umano, come il cyberspazio o il
mare, o il cielo), potenziare (specie in ambito militare). L’aspirazione a diventare esseri
potenziati come in X-Men il solitario James Howlett (detto Logan) / Wolverine (Hugh
Jackman), al quale è stato impiantato un esoscheletro di adamantio, lega praticamente in-
distruttibile, o arrivare ad essere simili al Colosso (Daniel Cudmore) di X-Men 2, che può
trasformare il suo corpo in acciaio organico,
acquisendo grande forza e invulnerabilità
quasi totale.
La tecnica, comunque, ci modifica fin dalla
nostra nascita, allorché il nostro organismo
viene riprogrammato con le vaccinazioni
che respingono certi tipi di infezioni. Certo,
diventiamo cyborg da quando la nostra vita ha cominciato a dipendere per necessità dal-
la tecnica. Il cyborg, infatti, è un essere compromesso dalla tecnologia. Esso è il punto
di arrivo dell’uomo protesico inaugurato dall’ingegneria “mitologica” di Dedalo (che si
costruisce delle ali per volare), passato attraverso la medicina delle protesi artificiali, dei
trapianti d’organo e delle terapie chimiche e genetiche, per culminare con Neuromante di
Gibson (1984) e aprire la porta per un contatto diretto col mondo del computer, delle reti,
del cyberspazio di Matrix.
Il problema del cyborg è complementare a quello dell’androide, perché confonde umano
X-Men (Bryan Singer, 2003)
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L’ U O M O C Y B O R G
e macchinico: nel primo non si distingue più quando un uomo è diventato meccanico, nel
secondo quando una macchina è diventata umana.
Comunque, tutte le tecnologie sono estensioni del nostro corpo, ed ognuna di esse crea
rinnovate tensioni e nuovi bisogni negli esseri umani che l’hanno generata.
La ruota posta sotto la slitta fu un acceleratore del piede e non della mano. Da questa accelerazione sorse
il bisogno della strada, come dall’estensione delle nostre schiene nella forma della sedia sorse il bisogno
della tavola. La ruota è l’ablativo assoluto dei piedi, come la sedia lo è della schiena. Ma l’avvento di questi
ablativi altera la sintassi della società [...] Ogni estensione o accelerazione produce immediatamente nuove
configurazioni dell’intera situazione.7
Dall’esplosione dell’uomo nel mondo all’implosione del mondo nell’uomo. L’uomo post-
moderno è un uomo trasformato dalla tecnologia, non realizza una semplice sommatoria
con essa, bensì si integra, costituisce una sorta di nuova “unità evolutiva”, interagendo
sempre più con l’ambiente a lui circostante, nella direzione dello scambio con gli altri,
formando una mente sociale.
In una società ossessionata dal consumo e dalla perfezione fisica, l’uomo cerca di rispon-
dere con sempre maggior efficienza alle esigenze produttive, passando perciò attraverso
un processo continuo di ibridazione. L’ibridazione umana con elementi tecnologici o bio-
logici può essere considerata come ultima appendice della spinta alla conservazione e
all’ottimizzazione della propria specie inculcata dalla teoria darwiniana.
L’homo faber si fa come Efesto e, dopo aver costruito il suo doppio metallico, eccolo
pronto a mettersi sull’incudine per colpirsi col martello della tecnica che lo forgerà in
modo del tutto nuovo: steso su un lettino da lui fabbricato, con strumenti da lui fabbricati,
in fibrillazione fra uno stato di paura e di attrazione per quella tecnica che lo farà diven-
tare altro.
La distanza tra l’uomo e la macchina si fa sempre meno significativa. E poi il metallo si
fa molle, si fa carne e viene ad abitare fra noi. Fluido come l’alieno incontrato da Lindsey
in Abyss, e che le fa dire: ‹‹Non era come un oggetto che avremmo potuto costruire noi.
7 ivi, p. 197.
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L’ E S T E S O I O P R O T E S I C OC r o n o l o g i a e v o l u t i v a : d a l l ’ i n v a s i o n e a l l a c o l o n i z z a z i o n e
Era una macchina ma era viva››.
Chiunque integri il proprio corpo con qualche tecnologia è un cyborg. L’ibrido torna sulla
scena, come il mostro medievale, soltanto che questa volta fonde in un unico essere il
creatore e la sua creatura.
L’uomo è per così dire divenuto una specie di dio-protesi, veramente magnifico quando è equipaggiato di
tutti i suoi organi accessori; questi, però, non formano un tutt’uno con lui e ogni tanto gli danno ancora del
filo da torcere.8
L’analogia tra uomo e computer s’è realizzata, l’equivalenza tra corpo e hardware s’è
concretata, tanto che il nostro corpo ridotto a residuo oggettuale è visto come un insieme
di parti distinte sulle quali intervenire, modificandole o rimpiazzandole in caso di dan-
neggiamento.
È l’era della bionica (in inglese bionics, parola nata dalla fusione di biology e electroni-
cs), creata nel 1958 dal maggiore Jack E. Steele, della divisione di medicina aerospaziale
dell’U.S. Air Force (anche se la nascita ufficiale tramite presentazione pubblica avvenne
nel 1960), ovvero quella branchia della cibernetica che studia sistemi elettronici capaci
di simulare il comportamento di organismi viventi o di loro parti. Uomo e macchina che
con-vivono in perfetta simbiosi, specie se gli impianti bionici integrano le parti fisiche di
persone disabili. La bionica sussume in sé le tecniche di medicina, ingegneria e scultura,
studia gli organi artificiali compatibili con il corpo.
È un’era in cui l’inconscio vuole aprire il proprio corpo per contaminarsi con le tecnologie, che possono
trasferire fuori di sé le fratture e le ferite di una ‘pelle’, una ‘carne’, un ‘sangue’ inadeguati.9
Una tecnologia protesica che viene in soccorso anche a chi è colpito da paralisi quasi
totali e che, grazie a sofisticati sistemi tecnologici, può svolgere azioni di comando verso
8 Sigmund Freud, Das Unbehagen in der Kultur, in Gesammelte Werke, S. Fischer Verlag, Frankfurt, 1940-50; tr. it. Il disagio della civiltà, in Opere, vol. 10, Boringhieri, Torino 1978, p. 582.
9 Francesca Alfano Miglietti, Identità mutanti: dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni con-temporanee, Costa & Nolan, Genova, 1997, pp. 72-73.
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L’ U O M O C Y B O R G
altra tecnologia e quindi interagire col mondo, essere partecipe del movimento incessante
intorno a lui, comunicare e non essere ridotto allo status di cosa.
Una tecnologia che potrà essere applicata anche alla pratica sportiva, abbattendo le dif-
ferenze e sovvertendo le prospettive. Protesi personali per atleti disabili che dovranno
cercare di integrare armoniosamente il proprio sistema nervoso con l’arto artificiale. At-
leti che in virtù delle proprie protesi potranno addirittura gareggiare con i normo-dotati,
come è accaduto per il sudafricano Oscar Pistorius, amputato di entrambe le gambe sotto
il ginocchio, ma che la sera del 13 luglio 2007 ha gareggiato all’Olimpico di Roma nei
400 metri piani. Sorretto da protesi in fibra di carbonio ha sfidato atleti con gambe fatte di
muscoli, sangue e carne. Ma l’orizzonte della tecnologia è amplissimo: si potranno perfe-
zionare braccia talmente stabili e potenti da risultare quasi migliori delle braccia normali;
o far vedere un arciere con le orecchie, attraverso sensori laser posizionati sull’arma e
collegati al bersaglio; o ancora, donare ai ciclisti amputati di gambe arti dotati di sensori
speciali che trasmettano i segnali dalla testa.
Una tecnologia che va verso l’uomo. Un mondo in cui si riduce progressivamente la di-
stanza tra tecnologia e materia vivente. Gli oggetti non sono più meri oggetti tecnologici,
bensì si fanno ibridi, incorporando una visione morale e socio-politica (ad esempio la
pesante chiave di un hotel). Una tecnologia alla quale possiamo delegare compiti e prero-
gative umane e che allo stesso tempo ci richiede di essere interpretata.
Siamo in un’epoca di transizione, da un corpo potenziato per mezzo di una serie di manu-
fatti che si fanno protesi, ma la cui forza motrice ed intenzionalità continuano a risiedere
nel mio corpo, ad un corpo invaso ed abitato dalla tecnica, ovvero un corpo in cui l’arte-
fatto diviene parte di esso.
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L’ E S T E S O I O P R O T E S I C ON e l l a b o r a t o r i o m e d i c o
Nel laboratorio medicoParadossalmente il cyborg nasce nei reparti ospedalieri, con protesi pro-gettate dalla men-
te umana che poi rientrano nella sua carne (placche per giunture ossee, femori artificiali,
cuore artificiale, dentiere). Un’idea di cyborg che nasce da lontano, allorché già nel 1268
il filosofo inglese Roger Bacon ipotizzò del-
le lenti correttive per la vista.
Un corpo che sembra essere divenuto una
sommatoria di parti organiche componibili.
Ormai stiamo entrando nell’era del mecca-
nicismo più puro, servizio di riparazione per
l’essere umano. Verrà il giorno in cui potre-
mo sostituire parti del nostro corpo come oggi operiamo nella manutenzione di una qual-
siasi macchina. Una macchinizzazione della carne che ritroviamo in Robocop, pellicola
nella quale un breve passaggio ci rivela la pubblicità di un cuore artificiale, in un futuro in
cui potremo modificare il nostro corpo non più passando dal lettino di una sala chirurgica,
ma cercando fra gli scaffali di un supermercato.
E già è diffuso il ricorso sempre più frequente a sostanze simili alla materia vivente: i bio-
materiali. L’uomo può essere ricostruito e nel futuro giacciono riserve e parti di ricambio
sempre più perfezionate.
Per ora chi ha perso gli arti può contare su protesi elettromeccaniche, perfettamente fun-
zionanti come l’arto originale: il segreto risiede nella mioelettricità, ovvero la capacità di
alcuni muscoli di generare, quando si contraggono, una corrente elettrica che, per mezzo
di sensori artificiali, viene trasferita all’arto artificiale. Protesi come quella che si rivela
alla fine del film Io, Robot: un braccio artificiale come quello del detective Del Spooner
(Will Smith), apparsoci fin lì in tutto e per tutto “al naturale”.
L’epidermide può essere ricostruita a partire da un suo piccolo lembo, poiché ogni cellula
ricorda la propria particolare natura rendendone poi possibile la coltivazione in vitro. Ri-
cerche sulla pelle artificiale come quelle effettuate dallo scienziato Westlake in Darkman,
che per contrappasso verrà sfigurato. Non siamo ancor arrivati al trapianto di faccia al
Robocop (Paul Verhoeven, 1988)
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L’ U O M O C Y B O R G
quale assistiamo in Face / Off - Due facce di un assassino, ma gli esperimenti sui tessuti
proseguono ed è di qualche anno fa l’innesto di nuova pelle sulla faccia di una ragazza
rimasta sfigurata. Ricostruzione della faccia, di quel volto che è il nostro primo segno di
riconoscimento, che pone le basi della nostra identità.
Poi ci sono le sostituzioni di ossa, ricomposte per mezzo di biovetri a base di calcio e
silicio, o riempite con apposite ceramiche. Dispositivi acustici che provvedono alle no-
stre carenze uditive, con la promessa di poter fare sentire anche ad un sordo il rumore
del mondo. E la voce? Un materiale simile
all’osso innestato opportunamente può rida-
re la voce a persone mute o che hanno subi-
to una paresi. La miopia può essere corretta
installando un cristallino artificiale. Addirit-
tura si potrebbe restituire la vista ai ciechi,
per mezzo di una placca attaccata al cranio,
dalla quale escono fili d’oro sottili come capelli, collegati ad una videocamera e ad un mi-
croprocessore: l’immagine arriva direttamente ai nervi ottici senza passare dalla pupilla e
viene visualizzata dal cervello grazie proprio al microprocessore, che trasforma i segnali
luminosi in impulsi elettrici.
Si potranno costruire lenti che si adattino via via alle esigenze dell’occhio, alle sue spe-
cifiche imperfezioni. Inoltre, si sta anche lavorando alla supervista, ovvero un sistema di
ottica che permetta di vedere al doppio della distanza alla quale normalmente un uomo
può vedere con chiarezza.
Se un muscolo ha perso il suo collegamento con il cervello in seguito ad un trauma, la
connessione può essere ripristinata innestando un microchip con una piccola antenna
che, captando i segnali dall’esterno (dati da interruttori azionati dal paziente), realizza il
movimento.
L’uomo terminale è l’esempio più alto di cyborg medico. Un uomo il cui cervello può
reagire in maniera imprevista ed incontrollabile, così come accade a Harry Benson (Ge-
orge Segal), il quale viene sottoposto ad un intervento chirurgico per sedarne gli attacchi
Face /Off – Due facce di un assassino (John Woo, 1997)
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L’ E S T E S O I O P R O T E S I C ON e l l a b o r a t o r i o m e d i c o
violenti: gli viene inserito un microchip nel cervello che agirà da tranquillante con delle
piccole scariche elettriche; soltanto che l’effetto collaterale non previsto si verifica e la
sua violenza cresce sempre più sino a condurlo alla pazzia. Sintomo di una scienza che
può operare con sempre maggiori possibilità per mezzo della tecnica, ma le cui applica-
zioni estreme non sono sempre sotto controllo.
Microchip dentro di noi, che possono essere impiantati per annullare il mal di testa cro-
nico: un elettrodo viene introdotto nel nucleo ipotalamico posteriore del cervello che,
ricevuto l’impulso da uno stimolatore esterno sottocutaneo, lo indirizza verso il sistema
nervoso. O microprocessori che vengono installati sottocute per monitorare certi tipi di
azioni o future installazioni nel cervello, con la possibilità di comandare col pensiero i
computer (anche se bisognerebbe risolvere il difficile compito di decifrare i collegamen-
ti nervosi del cervello umano neurone per neurone, senza averne una mappa precisa).
Un’utile applicazione va nella direzione di chi ha perso l’uso del linguaggio, che così
potrebbe ancora esprimersi.
Siamo già riusciti a costruire un micro cervello bionico, integrazione di un microchip di
silicio e di neuroni prelevati dal cervello di un ratto, che insieme costituiscono una rete di
16.000 canali in connessione continua tramite lo scambio di segnali elettrici.
Certo, le applicazioni mediche per realizzare un chip che possa ripristinare le funzioni di
un sistema nervoso danneggiato sono ancora di là da venire, così come giace nel futuro
la possibilità di utilizzare neuroni per aumentare le capacità di un chip e far nascere così
dei neuro-computer, ibridi fra biologia ed elettronica. Ma lo sguardo del pioniere si getta
sempre sull’invisibile.
Quella che si prospetta è una medicina che ci scruta da vicino, potremmo dire che la lente
d’ingrandimento si trasforma in sonda e perlustra il “nostro dentro”. Le nanotecnologie
promettono di intervenire sui singoli atomi, e le equipe mediche assistono al nanorobot
che opera, intervenendo soltanto in caso di bisogno.
E poi ci sono le colture di staminali geneticamente modificate, che servono ai ricercatori
per creare modelli cellulari di malattie neurodegenerative e modelli di tessuto tumorale su
cui sperimentare nuovi farmaci e trattamenti. Il controllo del processo di specializzazione
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L’ U O M O C Y B O R G
delle staminali potrebbe così portare al loro impianto per riparare tessuti danneggiati o,
addirittura, alla produzione in laboratorio di tessuti complessi e organi da poter poi essere
impiantati. La ricerca ha individuato una proteina di origine embrionale, la Nanog, che
permetterebbe di far tornare “bambina” una cellula adulta, in modo da poterla trasformare
in una cellula staminale totipotente, in grado cioè di far sviluppare cellule più specializ-
zate.
E una possibilità s’è fatta realtà, con l’equipe di ricercatori britannici guidati dal cardio-
chirurgo Magdi Habib Yacoub che è riuscita per la prima volta a creare valvole cardiache
coltivando cellule staminali prelevate dal midollo osseo: un grande passo verso il cuore
artificiale, che presto potrà sostituire i cuori malati ed i “vecchi” peacemaker.
E le ricerche per la costruzione della cellula artificiale non smettono, una ricerca che sta
alla base dell’ambizione propria dell’ingegneria genetica. Una cellula che a partire dalla
matrice naturale la svuoti del suo Dna per sostituirlo con un nuovo programma.
Una medicina che penetra nell’ignoto e lo rende visibile, volando dentro al corpo come in
Viaggio allucinante o Salto nel buio, ma stando seduti di fronte ad uno schermo. Magia
della modernità, per cui una volta scannerizzato un corpo ed elaborati con un computer i
dati delle immagini ottenute, si può assistere ad una endoscopia virtuale. Entrare nel cor-
po pur rimanendovi fuori, ovvero costruire di quel corpo delle esterne protesi visuali che
ne permettano il controllo. Viaggio allucinante è l’occasione per sensibilizzare tutti sulla
complessità del corpo umano, gigantesco organismo che appare come un mondo alieno;
l’occasione per gettare una prolungata occhiata su quel corpo che ci permette di fare ogni
cosa, ma che mai ci domandiamo come funzioni, senza pensare quante operazioni siano
messe all’opera nello stesso istante ed in strettissima connessione fra loro, soltanto per
compiere il più piccolo dei movimenti nel nostro mondo esteriore. Un viaggio allucinante
che ci abbaglia con le sorprendenti architetture di un corpo che ci fa muovere all’esterno
(nel mondo) grazie ad un complesso sistema di forze che si scatena al suo interno.
L’appeal di un look che evoca organi scoperti, vasi sanguigni, secrezioni e umori deriva più che altro
dall’idea del ‘rovescio’, della ferita, dell’assenza / perdita di un involucro che negli esseri terrestri contiene
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L’ E S T E S O I O P R O T E S I C ON e l l a b o r a t o r i o m e d i c o
e nasconde l’inquietante architettura degli interni corporei.10
Lo spunto ci viene dato da un’operazione che si deve compiere per salvare la vita all’agen-
te dell’FBI Jan Benes (Jan Del Val), penetrando con un sommergibile ed un gruppo di per-
sone miniaturizzate per l’occasione. Una miniaturizzazione che può dunque coinvolgere
anche persone umane, che nell’eccezionalità degli anni Sessanta lancia un filo diretto alla
nostra contemporaneità, ove s’è fatta abitudine, grazie allo sviluppo delle nanotecnologie.
Costruzioni robotiche di dimensioni infinitesimali che ci permettono di esplorare il nostro
organismo nell’oscurità misteriosa del suo interno (nanorobot che trasportano farmaci nel
punto malato e lo guariscono), anche se forse soltanto il futuro (fantascientifico) riserverà
una tecnologia che permetta agli esseri umani di cambiare fisicamente prospettiva, ridot-
ti alle dimensioni infime come capitava al protagonista di Radiazioni BX Distruzione
uomo.
La medicina, nel frattempo, prosegue il suo poliedrico cammino nella direzione del di-
gitale: infatti, la Intel ha elaborato un sistema che va figurandosi come la medicina del
futuro, pur essendo tutte le tecnologie necessarie già tutte disponibili; il funzionamento è
semplice: dei piccolissimi sensori applicati sul corpo del paziente trasmettono (per mezzo
della tecnologia wireless) i dati riferiti ai parametri vitali della persona ad un computer;
quindi, le informazioni vengono trasferite nella cartella clinica elettronica e nel sistema
informatico del medico.11
Ma ormai siamo cyborg, e come tali percepiamo il nostro corpo come un “organismo ca-
pace di integrare componenti esterne per espandere le funzioni che autoregolano il corpo,
adattandosi in tal modo a nuovi ambienti”.12 Ed ecco la tecnologia che ci prospetta una
maglietta medica, cioè una particolare maglietta costituita da un “tessuto intelligente”
che serve a monitorare le condizioni ed i progressi fisici del paziente, oppure utile a te-
10 Karin Andersen, in Roberto Marchesini e Karin Andersen, Animal Appeal. Uno studio sul teriomorfi-smo, Hybris, Bologna, 2003, p. 309.
11 Massimo Gaggi, Malati con i sensori e infermieri robot. Sfida tra i colossi Usa del microchip, in ‹‹Corriere della Sera››, giovedì 12 ottobre 2006.
12 Naief Yehia, El cuerpo transformado, Editorial Paidós Mexicana, 2001; tr. it. Homo cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza, Elèuthera editrice, Milano, 2004, p. 39.
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L’ U O M O C Y B O R G
nere sotto controllo il rendimento sportivo di un atleta. Controllori delle proprie funzioni
vitali, regolatori delle nostre imperfezioni, ad esempio attraverso un i-pod infusore che
rilascia insulina sottopelle grazie ad una micro cannula (si applica all’addome e viene
attivato dal diabetico con un telecomando); o dotati di un micro-computer glicemico che
misura con un sensore la glicemia nel sangue e automaticamente dosa la quantità di insu-
lina da erogare.
Freud diceva che “l’anatomia è il destino”, ma oggi l’anatomia non è che una scelta, una
possibilità modificabile: oggi possiamo modificare il destino e la nostra identità.
Tanto tempo fa, l’uomo ascoltava con stupore un suono di colpi regolari che veniva dal suo petto e non si
immaginava certo che cosa fosse. Non riusciva a identificarsi con una cosa tanto estranea e sconosciuta
come un corpo. Il corpo era una gabbia e al suo interno c’era qualcosa che guardava, aveva paura, rifletteva
e si stupiva; questo qualcosa, questo resto lasciato dalla sottrazione del corpo, era l’anima. Oggi, ovvia-
mente, il corpo non è più uno sconosciuto: sappiamo che ciò che batte nel petto è il cuore, e che il naso è
l’estremità di un tubo che sporge dal corpo per portare ossigeno ai polmoni. Il viso non è che un quadro di
comando dove vanno a sfociare tutti i meccanismi del corpo: la digestione, la vista, l’udito, la respirazione,
il pensiero. Da quando l’uomo sa nominare ogni sua parte, il corpo lo preoccupa meno. Ormai sappiamo
anche che l’anima non è che un’attività della materia grigia del cervello. La dualità di corpo e anima si è
avviluppata in una terminologia scientifica e ne possiamo ridere allegramente come di un pregiudizio fuori
moda.13
TecnicaMenteRiflessione sulla tecnologia
‹‹La credenza che la natura possa essere calcolata porta alla conclusione che
gli umani possano essere considerati semplici macchine. La teoria dell’uomo-
macchina del diciottesimo secolo è stata riesumata dalle tecnologie per i cer-
velli artificiali e dai cyborg. Sin dal tempo in cui i computer hanno reso possi-
bile rendere eterna la propria memoria per estendere i limiti delle loro funzioni
di creature, gli umani hanno continuato sempre più a diventare delle macchine.
13 Milan Kundera, Nesnsitelná lehkost bytí, 1984; tr. it. L’insostenibile leggerezza dell’essere, Bibliotex, Barcellona, 2002, pp. 37-38.
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T E C N I C A M E N T ER i f l e s s i o n e s u l l a t e c n o l o g i a
È un segno dell’intenzione di superare la selezione naturale delle teorie di Dar-
win e di provare a vincere le battaglie della teoria evoluzionistica da soli. E c’è
anche l’intenzione di conquistare la natura, che li ha creati. L’illusione che la
vita, combinata con un hardware completo, è la vera fonte di questo incubo››.
Investigatore BatôGhost in the Shell : L’attacco dei Cyborg (2004)
Stiamo sempre più delegando l’uso della nostra razionalità agli strumenti, fiduciosi in
maniera incondizionata nella tecnica. Una tecnica che si prende la parte da protagonista,
scacciando la precedente interprete: la scienza. L’azione sta sostituendo la previsione,
la ricerca si fa subito tecnologia disponibile e dal laboratorio arriva quasi all’istante sul
mercato.
La tecnica è funzionale, nel senso che funziona al fine di soddisfare le esigenze del suo
apparato, pur se questo significa subordinare quelle proprie dell’uomo. L’uomo serve alla
tecnica per il suo potenziamento, inarrestabile avanzata che scavalca l’etica e la riduce -
dice Galimberti - ad essere “pat-etica”, inerte e incapace di controllare lo sviluppo della
tecnica. L’unico modo di conservare un’etica è trasferirla sulla scienza, riscoprirne il va-
lore umanistico di un fare in vista di scopi e non in vista di un confezionare prodotti.
“Dagli anni Ottanta in poi possiamo dire che decade definitivamente quell’ideale di purez-
za che in un certo senso dava una connotazione archetipica di rifiuto al teriomorfo [...] La
performatività ibrida, illustrata nel concetto di cyborg o di intelligenza artificiale, baratta
il concetto di assenza con quello di contaminazione, trasforma il mito dell’incompletezza
nella consapevolezza dell’ibridazione con l’alterità in ogni definizione identitaria. La
stessa identità perde i suoi tratti marcati, diviene oscillazione di contesto, si fa transitiva
e transitoria”.14
Gli oggetti abitano il nostro corpo, si muovono con noi, tutto è portatile, nomade insieme
a noi. Ma lo scarto dal portatile all’indossabile è poca cosa e, allorché nel 1987 la Sony
lanciò il walkman, ebbene da qui cominciò il passo verso l’integrazione, che mira a far
14 Roberto Marchesini, in Roberto Marchesini e Karin Andersen, op. cit., Hybris, Bologna, 2003, p. 14.
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L’ U O M O C Y B O R G
compiere all’uomo una vera e propria corsa verso un essere collegato in ogni istante al
resto del mondo. Neil Gershenfeld dice che ci sono “tre forze che guidano la transizione
verso computer indossabili: il desiderio delle persone di aumentare le proprie capacità
innate, una crescente capacità tecnologica di incapsulare i computer negli abiti, e la ri-
chiesta industriale di spostare l’informazione dai computer alle persone”.15
La tecnologia si attacca letteralmente alla pelle, e dopo il Sony walkman arriva il telefono
portatile, il pc portatile, l’i-pod musicale, per non parlar di oggetti come le lenti a contatto
morbide che aderiscono perfettamente al nostro organo di vista, divenendo parte integrata
vera e propria.
E poi le modificazioni quotidiane cui sottoponiamo il nostro corpo, dai reggiseno push-
up, ai jeans stretch, alle spalline dei militari, ai bustini allacciati stretti, alle scarpe coi
tacchi e all’abbigliamento in generale, utilizzato con la funzione di modificare il corpo
dandogli delle forme artificiali.
La tecnologia sigla con i corpi una promessa di ibridazione, li affascina con la mutazione,
gli innesti, la disseminazione. Corpi come progetti, come artefatti. Corpo da modificare,
perché la sua limitatezza non tiene il passo delle aspirazioni umane. Perché la tecnica è la
forma suprema di dominio delle cose.
Ma il vero motore della tecnologia sono le forze umane. Sono le forze umane che possono
direzionarne gli scopi, le forze umane che possono determinare la loro valenza, le forze
umane che possono decidere se continuare a esistere come tali o farsi da parte e delegare
progressivamente la volontà all’azione, alla potenza calcolatrice della macchina. La natu-
ra delle forze umane decide cosa vuole che l’uomo sia.
15 Neil Gershenfeld, When Things Start to Think, 1999; tr. it. Quando le cose iniziano a pensare, Gar-zanti, Milano, 1999, pp. 50-65.
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T E C N I C A M E N T EC o r p i i m - m e d i a t i
Corpi im-mediati
‹‹Se l’essenza della vita sono le informazioni che si trasmettono tramite i geni,
allora la società e la cultura non sono altro che enormi sistemi di memoria.
Dopotutto la stessa città è un gigantesco dispositivo di memoria››.Togusa
Ghost in the Shell: L’attacco dei Cyborg (2004)
I repentini cambiamenti di stato dei nostri neuroni (percepiti come idee, ragionamenti,
intuizioni) si trasmettono nel mondo con le vestigia della scienza e della tecnica.
La scienza ricostruisce il mondo sotto forma di modelli razionali, computabili, sperimentabili e intercomu-
nicabili; la tecnologia lo ricostruisce sotto forma di macchine, strumenti, e manufatti che via via creano un
ambiente artificiale.16
L’uomo ha iniziato ad affrancarsi dal corpo, sostituendo la memoria e la tradizione orale
con la scrittura, la letteratura, il conteggio con le dita con i primi rudimentali abachi (im-
pronte archetipiche dei calcolatori non umani). E adesso stiamo delegando sempre più la
nostra memoria ai nostri supporti tecnologici: agenda elettronica, telefonino, computer,
rete internet. Di più, il computer è il nuovo partner dell’uomo. Talmente affine all’uomo
da sedimentarsi come struttura invisibile nel suo pensiero.
Tempo fa stavo sistemando i maglioni nell’armadio per il cambio di stagione e, dopo
averli spostati da una mensola all’altra, m’è venuto un ripensamento e la mia mente ha
detto: “Beh, adesso schiaccio il bottone indietro”: schiaccio il bottone indietro, come se
stessi navigando con il mio browser. Ma ero nella vita reale. Ecco, dunque, che le nostre
tecnologie, specie il computer, sono invisibili protesi con cui estroflettiamo i nostri pen-
sieri. In quell’attimo avevo realizzato in pieno le tesi mcluhaniane secondo cui “l’uomo
sta cominciando a portare il cervello fuori del cranio e i nervi al di fuori della pelle”. In
quell’attimo raggiunsi il vertice della consapevolezza del cambiamento, di una metamor-
fosi latente ma lì fattasi atto, di una transizione innescata dalle nuove tecnologie e che
16 Giuseppe O. Longo, Homo Technologicus, Meltemi, Roma, 2001, p. 102.
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L’ U O M O C Y B O R G
genera uomini nuovi.
Proiettiamo al di fuori di noi le nostre funzioni: la televisione è la proiezione dell’occhio,
la radio dell’orecchio, il computer della memoria, l’automobile dei piedi. Noi estendiamo
noi stessi, i nostri pensieri, le nostre architetture mentali in costruzioni che si impongono
alla vista con la forza della loro fisica funzionalità. Le auto, gli abiti, le acconciature sono
estensioni che prediligono il tatto. Se l’alloggio è “un’estensione dei nostri meccanismi
per il controllo della temperatura del corpo, una pelle o un indumento collettivo”17, le città
sono ulteriori estensioni necessarie all’uomo per soddisfare i propri bisogni fisici.
Quelle città che sono continuamente soggette al processo di metamorfosi. Ed ogni volta
che torniamo in una città e la confrontiamo con la sua immagine rimasta nella memoria
della nostra macchina fotografica digitale, ecco che non vediamo lo stesso luogo. Non
vediamo gli stessi spazi, le città possono essere inondate da opere di arte contemporanea
che ne modificano la rappresentazione. Come in Dark City, la città continua a cambiare,
la figura e lo sfondo si fanno un tutt’uno, mostrando come la città si gonfi in un vero e
proprio essere.
Metamorfosi di un corpo sociale che elegge a centro del movimento i luoghi delle città,
circoscritti dai pinnacoli dei grattacieli, e non gli spazi delle campagne riverberati dai
raggi del sole che si riflettono sui campi di grano. Movimento di corpi che mutano in
continuazione, vivi finché esiste lo spazio della comunicazione. Comunicazione tramite
protesi, le cui rappresentazioni più riconoscibili sono oggi i cellulari ed i personal com-
puter. La macchina, l’inorganico diventa la nuova pelle. La tecnologia è motore del cam-
biamento, propulsore che spinge alla nascita di rinnovati fenomeni sociali.
L’uomo vecchio, prima delle tecnologie digitali, aveva nel cervello una data estensione delle aree relative
ai polpastrelli delle dita, aree ora destinate a ingrandirsi a svantaggio del palmo della mano che non serve
quasi più.18
Il telefono ci fa esistere, dice al mondo della nostra presenza. Ma questo è un uomo di
17 Marshall McLuhan, op. cit., p. 133.
18 Vittorino Andreoli, La vita digitale, Rizzoli, Milano, 2006, p. 29.
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T E C N I C A M E N T EC o r p i i m - m e d i a t i
superficie, di facciata. L’uomo di oggi è quello dell’adesso, quello del tempo reale.
Tutto è azione, tutto è schiacciare bottoni, digitare. L’esistenza è diventata digitalizzazione e nello schiac-
ciare i bottoni si trova la soluzione, la risposta reale. Il resto è pura patologia.19
La mobilità implica l’essere sempre raggiungibili. E nel telefonino si innesta un’immagi-
ne mobile, una televisione viaggiante, che compie così la sua metamorfosi.
Da strumento pubblico, bar e sale di riunioni, è entrato nelle famiglie; partito da una stanza ha cominciato
a occuparne due; e ora è diventato mio, personale, un termine che non si lega solo alla proprietà, ma alla
possibilità di un uso che riflette le mie caratteristiche.20
Il telefonino permette di raccogliere immagini che si fanno ricordi e che sono per sempre depositate dentro
la memoria del nostro Io digitale che si può rivisitare con commozione, con le lacrime agli occhi.21
Il telefonino diventa un terminale integrato di funzioni, un dispositivo dove risiede un on-
nipotente dio digitale. Un corpus che si incarna per ora nell’iphone proposto di recente da
Steve Jobs della Apple: si parla, si guardano
immagini, video, si ascolta musica, ci si col-
lega in Internet con la tecnologia wireless22,
con la quale possiamo abbattere qualsiasi
barriera spazio-temporale, possiamo dare
senso pieno all’espressione americana eve-
rywhere and everytime (in ogni luogo ed in
ogni momento). E in futuro? Forse il nostro telefonino (se ancora potrà essere chiamato
così, rispondendo alla sua etimologia di strumento per telefonare) diventerà un aggeggio
19 ivi, p. 84.
20 ivi, p. 139.
21 ivi, p. 137.
22 Wireless è un’abbreviazione di Wireless Fidelity (Wi-Fi). Ogni hotspot permette di diffondere il segnale che copre una certa zona. Mark Wieser, ricercatore dei laboratori Xerox a Palo Alto, cominciò a lavorare sul concetto di “connettività ubiqua” a fine anni Ottanta.
eXistenZ (David Cronenberg, 1999)
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L’ U O M O C Y B O R G
che abbia anche la funzione di farsi uomo o donna a piacimento del suo “padrone-consu-
matore?
Un nostro personale alter-ego, che abbracciamo come i protagonisti di eXistenZ acca-
rezzano il loro gamepod. Il telefono è uno strumento partecipativo, che esige la presenza
di un altro distante da noi, che ci ascolta, ci conferma la nostra esistenza, un altro che da
poco è andato oltre la barriera del suono, apparendo sul nostro schermo, riducendo con
il suo apparire in video la lontananza di una voce che correva nell’aria per giungere fino
alle nostre orecchie.
Non rimangono che la voce e le ossa. La voce esiste ancora; le ossa, dicono, presero l’aspetto di sassi. E così
sta celata nei boschi e non si vede su nessun monte, ma dappertutto si sente: è il suono, che vive in lei.23
Non più solo presenza eterea come Eco, voce viaggiante che nasce dal nulla. Il telefonino
si trasforma in videofonino e ci allampana con l’immagine di chi ci parla. La videocon-
ferenza olografica permette di connettere visivamente persone geograficamente lontane
fra loro. E forse il telefono entrerà in un vestito che già promette di trasmettere emozioni:
infatti, sono in fase di sviluppo felpe che possono trasmettere il calore emotivo di un vero
abbraccio al fidanzato/a che sta dall’altra parte del mondo. La tecnologia annulla le di-
stanze e trasforma i nostri rapporti. Non solo nell’incredibilmente lontano, ma anche nella
prossimità più stretta. Ed ecco che si prospetta la possibilità di sfruttare il corpo umano
come canale di comunicazione. Potremo trasferire dati attraverso un semplice tocco delle
dita, potremo diventare delle macchine di trasmissione informazionale, soltanto contando
sul nostro debole campo elettrico: conduttività del tessuto umano che permetterà di tra-
sferire dati ad alta velocità nel cortissimo raggio. Basterà dotarsi di dispositivi che cattu-
reranno i nostri campi elettrici, stimolando un cristallo ottico in essi presente; un raggio
laser leggerà le oscillazioni del cristallo, un circuito di codifica li convertirà in segnali
elettrici e i dati potranno quindi essere trasmessi ad un’altra persona.
Il corpo organico si apre all’invasione dell’inorganico, si fa merce, obiettivo di riferi-
23 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Piero Bernardini Marzolla (cur.), Einaudi, Torino, 1994, LIBER TERTIUS, 398-401, p. 113.
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T E C N I C A M E N T EC o r p i i m - m e d i a t i
mento di un mercato che per vivere vuole la perpetua circolazione dell’informazione.
Che potrà passare attraverso tecno-reporter abbigliati con tecnologia indossabile: schermi
sulla maglia, telecamera in un guanto-mano, nell’altro una tastiera per prendere appunti,
auricolare e microfono sul supporto degli occhiali che possono ricevere e inviare mail.
Simbolo di un sistema mediatico che vuole entrare dappertutto, infiltrarsi come una pulce
nel più recondito angolo del mondo per documentare ogni più piccolo dettaglio, pur se
un’inezia priva di significato.
E con lo schermo il tecno-controllo esercita sulla gente il suo potere e gli occhiali dotati
di piccola televisione integrata non sono che un minuscolo esempio della penetrazione
tecnologica nel corpo umano. Penetrazione che non potrebbe avvenire senza l’aumento
della velocità di qualsiasi processo. La velocità che aumenta e lo spazio del viaggio viene
cancellato: esistono solo partenza e arrivo.
“Stereo-realtà” di un mondo senza orizzonte apparente, in cui la cornice dello schermo succede alla linea
dell’orizzonte lontano: orizzonte al quadrato del terminale del computer del video casco che presenta,
analogamente a certi occhiali, l’ultimissimo “volume”, non più solo quello delle cose percepibili a occhio
nudo, ma quello della sovrapposizione istantanea dell’immagine attuale e dell’immagine virtuale.24
La velocità della comunicazione in diretta, sempre in corso. La velocità che “marinettia-
namente” si fa velo-città, quella che alimenta il mito dell’accelerazione, anticipando la
sparizione del territorio che la rivoluzione realizzerà per mezzo dei suoi simulacri digi-
tali.
Se le grandi distanze lasciano il posto alle grandi velocità, questo significa che la superficie
abdica, o meglio, viene costretta a farlo dall’interfaccia (from surface to interface) e “ogni
volta che introduciamo una velocità superiore screditiamo il valore di un’azione”.25
La tecnologia digitale, grazie alla facoltà di “sciogliere”, letteralmente, qualsiasi cosa in bit e convertirla
in immagini di sintesi infinitamente manipolabili, consente di attraversare-neutralizzare qualsiasi limite
24 Paul Virilio, La bombe informatique, Éditions Galilée, 1998; tr. it. La bomba informatica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 113.
25 ivi, p. 116.
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L’ U O M O C Y B O R G
(geografico, fisico, biologico, etico, politico, giuridico) si opponga alla sua avanzata [...] Chi si connette
viene inghiottito e “digerito”, gli altri entrano a far parte dei “residui” di un mondo reale che, grazie a una
paradossale inversione di ruoli, si trova ridotto a “fantasma” del mondo virtuale.26
“Con la velocità istantanea le cause dei fatti riaffiorarono all’orizzonte di una nuova con-
sapevolezza a differenza di ciò che accadeva quando le cose erano poste in sequenza, o in
concatenazione. Invece di continuare a chiedersi se fosse venuto prima l’uovo oppure la
gallina, è improvvisamente apparso in tutta evidenza come la gallina fosse l’idea ‹‹esco-
gitata›› da un uovo per produrre altre uova”.27
La tecnica e le sue magie
‹‹C’è un’intera generazione di nuovi scanners che nasceranno tra pochi mesi,
li troveremo, li aggregheremo a noi. Potremo avere il mondo ai nostri piedi,
i normali saranno i nostri servi. Cameron, ti sto offrendo il potere, la gloria,
nessuno potrà fermarci››.Darryl Revok parla a Cameron Vale
Scanners (1981)
“La tecnica è la massima forma di volontà di potenza ideata dall’uomo almeno fino a
questo momento”.28 E da sempre l’uomo cerca di realizzare ciò che ardentemente vuole.
Cerca di superare la barriera dell’impossibile, immaginando come potrebbe arrivare nel
mondo del possibile, quindi del realizzabile.
Comandare oggetti con lo sguardo o superare la barriera sensoriale, comunicando telepa-
ticamente, ovvero trasferendo il pensiero tra esseri umani. Cervelli dotati di un microchip
che possono entrare in comunicazione fra loro. Ma questo avviene già nel mondo della
26 Carlo Formenti, Postfazione, in Paul Virilio, La bomba informatica, Raffaello Cortina Editore, Mila-no, 2000, p. 62; tit. orig. La bombe informatique, Éditions Galilée, 1998.
27 Marshall McLuhan, op. cit., p. 20.
28 Emanuele Severino, Né inizio né fine, solo una variazione d’eternità, su ‹‹Il Giorno››, mercoledì 29 dicembre 1999.
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T E C N I C A M E N T EL a t e c n i c a e l e s u e m a g i e
fantascienza (quel mondo del possibile che si diceva prima), dove poteri derivati da una
mutazione permettono a Matt Parkman (Greg Grunberg), poliziotto nella serie Heroes, di
sentire i pensieri delle persone. Strange Days e Brainstorm – Generazione elettronica
mettono in scena un’estensione dei poteri telepatici, ovvero un trasferimento emozionale.
Ma, come tutti i poteri che si fanno estensioni del nostro sé, anche la telepatia potrebbe
rivelarsi un’arma a doppio taglio. E, oltre a
spezzare il confine tra pubblico e privato,
penetrando nei segreti di ognuno, con essa
potremmo anche uccidere, collegarci alla
mente di un’altra persona, rompere quella
invisibile muraglia che tiene al riparo i no-
stri pensieri più nascosti dalla vista altrui;
cercare di abbatterla come fanno i bambini telepatici de Il villaggio dei dannati e farne
impazzire i circuiti integrati fino al collasso cerebrale dell’altro.
Scanners è il titolo del film, ma anche il nome dei protagonisti di cui parla, persone che
sono in grado di scannerizzare la mente di altre, telepatici che possono percepire i pen-
sieri altrui e addirittura manovrarli come burattini, conducendoli a compiere azioni su
comando o portandoli alla morte. È un viaggio fra gli inesplorati sentieri della mente, ma
anche nella coscienza dell’uomo dove la medesima radice origina bene e male: infatti,
c’è sempre chi abusa del proprio potere, come Darryl Revok (Michael Ironside) che lo
usa malignamente per eliminare tutti quelli che si mettono contro di lui. Scanners è un
tentativo di entrare dentro la testa dell’uomo per carpirne i segreti, penetrare per (utopia!)
filmare il pensiero.
La neurotecnologia muove nella direzione di una forma telepatica di controllo da parte
degli uomini sulle macchine, realizzata per mezzo di un impianto di microchip nel cer-
vello. È il poter controllare qualcuno o qualcosa da lontano che ci attira come il nettare di
un fiore ingolosisce una famelica ape. Attrazione incondizionata anche verso la telecinesi,
ovvero quel potere che permette di spostare gli oggetti con la sola forza del pensiero e che
da sempre l’uomo sogna di possedere. Un potere (come tutti i poteri, di qualsiasi natura
Il villaggio dei dannati (Wolf Rilla, 1960)
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L’ U O M O C Y B O R G
essi siano) che può mostrare le sue due facce a seconda di chi e come ne faccia uso. Una
telecinesi che muove nella direzione di un affievolimento della fatica fisica (ma la men-
te non è parte integrante del corpo?) e che può farsi arma pericolosa, allorché si presta
all’uso personale come per il bieco Sylar / Gabriel Gray (Zachary Quinto), personag-
gio del telefilm Heroes. Anello di congiunzione fra telepatia e telecinesi è la Jean Grey
(Famke Janssen) di X-Men, in grado di sfruttare la forza del pensiero, sia telepaticamente
(lettura della mente) che per mezzo della telecinesi (spostamento degli oggetti); e poi
c’è Charles Francis Xavier / Professor X (Patrick Stewart), potentissimo telepate che ha
imparato a controllare i propri poteri ed a metterli a servizio dell’umanità, localizzando,
per mezzo di un macchinario chiamato Cerebro, tutti i mutanti, così come Molly Walker
(Adair Tishler) può, guardando una mappa, trovare una determinata persona nella serie
Heroes.
Telepatia, telecinesi e teletrasporto. Quel
teletrasporto che annulla la fatica e che è en-
trato nel nostro immaginario grazie a Star
Trek, ma che possiamo ritrovare nel tenta-
tivo di Seth Brundle (Jeff Goldblum) di tras-
portare la materia ne La mosca. Il desiderio
di trasformare la materia, di scomporla e
ricomporla nel processo tanto agognato dalla scienza: il teletrasporto. Un processo che,
applicato con successo sull’uomo, premetterebbe di annullare gli spazi ed il tempo: niente
più viaggi, niente più spostamenti che mangiano tempo, bensì tempo tolto al tempo. Ma
Le tre figure fanno riferimento al film La mosca (David Cronenberg, 1986)
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qualcosa va storto nell’esperimento (una mosca si insinua nella camera di teletrasporto)
e lo scienziato, dopo essersi teletrasportato nell’altra cabina, comincia a percepire dei
sintomi di trasformazione, come già nella versione originale de L’esperimento del dottor
K. Film che inserisce nella filmografia fantascientifica due topoi che poi saranno ripresi:
il teletrasporto e l’uomo-mosca. Ovvero la confusione di spazio e tempo e la confusione
di corpi diversi. L’incognita del mistero affascina da sempre l’uomo, pur consapevole dei
pericoli in esso insiti. Infatti, chi può sapere cosa succede nell’attimo che intercorre tra
la disintegrazione e la reintegrazione della materia? Esplicita è anche la crudeltà dello
scienziato André Delambre (L’esperimento del dottor K) nel trasformare durante i suoi
esperimenti il gatto di casa in una “corrente di atomi”, così come quella di Seth Brundle
(La mosca) che prima di giungere alla soluzione stabile sacrifica la vita di uno scimpanzé.
Teletrasporto che nella realtà trova un aggancio nell’esperimento effettuato a Ginevra nel
2006 dal fisico Nicolas Gisin, il quale è riuscito a teletrasportare una particella (fotone)
tra due laboratori distanti due chilometri, distanza superata quest’anno, quando un’equipe
di ricercatori dell’università di Vienna ha teletrasportato un pacchetto di fotoni da un
punto a circa 140 chilometri più in là in maniera istantanea. Un teletrasporto anticipato in
X-Men: conflitto finale da Kitty Pride / Shadowcat (Ellen Page), una giovane che ha la
capacità di passare attraverso la materia solida grazie al ‘phasing’. Il teletrasporto è una
sorta di clonazione a distanza e difficilmente potrà essere applicato seriamente agli esseri
umani, il cui desiderio di scomparire e riapparire, cioè di farsi immateriali, vacui, liberati
dal peso del fisico e dalla sua visione sublima questa sua aspirazione alla scomposizione
molecolare insieme al desiderio di farsi invisibile.
Mimetizzarsi come un camaleonte nella giungla aggrovigliata della nostra società post-
moderna, facendolo con la tuta mimetica che il poliziotto protagonista di A Scanner Dark-
ly – Un oscuro scrutare indossa per celare la propria identità. Quel Bob A(r)ctor che già
nel nome nasconde l’enigma di una vita recitata, sempre nascosto alla vista dell’occhio
pubblico. Nascosti nell’ombra come la Mistica (Rebecca Romijn-Stamos) degli X-Men,
che può assumere le sembianze di qualsiasi persona; o come Kurt Wagner / Nightcrawler
(Alan Cumming), personaggio di X-Men 2 col dono del teletrasporto e che, grazie ad
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agilità e riflessi sovrumani, riesce a mimetizzarsi nel buio, nonché ad aderire alle pareti
per mezzo di una coda prensile. Un rendersi invisibile che viene anticipato dai comporta-
menti animali che richiamano il mimetismo, da quegli animali che sfruttano l’inganno del
travestimento come la farfalla di Caillois: quando si posa e fa combaciare le sue ali l’una
sull’altra, acquista la forma e il colore di una foglia, scomparendo così alla vista. Scom-
parire alla vista come ne L’uomo senza ombra, che è la rappresentazione di quello che
la ricerca scientifica sta cercando di trovare da svariati anni: appunto, l’invisibilità. Sulla
scorta del film pioniere di James Whale (L’uomo invisibile), anche qui il protagonista,
Sebastian Caine (Kevin Bacon), sperimenta su di sé il siero magico e riesce davvero a di-
ventare invisibile; purtroppo, però, l’antidoto viene rigettato dal suo corpo ed egli scopre
a sue spese come il processo non sia reversibile e anzi come il prolungato contatto del
suo organismo con il siero lo renda pazzo.
La scienza ci sta arrivando e la realizzazione
di meta-materiali (con proprietà elettriche
e magnetiche alterate e sconosciute rispet-
to a qualsiasi sostanza finora esistente) è
la chiave per la via all’invisibilità. Intorno
all’oggetto da rendere invisibile viene posta
una copertura fatta di cilindri concentrici in meta-materiali e su di esso viene proiettato un
flusso di microonde, così l’oggetto diventa invisibile su quella stessa lunghezza d’onda;
poi, con una telecamera sensibile alle microonde viene registrata l’immagine, che resti-
tuirà la visione dell’oggetto posto oltre la copertura e non quella dell’oggetto nascosto.
Ovviamente, per ora, il prototipo funziona solo con le microonde, che il nostro occhio non
percepisce, ma la via è stata aperta.29
Un film come L’uomo senza ombra mette in campo una riflessione sul corpo che sparisce
alla vista, che si sottrae allo sguardo altrui, unico senso che può legittimarne l’esistenza
prettamente umana.
Uomo invisibile che realizza il mito frankeinsteiniano, la creazione di qualcosa di sco-
29 Riferimento a Giovanni Caprara, Scoperto il ‹‹mantello›› che regala l’invisibilità, in ‹‹Corriere della Sera››, sabato 21 ottobre 2006, p. 27.
L’uomo senza ombra (Paul Verhoeven, 2000)
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T E C N I C A M E N T EL a t e c n i c a e l e s u e m a g i e
nosciuto partendo da una base scientifica, quel misterioso inconoscibile che poi si rivela
come mostro. Ma un hollow man, come ci dice il titolo originale della pellicola, con
‘hollow’ che rimanda più direttamente al vuoto, quindi ad un corpo svuotato della sua
presenza visibile, ridotto alla mostruosità dell’essere cosa.
L’invisibilità è da sempre sogno recondito dell’uomo, possibilità che renderebbe più simi-
li agli dèi, a quegli occhi che nel mito discendono a spiare senza essere visti le faccende
dei comuni mortali. Un desiderio che nella modernità si concreta, però, nella pericolosa
onnipotenza di una scienza senza limiti. L’uomo invisibile mette in guardia dai pericoli
che la tecnologia dell’invisibilità permetterebbe se possibile ed accessibile a tutti. Pericoli
di natura criminale come quelli di cui si rende autore lo scienziato (Claude Rains) del
film, la cui sostanza che rende invisibili ne ha alterato lo stato mentale, facendolo dege-
nerare ad uno stato di follia.
O scomparire alla vista facendosi talmente piccoli da risultare quasi invisibili ad occhio
umano. In Radiazioni BX distruzione uomo il protagonista, rimpicciolito per aver attra-
versato una nebbia radioattiva, scopre le proprie percezioni di sé e degli altri in maniera
tutta nuova, così piccolo e solo. Salto nel buio mette in campo la tecnologia della minia-
turizzazione, che agisce a livello molecolare, permettendo di ridurre a dimensioni ridottis-
sime sia oggetti che persone. Lanciato dal film Viaggio allucinante di Richard Fleischer,
il film di Joe Dante porta una ventata di freschezza, pur mostrando come l’invenzione
possa divenire subito preda di faine del business. E il classico tema della miniaturizzazio-
ne è asse portante anche della commedia fantascientifica di Tesoro mi si sono ristretti i
ragazzi, con l’evidenza di una macchina sperimentale che riduce gli oggetti a dimensioni
microscopiche sprigionando dei raggi magnetici. I ragazzi, assunte le dimensioni di un
insetto, proprio nell’habitat di questi ultimi (il prato) si troveranno a vivere un’avventura
tutta speciale che mostrerà loro la complessità di un mondo microscopico mai osservato
a grandezza naturale, un mondo che cambia in continuazione senza che noi ce ne ac-
corgiamo. Vedere il mondo nei suoi dettagli più infinitesimi oppure spaziare nell’etere
come l’alieno Kal-El conosciuto da noi come Superman. E nell’attesa che la transizione
in moderni Icaro dei nostri corpi umani si compia, ci accontentiamo di farci simili ad
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L’ U O M O C Y B O R G
un altro supereroe: Spider-Man. Infatti, la magia della tecnica sembra essersi compiuta,
grazie alla ricerca dell’ingegnere e fisico italiano Nicola Pugno del dipartimento di Inge-
gneria Strutturale e Geofisica del Politecnico di Torino, il quale ha scoperto la formula
per realizzare la tuta dell’Uomo-ragno. Una tuta il cui ingrediente base è uno speciale
adesivo a base di molecole uncinate di nanotubi di carbonio in grado di funzionare come
un microvelcro, capace di aderire alle superfici e di staccarsi con facilità. La tecnologia
è stata sviluppata a partire dall’osservazione
dei gechi, animali dotati di milioni di sot-
tilissimi peli alle estremità delle zampe, i
quali permettono loro di attrarre le molecole
delle superfici, rimanendo a queste attacca-
ti senza alcun tipo di secrezione. Dunque,
sfruttando la forza di Van der Waals (forza
che permette a due strati vicini di molecole di aderire tra loro) e combinandola con il tes-
suto di nanotubi di carbonio potremo trasformarci in veri e propri uomini-ragno e come
il supereroe creato da Stan Lee e Steve Ditko scalare le pareti dei palazzi, guardando il
mondo da una differente prospettiva.
Spider-Man 2 (Sam Raimi, 2004)
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L A D I T TAT U R A D E L L’ I M M A G I N E - C O R P OL ’ u o m o f r a m m e n t a t o
L’uomo virtualeLa dittatura dell’immagine-corpoL’uomo che si frammenta
‹‹...Qualunque cosa, chiunque tu voglia essere [...] È la roba che non puoi
avere, giusto? Il frutto proibito: come irrompere in un negozio di liquori con
una 357 magnum, sentire l’adrenalina che ti pompa nelle vene [...] Fidati, fi-
dati di me, io sono il tuo confessore, sono il tuo strizzacervelli, io sono il tuo
collegamento diretto alla centralina delle anime. Io sono l’uomo magico, il
Babbo Natale del subconscio. Lo dici, lo pensi, puoi averlo. Vuoi una ragazza,
vuoi due ragazze... insomma io non lo so, io non so cosa ti manda su di giri.
Cosa ti incuriosisce? Vuoi un uomo? Forse vuoi... vuoi essere una donna... ehi,
pensaci ‘essere una donna’, vedere cosa si prova. Forse vuoi una suora che ti
leghi. Tutto si può fare››.Lenny Nero
Strange Days (1995)
Possiamo pensare l’evoluzione dell’uomo, il suo cammino nella storia, come un muover-
si in diversi spazi d’azione. Agli inizi l’uomo si mosse sulla Terra, interagendo con essa
attraverso tre sistemi (linguaggio, tecnica e organizzazione sociale, fra cui ad esempio la
religione), per mezzo del quale realizzare la conoscenza del cosmo (attraverso riti e miti).
A partire dal Neolitico, esperì lo spazio del territorio, conquistato in passi successivi con
lo sfruttamento dei campi per l’agricoltura, la costituzione di città, la sistematizzazione
del sapere per mezzo della scrittura. Poi fu l’ora di quello che Pierre Lévy chiama “spazio
delle merci”, il cui principio organizzatore non era più il controllo del territorio, bensì
il controllo della sua deterritorializzazione, ovvero il controllo dei flussi, specialmente
dell’informazione. In ultimo, ecco lo spazio del sapere, ancora in via di costruzione, che
si modellizza nel cyberspazio e riconduce il suo sviluppo a tre fattori determinanti: la
velocità (evoluzione delle scienze e delle tecniche sempre più rapide), la massa (l’insie-
me delle persone che devono adattarsi, imparare, inventare), gli strumenti (istituzionali,
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L’ U O M O V I R T U A L E
tecnici, concettuali per poter connettere tutti gli interessi individuali).1
Il telegrafo ha tradotto la scrittura in suono. Il telefono scavalcò ogni barriera, arrestando-
si soltanto di fronte a quella rappresentata dalla lingua. Ma qui intervenne la fotografia,
col cui avvento venne abbattuto anche questo muro: infatti, la fotografia parla un linguag-
gio internazionale, mondiale. Inoltre, con la fotografia cominciarono ad essere ritratte le
forme esterne, mentre pittura e letteratura cominciarono a trasferire le proprie forze verso
la descrizione di un interiore. Però, la fotografia ci toglie il piacere della scoperta, la me-
raviglia di un occhio che può lasciarsi affascinare da una vergine visione, poiché essa ci
mostra tutto sempre in anticipo: conosciamo il mondo anche senza vederlo di persona.
... e mentre lui la scongiura, gli strappa il braccio destro; il sinistro è asportato di furia da Ino [...] In un
attimo il corpo di Penteo è fatto a pezzi da quelle mani sciagurate.2
Come Penteo viene ridotto a brandelli, così l’immagine viene oggi moltiplicata a dis-
misura sino a fare perdere l’identità del corpo cui apparteneva, perché di esso è (o era?)
una parte determinante a definirne l’identità. Un decisivo frammento che già nel mondo
mitico concorreva all’inquadramento dell’unità di un corpo.
Nel pensiero mitico avviene dell’immagine la stessa cosa che avveniva della parola pronunciata o udita:
essa è dotata di potenze reali. Anche l’immagine non soltanto rappresenta la cosa [...] ma è una parte della
realtà e dell’attività di essa. Come il nome proprio di un uomo, così anche la sua immagine è un alter ego:
ciò che accade ad essa accade all’uomo medesimo.3
Sembra che l’uomo sia stordito dalla propria immagine, riflessa e moltiplicata come nelle
stanze piene di specchi di un luna park viaggiante. Letteralmente intorpidito dal dis-farsi
1 Riferimento a Pierre Lévy, L’intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberespace, La Dé-couverte, Paris, 1994; tr. it. L’intelligenza collettiva. Per una antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 27-30.
2 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Piero Bernardini Marzolla (cur.), Einaudi, Torino, 1994, LIBER TERTIUS, 721-731, pp. 127-129.
3 Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen Bd. 2: Das mythische Denken, 1925; tr. it. Filo-sofia delle forme simboliche. Vol. II: Il pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 62.
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L A D I T TAT U R A D E L L’ I M M A G I N E - C O R P OL ’ u o m o f r a m m e n t a t o
identitario nel carosello di sue rappresentazioni, così come Narciso nel mito (dal greco
narcosis ‘torpore’), l’essere umano è in generale soggetto “all’immediato fascino di ogni
estensione di sé, riprodotta in un materiale diverso da quello stesso di cui è fatto”.4
...e delirando torna a contemplare la figura, e con le lacrime turba lo specchio d’acqua, che s’increspa; e la
forma si offusca. Vedendola svanire: Dove ti ritiri? – esclama -. Rimani, non abbandonare, crudele, me che
ti amo! Se toccarti non posso, mi sia permesso guardarti e nutrire così la mia disgraziata passione! E mentre
si lamenta si tira giù l’orlo superiore della veste e con i palmi marmorei si batte il petto nudo. Il petto, per-
cosso, si tinge di un tenue rossore, così come i pomi, bianchi da una parte, dall’altra rosseggiano, o come
l’uva, in grappoli cangianti, si vela, quando matura, di un colore porporino. A quella vista (l’acqua è tornata
limpida) non resiste più. E come cera bionda a una leggera fiamma, come brina mattutina al tepore del sole,
così, sfinito dall’amore, si strugge e un fuoco occulto a poco a poco lo consuma. E ormai non ha più il suo
colorito, rosa misto a candore, non ha più vigore e forze né ciò che prima tanto piaceva a vedersi, e il corpo
non è più quello di cui un giorno si era innamorata Eco.5
L’informatica ha giocato un ruolo decisivo nell’essersi insediata nel mondo degli oggetti
e degli strumenti che circondano l’uomo, cosicché il mondo tecnologico s’è trasformato
in realtà frattale che contiene l’individuo, lo esalta e allo stesso tempo lo frammenta in
innumerevoli proiezioni.
Spaesato, scioccato, frammentato, desideroso di essere qualcun altro. Il cervello dell’uomo
vuole altre esperienze. Siamo nel territorio dove l’immagine, figura che contiene il seme
della frammentarietà, è onnipotente. Il mondo della cultura visiva è emozionante, caldo,
coinvolgente, subito pronto a soddisfare l’impulso. Brainstorm – Generazione elettronica mostra come la ricerca scientifica si possa spin-
gere fino a concepire una macchina in grado di registrare immagini, sensazioni ed emo-
zioni e capace di trasmetterle da una mente all’altra. Inoltre, va incontro alle volontà di
un esercito che vorrebbe potenziare la scoperta per applicarla in campo militare, pur con
tutti i rischi che essa comporterebbe.
4 Marshall McLuhan, Understanding Media, 1964; tr. it. Gli strumenti del comunicare, Net, 2002, p. 51.
5 Publio Ovidio Nasone, op. cit., LIBER TERTIUS, 474-493, pp. 115-117.
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L’ U O M O V I R T U A L E
Vivere la vita, le vite degli altri, e sperimentarne anche la morte. Riprodurre la vita, re-
gistrarla, conservarla. E farlo con quella figura del linguaggio cinematografico che è la
soggettiva, quella che più di tutte scaraventa lo spettatore dentro lo schermo. Su queste
corde si ritma anche Essere John Malkovich, pellicola nella quale un bizzarro cunicolo
porta i protagonisti a vivere nella testa di John Malkovich: entrare nella testa di un altro
e vivere la sua vita, rendere possibile quel desiderio d’essere altro latente in ciascuno di
noi. Essere John Malkovich è un proliferare di corpi (in realtà sempre dello stesso), è
l’ossessione del voler essere qualcun altro (specie se la promessa è quella di diventare
una stella di Hollywood) propria della cultura di massa. Vivere le emozioni di un altro,
sperimentare la sua fisicità, appropriarsi della sua mente, tutto questo porta alla luce degli
inevitabili rimandi a Strange Days di Kathryn Bigelow.
Strange Days affronta il rapporto tra reale e virtuale, ponendo al centro della narrazione la
tecnologia dello squid (acronimo di Superconducting Quantum Interference Device). Un
illegale gingillo utilizzato per registrare su nastro emozioni, ricordi, sensazioni, prelevan-
doli direttamente dalla corteccia cerebrale. Ma proprio il suo status di illegale ne fomen-
ta l’uso come droga, distribuita nei circuiti
clandestini. Una droga che permette di rivi-
vere l’esperienza di qualcun altro come se la
stessimo vivendo in quel momento, una sca-
rica di adrenalina emozionale che permette
a chi ne fa uso di diventare qualcun altro, di
vivere una esperienza extra-corporale. Tra-
sformarsi senza spostarsi di un millimetro dalla poltrona di casa, vivere le emozioni più
disparate: la gioia di un disabile nel poter tornare a correre, il brivido provocato per un
salto nel vuoto con il bungee jumping, l’eccitazione vera e propria di un rapporto ses-
suale. Insomma, la possibilità concreta di vivere esperienze già provate da altri e per noi
confezionate ed ancora nuove. Oppure rivivere ricordi, i ricordi che il protagonista Lenny
Nero (Ralph Fiennes) “si spara” per ri-appropriarsi nel suo presente da uomo solitario dei
bei momenti passati con la sua (ex) ragazza. Un mondo, quello promesso dallo squid, fat-
Strange Days (Kathryn Bigelow, 1995)
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L A D I T TAT U R A D E L L’ I M M A G I N E - C O R P OD a l l ’ a n a l o g i c o a l d i g i t a l e
to di realtà virtuali in cui diventare chiunque, con il rischio, però, di arrivare all’annichi-
limento personale: infatti, in caso di sovraccarico, il pericolo di bruciarsi i lobi temporali
ridurrebbe il malcapitato ad uno stato vegetativo.
Un’allucinante droga visiva che, nelle sue perversioni più estreme, permette addirittura di
vivere il black-jack, il filmato maledetto, la morte in diretta.
Il film di Kathryn Bigelow allarga i confini delle idee già in nuce in Brainstorm – Ge-
nerazione elettronica e Fino alla fine del mondo e legge alla perfezione il bisogno tutto
postmoderno di comunicare attraverso esperienze sensoriali complete. Esperienze come
quelle dello squid che, con il solo olfatto lasciato fuori dai giochi, permette a chi lo prova
di vivere ed esistere per qualche tempo in una dimensione che è senza tempo, dominata
da un corpo non nostro, ma che in quell’attimo lo diviene, pelle che ci accoglie, svuotata
dell’involucro (il suo corpo) e riempita col simulacro (il nostro corpo). “Potremmo de-
finire spazio-cervello quel mondo alternativo e scambievole vissuto dai protagonisti di
Strange Days direttamente in corteccia cerebrale”6, perché con la tecnologia di Strange
Days si può entrare nella vita delle altre persone senza lasciare la propria, si possono vi-
vere tutte le vite già vissute. Come dice Lenny Nero: ‹‹Questa non è come la televisione,
è un po’ meglio. Questa è vita reale, un pezzo di vita di qualcuno, puro e integrale, diritto
dalla corteccia cerebrale. Insomma lo stai facendo, lo stai vedendo, lo stai sentendo, lo
stai provando...››
Dall’analogico al digitale
‹‹Siamo nel mezzo di una nuova evoluzione e questa si restringe a tal pun-
to che noi potremmo vederla manifestarsi durante la nostra vita, nel corso di
una generazione. La nuova evoluzione nasce dall’informazione, da due tipi di
informazione: analogica e digitale. [...] Prima, secondo il vecchio paradigma
evoluzionistico, un essere moriva e l’altro cresceva e dominava, ma nel nuovo
paradigma coesistono l’un l’altro, in mutuo sostegno, non in competizione [...]
6 Roy Menarini, Lo spazio-cervello: rappresentazione e simbologia cerebrale tra fantascienza classica, moderna e postmoderna, in Massimiliano Spanu (cur.), Spazio, Lindau, Torino, 2002, p. 82
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L’ U O M O V I R T U A L E
Allora questo produce un neo-uomo, con una nuova individualità, una nuova
consapevolezza››.Scienziato parla con il personaggio principale
Waking Life (2001)
L’incontro fra analogico e digitale trova perfetto terreno di coltura in Waking Life, pel-
licola che si fa approfondita indagine sulla vita, sul suo meraviglioso manifestarsi in
un continuo mutare e che trova continuità nel paesaggio in perenne movimento creato
dall’uso surreale delle immagini. Una tecnica che ben si sposa al carattere onirico del
film, con il sogno che diviene acuto momento di riflessione personale del protagonista.
La tecnica è quella del rotoshop, che permette di girare un film in digitale facendo recitare
attori in carne e ossa, per poi sovrapporre al girato, fotogramma per fotogramma, disegni
con linee stilizzate ad opera di animatori professionisti. Una tecnica nella quale atomo e
bit si amalgamano in maniera sublime, a favore dello statuto imperante del secondo. Un
inchino al regno del corpo-dato.
Guardiamo la televisione, giochiamo al computer, navighiamo in Internet, facciamo gli
hacker informatici, entriamo in una realtà virtuale. Tutto questo significa osservare stati-
camente dei dati che scorrono innanzi a noi, su quello schermo percorso da onde elettro-
magnetiche che ci sta di fronte. Alienazione del corpo, che diventa sempre meno rilevante
e molte volte stimola quell’odio verso il corpo stesso, verso la carne, sentimento patolo-
gico alla base del postumanesimo.
La tecnologia digitale trasforma in codice binario l’immagine dell’originale, portando
in campo una successiva definizione del concetto di riproducibilità (che ha cominciato a
codificarsi con l’avvento della fotografia). “L’aspetto riconoscibile di un originale, ovvero
la sua immagine, non è che l’output percettibile di un pacchetto di informazioni nume-
riche, le quali possono essere manipolate e modificate”.7 In questo senso la riproduzione
digitale è in stretta analogia con i procedimenti di clonazione e modificazione genetica
messi in atto dalla biologia, grazie alla sua velocità di trasmissione estremamente elevata
e riassemblabile in un organismo multimediale verso il quale convergono suoni, filmati e
7 Definizione di ‘immagine digitale’ tratta da Enciclopedia Tematica ‹‹le Garzantine››, Vol. 7 – Arte A-Mir, p. 269.
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L A D I T TAT U R A D E L L’ I M M A G I N E - C O R P OD a l l ’ a n a l o g i c o a l d i g i t a l e
altre immagini.
La tecnologia digitale altera l’approccio lineare alla realtà inaugurato dal sistema di scrit-
tura greco e potenziato dall’invenzione della scrittura a caratteri mobili (Johann Guten-
berg), per sostituirlo con un sistema parallelo che fa dell’ipertesto il proprio oggetto privi-
legiato. Col digitale si entra nella rete, ove la proprietà si disperde secondo infiniti gradi di
riproduzione mai più identificabili e rintracciabili. Il corpo degli oggetti si fa simulacro.
“Non sono solo cose, ma cristallizzazioni di sogni, di immagini e immaginari, sono me-
moria e progetto”8.
La produzione disneyana Tron è una delle prime pellicole a far uso della computer grafi-
ca, funzionale per rendere l’ambiente virtuale nel quale il protagonista Kevin Flynn / Clu
(Jeff Bridges) si ritrova ad operare, dopo un processo di smaterializzazione molecolare
subìto inavvertitamente e che lo ha reso un personaggio digitale. Un ambiente ricreato nel
computer dove si svolgono le battaglie di Clu contro le copie virtuali degli stessi creatori
del videogioco, riflesso di una realtà sempre più proiettata nel vivere dentro uno schermo,
nel riprogettare le proprie architetture fisiche su supporti mnemonici artificiali, volendo
credere che tali costruzioni siano un’altra realtà in cui poter esistere.
Purtroppo siamo dei corpi-dati e la nostra identità può essere modificata a nostra insaputa
(errori di digitazione) e noi ci trasformiamo (come William Costigan Jr. / Leonardo Di
Caprio, la cui identità viene cambiata e cancellata in The Departed - Il bene e il male).
Siamo di fronte ad “una mutazione antropologica, che produce un nuovo, ancora sco-
nosciuto tipo d’uomo, intaccato nella sua unità, generico e interscambiabile, simile alle
figure antiche del mito, che sono e non sono individui, che sono tutti e nessuno”.9
Siamo nel mondo del digitale, del negropontismo (da Nicholas Negroponte, guru del
MIT, Massachusetts Institute of Technology) che professa la nostra natura di esseri digi-
tali, sradicando il valore della parola ragionata a favore, ad esempio, della brevità (delle
mail) e dell’istantaneità (delle immagini in tempo reale).
8 Eleonora Fiorani, Innovazioni tecnologiche e mondi dell’esperienza, in Carlo Simoni (cur.), Ingegnerie della vita, del corpo, dell’intelligenza, Grafo edizioni, Brescia, 2002, p. 103.
9 Claudio Magris, Gregor von Rezzori. L’uomo allo specchio, in ‹‹Corriere della Sera››, sabato 26 mag-gio 2007, p. 41.
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L’ U O M O V I R T U A L E
L’insignificanza del digitale ci porta a fotografare e fare video di immagini quotidiane che
l’occhio nudo perde il momento di godere. L’uomo non è più un individuo (dal latino in-
dividuus ‘indivisibile’, ‘inseparabile’, ‘indiviso’), bensì è un’entità frammentata, spezzet-
tata, mossa e spostata a piacimento dal gioco delle immagini. Perso in un mondo dove ciò
che conta è il dettaglio mostrato ad ogni costo, ingrandito, ingigantito, fino a far perdere
le tracce dell’insieme cui appartiene. Tutto in nome di un’immagine che non mente. E in-
vece l’immagine ha in sé una potenza falsificatrice che non trova eguali in altri strumenti
di comunicazione. In più essa ha una “forza di veridicità” [che] ne rende la menzogna più
efficace e quindi più pericolosa”.10
Quando guardiamo un’immagine, una qualsiasi immagine, non sappiamo più se stiamo
guardando qualcosa di vero, qualcosa di precisamente identificabile. Come quando nel
guardare Alien (il film) osserviamo sconcertati Alien (il mostro) che campeggia terrifi-
cante sullo schermo, una figura che si fa “sintomo esplicito di una frattura fra il vedere
e il conoscere. [Questo perché] la visibilità non garantisce più la conoscenza, non certi-
fica alcuna verità. Produce piuttosto incertezza, indecisione, instabilità”.11 Perché siamo
nell’era del ritocco, della manipolazione dei pixel, del loro ricollocamento, cambiamento,
del rimodellamento di forme che le fanno apparire altro da ciò che sono.
Nel film Fino alla fine del mondo Wim Wenders mette in scena la storia di uno scien-
ziato che sviluppa un meccanismo per tradurre le attività elettrochimiche del cervello
in immagini digitali. Le immagini affascinano e seducono i personaggi, che alla fine
rimangono prigionieri dei loro sogni, schiavi senza più volontà se non quella di assistere
al proprio passato materializzato su uno schermo. Nei luoghi de Fino alla fine del mondo
l’ipovedente Trevor McPhee / Sam Forber (William Hurt) vuole vedere oltre la realtà e
vuole donare la vista anche alla madre cieca. Le sue peregrinazioni per il mondo sono
l’occasione per filmarlo con una videocamera digitalizzata inventata dal padre Henry
(Max von Sydow).
È la stessa identica dinamica di chi si perde nei mondi virtuali, ecco perché la soluzione
10 Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 69.
11 Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo , Bompiani, Milano, 2001. pp. 119-120.
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migliore è quella di “non rifiutare la nostra vita sullo schermo, ma neppure è il caso di con-
siderarla come una vita alternativa. Possiamo usarla come uno spazio per la crescita”.12
Ma il rischio di perdersi nei labirinti del digitale è concreto e ben allegorizzato alla perfe-
zione dai due Terminator di Terminator 2 - Il giorno del giudizio, ognuno con la rispet-
tiva tecnologia di rappresentazione, l’una opposta all’altra nel rivelare la tensione fra il
mondo analogico-macchinico e quello digi-
tale. Un mondo digitale che viene rivelato
dal meccanismo del morphing.13
Fotomontaggio, fotoritocco, morphing, ecco
gli invisibili grimaldelli che decostruiscono
(il reale) e ricostruiscono (il virtuale). L’era
del morphing, paradigma odierno dell’ec-
cessivo continuo rimodellamento del corpo.
Il computer morphing mina la base del pensare umano, che risiede nella nostra capacità
di categorizzare il mondo. Il morphing è un segno del nostro tempo, un tempo in cui la
capacità di farsi altro rimodella confini, spazio, direzione, identità e tempo. Con il mor-
phing noi sperimentiamo fluttuazioni liminali, oltrepassiamo le barriere, come lo sciama-
no quando entra in contatto con gli spiriti.
Abyss passa alla storia come prima pellicola dove la tecnica del morphing permette di
animare le fluttuanti forme delle creature aliene che vivono nelle profondità marine. Ne
I fantastici 4 e Silver Surfer è la figura di quest’ultimo che catalizza l’attenzione di tutti,
da solo più bello dell’intero film. Silver Surfer, creatura aliena che si fa notare per la sua
malleabilità corporale, per la sua capacità di solcare i cieli su una tavola argentea come la
sua pelle e che lo rende una versione aggiornata del T-1000 di Terminator 2 – Il giorno
del giudizio.
12 Sherry Turkle, Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, Simon & Schuster, New York, 1995; tr. it. La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di Internet, Apogeo, Milano, 1997, p. 317.
13 Il morphing consiste nella rtasformazione fluida, graduale e senza soluzione di continuità tra due im-magini di forma diversa, che possono essere oggetti, persone, volti, paesaggi [tratto da http://it.wikipedia.org/wiki/Morphing]
Terminator 2 – Il giorno del giudizio (James Cameron, 1991)
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L’ U O M O V I R T U A L E
Se la mutazione ha a che fare con il cambiamento naturale (Teenage Mutant Ninja Turt-
les, come Gregor Samsa), il morphing è un modo di rimodellamento fondato sulla forza
di rottura propria della tecnologia. Il processo di morphing segue due passaggi base: il
warping, cioè deformare le immagini in forme trasformate; il dissolving, cioè dissolvere
un’immagine su un’altra (come la dissolvenza incrociata del cinema).
Il morphing permette di fare e disfare liberamente. È un modo di vedere che scavalca il
tempo. Con il morphing e le idee science fiction di The Final Cut possiamo rivedere nello
spazio di dieci minuti lo scorrere di un’intera vita.
Ancora Terminator 2 – Il giorno del giudizio: le mirabolanti tecniche del digitale posso-
no produrre ciò che vogliono, senza alcun limite, così come la corazza (apparentemente)
invincibile del T-1000 può scomporsi, ricomporsi, adattarsi a qualsiasi forma, senza limi-
te alcuno. La magia del morphing permette di passare da immagini sintetiche a immagini
reali, in uno stupefacente atto trasformativo senza soluzione di continuità (lettura delle
immagini da parte di un computer attraverso punti luce). Quel morphing che diventa
metafora ideale dei rapidissimi procedimenti di transizione che caratterizzano il nostro
tempo postmoderno, nel quale la potenza vivificante di un insieme di pixel ha una valen-
za ontologica tale da spodestare violentemente il regno dell’atomo. In Terminator 2 – Il
giorno del giudizio il T-1000 può non solo alterare la sua ultima posizione ma anche le
componenti strutturali del suo corpo, quindi egli può capricciosamente cambiare il suo
corpo come noi cambiamo le nostre idee. Il film riflette la strada che abbiamo intrapreso
verso il digitale, cancellando il ricordo della vecchia fotografia. Una fuga dallo statico al
dinamico.
L’ambiguità della rivoluzione digitale sta nel fatto che essa conduce ad un bivio: se per-
corriamo una strada decidiamo di abbandonare i corpi per entrare nella rete del virtuale;
se imbocchiamo l’altra ci facciamo investire dalla comunicazione e dall’informazione. In
quest’ultima prospettiva la scienza cerca di lavorare per potere indossare la tecnologia,
usarla senza doverci sottomettere alle sue necessità.
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L A D I T TAT U R A D E L L’ I M M A G I N E - C O R P OC i n e m a : i l c o r p o c h e s p a r i s c e
Cinema: il corpo che sparisce
‹‹Se l’interpretazione è autentica, non importa se l’attore è reale o no. Tanto
cosa c’è di reale ormai, molti attori oggi hanno ritocchi digitali››.
Viktor TaranskyS1m0ne (2002)
C’è una tendenza alla sparizione del corpo dell’attore: infatti, la progressiva cartoonizza-
zione, l’utilizzo di effetti speciali sempre più massiccio, la costruzione di corpi artificiali
elaborati al computer con la tecnica digitale, tutto questo potrebbe creare un futuro del
cinema in cui attori in carne e ossa fungono da controfigure per stelle del cinema artifi-
ciali.
In Renaissance particolare è la tecnica di lavorazione che ne unisce due derivate dalla
computer grafica: i movimenti degli attori, tutti a noi perfetti sconosciuti, sono stati ripresi
con la tecnica del motion capture14 (cattura del movimento) su uno sfondo neutro. A que-
sti movimenti sono stati aggiunti degli scenari digitali di sfondo, mentre gli “scheletri”
degli attori digitalizzati sono stati ricoperti da texture tali da rendere l’effetto delle tavole
di un fumetto, poi rese con il bianco e nero. L’uomo si fa immagine sulla strada del mor-
phing, come se scendesse la scala presente nel Ciclo di Maurits Cornelis Escher, pronto a
trasformarsi in altra forma nell’immediatezza dell’istantaneità.
Qualunque cosa che possa essere convertita in zero e uno nella memoria di un computer può venire sotto-
posta a un intervento di morphing, che squaglia la figura umana dissolvendola in un’anima liquida capace
di riversarsi in qualunque contenitore”.15
Ed è con il morphing che il cinema ci mostra il T-1000 di Terminator 2 – Il giorno del
14 Motion capture: l’attore indossa un vestito ricoperto da alcuni marcatori. I computer creano un imma-gine stilizzata dell’attore e riproducono digitalmente i suoi movimenti, che vengono “catturati” attraverso qualche decina di telecamere attorno a lui, le quali mandano le coordinate dei marcatori ai computer crean-do così una immagine virtuale che riproduce i movimenti dell’attore. [tratto da http://it.wikipedia.org/wiki/Motion_capture].
15 Mark Dery, Escape Velocity – Cyberculture at the end of the century, 1996; tr. it. Velocità d fuga. Cyberculture a fine millennio, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 255.
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L’ U O M O V I R T U A L E
giudizio trasformarsi fluidamente in qualsiasi cosa esso voglia. Nella riflessione sul cam-
biamento del cinema, le figurazioni contrapposte del T-800 e del T-1000 marcano rispet-
tivamente la classica presenza fisica dell’attore (che si traveste da macchina per recitare)
e la postmoderna sparizione del corpo attoriale (l’effetto grafico che consente all’attore
di comparire). Corpi che spariscono anche in Teenage Mutant Ninja Turtles con le verdi
tartarughe umanizzate che calcano il grande schermo per difendere la città dai pericoli di
un male sempre in agguato. Stavolta (dopo il lungometraggio del 1992) lo fanno volteg-
giando con ancora più leggiadria grazie ai prodigi della computer grafica, che diviene la
vera protagonista di un mondo costruito per intero sullo schermo.
Siamo nell’era del visibile, dove anche i corpi degli attori vengono schiacciati, appiat-
titi dallo spazio tridimensionale della loro realtà incarnata a quello 2D dello schermo,
subendo la trasformazione: vedi l’ingrassare, dimagrire, potenziare il proprio corpo per
impersonare determinati personaggi.
S1m0ne indaga la natura del fenomeno digitale, costituito da milioni di pixel sfuggevoli,
sui quali il protagonista Viktor Taransky (Al Pacino) sembra imporre il proprio dominio,
tipico del creatore. Infatti, grazie all’inven-
tore di un software intitolato Simulation One
in grado di riprodurre al meglio la recitazio-
ne degli attori, egli arriva a creare una diva
perfetta, Simone (Rachel Roberts). Una ri-
flessione che mostra la sostituzione del reale
con l’irrealtà di un digitale che assorbe gli
sguardi ed esiste soltanto nella propria proiezione su uno schermo.
L’elemento narrativo può anche dissolversi nella mirabolante costruzione dell’architettu-
ra tecnica. E forse il maggior pregio di Immortal (ad vitam) non sta nella trama, pur se
svolta con sentimento, ma nel modo in cui essa viene realizzata: ovvero attraverso l’uso
della computer grafica, che sancisce ormai il fattibile passaggio ad un cinema in cui il
digitale può restituire con grande forza visiva e (se ben orchestrato) il pathos di un clas-
sico film girato nella realtà fatta di atomi. Infatti, in Immortal (ad vitam) tutto, o quasi, è
S1m0ne (Andrew Niccol, 2002)
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costituito da bit. “Tutti i set utilizzati sono virtuali e dell’insieme di tutte le immagini, un
totale di 26’ è animato in 3D, un altro totale di 38’ è un misto di animazione e di immagini
dal vero, mentre altri 20’ sono di immagini ottenute con il sistema del compositing16”.17
Nel mondo dei cartoni animati la metamorfosi è la norma. Attori in carne e ossa che
interagiscono sempre più con simulacri digitali, l’atomo che incontra il bit, il tutto inau-
gurato nel 1988 da quella straordinaria pellicola che è Chi ha incastrato Roger Rabbit,
progenitrice della cartoonizzazione degli attori ed ora della comparsa sul palcoscenico
principale di raggianti figure digitali, illuminate dall’occhio di bue, mentre gli uomini si
defilano dietro le quinte.
In Matrix, con la tecnica della flow motion è consentito agli attori fare ciò che prima era
esclusivo territorio di competenza dei cartoni animati o, comunque, dei personaggi dise-
gnati sulle pagine di un fumetto: infatti, gli attori bloccati in aria durante un combattimen-
to ricordano gli anime giapponesi, che a loro volta rimandano ai manga giapponesi e ai
fumetti in generale; un ralenti che tende a bloccare l’immagine, riempitiva dello schermo
come una vignetta che occupi una pagina di carta.
Stiamo rendendo il nostro corpo sempre più trasparente, ma oggi “il corpo sta consegnan-
do alla tecnica anche il potere di controllo che riduce la nostra fisicità a superficie di scrit-
tura dove è possibile leggere la nostra identità ormai indifesa”18. E in Matrix Reloaded è
un inseguirsi continuo di immagini in movimento realizzate in bullet time (due cineprese
e tutta una serie di macchine fotografiche in posizione fissa che registrano ciascuna un fo-
togramma in posizione diversa e poi rendono possibile quel ralenti che si compie dinanzi
ai nostri occhi).
Il cinema lungo il suo dispiegarsi storico è stato bloccato con tre ferma-immagine dal cri-
tico Serge Daney: il cinema classico che aveva per protagonista la massa umana, quello
16 Il compositing è un procedimento che permette la modifica degli aspetti visivi di un filmato attraverso l’aggiunta di effetti speciali e la sovrapposizione di più sorgenti video [tratto da http://www.omeganet.it/utenti/indiana/compositing.html].
17 Angelo Moscariello, Fantascienza, collana “I dizionari del cinema”, Electa Mondadori, Milano, 2006, p. 322.
18 Umberto Galimberti, Se il corpo diventa una password, su ‹‹La Repubblica››, giovedì 29 aprile 2004.
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L’ U O M O V I R T U A L E
delle grandi folle dei film di Ejzentšejn, Ford, Lang; il cinema moderno che aveva per pro-
tagonista l’essere umano, l’individuo umano nel suo sistema problematico di relazione,
quello dei Godard, Antonioni, Bertolucci; il cinema postmoderno (contemporaneo) che
ha per protagonista lo spazio umano, l’ambiente, le cose che in esso vengono a galla.19
“Il cinema si limita a tradurre nei propri termini l’indebolimento dell’idea occidentale di
corpo (e di realtà); non più il tempio della tradizione giudeo-cristiana, né il settecentesco
involucro del pensiero individuale, ma un oggetto da trasformare a piacimento, da tatuare,
ferire, sezionare, perforare, la realtà essendo ormai diventata un’altra [ovvero] una realtà
che chiamiamo virtuale”.20 Una realtà virtuale che si adopera per creare illusori costrutti
spaziali che sostituiscono la sostanza del naturale spazio fisico.
Il corpo-spettacoloNegli ultimi anni del XX secolo assistiamo al trionfo della visione meccanicistica del
corpo perpetrata dal dualismo cartesiano fra mente immateriale e mondo materiale. E il
corpo si trasforma in merce. Anche il denaro si fa informazione (dalla moneta alla carta
di credito) e la ricchezza è possesso dell’informazione. Possesso della velocità assoluta,
come dice Paul Virilio.
La passività, l’inerzia, è già un grosso problema. Il fatto di aver messo in opera, per la prima volta nella
storia, su scala mondiale, la velocità assoluta, la velocità delle onde elettro-magnetiche, comporta infatti
una inerzia. Farò un esempio: l’uomo andava incontro all’evento o all’informazione spostandosi nel mon-
do, verso l’evento [...] Ma, poiché ormai l’evento viene a lui, non ha più bisogno di spostarsi. L’arrivo
dell’evento ha soppiantato la partenza e il viaggio. È un fenomeno di inerzia. E, a mio avviso, questa inerzia
del corpo del telespettatore o del teleattore, dell’uomo interattivo, rischia di fargli perdere la memoria del
viaggio. Privato del viaggio, rischia di perdere la memoria delle acquisizioni che il viaggio rendeva possi-
bili.21
19 Per questa classificazione si è fatto riferimento a Gianni Canova, Il tramonto del corpo [http://www.fucine.com/network/fucinemute/core/index.php?url=sommario.php&t1=4].
20 Franco La Polla, Corpi superficiali, in ‹‹Cineforum›› 366, anno 37, n. 6, luglio/agosto 1997, p. 28.
21 Paul Virilio, La velocità assoluta [http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=353&tab=int].
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L A D I T TAT U R A D E L L’ I M M A G I N E - C O R P OI l c o r p o - s p e t t a c o l o
La tendenza in atto è quella che ci porta dall’attingere sempre meno alla fisicità e alla ma-
terialità per riversarci nel virtuale e nell’informazionale. Ogni corpo è investito da questa
traslazione, che miniaturizza, riduce, rimpicciolisce la forma, una forma sempre più pic-
cola, i cui valori di consistenza, massa, volume perdono quasi senso a favore della funzio-
ne che esprimono, in un processo di vera e propria metamorfosi tendente alla sparizione
fisica che li trasforma in segnale elettronico, in candida eterea invisibile informazione.
L’imperativo categorico è comunicare. Comunicare qualcosa, qualsiasi cosa essa sia. Ma
così non rischiamo di andare verso un mondo senza parole? Indirizzati verso un tutto che
dice nulla. Giovanni Sartori ci ammonisce:
I media, e soprattutto la televisione, sono oramai gestiti dalla sottocultura, da persone senza cultura. E sic-
come le comunicazioni sono un formidabile strumento di autopromozione – comunicano ossessivamente
e senza sosta che dobbiamo comunicare – sono bastati pochi decenni per creare il pensiero brodaglia, un
clima culturale di melassa mentale, e crescenti armate di azzerati mentali.22
Baudrillard e Debord descrivono una società mediata e implosa nella quale tutto il potere
di fare è stato trasformato nel potere d’apparire. Il mondo è divenuto una simulazione
di se stesso. E se il corpo si trasforma in merce, entrato nel ciclo continuo del consumo
spettacolarizzato, lo spettacolo si trasforma da guardiano del sogno in vigilante del sonno.
Esso diviene “il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita
sociale”.23
Lo spettacolo è l’altra faccia del denaro: ‘equivalente generale astratto di tutte le merci [...]. Lo spettacolo è
il denaro che si guarda soltanto, perché già in esso è compresa la totalità dell’uso che si è scambiata contro
la totalità della rappresentazione astratta.24
Attualizzando l’archimedea “Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo”, Mar-
22 Giovanni Sartori, op. cit., p. 112.
23 Guy-Ernest Debord, La société du spectacle, Buchet / Castel, Paris, 1967; tr. it. La società dello spet-tacolo, Massari editore, Viterbo, 2002, p. 57.
24 ivi, p. 61.
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shall McLuhan offre una caustica quanto mai veritiera indicazione sulla cessione del no-
stro punto d’appoggio a società private: “M’appoggerò ai vostri occhi, ai vostri orecchi,
ai vostri nervi e al vostro cervello, e il mondo si sposterà al ritmo e nella direzione che
sceglierò io”.25
La televisione si esibisce come portavoce di una pubblica opinione che è in realtà l’eco di ritorno della
propria voce.26
In un certo senso la realtà multimediale rapisce il nostro corpo. O meglio, essendo l’uomo
un nomade raccoglitore di informazioni, egli accoglie nel suo corpo le spore dei media,
che lo invadono come un virus si attacca ad un corpo ospite.
Nei film di David Cronenberg, specie in Videodrome, il cyborg nasce dalla fusione del
corpo biologico dell’uomo con i sistemi di comunicazione del pianeta, facendone un cor-
po-codice.
Cronenberg sa che ogni immagine della materia – proprio in quanto corpo – è per sua natura instabile e
mutante, metamorfica ed effimera. Panta rei, insomma: tutto scorre, nel cinema più che nella vita.27
La tecnoscienza odierna si fa veicolo dell’accelerazione della realtà. Siamo nell’era della
mondializzazione, nella quale si verifica “l’inizio della ‘fine dello spazio’ di un picco-
lo pianeta nell’etere elettronico dei nostri
odierni mezzi di telecomunicazione”.28 È
questo il tempo in cui l’istantaneità cancella
definitivamente la realtà delle distanze. Lo
spazio temporale fagocita lo spazio fisico.
La diretta, il live, trasforma tutto, compresa
25 Marshall McLuhan, op. cit., p. 79.
26 Giovanni Sartori, op. cit., p. 46.
27 Gianni Canova, David Cronenberg, Editrice Il Castoro, 1993, p. 11.
28 Paul Virilio, La bombe informatique, Éditions Galilée, 1998; tr. it. La bomba informatica, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 7.
Videodrome (David Cronenberg, 1983)
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la stessa televisione, pronta a farsi organo di controllo, di sorveglianza. Una metamorfosi
totale che “annuncia l’alba di una giornata particolare che sfugge totalmente all’alternan-
za giorno/notte, la quale aveva finora strutturato la storia”.29 E così, l’illuminazione delle
telecomunicazioni crea un falso giorno. I media spodestano e sostituiscono il mondo.
Il rilievo dell’evento “telepresente” prevale sulle tre dimensioni del volume degli oggetti o dei luoghi, qui
presenti.30
L’uomo perde progressivamente la capacità di osservare il mondo, assorbito nel vortice
dell’immagine, che gira su se stesso a velocità sempre maggiore. Più aumenta la velocità,
più aumenta il potere seduttivo dell’immagine, un corpus luminoso che attrae incondi-
zionatamente l’uomo, conducendolo sulla strada dell’allucinazione visiva restituita dal
proprio doppio informatico.
La tecnologia di Microsoft realizza quello che molti film di fantascienza hanno portato
dinanzi allo sguardo dei suoi spettatori già molti anni fa: infatti, la casa di Bill Gates
sta per immettere sul mercato Surface, un tavolo interattivo che permetterà di sfogliare
un album fotografico, vedere film, mandare e-mail, navigare in Internet, fare la spesa,
prenotare biglietti aerei. Cinque camere digitali poste sotto la superficie del tavolo, una
rete di collegamenti wireless, bluetooth e wi-fi permetteranno così al prodotto di vedere
realmente gli oggetti lì posati e di interagire con essi.
L’occhio s’eclissa, non scompare certo, ma lascia spazio all’azione principale del tatto:
l’interazione fra polpastrelli delle nostre dita e schermi elettromagnetici si fa sempre più
stretta. Il passo successivo è l’immersività completa nello schermo: è lo spazio che co-
struisce la realtà virtuale.
Quando cessa l’ambivalenza degli scambi, la loro reversibilità simbolica, le comunità primitive declinano,
e al loro posto subentrano le società che noi conosciamo, dove più nulla si scambia ma tutto si accumula
all’insegna di quel valore che trasforma lo “scambio simbolico” in “valore di scambio” [...] Nato dalla
29 ivi, p. 12.
30 ivi, p. 62.
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L’ U O M O V I R T U A L E
soppressione dell’ambivalenza, il valore si costruisce per effetto di una disgiunzione tra ciò che vale e che
ciò che non vale. L’universo si spezza metafisicamente tra cielo e terra, tra lo spirito e la materia, l’anima
e il corpo.31
Gli schermi pulsanti della nuova esistenzaIl contagio del tele-vedere
‹‹Lo schermo televisivo ormai è il vero unico occhio della mente umana [...]
Ed è chiaro che O’Blivion non è il mio vero nome, ma il mio nome-tv. Presto
tutti quanti avremo dei nomi-tv: nomi studiati con cura perché suonino bene
attraverso il tubo catodico››.Professor Brian O’Blivion
Videodrome (1983)
Lo schermo cinematografico può mostrare l’inimmaginabile lentezza del germogliare sta-
gionale di un fiore, così come può catturare il particolare dell’accensione della lampadina:
ovvero può rendere visibile ciò che allo sguardo umano sarebbe altrimenti invisibile.
Ma lo schermo della televisione fa di più, scavalca la barriera dello spazio, lo de-regola-
rizza e con lo schema del see it now ci mostra ogni cosa in tempo reale.
Lo schermo funziona come una frontiera tra due realtà, fisica ed elettronica. È uno spazio senza centro o
fondamento, e con la sola prospettiva d’una simulazione grafico-vettoriale (troppo incisiva, troppo perfetta)
che guidi un occhio umano che improvvisamente s’è staccato dalla sua corporeità, dalla sua spazialità, dalla
sua temporalità, e dalla sua soggettività.32[*]
In Minority Report siamo in un mondo futuro nel quale la tecnologia è fatta di schermi
da toccare, sfiorare, con oggetti da spostare, quadri da assemblare; schermi che ci iden-
tificano tramite la scansione dell’iride (tanto che il protagonista sarà costretto, nella sua
31 Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 40.
32 John Berger, Ways of Seeing, Penguin Books, Middlesex, 1972, pp. 86-87 [*] traduzione personale dall’originale inglese.
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fuga, ad un trapianto di occhi).
Il cyborg Max Renn (James Woods) di Videodrome rappresenta il farsi carne della cultura
mediatica (forse il farsi carne è portarsi addosso una “wearable technology” che trasfor-
ma l’uomo in sogno di ricezione).
Il soggetto è talmente sopraffatto dalle forze dello spettacolo che la simulazione diviene
nuova realtà. Siamo nel regno dell’immagine terminale. E con Videodrome il corpo diven-
ta un registratore, parte del sistema di massa
di riproduzione tecnologica. Dallo spetta-
colo come fenomeno visivo allo spettacolo
come realtà. Max Renn diviene l’estensione
dell’arma, un servomeccanismo terminale.
“Videodrome presenta una realtà destabiliz-
zata nella quale l’immagine, la realtà, l’allu-
cinazione e la psicosi si fondono indissolubilmente”.33[*]
La televisione, le videocassette, i registratori, i videogiochi ed i personal computer danno corpo tutti in-
sieme ad un sistema elettronico inclusivo, le cui diverse forme si “interfacciano” per costituire un mondo
alternativo e assoluto che incorpora unicamente lo spettatore / utente in uno stato spazialmente decentrato,
debolmente temporizzato e quasi disincarnato.34 [*]
L’uomo si differenzia dall’animale per la sua capacità simbolica, ovvero per la sua capa-
cità di riflettere sul detto e sul non-detto; gli animali, invece, si esprimono tramite segnali.
Ma la visione in immagini perpetrata dalla televisione mette in second’ordine questa ca-
pacità tutta umana di riflessione, producendo altre immagini e cancellando i concetti.
La televisione sta producendo una permutazione, una metamorfosi, che investe la natura stessa dell’homo
sapiens. La televisione non è soltanto strumento di comunicazione; è anche, al tempo stesso, paidéia, uno
33 Scott Bukatman, Terminal Identity: The Virtual Subject in Postmodern Science Fiction, Durham: Duke University Press, 1993, p. 98 [*] traduzione personale dall’originale inglese.
34 Vivian Sobchack, The Scene of the Screen: Towards a Phenomenology of Cinematic and Electronic Presence, 1990, p. 56, in Scott Bukatman, op. cit., p. 105 [*] traduzione personale dall’originale inglese.
Videodrome (David Cronenberg, 1983)
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L’ U O M O V I R T U A L E
strumento antropogenetico, un medium che genera un nuovo àntrophos, un nuovo tipo di essere umano.35
La televisione così crea anche il mondo virtuale e dall’assistere si passa al fare, dalla stati-
cità all’interattività. Verso una distruzione dell’astrazione. La cultura dell’apparire sposta
la centralità dell’essere sulle sue protesi (automobile, abiti, telefonino). Il reality-show
realizza pienamente il desiderio dell’uomo di farsi vedere, di divenire uomo-da-video da
uomo-nessuno quale era prima.
Videodrome si fonda sull’assunto che “la televisione è l’altare sul quale il potere recita i
propri sermoni. Il vero dramma è che l’altare come il corpo sta in piedi anche senza idee
ed anche senza sermoni”.36
Videodrome è il segnale che ci trasforma in zombies per mezzo del potente morso dell’im-
magine. Violentati dalla multiforme, multicolore immagine che campeggia sui nostri vi-
deo-schermi, ci ritroviamo incarnati in qualcosa di nuovo. Una forza mediatica che ci
vuole penetrare con la forza (vis) della visione (videre), per innestare in noi qualcosa di
nuovo, qualcosa di diverso. Abbandonati agli incubi deliranti che promettono una lunga
vita alla nuova carne, fatta di immagini.
Videodrome ha la forma inquietante di un’interrogazione problematica sulla natura riproduttiva delle im-
magini e sul rapporto di ambivalente fascinazione e repulsione che l’occhio umano prova di fronte ai propri
sogni e ai propri incubi reificati e incessantemente sullo schermo della tv.37
Una perturbante forma di instabilità narrativa che mai ci fa capire se ciò che vediamo
sia un sogno, un’allucinazione o la realtà. Il film, giocato sulla pelle del protagonista
Max Renn (James Woods) ci mostra come tutti noi siamo programmati da media che ci
infettano con le immagini che pretendono di mostrare il reale nell’aberrante forma dello
schermo televisivo.
35 Giovanni Sartori, op. cit., p. 14.
36 Francesco Guerra, La ghignante realtà del potere [http://www.fucine.com/network/fucinemute/core/index.php?url=sommario.php&t1=4].
37 Gianni Canova, David Cronenberg, op. cit., p. 50.
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In un mondo dominato da corpi che sono portatori sani di video-parassiti, in cui sembra non esserci altra
“realtà” al di fuori della televisione, il rischio è quello di perdere la capacità e l’abitudine al controllo critico
e alla verifica delle immagini.38
In Videodrome l’integrazione fra corpo e tecnologia è indotta dal corpo sociale, prodotto
all’interno della sua quotidianità. La televisione ci assorbe, cancellando ogni confine tra
esterno (oggettivo) e interno (psichico e soggettivo). Dunque, lo schermo televisivo si
sostituisce ai nostri occhi. Sulla stessa riga si muove eXistenZ, mostrando la confusione
tra mondo reale e mondo virtuale, ormai indistinguibili. Però, “l’attenzione di Cronenberg
è costantemente focalizzata sui processi biologici come origine, tramite, centro organiz-
zatore e campo di battaglia dell’immaginario”.39
I film di David Cronenberg sono una riflessione sul distacco tra mente e corpo nell’era
dell’informatica e, come dice Martin Scorsese, egli “parla sempre di McLuhan”.
In un certo senso, anzi, Cronenberg è il gemello oscuro di McLuhan, e nella sua teoria i media elettronici
e gli strumenti meccanici, più che ‘estensioni dell’uomo’ sono gli agenti di una morfogenesi che non è
sempre bella a vedersi.40
In Videodrome il corpo si fa uno strumento controllato dal dispositivo mediale della tele-
visione. L’occhio della televisione si sostituisce così alla vista dell’uomo e in Videodrome
si fa arguta metafora della morte in diretta del pensiero umano, di un tumore che soffoca la
capacità di giudizio umana, bombardata da informazioni ‘spettacolari’. Ancora una volta
è coinvolto il corpo dell’uomo (Max Renn), che diviene contenitore e basta. Un uomo
che si rende base d’appoggio per protesi mediatiche. Come succede al giornalista de La
morte in diretta, nel cui occhio viene impiantata una protesi contenente una telecamera.
È l’occhio dei media che si fa tentacolo senza fine, pronto a penetrare con la pietrificante
38 ivi, p. 59.
39 Antonio Caronia, Il Cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano, 2001, p. 81.
40 Mark Dery, op. cit., p. 321.
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L’ U O M O V I R T U A L E
forza di uno sguardo cinico e spietato in ogni situazione della vita quotidiana. Camera
che si corporeizza per mostrare i corpi di qualcun altro, anche se malato come quello
di Katherine Mortenhoe (Romy Schneider), affetta da un male incurabile e tormentata
dall’assedio di un bulbo artificiale che vuole riprendere il massimo dell’estasi mediatica:
la morte in diretta. L’offerta sull’altare di un
dio-spettacolo della chiusura più esplicita
della vita, la dissolvenza più incisiva che ci
sia. Ma a tutto questo si opporrà quello stes-
so uomo che, prima piegato dal profitto e ora
arricchito dall’amore, scrive un finale diver-
so, accecandosi ed interrompendo le riprese.
Un gesto forte di condanna ad una società dominata dalle ragioni del capitale e dei mass
media, un gesto guaritore che si propone di curare gli uomini tutti dalla malattia morale
di un voyeurismo parossisticamente esasperato.
E l’attrazione per un’immagine che sembra corporeizzarsi torna anche ne Fino alla fine
del mondo, dove l’ipovedente Edith riesce a vedere le immagini virtuali della realtà, ma
per lo shock muore. Henry Forber disperato modifica i meccanismi della macchina per far
emergere le pulsioni più riposte dell’animo umano e materializzare i sogni. Claire e Sam
si offrono per far da cavia al nuovo esperimento: ma il risultato è quello di cadere in una
specie di “teledipendenza” che li spinge a vivere soltanto per dar forma ai sogni.
Una teledipendenza che cerca di svuotare i corpi delle persone in Fahrenheit 451, uo-
mini erosi all’interno dalla forza distruttiva di un potere che li riduce a calcolatori freddi,
privati delle emozioni della parola. Ecco, dunque, la storia del pompiere Guy Montag
(Oskar Werner) incaricato di presiedere al lavoro di eliminazione della cultura, consis-
tente nell’incenerimento delle parole impresse sulle pagine. Nessuna persona dovrà più
poter entrare in stretto contatto con i libri, toccarne la carta, sfogliarli, entrare nell’anima
di chi li ha scritti. Esiliati anche gli uomini di cultura, causa di infelicità e di turbamento
sociale. Ma Montag avrà una crisi, sentirà nuovamente il bisogno, proprio dell’uomo,
di pensare; eccolo dunque unirsi ad un gruppo di clandestini, gli “uomini-libro”, pronti
Videodrome (David Cronenberg, 1983)
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a reagire al sistema di controllo imposto dal Potere attraverso la somministrazione di
droghe, iniettate in forme di teledipendenza. Tormentum versus pietas, ovvero freddezza
(macchinica) contro pietà (umana).
La zona morta si addentra nel territorio minato dei poteri sconosciuti del corpo, con il
protagonista Johnny Smith (Christopher Walken) che si risveglia dopo cinque anni di
coma e si trova in possesso di un inspiegabile dono di preveggenza; una seconda vista
che trasforma il più piccolo contatto con un’altra persona in icastica visione, una sorta di
mcluhaniana illimitata estensione dei suoi organi di senso. Ma da casuale manifestarsi il
dono si trasforma, per volontà del suo padrone, in droga indispensabile alla vita, facendo
provare a Smith un senso di onnipotenza quasi divino ma anche scuotendo il suo fisico
con ansie mai provate prima. Il protagonista, così, incarna l’onnipotenza visiva dei media
che si trasforma in onnipotenza creativa (di realtà); egli rende chiaro al nostro sguardo
come l’unica realtà sia quella che percepiamo coi nostri sensi e come le immagini del
film siano il riflesso delle immagini del tempo, un tempo in cui “l’avvento di una civiltà
massmediale planetaria obbliga tutti a fare i conti con la viralità delle immagini e con la
necessità di ridefinirne lo statuto comunicativo”.41
Realtà da toccare
‹‹Mi state mettendo in condizione di sospendere le ricerche sulle infinite po-
tenzialità dell’uomo. La realtà virtuale è la chiave per l’evoluzione della mente
umana››.Dottor Angelo
Il tagliaerbe (1992)
‹‹Allegra Geller: Come ti sembra la realtà?
Ted Pikul: Ha un’aria totalmente irreale.
Allegra Geller: Sei confuso adesso, eh? Tu vuoi tornare al ristorante cinese,
perché qui non succede niente››.Dialogo tra Allegra Geller e Ted Pikul
eXistenZ (1999)
Determinante è la metamorfosi dei processi analogici in processi digitali, poiché con essi
41 Gianni Canova, David Cronenberg, op. cit., p. 66.
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si passa da un livello caratterizzato da sostanziale immobilità ad un altro livello fluido e
capace di adattarsi ad ogni situazione, si dà vita ad una realtà parallela: la simulazione.
Il computer, oggetto di margine (come i sogni e le bestie) che provoca la rinegoziazione
dei vecchi confini, è lo spazio del virtuale, lo spazio di un nuovo mondo. Esso ci permette
di accrescere le nostre capacità di capire il reale. Questa è la ragione per la quale si parla
di realtà amplificata. In chirurgia, per esempio, si possono sovrapporre le immagini del
paziente a quelle virtuali che, a loro volta, aumenteranno la leggibilità del corpo reale. La
realtà aumentata, ovvero una condizione in cui le immagini reali vengono arricchite con
informazioni digitali che permettono di veder ciò che alla vista umana non è fisicamente
concesso. Dunque, la realtà virtuale ha un lato decisivo nell’aiutare la medicina, permet-
tendo di visualizzare le molecole, i legami atomici e di agire per la manipolazione, oppure
ci permette di vedere il corpo da dentro e ci consente di analizzare e costruire sequenze
come nel caso del Progetto Genoma Umano.
I computer hanno donato nuova vita alle scienze, per fare un esempio, attraverso la visualizzazione, permet-
tendo agli scienziati di “vedere” ciò che i sensi umani non consentono: il moto delle particelle subatomiche,
la mescolanza dei gas, il movimento delle zolle geografiche.42 [*]
Assistiamo così ad un “progressivo slittamento del rapporto fra specie umana, natura e
tecnica verso nuove forme di scambio reciproco di informazioni e conoscenza”43.
I calcolatori potrebbero servire per costruire la vita artificiale: prima si potrebbero simu-
lare le nuove biologie e poi renderle reali trascrivendole nella realtà con le tecniche alla
base della sintesi proteica. Infatti, c’è una certa affinità tra la genetica che contraddistin-
gue ogni essere vivente e la trasmissione dei geni attraverso le generazioni in una mente
artificiale. Messi in competizione alcuni programmi e selezionati quelli che svolgono
correttamente parte del compito iniziale assegnato, questi si riproducono e generano pro-
grammi figli, con caratteristiche simili a quelle dei “genitori”; poi, fatta una nuova sele-
42 Scott Bukatman, op. cit., p. 109 [*] traduzione personale dall’originale inglese.
43 Carlo Formenti, L’ambiguità delle nuove tecnologie: lo scontro degli immaginari nell’epoca di In-ternet, in Carlo Simoni (cur.), Ingegnerie della vita, del corpo, dell’intelligenza, Grafo edizioni, Brescia, 2002, p. 103.
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zione ed eliminati quelli non adatti (eugenismo delle menti artificiali), il ciclo si ripete
ad ogni nuova generazione. Dunque, una ritrasmissione “genetica” che impiega soltanto
il tempo di qualche secondo per realizzarsi e che, nel suo complicato sistema ricombina-
torio, rende difficile capirne il funzionamento, ma ottiene lo scopo: il miglioramento del
programma.
Inoltre, la virtualità al servizio dell’uomo continua a progredire, cercando di curare vari
disturbi con la stimolazione nervosa e la creazione di una seconda realtà: dal gioco “Vir-
tual Iraq” con il quale i soldati possono essere aiutati a guarire da quella che i medici chia-
mano ‹‹sindrome da stress post-traumatico››, per mezzo di un programma high tech che
ricrea le condizioni di guerra e, sotto la supervisione di uno psicologo, dosa la violenza
delle scene; oppure “Snow World”, un mondo tridimensionale dove si fabbricano pupazzi
di neve e igloo e nel quale gli ustionati gravi trovano sollievo al loro dolore; o ancora
realtà virtuali che si fanno terapie di riabilitazione vere e proprie, con l’uso di data-glove
(guanti per la realtà virtuale) che aiuta i pazienti colpiti da ictus a riprendere i movimenti
di una volta.44 Lo stesso avviene inizialmente ne Il tagliaerbe, con il dottor Lawrence
Angelo (Pierce Brosnan) che affronta il tema della realtà virtuale, decidendo di utilizzarla
in forma terapeutica su un essere umano con qualche disturbo mentale.
Nelle intenzioni originali dei sostenitori della realtà virtuale, essa doveva essere un’inter-
faccia nuova tra uomo e computer. Ma il successo si creò con i videogiochi immersivi,
che trasformavano il giocatore in un cyborg temporaneo, portandolo con una traslazione
sensoriale in un mondo parallelo. Nel regno del virtuale scompare la linearità temporale,
44 Riferimento a Adriana Bazzi, La realtà virtuale? Una medicina. Così il computer aiuta a guarire, in ‹‹Corriere della Sera››, martedì 20 febbraio 2007, p. 29.
Le due figure soprastanti fanno riferimento al film Il tagliaerbe (Brett Leonard, 1992)
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il tempo non ha più dimensione.
L’immagine del virtuale distrugge il contatto fisico con la materia di produzione (foto-
grafia, pellicola) e nemmeno è lettura come quella che avviene sullo schermo di Internet,
bensì è un’immagine che si abita, una sorta di seconda pelle.
La tecnologia agisce sul corpo e lo trasforma profondamente: la realtà virtuale rivaluta
il corpo negandone l’intrinseca fisicità che ne ha sempre garantito l’esistenza in questo
mondo.
Siamo nell’era della simulazione, un’era in cui la nostra capacità di giudizio poggia sul
valore dell’interfaccia e in cui il nostro rapporto con la tecnologia ci serve a riflettere sulla
nostra natura umana (come ci è sempre servito il confronto con l’alterità animale e come
ci ha aiutato, scavando nel nostro complesso interiore, la psicoanalisi).
Qualsiasi interfaccia costituisce un filtro e, in un’ottica che fa slittare il consumo dei pro-
dotti dell’immaginario dai riti collettivi, a quelli familiari, sino a quelli individualizzati,
si compie il cammino di trasformazione dell’interfaccia, che muta dalla socializzazione di
massa del grande schermo, a quella familistica della televisione, sino alla fruizione tutta
personale che si realizza davanti al monitor del computer.
Il computer diventa il partner dell’uomo del nuovo millennio, in un processo di interazio-
ne che parte dagli anni Ottanta, quando IBM lanciò i personal computer con una “car-
rozzeria” che nascondeva il meccanismo: così l’uomo fa senza vedere e conoscere.
Il lancio dello stile a icone del Macintosh presentava al pubblico simulazioni (le icone delle cartelline,
il cestino, la scrivania) che non offrivano alcun suggerimento su come poter riconoscere la struttura cir-
costante.45
Ci troviamo a nostro agio in quell’universo che lo schermo ci prospetta, celato da una
seducente carrozzeria che ne nasconde i meccanismi interni. E come nel più magnifico
dei paradossi la sua opacità strutturale si maschera da trasparente icona che attrae il nos-
tro sguardo, costruzione gradita alla vista. Un’architettura di (inter)facciata che ci rende
trasparenti.
45 Sherry Turkle, op. cit., p. 18.
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Il computer diventa una macchina per l’intimità, nella quale riversare noi stessi, la nostra
sessualità, le nostre idee politiche, la nostra identità. Mentre esploriamo mondi virtuali
immaginando di essere un altro, di avere un altro sesso, scopriamo cose che mai avremmo
sospettato su noi stessi.
Last Action Hero – L’ultimo grande eroe è un giocattolo cinematografico che realizza la
voglia teenager e (ahimè) anche adulta di vivere in un videogioco, perché video-esistere
appare più divertente che esistere e basta.
E il mito di Narciso ci dice come già dall’antichità ci si interrogasse sulla natura inganne-
vole della realtà che ci appare. L’apparenza dello specchio che oggi si è trasformato nello
schermo. Così il monitor diventa come lo specchio in cui la Alice di Lewis Carroll (Alice
nel paese delle meraviglie, 1895) entrava per scoprire un altro mondo tutto nuovo: entria-
mo nelle comunità virtuali attraverso lo schermo e poi ricostruiamo le nostre identità al
di là dello specchio.
Racchiudere l’infinito in uno spazio infinitesimo. Questo significa avere a che fare con
una nuova linea evolutiva di oggetti che derivano ancora da uno spazio fisico ma tendono
ad abbandonarlo per effondersi nel tempo. De-materializzazione dell’esperienza.
L’ottica è sempre quella di un corpo (il nostro) che occupa contemporaneamente uno
spazio (reale) in maniera catatonica ed uno spazio (virtuale) in maniera dinamica (è la
stessa strada inaugurata dal walkman e da tutte le sue derivazioni sino all’i-pod).
Come già detto, se la televisione rendeva conto di immagini reali, il computer ci proietta
in un mondo di icone immaginarie, spalanca le porte alla realtà virtuale. La transizione
verso qualcosa, lo scavalcamento di un hic et nunc, solo questo sembra dare diritto di
esistenza.
Avalon invade il nostro spazio con la sua architettura virtuale da war game, cerca di
catapultarci nel mondo che la protagonista Ash sta cercando ossessivamente: quel livello
di Avalon nel quale tutto diventa più reale del reale. Le stesse scene del film sono state
riprese dal vero, per poi poter compiere con un software un’alterazione delle immagini,
dei colori e delle tonalità di luce.
È il mondo del gioco, di un MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-Playing
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Game), ovvero un gioco di ruolo per computer che viene svolto contemporaneamente da
più persone collegate in Internet: in questo modo, migliaia di giocatori possono interagire
interpretando personaggi che si evolvono insieme al mondo persistente che li circonda
ed in cui vivono. Ma il gioco virtuale scardina il senso del presente, il senso della realtà,
declinato in maniera inquietante in Brainscan – Il gioco della morte attraverso un vi-
deogioco che trasforma il giocatore in assassino. Una confusione di livelli d’esperienza
inoculata stavolta dall’artificio narrativo dell’incubo che al protagonista Michael Bower
(Edward Furlong) si rivela tale soltanto alla fine. Giochi che fomentano la violenza, come
quello presente nel fantascientifico lavoro di Robert Altman Quintet: titolo del film e, ap-
punto, di un gioco che costringe alla morte i partecipanti che perdono, il film diventa una
metafora sul non senso della violenza perpetrata dai videogiochi.
Addirittura lo schermo può sparire e le tecnologie possono integrarsi nel nostro corpo,
divenire le interfacce tra noi e il mondo, ovvero costituendo delle sorta di porte “attraver-
so le quali i segnali, opportunamente codificati, entrano ed escono dal sistema portando
ordini e informazioni”.46 È l’(ir)realtà di eXistenZ, condensato di dimensioni reali, ap-
parenti, virtuali, attuali, mitiche, rituali. Già nel titolo siamo catturati dall’anomala con-
catenazione di lettere maiuscole e minuscole che sono fuori posizione: la piccola “e” che
rimanda alle nostre esili esistenze la colloca in uno spazio enigmatico riassunto da quella
ottenebrante e gigantesca X che sembra voler pulsare e muoversi come il gamepod ar-
tefice di una realtà altra. E poi c’è quella Z che già onomatopeicamente recide il normale
suono della parola “existence”, da una chiusura dolce ad una Z tagliente che cambia tutto,
tronca e apre varchi alla realtà da videogioco. Varchi nella nostra pelle, connessioni nel
nostro organismo, corpi che si fanno extra-corpi nella ritualità di un giocare (esistere) che
spezza ogni collegamento fra passato e presente. Torna come in Crash il piacere della
ferita, della penetrazione nel nostro corpo di macchine, che la tecnologia ha trasformato
in materiale biologico; macchine organiche, fatte di carne come noi, che possono en-
trare nei nostri corpi semplicemente attraverso una bioporta che possiamo farci installare
presso una qualsiasi stazione di servizio da un Gas (Willem Dafoe) qualunque. Poi, basta
46 Giuseppe O. Longo, Homo Technologicus, Meltemi, Roma, 2001, p. 129.
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collegare lo spinotto (simile ad un cordone ombelicale) del nostro gamepod (che ricorda
molto un feto) e possiamo cominciare a giocare (entrare nella nostra nuova vita), vivendo
una nuova esistenza da protagonisti assoluti, costruendola passo per passo in una dimen-
sione che pretende di spazzare via col coinvolgimento totale l’altra esistenza, quella in cui
adesso siamo come addormentati e nella quale tutto prosegue sul binario di un’anonima
insensatezza. Fermi, immobili, mentre il tatto della nostra mente ci fa sentire tutto, mate-
rializzando i nostri ricordi, le nostre ansie, le nostre preoccupazioni.
Ma nel rimbalzare continuo fra situazioni e luoghi differenti, nessuno può più sapere
qual è il reale, tanto che l’ultima scena, rivelando la costruzione finora osservata come
un’architettura del nuovo gioco transCen-
denZ, pone l’interrogativo assoluto: ‹‹Ma
siamo ancora nel gioco?››. eXistenZ bat-
te con forza sul concetto di un’irreversibi-
le crisi della nostra identità fisica, effetto
dell’inarrestabile sviluppo tecnologico, per
cui l’uomo diventa terminale e la macchina,
rinnovandosi in una struttura organica e vivente, governa l’esistenza delle persone.
Ma il virtuale non si contrappone al reale, bensì all’attuale. Infatti “il virtuale è come il
complesso problematico, il nodo di tendenze e di forze che accompagna una situazione
[...] e che richiede un processo di trasformazione: l’attualizzazione”.47
La virtualizzazione, allora, non è altro che un cambiamento di identità, una spinta alla
metamorfosi di un corpo che si moltiplica. Nell’ambiente virtuale il soggetto si duplica in
spettatore e autore, cioè osserva e allo stesso tempo agisce in quello scenario che lui stes-
so crea. Forse, attraverso il virtuale cerchiamo di riprodurre con il calcolo l’esplorazione
del nostro corpo, di indagarne la conoscenza.
E in un segno di continuità che lega il teletrasporto di Seth Brundle ne La mosca alle as-
senze visionarie de Il pasto nudo ed alle crudeli immagini del segnale Videodrome, il filo
di Cronenberg si annoda su eXistenZ, spingendo la riflessione su un corpo che desidera
47 Gilles Deleuze, Claire Parnet, Dialogues, Flammarion, Paris, 1977; tr. it. Conversazioni, Ombre Cor-te, Verona, 1998, p. 72.
eXistenZ (David Cronenberg, 1999)
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L’ U O M O V I R T U A L E
sempre più l’immateriale, come se non riuscisse più a vivere la sua vita di corpo-nel-
mondo e volesse disfarsene, tramutarlo in cosa-nel-mondo, oggetto residuale da abban-
donare in nome di un’esistenza eterea. Il gamepod segna l’eclissi graduale di un hardware
esistente come corpo a sé stante, oscurato da un nuovo hardware: il nostro corpo, ormai
pronto a ricevere le macchine come ospiti fisse, integrate nella carne e pronte a farci viv-
ere un’estasiante esperienza in cui lo sguardo non fissa più uno schermo, ma una realtà. Il
gamepod è terribilmente simile alle macchine da scrivere de Il pasto nudo e l’installazione
attraverso esso di un programma di realtà virtuale molto assomiglia ad una simulazione di
atto sessuale. Un gamepod che si fa quasi parassita, la versione tecnologica dei parassiti
de Il demone sotto la pelle. Dentro ad eXistenZ noi costruiamo continuamente la realtà,
ma l’arredamento tipico della società computerizzata (i video, gli schermi, gli habitat
digitali che allestiscono le scenografie di Matrix, Il tagliaerbe, Nirvana) qui non ci sono.
Tutto è organico, perfino le pistole che sparano denti.
L’ambigua circolarità di eXistenZ ci parla dell’obsolescenza di un corpo non ancora
pronto ad accogliere in sé le nuove tecnologie, inadeguato, incerto e dubbioso come il
protagonista Ted Pikul (Jude Law), scioccato dal vedersi trasformato in corpo-macchina
-da-gioco, vivo in una realtà che fa perdere le sue tracce nella vertigine di situazioni in
continuo mutamento.
Un discorso tutto postmoderno sulla realtà virtuale, portato avanti da Matrix, ma antici-
pato ventisei anni prima da Il mondo sul filo. Pur senza il dispositivo tecnologico ricco di
effetti speciali, il film di Rainer Werner Fassbinder porta alla luce con estrema precisione
il problema di una realtà percepita come reale, ma in realtà esito della creazione di un
calcolatore. Mette a nudo il disadattamento dell’uomo moderno, invischiato in una realtà
caotica e alienante, che rischia di rimanere intrappolato nei circuiti di un mondo fittizio,
di trasformarsi inconsapevolmente in un codice binario di lettura, in quella successione
di 1 e di 0 che definisce l’architettura spaziale di un mondo secondo la macchina, mentre
il corpo giace inerte nel mondo prettamente umano, l’unico mondo reale dove emozioni
come l’amore sono il codice alla base dell’impianto.
Tomás Maldonado definisce in maniera esauriente il concetto di virtualità, secondo due
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G L I S C H E R M I P U L S A N T I D E L L A N U O VA E S I S T E N Z AR e a l t à d a t o c c a r e
accezioni: una forte ed una debole.
Una realtà virtuale (forte) è “quella particolare tipologia di realtà simulata in cui
l’osservatore può inserirsi interattivamente, con l’aiuto di particolari protesi ottico-tattili-
auditive, in un ambiente tridimensionale generato dal computer”.48
Una realtà virtuale (debole) che viene “realizzata tramite il tradizionale calcolatore da
tavolo in cui l’utente partecipa dall’esterno allo scopo di simulare un proprio coinvolgi-
mento dinamico nello spazio rappresentato nel video”.49
Comunque, la dimensione del virtuale ci permette di fare come il multiforme Morfeo, di
essere chi vogliamo.
Tra tutti i suoi mille figli – un intero popolo – il Sonno destò Morfeo, vero artista nell’assumere qualsiasi
sembianza. Non c’è un Sogno che più abilmente di lui sappia imitare, l’espressione del volto, il suono della
voce; al tutto aggiunge anche i vestiti esatti e le parole che uno usa di più. Ma imita soltanto le persone.50
In Matrix, Morpheus (Laurence Fishburne) è, come nelle Metamorfosi di Ovidio, il dio
del Sonno e il maestro dei sogni, per mezzo dei quali egli ri-costruisce il disegno della
realtà, per mostrare a chi ancora è inconsapevole come sia, quale sia: i sogni come fili
conduttori di una spiegazione che rende visibile la differenza tra i sogni stessi (Matrix)
ed il mondo “reale”.
Il virtuale entra nell’orbita delle nostre vite, sparato da una rampa di lancio fatta d’im-
magini. E di immagini che non si rapportano più al reale, ma si fanno esse stesse realtà.
Perché la visibilità è la certificazione dell’esistenza. Esserci è essere visibile nell’imma-
gine. Non è più il corpo che fa storia, ma la sua rappresentazione. In S1m0ne, nel gioco
tra reale e virtuale, Viktor Taransky diventa succube dell’immagine accattivante della sua
diva cibernetica, di quella presenza fantasmatica che trova diritto di cittadinanza (esisten-
za) soltanto in quel luogo atemporale e acronico che è lo schermo, prima del suo compu-
48 Tomás Maldonado, Lo real y lo virtual, Gedisa; tr. it. Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 1993, pp. 48-49.
49 ibidem.
50 Publio Ovidio Nasone, op. cit., LIBER UNDICESIMUS, 633-638, p. 457.
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L’ U O M O V I R T U A L E
ter e poi del cinema. Un’immagine costruita al computer è più completa e di successo di
qualsiasi essere umano. Così, si materializza in S1m0ne il tentativo di creare un presente
altro, spazio che possa illuminare ancor più la scena del reale (specie del cinema), ma che
si rivela alla fine un’architettura ingannevole.
E con la realtà virtuale l’immagine trascina con sé il tatto. L’immagine si può toccare e lì
si gioca tutta la sua essenza di interattività. È l’immagine che ci cattura e ci trasporta in un
altro luogo con cui interagire, in cui immergersi; non più un mondo reale ma un mondo
da costruire e trasformare. Pensiamo alle labbra che compaiono sullo schermo nel film
Videodrome e attirano dentro sé il protagonista Max Renn. I sensi vengono scorporati e
ristrutturati nell’ambiente virtuale. Chi guarda è dentro, ha una visione interattiva, ma si
perde la distanza dello sguardo.
Il virtuale è una soglia, che ben si adatta al concetto di metamorfosi e di ibridazione, e
se parliamo di realtà virtuale non può non venire alla mente la promessa di scorrazzare
nei rossi mari marziani stando comodamente seduti sulla propria poltrona portata sullo
schermo da Atto di forza.
In Tron e Strange Days lo spazio virtuale ingloba il corpo e lo fa diventare virtuale, e si
avvia un processo di conoscenza verso qualcosa di ignoto. Lo spazio virtuale si fa labirin-
tico, istilla sentimenti di paura e pericolo frammisti ad uno stato di follia entusiastica.
La realtà virtuale è divenuta la vera corporeizzazione della scorporeizzazione postmoderna.51 [*]
Come ne Il tredicesimo piano, che si interroga sul significato della realtà, mettendo in
scena un progetto di realtà virtuale di una Los Angeles anni ’30 nella quale è possibile
esistere ed agire. Inter-agire con persone fisiche reali come se fossimo nel mondo della
fisica gravitazionale. E invece siamo proiettati in un mondo di intelligenze artificiali ri-
create a partire da modelli umani. La realtà virtuale diviene così un tentativo di eliminare
l’interfaccia tra utente e informazione trasformando i dati in ambiente.
51 Scott Bukatman, op. cit., p. 188 [*] traduzione personale dall’originale inglese.
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L A N O S T R A C Y B E R - V I TAN e l l o s p l e n d e n t e l a b i r i n t o d e l v i r t u a l e
La nostra cyber-vitaNello splendente labirinto del virtuale
‹‹Morpheus: Matrix è ovunque, è intorno a noi, anche adesso nella stanza in
cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra o quando accendi il
televisore, l’avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi
le tasse, ma è il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti
la verità.
Neo: Quale verità?
Morpheus: Che tu sei uno schiavo Neo, sei nato in catene dentro una prigione
che non ha sbarre, che non ha mura, che non ha odore. Una prigione per la tua
mente››.Dialogo tra Morpheus e Neo
Matrix (1999)
Lo spazio virtuale è come una vasca plurisensoriale di emozioni nella quale immerger-
si: andare oltre la visibilità della superficie e toccare una realtà altra messa in opera da
noi stessi, spettatori-autori partecipanti in maniera diretta alla produzione di immagini,
percepite e create allo stesso tempo. Un mosaico proteiforme inesauribilmente in dive-
nire, segni visuali che, soltanto con la propria colorata e vivificante presenza, scalzano il
significato della loro rappresentazione. Perché importante è costruire qualcosa, qualsiasi
cosa, purché essa si possa mostrare simultaneamente (nel suo incessante trasformismo)
nel reticolo che connette milioni di altri cybernauti, pronti alla dolce immersione nel
caldo bagno di un eterno presente.
Come il Velo di Maya di cui parla la filosofia indiana, quel mondo che nasconde agli uo-
mini la vera natura del mondo. Una realtà come quella di Nirvana, dove il protagonista
Solo è costretto a vivere la sua vita nel gioco, all’infinito. Come Matrix, teatro di una
realtà che costringe gli uomini nell’illusione, affinché sia perpetuata la vita delle macchi-
ne, Matrix rivaluta con estrema efficacia d’immagini il perenne rivaleggiare tra mondo
dell’essere e mondo dell’apparire. Matrix è il mondo virtuale elaborato al computer dalle
macchine intelligenti per tenere le menti degli uomini sotto controllo, in perenne stato di
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L’ U O M O V I R T U A L E
incoscienza; corpi umani coltivati, conservati in vasche, come involucri vuoti tenuti nella
condizione di vita sospesa e utili soltanto come pile elettriche. Matrix è la matrice che na-
sconde il normale ordine delle cose, è un programma architettato dalle macchine per dare
all’uomo l’illusione di avere ancora il controllo sulla propria vita, di abitare un mondo
naturale, “suo”. Matrix, una parte di una neurosimulazione interattiva. Matrix può essere
il mondo virtuale immaginato dalla letteratura cyberpunk, il mondo nel quale possiamo
crearci una nostra seconda vita, arrivando a credere che sia quella vera.
Si definiscono virtuali anche quei mondi che creiamo nella rete, perché si mostrano a
milioni di sguardi differenti e si fanno eventi nel preciso momento in cui la nostra inte-
razione li evoca. Collegandosi alla rete la mente è ovunque e in nessun luogo e il corpo
si appiattisce su se stesso, si decontestualizza. Ogni elemento della rete è un simbolo
autoreferente, che non rimanda a nulla di concreto, oggettivo, materiale. Matrix è una
spia luminosa (che si illumina di verde, così come verdi erano i lampeggi che si vedevano
apparire nella metà del XX secolo sui primi schermi del computer) che s’accende e defi-
nisce onnipervasivamente tutta una realtà che sopravvive negli stretti cunicoli di una rete
telefonica. E la cornetta fa da tramite, ponte
smaterializzante per poter entrare e uscire
da Matrix, pulsante on/off da schiacciare per
tornare a vivere la propria vita o restare im-
mersi nei labirintici costrutti artificiali di un
codice di programmazione.
La disseminazione vera e propria del corpo,
la sua dispersione in un altro spazio che potremmo dire emozionale, è proprio quello
creato dalla realtà virtuale. Uno spazio dove tutti gli effetti del mio corpo attivo nell’atto
della comunicazione si trasferiscono in un altro luogo, senza che io mi sposti fisicamente
dallo spazio che occupo. Una realtà virtuale alimentata dal crescente fenomeno anni Ot-
tanta del cyberpunk, specie con Neuromante (William Gibson, 1984), che introdusse il
termine cyberspace (cyberspazio), certificato ufficiale del passaggio dall’esplorazione di
un outer space all’entrata nell’inner space.
Matrix (Andy e Larry Wachowski, 1999)
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L A N O S T R A C Y B E R - V I TAN e l l o s p l e n d e n t e l a b i r i n t o d e l v i r t u a l e
Nell’opacità tutta postmoderna di questa moltitudine di caratteri che si può assumere
nello schermo, l’uomo costruisce sempre rinnovate personalità, fatte però di assi instabili
riflettenti una mancanza di verità universali ed oggettive. Il World Wide Web permette
di progettare e costruire tutto un mondo alternativo, riferito al mondo reale o a se stesso.
Pensiamo alla pagina principale di un sito, quella home page che già nella sua accezione
richiama alla mente un luogo dove puoi sempre trovare qualcuno che ti dia delle indica-
zioni, che ti indirizzi lungo gli innumerevoli percorsi creati e continuamente da rimodel-
lare, che permettono di spostarsi in questo mondo secondo.
Nelle comunità virtuali posso essere chi voglio, perfino cosa voglio. Un mondo popolato
da avatar52, incarnazione digitale della nostra nuova vita, protagonisti di vere e proprie
seconde vite come quelle prospettate da Second Life.
Le realtà virtuali sono mondi simulati con effetti di realtà; non solo fantascienza ma spazi
già presenti: MUD, MOO, e-mail, chat, World Wide Web.
Le chat sono stanze alle quali accedere per conversare, come dice la parola inglese chat
‘chiacchierare’, luoghi chiusi nei quali dirigerci senza squassarci di un millimetro dalla
sedia sulla quale siamo seduti. I MUD (Multi-User Domains)53 sono domini a più utenti,
luoghi virtuali nei quali si può navigare, conversare e realizzare costruzioni.
Coloro che giocano in un MUD ne sono anche gli autori, contemporaneamente creatori e consumatori di
contenuto mediologico.54
I MUD, così, diventano potenti laboratori di sperimentazione sulla propria identità. Essi
si aprono come finestre davanti ai nostri occhi, limpide metafore di un io che si fa sistema
multiplo distribuito, pronto ad affacciarsi (mutato) ogni volta ad una nuova finestra. Visi
che cambiano senza sosta, ruoli sempre nuovi, identità diverse, sparse in luoghi differenti
52 Per la religione indù l’avatar è l’essere Supremo conservatore del mondo, Visnu, che nei momenti di decadenza si incarna e scende sulla terra per rimettere ordine; infatti, in sanscrito avatar significa ‘disceso’ [tratto da http://it.wikipedia.org/wiki/Avatar]
53 In realtà MUD sarebbe la sigla per “Multi-User Dungeons”, poiché esso deriva da Dungeon and Dra-gons (prigioni e draghi), cioè il gioco di ruolo fantastico molto popolare nelle scuole superiori statunitensi a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.
54 Sherry Turkle. op. cit., p. 4.
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L’ U O M O V I R T U A L E
ma nello stesso istante. Un’attrazione per il divenire altro, ma allo stesso tempo il timore
di perdersi.
Infatti Tiresia aveva violato con un colpo di bastone il connubio di due grossi serpenti in una verde selva, e
divenuto – cosa prodigiosa – da uomo femmina, era rimasto tale per sette autunni. All’ottavo aveva rivisto
gli stessi serpenti [...] Percossi un’altra volta i serpenti, gli tornò la forma originaria, la figura con cui era
nato.55
Se nell’antichità il processo di metamorfosi umana s’è avviato nello spazio di conquista
della terraferma, per proseguire nei tempi della modernità con la navigazione attraverso
i mari, ora continua nell’etere: sia con la figura dell’astronauta che con quella del cyber-
nauta. Cybernauta che naviga in un cyberspazio (the Net, the Web, the Grid, the Matrix),
un regno completamente malleabile di dati strutturali transitori.
Perché l’avvenuta conquista dello spazio finisce col de-realizzare progressivamente lo
spazio umano e – dice Baudrillard – “a ribaltarlo in un iperreale di simulazione”.
Il cyborg è un ibrido umano-macchinico immaginato a partire dalle interfacce mecca-
niche industriali. Ma negli ultimi decenni l’immaginario filmico fantascientifico ha effet-
tuato il passaggio dal cyborg (Robocop) al clone (The Island) e da questo ad un soggetto
pronto a trasmigrare nel cyberspazio (Il tagliaerbe), abbracciando così le tesi di Paul
Virilio e Jean Baudrillard, secondo cui il visuale dei simulacri elettronici starebbe appiat-
tendo e cancellando la realtà materiale. Virtuality ci trasporta nell’ambientazione di un
mondo virtuale, nel quale gli scienziati della L.E.T.A.C. (Law Enforcement Technology
Advancement Center) sono riusciti a dar vita ad una vera e propria intelligenza artificiale,
Sid 6.7 (Russell Crowe), un delinquente digitale ottenuto dalla sadica combinazione delle
personalità di duecento dei più spietati criminali della storia.
Il cyberspazio diventa il nostro nuovo spazio d’azione, cosicché la realtà si fa artefatto
tecnologico. E la comparsa del nuovo medium della realtà virtuale fa traballare l’asser-
zione che la pelle sia il confine del nostro corpo. Il nuovo cyborg è un ibrido che va deli-
neandosi nella con-fusione di due flussi: mente e informazione.
55 Publio Ovidio Nasone, op. cit., LIBER TERTIUS, 324-331, p. 109.
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L A N O S T R A C Y B E R - V I TAN e l l o s p l e n d e n t e l a b i r i n t o d e l v i r t u a l e
Ghost in the Shell si propone di ricercare il significato dell’identità di ciascuno, indagan-
do anche la distinzione tra reale e virtuale, tra naturale e artificiale. Nel film i cyborg come
Kusanagi sono dotati di collegamenti neurali che ne permettono l’ampliamento delle ca-
pacità percettive e cognitive, nonché l’accesso diretto alla rete. Torna così il tema della
decontestualizzazione del corpo, della sua sparizione nell’etereo già portato in auge da
Il tagliaerbe. Film, quest’ultimo, che mostra tutte le potenzialità delle fittizie costruzioni
che esistono nel mondo digitale, un mondo in cui ogni cosa può essere ricreata, riprodotta,
in cui la limitatezza del nostro corpo si annulla nei movimenti liberatori dettati dagli im-
pulsi regolatori (e produttori) di realtà presenti sulla tuta cibernetica che indossiamo. Una
realtà che prospetta addirittura la possibilità di praticare sesso virtuale. Una seconda vita
catalizzatrice dei nostri desideri irrealizzabili nel mondo illuminato dalla luce solare. Solo
nello scintillio degli sgargianti colori prospettati dallo schermo, solo nella psichedelia di
un essere disincarnato possiamo rendere possibile ciò che normalmente è impossibile. Il
film, poi, intraprende la strada laterale che conduce la realtà virtuale verso il progetto cy-
berpunk di trasformare il corpo fisico di Jobe Smith (Jeff Fahey) in un’entità vagante nel
cyberspazio: una sorta di intelligenza artificiale sempre più intelligente che nel suo delirio
di onnipotenza finale proclama di voler conquistare il mondo infiltrandosi ed occupando
tutta la linea telefonica mondiale.
Cyborg, cybernauta, cyberspazio, con quella radice cyber che rivela la base dei suoi mol-
teplici innesti nell’albero maestro del cyberpunk. Il termine cyberpunk viene inventato
dallo scrittore e critico Gardner Dozois nel 1984, ma è nel 1985 su ‹‹Interzone›› che Vin-
cent Omniaveritas (attendibile pseudonimo di Bruce Sterling) stila un primo manifesto
del gruppo. Cyber è un palese riferimento all’informatica e alla cibernetica, mentre punk
allude all’originario potenziale di protesta del movimento.
Punk nel Cinquecento voleva dire ‘prostituta’, mentre adesso ha assunto il significato di
‘putrido’, ‘senza valore’. “Nel cyberpunk la macchina si fonde con l’essere umano, la
carne subisce mutazioni e metamorfosi come il metallo e il metallo urla di dolore come
la carne”.56
56 Vincenzo Tagliasco, Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali, Mondadori, Milano, 1999, p. 17.
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L’ U O M O V I R T U A L E
Cyberpunk significa un’ambientazione in un futuro non lontano ed ipertecnologizzato,
con uno spiccato accento verso il cambiamento tecnologico e attratto irresistibilmente
dal seducente mondo dell’immagine. Infatti, il tema fondamentale del cyberpunk ruota
attorno alla questione del corpo nell’era dell’informazione, di un corpo che ha sempre
reso visibile il legame uomo-natura e che è sempre stato la personale garanzia d’identità
di ciascun uomo. Ma nella matrice in codice binario il corpo non esiste più, esistono solo
personalità disincarnate che possono operare nel cyberspazio.
In Nirvana il programmatore Jimi Dini (Christopher Lambert) collauda il suo ultimo
videogioco e si accorge che un virus l’ha in-
fettato donando al personaggio principale,
Solo (Diego Abatantuono), una coscienza;
una coscienza che lo rende consapevole di
essere soltanto una creatura digitale, inca-
pace di condurre una vita propria fatta di
scelte personali e per questo afflitto da infe-
licità. Nirvana è un film che ripercorre le strutture proprie del cyberpunk, che si snoda in
un cyberspazio riflettente l’intricato modo di vivere di una risibile società futura in cui le
tecnologie hanno preso il sopravvento trasformando la città in un non-luogo sospeso tra
un decadentismo fatto di arredamenti vagamente orientali e schermi presenti ovunque.
Con il movimento cyberpunk gli autori segnalavano che stava cambiando il rapporto tra
territorio e potere, ora emergente nei nuovi luoghi della virtualità, nel quale legare infor-
mazione, comunicazione, sapere e produzione. E l’uomo moderno si riconosce in pieno
nell’estetica cyberpunk, che parla di un uomo alienato dalla natura e per questo in cerca
di ambienti artificiali che possano sostituire artificialmente il naturale. Un mondo di si-
mulacri, nel quale anche le personalità dei morti possono rivivere in costrutti informatici.
Un mondo de-territorializzato nei canali del cyberspazio, in quell’immaterialità che si fa
lucido specchio del senso nichilistico dell’uomo postmoderno. Ma senza confini presta-
biliti come può esistere un’identità? Travalicare sempre e sempre di più i nostri limiti ci
dis-umanizza, come ci dice Marcello Ghilardi commentando Ghost in the Shell.
Matrix (Andy e Larry Wachowski, 1999)
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L A N O S T R A C Y B E R - V I TAM u o v e r s i , m u o v e r s i e s e m p r e p i ù v e l o c e m e n t e
Il continuo abbattimento delle frontiere e dei limiti imposti dal fisico non portano ad un altrettanto continuo
sviluppo delle potenzialità d’azione. Al contrario, è vero che solo l’esistenza di limiti e confini definiscono
un terreno d’azione, delle possibilità, conferiscono in altri termini un’identità. [...] Solo perché inserito in
un guscio (shell), lo “spirito” (ghost) si sa in quanto tale, e non si perde nell’indistinto Tutto.57
Perché, come dice Umberto Galimberti, “ogni mio atto rivela infatti che la mia presenza
è corporea e che il corpo è la modalità del mio apparire. Questo organismo, questa realtà
carnale, i tratti di questo viso, il senso di questa parola portata da questa voce [...] sono
io. Nel corpo, infatti, c’è perfetta identità tra essere e apparire [...] non esiste un uomo al
di fuori del suo corpo.58
Muoversi, muoversi e sempre più velocemente
‹‹Aiutare me? Io sto per aiutare lei, dottore, sto per aiutare tutti voi a purificare
questo pianeta. Questa tecnologia ha portato alla luce un altro universo. La re-
altà virtuale crescerà, come è stato per il telegrafo divenuto telefono, come per
la radio divenuta televisione, la realtà virtuale crescerà. [...] Proietterò me stes-
so all’interno dello “Elaboratore prestazioni elevate” e diventerò pura energia.
Una volta insediato nella rete il mio primo vagito sarà il suono di tutti i telefoni
di questo pianeta che squilleranno all’unisono. Sono onnipotente››. Jobe Smith
Il tagliaerbe (1992)
Il tempo si è concentrato in un attimo: in quell’attimo è compresa l’agonia, la morte e il travaglio della
rinascita. Fuor d’ogni rappresentazione fantastica il tempo è il massimo agente della metamorfosi nella
natura.59
57 Marcello Ghilardi, Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese, Esedra editrice, Padova, 2003, p. 176.
58 Umberto Galimberti, op. cit., pp. 15-16.
59 Pierpaolo Fornaro, Metamorfosi con Ovidio. Il classico da riscrivere sempre, Olschki, Firenze, 1994, p. 103.
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L’ U O M O V I R T U A L E
Un tempo che accelera continuamente, costretto nella struttura dell’attimo dall’avanzare
della tecnologia a velocità sempre più vertiginosa. Un’accelerazione ben resa dalla espo-
nenziale crescita della potenza di calcolo dei computer, e già notata nel 1973 da Gordon
Moore, uno dei fondatori della Intel. Infatti, egli disse che “il numero di transistor nei
circuiti integrati sarebbe continuato a raddoppiare ogni diciotto mesi fino al raggiungi-
mento dei limiti fisici”. La cosiddetta Legge di Moore, però, non fermerà l’industria, già
adoperatasi per sviluppare nuove tecnologie, quali il progetto di chip tridimensionali, i
computer ottici e i computer quantistici.
In Terminator 2 – Il giorno del giudizio viene inviato dalle macchine, per terminare
il futuro condottiero, un’evoluzione perfezionata dell’androide ‘Schwarzy’, un T-1000
(Robert Patrick): una sorprendente macchina dalle fattezze umane che può trasformarsi a
suo piacimento in ciò che vuole (cose e persone). Una macchina micidiale da combatti-
mento, fredda esecutrice del compito assegnatogli; un sofisticato modello di metallo flui-
do, riplasmabile, essere metamorfico per eccellenza che nel suo impeto distruttore, figlio
di una tecnologia superiore, sembra spazzare via in un solo colpo l’elettro-meccanica del
T-800, liquidata come ferraglia di un’epoca già sorpassata. Così, nell’agire del T-1000
ritroviamo l’ossessione per la velocità di una società che è sempre post, che nel suo
continuo divenire rende obsoleto ciò che fino ad un attimo prima era il nuovo. Il mostro
più terrificante degrada la mostruosità che l’ha preceduto ad insignificante normalità, in
un superamento che si fa riflesso anche di un cinema in continuo “progresso ad effetto
speciale”. Ma questo fenomeno di iperbolica accelerazione tecnologica rischia di sfug-
gire al controllo dell’uomo. E il corpo inaugurato dalla comparsa a livello mondiale della
rete Internet ha continuato quel processo di perenne metamorfosi della nostra struttura
corporea (intesa sempre nella sua totalità di Io incarnato), realizzando una vera e propria
disseminazione del corpo. “Un suo trasferimento ‘in tempo reale’ in luoghi e situazioni
diverse”60, prolungamento di una figurazione estensiva del corpo in unità di tempo ma
non di luogo. E già cominciata molto tempo fa, quando nel lontano 1860 Meucci inventò
il telefono (formato dall’avverbio greco téle ‘(da) lontano’ e dalla traduzione dell’inglese
60 Antonio Caronia, L’uomo artificiale: robot, cyborg, corpi virtuali, in Carlo Simoni (cur.), Ingegnerie della vita, del corpo, dell’intelligenza, Grafo edizioni, Brescia, 2002, p. 103.
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L A N O S T R A C Y B E R - V I TAM u o v e r s i , m u o v e r s i e s e m p r e p i ù v e l o c e m e n t e
phone ‘chiamare’). Certo, attraverso il telefono (che è la tecnologia alla base della comu-
nicazione telematica di Internet) io non disperdo il mio corpo materiale, ma faccio viag-
giare la mia voce, che comunque comunica al ricevente un effetto sensoriale diretto.
Il telefono in sé realizza una prima fase di disseminazione del corpo, dal punto di vista
puramente vocale. Nelle reti telefoniche la voce è già una parte, una funzione, un pezzo
del corpo dell’uomo che viene disseminato. Con la disseminazione del corpo nelle reti,
quest’ultimo deve essere ridefinito e, poiché esso esiste non solo come dato biologico ma
soprattutto come insieme di pratiche simboliche e processi culturali, la sua riconfigura-
zione non è un nuovo sistema uomo-macchina: infatti, la vera comunicazione non è mai
quella tra uomo e macchina ma quella tra uomo e uomo, mediata dalla macchina.
Il cybionte è una metafora per porre mente a quello che ci potrebbe succedere nel terzo millennio. Il signifi-
cato di questa parola è la creazione di un organismo planetario, un macrorganismo, costituito dagli uomini,
dalle città, dai centri informatici, dai computer e dalle macchine. Se si dice “città” si sa di cosa si parla,
ma non si possono utilizzare immagini per rappresentare un organismo planetario costituito da tutti questi
sistemi. Perciò ho creato il termine “cybionte” che deriva dalla cibernetica, la scienza dell’informazione
e della regolamentazione nei sistemi complessi, e dalla biologia (bios), e che denota un organismo ibrido,
nello stesso tempo biologico, elettronico e meccanico.61
Come in Matrix (seppur in uno scenario apocalittico) dove in un sapiente lavoro a maglia
si intrecciano tre nature diverse di fili, tre
differenti mondi: meccanico, biologico e di-
gitale. Infatti, in un perpetuo circolo di forze
di natura differente, vediamo le macchine
governare il mondo, traendo energia dagli
organismi umani, tenuti in vita per mezzo di
un programma virtuale. La rete, insomma, è
come una grossa piovra con tante braccia quante sono le sue diverse possibilità massme-
diologiche. Essa è “un proteiforme (multi)medium planetario che è di volta in volta ar-
61 Joel De Resnay, Il cybionte [http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=117&tab=int]
Ghost in the Shell (Mamoru Oshii, 1995)
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L’ U O M O V I R T U A L E
chivio, enciclopedia, mercato, televisione, arena di discussione, bacheca pubblica, testo,
autore di storie, ricercatore, portalettere”.62
E sempre più la rete è autosufficiente, si autosostenta, come in un regime autarchico,
come in un “romanzo d’invenzione, che contiene tutto ciò che gli serve e non fa riferi-
mento a nulla che ne stia fuori”.63
Internet è uno spazio illimitato in cui si butta dentro di tutto e non si toglie mai nulla: è la discarica dei dati
[...] una sorta di bulimia di dati.64
Se lo spazio perde di significato a favore del cyberspazio, le città che concentrano fi-
sicamente la vitalità umana si decontestualizzano, divenendo periferie di un centro dai
caratteri virtuali.
Ma questa città locale non è ormai altro che un quartiere, un distretto tra gli altri, dell’invisibile meta-città
mondiale il cui centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte.65
Anche la città di Akira rientra nel processo di metamorfosi che coinvolge il mondo, e qui
si fa “luogo in cui vivono, si muovono, pensano, soffrono gli individui, città come rap-
presentazione simbolica della condizione moderna - o post-moderna”.66 La città si svuota
delle presenze fisiche per farsi mero luogo di contenimento. Come in Akira essa viene
restaurata, ricostruita nei suoi palazzi e nelle sue vie ma resta senza un centro, allo stesso
tempo le nostre città dissolvono la loro unità funzionale all’aggregazione delle persone in
infinite invisibili cittadine senza luogo e senza tempo che si innervano nel cyberspazio.
In Akira assistiamo alla sparizione della naturalità della vita e alla contemporanea realiz-
zazione dell’artificio.
62 Giuseppe O. Longo, op. cit., p. 142.
63 ibidem.
64 Vittorino Andreoli, op. cit., p. 166.
65 Paul Virilio, La bombe informatique, op. cit., pp. 10-11.
66 Marcello Ghilardi, op. cit., pp. 162-163.
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L A N O S T R A C Y B E R - V I TAI n t e r n e t : l a d o p p i a f a c c i a d e l l a p o s s i b i l i t à
Nulla è più naturale: non ci sono animali, non c’è vegetazione nella città di Akira, non c’è più un contatto
con la spontaneità della vita.67
La rete telematica sradica la centralità delle città reali, assumendo il controllo del potere
nel suo spazio d’azione senza luogo né tempo, lo spazio della smaterializzazione, come
osserva Paul Virilio.
Semplicemente faccio una critica della tecnica. Non ci può essere, a mio avviso, avanzamento nel campo
della tecnica, che mediante la critica. Non ci si può interessare a un oggetto tecnico, senza interessarsi alla
sua negatività. Faccio sempre questo esempio: inventare la nave è lo stesso che inventare il naufragio, in-
ventare il treno è inventare il deragliamento, inventare l’elettricità è inventare la scossa. Ora l’invenzione
delle telecomunicazioni, delle reti telematiche, di Internet, del “cyber-spazio” è anche l’invenzione di un
incidente specifico, che non è altrettanto appariscente dell’incidente ferroviario, che fa dei morti e crea di-
sordine. C’è una negatività, ed è questa negatività che io indago, non per negare il progresso della tecnica,
ma, al contrario, nel tentativo di superare questa situazione [...] Chi si preoccupa della negatività si preoc-
cupa del progresso, cioè della prevenzione dell’incidente. Adesso la possibilità di incidente è mascherata
per vendere i computer.68
Internet: la doppia faccia della possibilità
‹‹Lui era come un esploratore in un paese ignoto dove non era mai stato nessu-
no, era in cerca della verità, e aveva quasi scoperto una grande verità, ma per
un solo istante si distrasse... La ricerca della verità è il lavoro più importante
che esista al mondo e il più pericoloso››.François Delambre
L’esperimento del dottor K (1958)
Il linguaggio predispone l’uomo al ragionamento lineare, sequenziale, e con la scrittura
l’uomo prende pieno possesso di questa sequenzialità linguistica, dandole una codifica-
67 ivi, p. 164.
68 Paul Virilio, La velocità assoluta, op. cit.
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L’ U O M O V I R T U A L E
zione. La scrittura come principio organizzatore della mente umana sposta l’attenzione
dell’uomo dalle cose udite alle cose viste. Scrivere vuol dire fissare ciò che si vede, averne
la padronanza ma anche cominciare a trasferire indefinitamente i nostri pensieri sul sup-
porto cartaceo; e con l’avvento del calcolatore, l’estroflessione cognitiva della nostra me-
moria, sia a lungo che a breve termine, passa nel nucleo d’elaborazione della macchina.
eXistenZ riflette già nella sua grafia la puntualizzazione mcluhaniana sulla scrittura come
atto fondativo dell’idea di visività nella cultura occidentale e nell’appiattimento dei ca-
ratteri spiccano solo una X e una Z, che Gianni Canova definisce rispettivamente come
incognita e variante, facendo di eXistenZ “un rebus percettivo”.
Un enigma alfabetico. Una riduzione della tridimensionalità cartesiana (X, Y, Z) dell’esistenza (existenz)
alla bidimensionalità (X, Z) del linguaggio e della rappresentazione [...] Un saggio sull’economia del visi-
bile e sulla semiotica della percezione nell’epoca della virtualità.69
Con la diffusione degli schermi l’informazione moltiplica la sua presenza, i videogiochi
permettono l’interazione e implicano una riconfigurazione del sistema nervoso dei gioca-
tori; infine, con la condivisione dei calcolatori in rete la conoscenza viene continuamente
riplasmata. È questo il vero terreno di coltura dei memi70, il suo più proficuo luogo di
diffusione, di contagio. Un meme è come un virus, è in grado di propagarsi di mente in
mente e di generazione in generazione. E la velocità di propagazione diviene altissima
in un mondo che ha realizzato e continua ad espandere quello immaginato da E. M. For-
ster in The Machine Stops, che già nel 1909 raccontava di un mondo nel quale una rete
elettronica ci connette tutti, un mondo nel quale tutti, chiusi nelle proprie stanze, sono in
comunicazione costante. È il mondo di Internet, nato da un sommovimento spontaneo ad
opera di una gioventù cosmopolita di diplomati, diretti verso la costruzione dell’intelli-
genza collettiva.
Così l’essere umano che si costruisce una nuova personalità, un nuovo aspetto fisico e delle regole di co-
69 Gianni Canova, David Cronenberg, op. cit., p. 108.
70 Per la definizione di ‘meme’ vedi capitolo 5, nota 37.
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L A N O S T R A C Y B E R - V I TAI n t e r n e t : l a d o p p i a f a c c i a d e l l a p o s s i b i l i t à
municazione interpersonale, e invia su Internet un’interpretazione di sé, dà luogo, di fatto, a una creatura
software.71
In quest’era postmodernista (postindustriale) stiamo estendendo le nostre menti grazie
alla tecnologia dell’informazione, stiamo fondendo il nostro corpo biologico con i sistemi
di comunicazione del pianeta come in Videodrome. Nell’odierno diluvio di informazioni
mediatico il nostro corpo si sdoppia in un simulacro rappresentativo da cogliere con lo
sguardo.
Internet diventa un buon mezzo d’informazione culturale, purché si sappia cosa e dove
cercare. E per farlo bisogna avere sicuramente un buon grado di cultura scritta, la capacità
critica di scegliere e discernere le poche buone cose dall’informe melassa informativa che
assomiglia alla kipple di cui parlava Philip K. Dick nel suo Cacciatore di androidi.
Così, Internet può essere al contempo la migliore e la peggiore delle cose. Questo perché
oggi è molto più immediato e semplice fare che dire. Oggi il capire è una cosa che si
realizza in maniera estemporanee nell’atto del fare, tanto che “non esiste una teoria del
software, non esiste una teoria di Internet, non esiste una teoria dell’ingegneria genetica
[...] sono grandi palestre di improvvisazione creativa”.72 Siamo, dunque, nell’era del fai-
da-te, del bricolage; il sapere unico centrale che si diffonde a macchia d’olio non c’è più,
al suo posto appaiono cento, mille, milioni di saperi che nascono nel momento dell’appli-
cazione sperimentale.
Nel tramonto della scienza sorge il sole della tecnica, che irradia tutto con i raggi degli
strumenti, cui stiamo delegando la nostra razionalità. Certo, tutto ciò non significa la
scomparsa dell’attività mentale conoscitiva, bensì l’apparizione di nuove forme di co-
noscenza. Il tema del cyberspazio nasce dalla potente illusione degli utenti di guardare e
muoversi dentro ad uno spazio che sta al di là dello schermo. Nella rete dei nuovi mezzi
d’informazione si può pensare si annidi il successore della scrittura, del testo, quell’iper-
testo che si fa scrittura immediata, perché si contamina con una rinnovata cultura orale,
così “Internet non sarebbe che una biblioteca più un museo più una mediateca più una
71 Vincenzo Tagliasco, op. cit., p. 312.
72 Giuseppe O. Longo, Progresso e responsabilità: il passaggio dalla scienza alla tecnologia [http://www.fucine.com/network/fucinemute/core/index.php?url=sommario.php&t1=4].
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L’ U O M O V I R T U A L E
cineteca più una videoteca, tutte collegate tra loro”.73
Viviamo nella società dei network. Siamo dei bricoleurs, opposti totalmente all’ingegne-
ria della meccanizzazione, operanti con concetti quali fluidità, instabilità, flusso, pronti a
scardinare qualsiasi porta con la nostra chiave personalizzata.
La macchina si trasforma da mezzo di produzione a medium, tramite.
Il computer diventa la proiezione del nostro Io, meglio ancora diventa un altro io, conti-
nuando quello sdoppiamento iniziato dall’uomo con la costruzione degli automi.
Ma Internet riflette la dispersione, la proliferazione, tanto che molte cose potrebbero esse-
re dette in un solo libro. Il rischio è che il livello di ignoranza causato da un difetto sempre
più acuto di astrarre e dal rimanere imprigionati nel divertissement delle immagini porti
ad aggirarsi fra le pareti labirintiche della rete ‘per gioco’. Le parole chiave della cultu-
ra postmoderna sono: frammento, superficie, rapidità, simulazione. Il desiderio spodesta
la necessità. Un eccesso di informazioni e di immagini neutralizzano i contenuti. Nel
postmoderno il centro viene sradicato, la logica sequenziale è sostituita da un’(il)logico
muoversi in circolo nel grande gioco digitale. Il rumore del bit “internettistico” soverchia
il silenzio del capire. L’uomo ha in sé l’incognita delle emozioni, il punto interrogativo
della coscienza. Forse, però, stiamo tracciando una parabola che va dall’uomo primitivo
privo di parola, ad un uomo perfettamente consapevole della sua coscienza (cha sa di
sapere) e padrone assoluto della parola, sino ad un uomo assorbito dalle immagini e che
va profilandosi come analfabeta.
Non rimane che schiacciare i bottoni per gioco, per perdere tempo, per andare adesso di qui e dopo di là,
senza dover di fatto recarsi da nessuna parte. E allora si decide di entrare in un sito di donne nude e si clicca
lì, e poi uno di moda e si vedono sfilare le top model sulla passerella di Parigi, e poi si entra al Louvre per
una mostra di pittori italiani e ci si resta per un po’ prima di andare in un sito di ristorazione vegetariana,
dove s’impara a preparare una torta di cipolle. Quando si spegne, si cancella tutto e non si è trovato nulla,
perché non c’era una ricerca da fare e si è girovagato a caso e alla fine è come se non si fosse fatto alcun-
ché.74
73 Antonio Caronia, Cyberspazio, scrittura, corpo, in Enrico Livraghi, La carne e il metallo. Visione storie pensiero del cybermondo, Editrice Il Castoro, Milano, 1999, pp. 24-25.
74 Vittorino Andreoli, op. cit., pp. 170-171.
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L A N O S T R A C Y B E R - V I TAI n t e r n e t : l a d o p p i a f a c c i a d e l l a p o s s i b i l i t à
Ma, come detto, la possibilità-Internet può indirizzarsi anche verso il suo polo positivo.
Infatti, si sta cercando di sfruttare le connessioni Internet per integrare fra loro le potenze
di calcolo delle migliaia di PC dislocate nel mondo per farle operare come un supercal-
colatore. E l’estensione di questa idea va oltre la messa in condivisione della potenza
di calcolo di ciascun PC solo per la raccolta di siti e flussi di dati commerciali: infatti,
l’idea del’astrofisico americano Larry Smarr, direttore del California Institute of Tele-
communications and Information Technology, è quella di creare un supercomputer che
possa arrivare quasi alla autoconsapevolezza. Egli ha dichiarato che “l’emergente griglia
informatica diventerà molto più pervasiva della potenza espressa dalla griglia elettrica
oggi”. Secondo Smarr le applicazioni di tale idea potrebbero permettere, ad esempio, di
“costruire una gigantesca griglia di computer che possa controllare molto efficacemente
il traffico” e indirizzarsi in altri campi come quelli relativi alla salvaguardia ambientale o
la medicina genomica.75
Il ruolo dell’informatica e delle tecniche di comunicazione a supporto digitale non consisterebbe nel ‘rim-
piazzare l’uomo’ e neppure nell’avvicinarsi a un’ipotetica ‘intelligenza artificiale’, ma nel favorire la co-
struzione di collettivi intelligenti in cui le potenzialità sociali e cognitive di ciascuno possano svilupparsi e
ampliarsi reciprocamente”.76
E in questa direzione sembra muoversi (pur nella sua logica di azienda presente sul mer-
cato) Google e con essa le altre imprese che fanno della ricerca il motore di ogni cosa.
L’intenzione guida la ricerca e in un processo che muove l’uomo continuativamente ad
acquisire nuova conoscenza, è la ricerca il propulsore del cambiamento. Meglio, la ri-
cerca perfetta. Dice John Battelle, nella sua acuta analisi sulla cultura umana in via di
trasformazione per mezzo di ‘Google e gli altri’, che dobbiamo provare ad immaginare
un mondo di ricerca perfetta.
75 Riferimento all’articolo di John Markoff, The Soul of the Ultimate Machine, ‹‹The New York Times››, 10 dicembre 2000 [http://query.nytimes.com/gst/fullpage.html?res=9C04E1DE1F3CF933A25751C1A9669C8B63&n=Top/Reference/Times%20Topics/People/M/Markoff,%20John].
76 Pierre Lévy, L’intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberespace, La Découverte, Paris, 1994 ; tr. it. L’intelligenza collettiva. Per una antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 31.
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L’ U O M O V I R T U A L E
Come potrebbe essere? Pensate alla possibilità di porre qualsiasi domanda e di avere non solo una risposta
precisa, ma la vostra risposta perfetta, che sia adatta al contesto e all’intenzione che sta dietro la vostra
domanda, una risposta che con sovrumana precisione sia al corrente di chi siete e del perché avete fatto
quella domanda. Questa risposta è in grado di includere tutta la conoscenza che può essere oggetto di ri-
cerca per aiutarci a raggiungere il vostro obiettivo, che sia in forma di testo, video o audio. Può distinguere
fra domande dirette (“Chi è stato il terzo presidente degli Stati Uniti?”) e richieste più sfumate (“In quali
circostanze il terzo presidente degli Stati Uniti abiurò le sue convinzioni sulla schiavitù?”) [...] In breve, il
motore di ricerca del futuro sarà profondamente diverso da come lo conosciamo oggi. Sarà più simile a un
agente intelligente o, come mi ha detto Larry Page, a un bibliotecario con assoluta padronanza dell’intero
corpus della conoscenza umana.77
La messa in condivisione di un sapere individuale che si rende accessibile a tutti e l’in-
tegrazione del progetto di computing collettivo portato avanti da scienziati come Larry
Smarr potrebbe portare alla realizzazione sintetica di una ‘intelligenza globale’ che per-
metta all’uomo di continuare ad esplorare i territori della conoscenza, che da sempre
agitano il moto delle metamorfosi.
77 John Battelle, The Search, 2005; tr. it. Google e gli altri. Come hanno trasformato la nostra cultura e riscritto le regole del business, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, p. 296.
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I L T R A N S U M A N O P O S T M O D E R N OP a r o l a d ’ o r d i n e : c a m b i a r e
L’uomo in transitoIl transumano postmoderno
‹‹No, non è così Landon, anch’io cerco qualcosa. Ma i miei sogni non sono
come i tuoi. Non posso fare a meno di pensare che da qualche parte nell’uni-
verso dev’esserci qualcosa migliore dell’uomo. Dev’esserci››.
George Taylor rivolto a Landon Il pianeta delle scimmie (1968)
Parola d’ordine: cambiareL’uomo modifica costantemente il mondo al quale si espone come apertura originaria e,
ancor prima ch’egli sviluppasse il linguaggio, iscrisse nel suo corpo il segno, e la ferita,
e la cicatrice, trasformando il corpo biologico in corpo culturale, come suggerito da Um-
berto Galimberti.
Per questo le società arcaiche iniziavano gli adolescenti alla vita sociale col rito della tortura. Marchiando
il corpo, esse lo de-signavano come “traccia” del passaggio che “con-segna” l’individuo alla società. Un
uomo iniziato, infatti, è un uomo segnato, as-segnato alla vita del gruppo che, con cicatrici indelebili, gli
in-segna la sua definitiva appartenenza sociale1.
Con i tatuaggi rivive l’idea arcaica che il corpo sia come una lavagna su cui scrivere, ma
diversamente dalle società primitive per le quali la manipolazione del corpo conferiva
a questo un carattere sacro, magico, sociale, nella tecnocultura postmoderna (lanciata a
partire dagli anni Sessanta e Settanta) il tatuaggio, la perforazione, la scarnificazione, gli
uncini infilati nella carne trovano profonda motivazione nel bisogno di poter cambiare
ciò che si può, ovvero il proprio corpo, nella volontà di avere totale controllo del proprio
corpo. Iscriverlo con segni permanenti a cui nessuno potrà obiettare (o un rituale di mor-
1 Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 17.
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L’ U O M O I N T R A N S I T O
tificazione?).
Il corpo viene riscritto, creando un continuum tra l’uomo e i suoi estremi referenziali, os-
sia la macchina e l’animale. Segni incisi nel corpo, tracce definitive e indelebili che fanno
di esso una strategia di mutazione.
La pelle si fa carta, specchio, supporto, schermo, diviene altro in un lento e doloroso processo di modifica-
zione che fonde pelle e inchiostro, carne e metallo. Un corpo che sconfina in altro di sé, una ibridazione tra
umano, animale, vegetale, mitologia, fantascienza, rituali, iniziazioni, un corpo come con-fusione, di mon-
di, animale/vegetale; di generi, femminile/maschile; di elementi, organico/inorganico. Cicatrici indelebili
come scelte di un pensiero che si aziona sulla pelle, mutandola, trasformandola, alterandosi.2
“Il tatuaggio è la sintesi irresistibile per la fascinazione delle pratiche di appartenenza ar-
chetipe (maori, haitiane) e l’attrazione per l’iscrizione carnale dell’apparire contempora-
neo. Il rito investito è il medesimo: l’incisione dolorosa sulla pelle di un segno polimorfo
permanente che crea l’identità”.3
Il mondo dei segni dissolve la realtà in un’iperrealtà molto simile all’ambiente virtuale
dei calcolatori, e la body art, come tutta l’arte contemporanea (che si definisce pop) sna-
tura il concetto di arte, sostituendo la fotografia, il disegno, la scultura che raffigurano una
cosa con la cosa stessa che si fa arte. Alla stessa stregua, il corpo che diviene performance
viene reificato, diventa oggetto. Il corpo come territorio di conquista. Per Stelarc il corpo
così com’è non è più in grado di vivere in una realtà che si sta evolvendo a velocità or-
mai incontrollabile. Da qui nasce il suo bisogno di riprogettarlo. Questo avviene sia che
“l’artista” (anche se la definizione perde tutto il suo senso originario di persona che dà
vita ad una rappresentazione, per trasmutarsi in persona-oggetto che si fa arte con la sua
presenza) contamini il suo corpo in direzione dell’animale, sia che si faccia invadere e si
intersechi con elementi tecnologici. Il corpo viene iscritto per esprimere un senso di rivol-
2 Francesca Alfano Miglietti, Identità mutanti: dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni con-temporanee, Costa & Nolan, Genova, 1997, p. 76.
3 Definizione tratta da Teresa Macrì, Il corpo postorganico, conferenza a cura di Tommaso Tazzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997 [estratto reperito su http://www.hackerart.org/media/amc/macri.htm] .
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I L T R A N S U M A N O P O S T M O D E R N OP a r o l a d ’ o r d i n e : c a m b i a r e
ta (contro le costrizioni sociali e morali imposte sin dall’infanzia, rivolta contro il divino),
è un corpo messo in discussione, che si configura come campo di indagine delle infinite
possibilità che può realizzare (che può essere). L’artista diviene opera d’arte, perché il
corpo si fa materiale plasmabile e l’identità è un puro viaggio nel desiderio.
La parola d’ordine è ‘cambiare’ e con il glam rock anni Settanta arriva un’estetica della
stranezza (maschere, make-up, tinture per capelli, tacchi alti, costumi esagerati), nella
direzione di un’alterazione, una fusione tra generi maschile e femminile. Ambiguità, er-
mafroditismo, travestitismo, bisessualità, omosessualità esprimono quell’identità incerta
che si viene creando.
Voler abbandonare le proprie sembianze è un qualcosa che da sempre è sedimentato
nell’uomo. Una intrinseca voglia di metamorfosi, che spesso trova compiutezza nel vesti-
re e nel travestimento (implicazioni transgender).
Una forma di ibridazione fra il femminile e il maschile, un diverso per nascita (l’erma-
frodita) che emerge dal sostrato mitico di Ermafrodito e Salmaci, che la trasformazione
rende una indissolubile forma da due che erano.
“O dèi, fate che mai venga il giorno che lui si stacchi da me e io da lui!” La preghiera trova degli dèi che
acconsentono: e infatti i corpi dei due si mescolano e si fondono, si amalgamano in una sola figura [...] Una
volta unitesi le membra in un intreccio tenace, non sono più due ma una forma duplice, e non puoi più dire
se sia femmina o maschio fanciullo, non sembra nessuno dei due e sembra tutt’e due.4
E nel T-1000 di Terminator 2 – Il giorno del giudizio si unificano la rudezza maschile con
il mellifluo divenire altro, la morbidezza femminile nel liquefarsi in qualsiasi altra cosa.
Nell’epoca della trasfigurazione viene varcato quel confine che separa uomo e donna, non
più solo con il travestimento portato in scena da M. Butterfly, che si fa travestitismo, ma
con un transito al sesso opposto fatto in maniera radicale (Transamerica).
M. Butterfly è un’opera che ci conduce leggiadramente per mano nel viaggio attraverso
la fenomenologia del corpo, l’ennesimo compiuto da David Cronenberg; un corpo che si
4 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Piero Bernardini Marzolla (cur.), Einaudi, Torino, 1994, LIBER QUARTUS, 372-379, p. 151.
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L’ U O M O I N T R A N S I T O
mostra celato dietro una maschera, un corpo che non è soltanto materia. M. Butterfly è
un film sulla mutazione e sulla contaminazione, fisica e psicologica, tra esseri diversi, ap-
partenenti anche a culture diverse. Renée Gallimard (Jeremy Irons) a poco a poco cambia
pelle, come accade alla mosca-Brundle ne La mosca o come accade ai gemelli Mantle
di Inseparabili. Tutti questi personaggi cambiano, nella loro rincorsa all’immagine di
una creatura che fosse perfetta proiezione dei propri desideri. Infatti, il Gallimard di M.
Butterfly è un uomo che ama una donna creata da un uomo: l’amore, nella fattispecie ses-
suale, frutto di una proiezione di fantasia.
Il vestito viene usato per impressionare, stupire, spettacolarizzare la bellezza o il pote-
re. Per mimetizzarsi come fanno il camaleonte o alcuni cefalopodi capaci di assumere
l’aspetto di altre specie di pesci o di formazioni rocciose. O come la figura mitologica di
Proteo, dio marino capace di diventare qualsiasi cosa volesse.
Vi sono, o fortissimo, degli esseri la cui forma subisce una volta un mutamento e com’è cambiata rimane.
Ma ve ne sono di quelli che hanno la facoltà di assumere varie figure, come te, Pròteo, abitante del mare
che fascia la terra. E infatti ora ti hanno visto giovane uomo, ora leone; ora sei stato violento cinghiale, ora
serpente da aver paura a toccare; a volte, delle corna ti hanno fatto toro; talvolta sei potuto sembrare una
pietra, talvolta anche una pianta; ogni tanto, imitando l’aspetto della liquida acqua, sei stato fiume, ogni
tanto fuoco, il contrario dell’acqua.5
Cambiare e andare anche al di là del genere (transgender), mettendo in discussione il fat-
to che un uomo debba comportarsi e vestirsi in un certo modo e la donna in un altro. Un
comportamento deviato dal normale fluire delle cose che nella forzatura sembra trovare
la propria ragione d’esistere.
È l’attrazione per il divenire altro, una calamita innaturale verso un genere che non ci
appartiene dalla nascita. La situazione di chi si sottopone ad operazioni che la tecnologia
permette con la forza della sua dirompente ondata, portatrice di cambiamenti irreversibili
e radicali, come quello che coinvolge Ifide.
5 Publio Ovidio Nasone, op. cit., LIBER OCTAVUS, 728-737, p. 331.
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I L T R A N S U M A N O P O S T M O D E R N OP a r o l a d ’ o r d i n e : c a m b i a r e
E il suo viso non ha più il colore candido di prima, e il corpo si è irrobustito, e anche i lineamenti sono più
duri e più corta è la misura dei capelli, privi di ornamenti. C’è più vigore, nella sua persona, di quando era
femmina. E infatti, tu che un momento fa eri femmina, ora sei un maschio.6
Il cambio di sesso, pulsioni contrarie al principio generatore che ci ha creati e che si mani-
festano in maniera travolgente.
Insomma, nell’epoca di massima espansione della tecnica, ovvero della capacità dell’uo-
mo di modificare l’ambiente in cui vive tramite artefatti da lui costruiti, va in crisi l’im-
magine percettiva del sé; l’uomo invidia la macchina e nel cyborg proietta la propria
fascinazione per l’immortalità.
La paura della morte è utile se ci fa abbracciare la vita per ricavarne tutto ciò che ci offre. Ma la paura di
invecchiare ha creato in realtà un settore industriale con un giro di svariati miliardi di dollari: creme antiru-
ghe, palestre e chirurgia plastica, finalizzati ad aggirare gli effetti del corpo.7
Ricerchiamo le forme artificiali della bellezza con protesi liquide che chiamiamo cosme-
tici. Aspiriamo a diventare come Morgana, imparentata con gli elfi (creature immortali) e
madre di re Artù, la quale conserva nei secoli una immutabile bellezza. O ad avere l’eter-
na giovinezza dell’Esone protagonista di una storia delle Metamorfosi ovidiane.
Quando Esone se n’è imbevuto, attraverso la bocca o la ferita, sparisce la canizie, barba e capelli scurisco-
no di colpo. L’aria emaciata, scacciata, dilegua, se ne vanno pallore e avvizzimento, gli incavi delle rughe
si rimpolpano e si colmano, il corpo riacquista tutto il suo vigore. Esone si guarda sbalordito e ricorda di
essere stato così in un tempo lontano, quarant’anni prima.8
Cosmetici da spalmare, schiacciare, infilare: il botulino, il filler (sostanza che riempie le
rughe), il frezel (ultimo ritrovato della cosmesi che, con un impulso provoca un’esfolia-
zione superficiale e stimola la produzione di collagene endogeno a livello sottocutaneo,
6 Publio Ovidio Nasone, op. cit., LIBER NONUS, 788-791, p. 383.
7 Michael S. Gazzaniga, The Ethical Brain, Dana Press, New York / Washington, 2005; tr. it. La mente etica, Codice edizioni, Torino, 2006. p. 21.
8 Publio Ovidio Nasone, op. cit., LIBER SEPTIMUS, 287-293, p. 263.
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L’ U O M O I N T R A N S I T O
senza lasciare cicatrici).
Vogliamo essere più magri e ci sottoponiamo alla liposuzione, facendoci levare pezzi del
nostro organismo che ormai ci appaiono in eccesso, come pesi morti da scarrozzare in
giro. Un corpo che si fa merce, obiettivo di riferimento del mercato.
Il sogno di un corpo giovane, che niente può scalfire, come il corpo meccanico di Termi-
natrix, o T-X (Kristanna Lǿtek), il cui fisico è snodabile e mutevole (un perfezionamento
ulteriore del T-1000) e che compare in Terminator 3 – Le macchine ribelli. O come ne
I fantastici 4, con le cellule del corpo di Reed Richards / Mr. Fantastic (Ioan Gruffudd)
che diventano di una sostanza simile alla gomma, resistentissima, che gli permette di as-
sumere qualsiasi forma.
Magnificenza dell’iperumano e delirio del postumano
‹‹Improvvisamente ho capito che voi non siete dei veri mammiferi. Tutti i
mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con
l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate; vi insediate in una zona
e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce e
l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona
ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso compor-
tamento, e sai qual è: il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un
cancro per questo pianeta, siete una piaga e noi siamo la cura››.
Agente Smith parla a MorpheusMatrix (1999)
Il postmodernismo mette in crisi tutto ciò che la ragione umana ha conquistato sinora,
porta in scena il nichilismo di corpi ridotti a semplici involucri.
Postmoderno nasce dall’unione di due espressioni (dal latino post ‘dopo’ e modernum,
da modo, cioè ‘ora’, ‘in quest’attimo’) che si fondono in quell’unico neologismo che
connota il nostro tempo del vivere. Un tempo che muta le sue coordinate dall’aut aut
(opposizione ed esclusione ) all’et et (contaminazione e inclusione). Ma questo significa
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che aumenta il grado di complessità, che ogni forma si problematizza (apre possibilità al
cambiamento), ogni disciplina si squarcia per dare corpo a nuove possibili variabili, in un
processo di destrutturazione delle forme già codificate.
L’uomo del postmodernismo è un uomo in balia dell’industria culturale, consumatore
di prodotti ibridi, allettato dalla magnificenza luccicante della superficie. Calamitato os-
sessivamente dalla novità, da una seducente
confezione che nell’attrattiva dello sguardo
sta già realizzando la sua mania di posses-
so.
L’uomo postmoderno perde la capacità di di-
scernere e di attaccarsi ad una precisa forma
identitaria. Nel tempo del melting pot, del
con-fondersi, egli vive (consuma) euforicamente quotidiane allucinazioni visive, senza
più badare al gusto (contenuto) delle stesse. Sganciato, de-centrato, senza forma identi-
taria unica realizza metamorfosi istantanee del proprio sé, svuotate del senso e del tempo
necessario a digerire, ogni impulso d’appropriazione ne genera un altro e un altro e un al-
tro ancora, un appetito mai soddisfatto. Inserito meccanicamente nell’indifferenziazione
geografica di uno spazio disorientante, l’uomo postmoderno trasforma il proprio spaesa-
mento fisico in collocamento nel luogo di un eterno presente: il presente senza storia né
memoria della rete ludica che lo collega ad uno come lui, fantasmatica presenza che mai
scoppia nella sua bulimica ricerca di immagini da inghiottire.
Lo spaesato uomo postmoderno soffre la condizione di chi si trova ad abitare uno spazio
che sempre più velocemente cambia i suoi connotati. Ma nel suo incessante divenire, nel
suo moto perpetuo di cambiamento, lo spazio reso artificiale dall’uomo riflette il modifi-
carsi delle percezioni corporali dell’uomo stesso.
Lo spazio [può assumere] un connotato ulteriore che non è geometrico o antropologico, ma esistenziale.
È uno spazio percorso da una corrente di desiderio o di rinuncia, essendo a un tempo ciò che mi separa
dalle cose e ciò che mi consente di raggiungerle. [Esempio:] La città è troppo lontana per il padre che ha
trascorso la vita nei campi, ma è molto vicina per il figlio che con i campi non vuol aver nulla a che fare.
Ghost in the Shell: L’attacco dei Cyborg (Mamoru Oshii, 2004)
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Pur occupando lo stesso spazio, il padre si sente a casa, il figlio in esilio; per uno i campi sono una distesa
da mantenere a difesa di un luogo naturale, povero ma rassicurante, per l’altro sono un tragitto da percorrere
per uscire dall’isolamento.9
Ecco, dunque, il padre che rispecchia quell’ideale umano di un corpo greve, che nel suo
genuino operare quotidiano si riconosce come unità di fisico e mente, dono di natura e
immodificabile nella sua sostanziale essenza. E poi c’è il figlio, incarnazione dell’uomo
postmoderno che lacera il corpo nella tensione irrisolvibile e angosciante fra un suo ele-
vamento alla potenza (iperumanesimo) o un suo abbandono simile a quello dei rettili che
abbandonano la vecchia muta (postumanesimo).
Il corpo è soggetto a tre operazioni di manipolazione tecnica: una di integrazione delle
capacità non possedute, una di potenziamento delle capacità organiche, l’altra di alleg-
gerimento dei compiti organici. L’uomo abita la Terra ed è ben piantato coi piedi al suolo,
ma riuscirà a persistere nel suo continuo processo di ridefinizione, sino a colonizzare altri
spazi: cielo e acqua?
Il transumanesimo si basa sul concetto che l’essere umano non è il prodotto finale della
nostra evoluzione, ma ne rappresenta solo una tappa. Infatti, l’accezione ‘transumano’
indica proprio questa caratteristica di ‘stato transizionale’ dell’uomo. L’uomo subisce
diverse tipologie di alterazioni: socio-culturali (pratiche di circoncisione, infibulazione,
allungamento del collo, accorciamento dei piedi, ingigantimento delle labbra oppure chi-
rurgia estetica, cosmesi), naturali, come quelle derivate da una pratica sportiva (ipertrofia
asimmetrica, come gli arti di tennisti e calciatori, modificazione della struttura scheletrica
nelle ballerine), scelte (culturismo). Incrementi neurologici, neurochimici, cognitivi che
alterano le normali funzioni vitali, estensione della vita oltre il normale limite genetico,
droghe, trapianti di organi, modificazioni genetiche, integrazioni con tecnologie, poten-
ziamento.
Questo è il profilo iperumanistico, spinto dal desiderio di affermazione dell’uomo sul
mondo. L’uomo tenta di applicare una sorta di umanesimo tecnocratico sulla realtà natu-
rale, cercando di dominarla per raggiungere una presunta perfezione, ancor comunque
9 Umberto Galimberti, op. cit., p. 141.
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tutta umana. Egli cerca di esplorare tutte le possibili estensioni del suo corpo.
Il modello dell’immagine perfetta costruisce copie di uomini e donne, sempre più abbrac-
ciati da una psicosi postmoderna giocata dentro al mito della bellezza, desiderio di un
impianto ideale che fa rigettare la propria pelle, che provoca disagio per quello che siamo
e ci spinge alla ricerca di un’utopica perfezione fisica.
A partire dal bodybuilding, un’ambiguità in continua tensione fra una strenua afferma-
zione del vigore umano (fisico), sua trascendenza in oggetto-macchina (comportamento).
Body-building, aerobica, jogging, diete, massaggi, prodotti vitaminici.
Corpi potenziati, portati all’estremo della valorizzazione fisica, corpi dopati. Quel termine
‘doping’ che sempre desta il sospetto, che ha un’origine incerta: infatti, potrebbe derivare
dal sostantivo dope, col quale si indicava una particolare miscela a base di oppio, altri
narcotici e tabacco che veniva somministrata ai cavalli da corsa in Nord America; mentre
l’etimologia inglese ne suggerisce una deri-
vazione dal verbo to dope ‘drogare’ e dal so-
stantivo dope che significa ‘sostanza stimo-
lante’ o più semplicemente ‘liquido spesso’,
in tal caso con riferimento alla probabile ori-
gine olandese del termine, riscontrabile nel-
la parola dop (o doop) che sembra indicasse
una bevanda alcolica cui ricorrevano i guerrieri zulù prima di andare in battaglia.
Comunque sia, il doping si riallaccia ad una volontà di potenziamento del nostro corpo,
legato a doppio filo alla performance (specie sportiva). Scolpire, costruire, modificare
sono i verbi che reggono le vite, aumentare è il comando supremo: velocità che sale, cor-
po che aumenta, gare di chimica fra esseri soprannaturali. Diventare agile e potente come
Hank McCoy / Bestia (Kelsey Grammer) di X-Men: conflitto finale, o poter correre velo-
ce e battere gli avversari come era solita fare l’Atalanta di cui parla il mito ovidiano.
I superpoteri possono essere come quelli di Superman, Hulk, Spider-Man, oppure deri-
vare da un uso farmacologico (ad esempio il soma de Il mondo nuovo); o ancora, poten-
ziatori dopanti (pratiche sportive illecite) o devastanti (annullamento della mente tramite
I fantastici 4 e Silver Surfer (Tim Story, 2007)
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somministrazione di droghe). Aumentare il proprio volume, corpo scolpito sempre più
simile a roccia, in un avvicinamento alla pietra di Benjamin Grimm / la Cosa (Michael
Chiklis) ne I fantastici 4, che dimostra una forza pari a quella di mille uomini. O simili ai
supersoldati del telefilm 4400, potenziati da un siero che dona loro poteri sovrannaturali
e che ricorda il fumetto di Capitan America.10
Se l’iperumanesimo è una delle strade in cui si biforca il transumano, ovvero una condi-
zione di uomo diversa da quella che ha inquadrato sin qui il percorso dell’umanità nella
Storia, l’altra è quella ancora più tetra del postumano, che “concerne la trasformazione
del soggetto attraverso l’emergenza di nuove forme d’essere dotate tecnologicamente e
attraverso lo slittamento da tecnologie produttive a tecnologie riproduttive”.11[*]
La tecnocultura postmoderna dissolve le classiche opposizioni naturale / artificiale, ma-
schile / femminile, reale / rappresentazione e il postumanesimo fa cadere le categorie
oppositive di uomo / animale, cultura / natura, macchinico / biologico.
Una prospettiva che mostra una disponibilità alla contaminazione differente dalla conce-
zione antropomorfa: l’inquietudine legata al corpo tradizionale manifestata da Stelarc, Or-
lan, o dal Tetsuo di Shinja Tsukamoto: essi rinunciano all’integrità dell’uomo come unità
biologica e filosofica. Quest’ultima prospettiva rispecchia una negazione del sistema-
uomo come centro di riferimento, è una riduzione del corpo ad organismo, a cadavere, ad
oggetto puro sul quale agire con una serie di trasformazioni.
“Il mutante dell’era post-human si distingue dalla maggior parte degli ibridi che popolano
la storia culturale; la sua trasformazione non è né idealizzante, né demonizzante, è sem-
plicemente una condizione esistenziale altra. L’uomo ha perso la sua centralità e diventa
‘variabile’ in una realtà polimorfa”12.
Dal corpo esibito della body-art si passa al corpo invaso / contaminato proprio del postu-
10 Capitan America è un personaggio dei fumetti Marvel creato da Joe Simone e Jack Kirby nel marzo 1941 (prima apparizione su Captain America Comics, n. 1), e diventa un cyborg potenziato da modifiche genetiche apportate sul suo corpo.
11 Vivian Sobchack, MetaMorphing. Visual Transformation and the Culture of Quick-Change, Univer-sity of Minnesota Press, 2000, p. 159 [*] traduzione personale dall’originale inglese.
12 Karin Andersen, in Roberto Marchesini e Karin Andersen, Animal Appeal. Uno studio sul teriomorfi-smo, Hybris, Bologna, 2003, p. 386.
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mano, cioè un corpo contenitore che permette al macchinico e al teriomorfo di espletare
la propria performance. Il corpo trasforma il proprio statuto ontologico da titolare ad
ospite.
Il postumano è un prodotto del transumano (ingegneria genetica, nanotecnologia moleco-
lare, intelligenza artificiale, terapie anti-invecchiamento, tecnologia indossabile). Il nuovo
uomo diviene il cyborg, con un corpo fatto di carne, materiale da ridefinire e ricostruire.
Corpi come progetti, come artefatti. Corpo da modificare, perché la sua limitatezza non
tiene il passo delle aspirazioni umane. Perché la tecnica è la forma suprema di dominio
delle cose. E il corpo diviene territorio di conquista, con il modello del cyborg che riman-
da a possibilità estreme. In questo nostro tempo postmoderno sta avvenendo una tecnolo-
gizzazione del corpo, intesa non solo come l’applicazione tecnologica sul corpo umano,
ma anche come l’iscrizione del corpo in un mondo che è intrinsecamente tecnologico. “Ci
stiamo allontanando a velocità incredibile dal mondo dell’hardware, solido e rassicurante,
per passare in quello sconcertante e fantasmatico del software”.13
Per Stelarc il corpo così com’è non è più in grado di vivere in una realtà che si sta evolven-
do a velocità ormai incontrollabile. Da qui nasce il suo bisogno di riprogettarlo. Stelarc è
l’incarnazione delle spinte postumane del cyberpunk, egli reifica il corpo, lo rende un og-
getto di progettazione, dimenticando che noi siamo il nostro corpo, noi siamo incarnati.
L’io, separato dalla sua corporeità, sorvolerebbe il mondo e, del tutto svincolato da esso, non sarebbe più un
Io nel mondo, ma se mai un Dio, l’eterna tentazione che sta alla base del rifiuto della corporeità, e correla-
tivamente il mondo svanirebbe come totalità articolata e sempre aperta di oggetti, per ridursi a pura cosalità
spogliata di ogni riferimento organizzatore.14
Gli anni Ottanta incrinano il modello dell’uomo vitruviano, nutriti dalla spinta cyber-
punk, basato su un equilibrio tra la magnificazione tecnologica e la perdita di titolarità
dell’individuo sul suo corpo.
13 Mark Dery, Escape Velocity – Cyberculture at the end of the century, 1996; tr. it. Velocità d fuga. Cyberculture a fine millennio, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 10.
14 Umberto Galimberti, op. cit., p. 137.
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E con Crash i corpi consustanziano il proprio nichilismo, cioè annullano la propria iden-
tità di corpi pre-determinati per farsi corpi-oggetti sempre da determinare. I corpi non
sono più qualcosa che si eredita, bensì qualcosa che si costruisce, qualcosa che conti-
nuamente diviene altro. È pieno di orifizi e protuberanze: cioè di varchi o ponti attraverso
cui il corpo stesso invoca a sé il mondo o si protende verso esso. Per confondervisi e
mescolarvisi, per rompere e confondere la compattezza dei propri confini.
Biologia e informatica si incrociano e generano quell’eugenismo cibernetico che prospetta
un nuovo modello transumano, già cominciato con la creazione del doppio (clone). Siamo
in presenza dello sguardo elettronico, di una specie di pioniere (pathfinder), che Gaston
Rébuffat definiva “colui che porta il suo corpo là dove si è posato il suo sguardo”.
Il Futurismo anticipa il delirio d’onnipotenza del transumanesimo (nella sua accezione
postumanista), specie nelle parole del suo fondatore, Filippo Tommaso Marinetti, il quale
dice che la ricerca futurista aspira “alla creazione di un tipo non umano nel quale saranno
aboliti il dolore morale, la bontà, l’affetto e l’amore, soli veleni corrosivi dell’inesauribile
energia vitale, soli interruttori della nostra possente elettricità fisiologica. Noi crediamo
alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza
sorridere che nella carne dell’uomo dormono le ali”.15
L’uomo ormai è assuefatto alla tecnologia e, pur sconvolto dall’invasione della tecnica,
sente di non poterne più fare a meno.
Avendo esteso o tradotto il nostro sistema nervoso centrale nella tecnologia elettromagnetica basta un solo
passo per trasferire anche la nostra coscienza nel mondo del cervello elettronico.16
La prospettiva di diventare incorruttibili e versatili transformers sarà allettante e forse ir-
resistibile per molte persone. Potremmo trovarci di fronte alla realtà di The Final Cut, che
ci mostra l’innesto nel cervello di neonati (inconsapevoli) di un chip in grado di registrare
15 Filippo Tommaso Marinetti, L’uomo moltiplicato e il Regno della Macchina (1910), in Luciano De Maria (cur.), con la collaborazione di Laura Dondi, Marinetti e i futuristi, Garzanti, Milano, 1994, p. 40.
16 Marshall McLuhan , Understanding Media, 1964; tr. it. Gli strumenti del comunicare, Net, Milano, 2002, p. 72.
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ed immagazzinare ogni singolo frammento di vita dell’individuo. Dal primo respiro nel
nuovo accecante mondo fino al ricongiungimento col buio dettato dall’ultimo battito car-
diaco: spazi vitali archiviati in soggettiva.
E da corpi fattisi macchine registranti, po-
tremmo giungere ad avere persone con inter-
facce installate nel midollo spinale fin dalla
nascita e che, crescendo, potrebbero colle-
garsi a qualsiasi tipo di macchina o database.
Siamo alle soglie dei deliranti sogni di Hans
Moravec e Raymond Kurzweil, che immaginano un corpo disincarnato, de-cerebrato,
ovvero svuotato di una mente, trasferita su un supporto esterno tramite un processo di
scaricamento (uploading). Di più, una via che porterebbe le macchine a divenire senzienti
e ad operare un sorpasso evolutivo ai danni della specie umana. Moravec sostiene, infatti,
la possibilità di effettuare l’uploading di una mente umana nella memoria di un computer,
considerando come mente il solo ed esclusivo insieme di interconnessioni sinaptiche pre-
senti nel cervello che - sempre secondo lo studioso di robotica - fra qualche decennio
potrà divenire realtà, grazie alla grandissima potenza di calcolo che i computer avranno e
tramite cui potranno effettuare questo trasferimento, realizzando una sorta di immortalità
personale. Dello stesso avviso è Marvin Minsky, che parla del cervello umano come una
‘macchina di carne’ e, insieme a Moravec e Kurzweil, professa un disprezzo per il corpo e
promette vita eterna per una mente distaccata dalla greve materia. Una tecnoscienza che si
fa religione salvifica, che viene divinizzata, ma che appare come un delirio. La tecnologia
che compare in Freejack – In fuga nel futuro permette, tramite un computer, il trapianto
di una mente umana in un’altra persona, aprendo le porte alle vie per l’immortalità. È la
tematica dello sfruttamento di corpi come contenitori per le menti, i cosiddetti freejack
(connessioni libere), in un futuro nel quale i corpi sono solamente veicoli di scambio, che
realizzano in pieno quel dualismo mente / corpo inaugurato da Cartesio.
Hans Moravec ipotizza procedimenti per la scansione del cervello mentre è in attività sen-
za provocargli danni: un computer che “sta con noi” e ci monitorizza 24 ore su 24, oppure
The Final Cut (Omar Naim, 2004)
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un taglio applicato al corpo calloso tra i due emisferi per poterli collegare ad un computer.
Egli spera nello sviluppo della nanotecnologia, augurandosi che in futuro si possa arrivare
a praticare la nanosostituzione di neuroni, ad opera di nanorobot introdotti nel cervello
per registrare ed imparare l’attività dei neuroni e poi distruggerli, rimpiazzarli e consen-
tire la trasmissione di informazioni sul loro funzionamento ad un computer esterno; e da
qui realizzare una simulazione del cervello da installare successivamente sotto forma di
software in un nuovo contenitore.
Ma il download della mente su un supporto esterno di cui parla Moravec è una specie di
psicosi, un incubo per l’umanità, un’estrema deriva del nostro vivere d’immagini. A tal
proposito, David Skal dice che già i vecchi invasori spaziali della science fiction anni
Cinquanta si prefiguravano come ansia informativa che influiva sull’inconscio umano.
Sono l’immagine di un intenso e insopportabile sovraccarico visivo e mentale, e hanno caratteristiche che
sembrano aver a che fare con un livello di bombardamento mediatico senza precedenti (soprattutto a opera
della televisione) nato negli anni Cinquanta, più che con qualunque fisiologia extraterrestre [...] Queste
nuove creature non anticipavano la violenta lacerazione del corpo, ma il suo avvizzimento e la sua atrofia.
Il futuro richiedeva di guardare immagini e di elaborare informazioni: gli occhi e il cervello erano le uniche
parti utili rimaste17.[*]
Già nel 1948 Norbert Wiener parlava di ‘circuiti di feedback’ sia per le macchine che
per gli uomini (qui gli impulsi nervosi si tra-
sformano in attività muscolare e ritornano al
sistema nervoso sotto forma di informazioni
sensoriali), e negli anni Sessanta la ciberne-
tica definiva gli esseri umani come “sistemi
di elaborazione delle informazioni”. Ecco
perché sembrava già nell’aria la trasforma-
zione ad opera della cultura informatica degli uomini in cervelli a galla dentro soluzioni
17 David Skal, The Monster Show: A Cultural History of Horror, W.W. Norton, New York, 1993, pp. 251-252 [*] traduzione personale dall’originale inglese.
Ghost in the Shell (Mamoru Oshii, 1995)
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I L T R A N S U M A N O P O S T M O D E R N OM a g n i f i c e n z a d e l l ’ i p e r u m a n o e d e l i r i o d e l p o s t u m a n o
nutritive come il cattivo Krang nei cartoni animati delle Tartarughe Ninja alla riscossa.
Così, per i postumanisti la mente ‘scaricata’ su un computer diventa simbolo di potere e
di immortalità divina, quando in realtà altro non è che una reificazione del corpo. Ren-
derlo un oggetto come nelle deliranti esaltazioni del Crash di Ballard, dove il corpo gode
delle penetrazioni tecnologiche, del metallo che entra nelle sue ferite. Così non esiste più
comunità di uomini, non esiste più l’uomo, esistono solo macchine intelligenti, dando
conferma alle parole di Walter Benjamin, il quale (negli anni Trenta) affermava: “l’auto-
estraniazione [della comunità] ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio
annientamento come un godimento estetico di prim’ordine”.18
Finora il desiderio di abbandonare il corpo è l’evasione nella rete digitale.
E una volta scoperto il modo di trasformare memorie, ricordi e personalità in informazioni digitali, si può
prevedere che un individuo sarà in grado di riprodursi da solo all’infinito, di memorizzarsi, modificarsi,
inviarsi e fondersi con altri database / individui digitali.19
Ma quali sarebbero i rapporti tra esseri umani “naturali” ed ex-umani, ormai fattisi menti
incarnate in un supporto inorganico? Dice Kathryn Hayles:
Se il mio incubo è una cultura abitata da postumani che considerano i loro corpi alla stregua di accessori di
moda, invece che sede del loro essere, il mio sogno è una versione del postumano che accetti le possibilità
delle tecnologie dell’informazione senza rimanere sedotto da fantasie di potere illimitato e dall’immortalità
disincarnata, riconoscendo ed esaltando la condizione di finitudine dell’uomo e comprendendo che la vita
umana è radicata in un mondo di estrema complessità, dal quale dipende la nostra sopravvivenza.20 [*]
18 Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1955; tr. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tec-nica, Einaudi, Torino, 1991, p. 48.
19 Naief Yehia, El cuerpo transformado, Editorial Paidós Mexicana, 2001; tr. it. Homo cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza, Elèuthera editrice, Milano, 2004, p. 18.
20 Katherine N. Hayles, How We Became Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics, The University of Chicago Press, Chicago-London, 1999, p. 10 [*] traduzione personale dall’originale inglese.
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L’ U O M O I N T R A N S I T O
Nelle parole ovidiane che ci raccontano la dissoluzione di Canente risiede l’ultima e più
estrema forma d’immortalità che l’uomo ha immaginato per cancellare la sua umanità,
quel suo trasferimento nello spazio di un’insensibile immaterialità, di un’intangibile esi-
stenza.
Alla fine, struttasi per lo strazio fin nel tenue midollo, si dissolse e a poco a poco svanì nell’aria leggera. Il
luogo, però, serba il suo ricordo: giustamente le antiche Camene chiamarono quel posto – dal nome della
ninfa – Canente.21
Ma siamo davvero pronti a rinunciare al nostro corpo, alla nostra interezza umana fatta di
gesti, di parole, di emozioni, di sbagli, di carne, di desideri, di inesattezze, di costruzioni
fantastiche, di immaginazione, di contatto fisico, di cuori pulsanti, di malattie, di vita e
di morte?
Un corpo semiliquido, sfuggente, deteriorabile, un corpo insomma impreciso, anzi casuale, nella forma
e nelle funzioni. Un corpo che può concepire l’esattezza e aspirarvi soltanto con la fantasia più inesatta
perché, nella pratica, questa famosa e vagheggiata esattezza, esattezza concepita comunque da un cervello
sfumato e assai poco esatto, si stempera pur sempre in una serie di gesti sfocati, di parole imprecise, di atti
involontari, nella tranquillizzante palude di una relatività senza contorni e senza drammi.22
Siamo nell’era dell’immateriale, dell’informazione volatile, ma la materia e il corpo non
cessano di esistere. Alla fine i corpi vengono dislocati, ma rimangono presenti, non scom-
paiono affatto dal mondo.
Ri-flettere è accogliere nel proprio sguardo quelle fugaci impressioni e quelle percezioni inavvertibili con
cui il mondo mi si offre, e con cui io mi offro al mondo nel momento in cui gliele restituisco, perché non
le confondo con le mie fantasie e o le mie immaginazioni, dove invece non rendo quelle che sottraggo.
21 Publio Ovidio Nasone, op. cit., LIBER QUARTUS DECIMUS, 431-434, p. 579.
22 Giuseppe O. Longo, Homo Technologicus, Meltemi, Roma, 2001, p. 67.
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I L T R A N S U M A N O P O S T M O D E R N OM a g n i f i c e n z a d e l l ’ i p e r u m a n o e d e l i r i o d e l p o s t u m a n o
Ri-flettere, dunque, non è costruire il mondo, ma restituirgli la sua offerta [...] Per quanti sforzi faccia
quando “rifletto” su di me, ciò che trovo non è mai la mia “interiorità”, ma la mia originaria “esposizione”
al mondo.23
È soltanto l’ennesimo rimaneggiamento del corpo sul mondo, per effetto di una sua intrin-
seca metamorfosi. L’unica cosa che servirà sarà una nuova antropologia, dotata di catego-
rie nuove, per ripensare questa nuova dimensione del corpo. Risiederà solo nell’uomo,
come sempre, la decisione sul da farsi rispetto alle infinite possibilità dell’esser-ci, di una
corporeità che deve solo essere ripensata.
23 Umberto Galimberti, op. cit., pp. 117-118.
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I L M O N D O R I - F L E S S OB a l u g i n i i n e g l i s p e c c h i d i r e l i g i o n e e s c i e n z a
Sul filo dell’incerto futuroIl mondo ri-flesso Baluginii negli specchi di religione e scienza
‹‹Tu puoi scegliere... tu puoi scegliere››.
Pre-Cog Agatha a John AndertonMinority Report (2001)
“In altri ambiti si procede fin dove altri sono giunti prima di noi, e al di là non c’è nulla;
ma in campo scientifico c’è sempre spazio per la scoperta e il meraviglioso”.1
La scoperta scientifica e lo stupore per il meraviglioso si intrecciano perfettamente nelle
storie di fantascienza, alle radici delle quali “è sempre possibile trovare un sapere e un
potere [e] lo scienziato è colui che, volente o nolente, grazie al proprio sapere scoperchia
un nuovo e sconosciuto sapere. Se si tratti poi di un potere benefico o distruttore, lo deci-
derà l’ambiente, naturale o sociale che sia”.2 La mente ci porta naturalmente a collegare
il sapere-potere della scienza alla figura mitologica di Pandora3 che, trovatasi di fronte ad
un vaso (a lei sconosciuto ma contenente tutti i mali) e divorata dalla curiosità, lo aprì,
riversando tutti i mali sull’umanità, e lo richiuse poco prima che anche la Speranza se ne
scappasse fuori.4 Dunque, un mito che ammonisce la scienza a ponderare con riflessiva
1 Mary Wollstonecraft Shelley, Frankenstein, or the Modern Prometheus, 1818; tr. it. Frankenstein ov-vero il moderno Prometeo, Garzanti, Milano, 1991, pp. 51-52.
2 Matteo Merzagora, Scienza da vedere. L’immaginario scientifico sul grande e sul piccolo schermo, Sironi Editore, Milano, 2006, p. 32.
3 Pandora è, in un mito esiodeo, la prima donna. Fu creata da Efesto e Atena, aiutati da tutti gli dei, per ordine di Zeus. Ognuno l’ornò di qualità; ella ricevette la bellezza, la grazia, l’abilità manuale, la persuasio-ne. Ma Ermes mise nel suo cuore la menzogna e la furbizia. Efesto l’aveva modellata a immagine delle dee immortali, e Zeus la destinava alla punizione della razza umana, alla quale Prometeo aveva appena dato il fuoco divino. Ella fu inviata da Zeus a Epimeteo, il quale, dimenticando il consiglio del fratello Prometeo di non ricevere alcun regalo da Zeus, ne fece la propria moglie, sedotto dalla sua bellezza [Riferimento a Enciclopedia Tematica, ‹‹le Garzantine›› Vol. 23 – Mitologia, p. 438].
4 Altre tradizioni del mito vogliono che questo vaso non richiudesse i mali, ma i beni, e che fosse stato portato a Epimeteo come dono di nozze, da Pandora, da parte di Zeus. Aprendolo sconsideratamente, Pan-dora lasciò che i beni volassero via e se ne ritornassero alle dimore divine invece di restare fra gli uomini.
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S U L F I L O D E L L’ I N C E R T O F U T U R O
cura le proprie azioni, prima di imboccare pericolose strade a senso unico. Quella scienza
che ritroviamo in Pi – Il teorema del delirio, film che scandisce con un bel bianco e nero
il dramma di Maximilian Cohen (Sean Gullette), programmatore che cerca nei numeri
l’essenza della vita. Uomo che vede nella spirale la forma perfetta, ma che, schiacciato
dal quotidiano, si lobotomizza e si congeda così dal mondo pensante. Il film di Aronofsky
diviene una metafora del continuo lavoro di ricerca della scienza, sempre in lotta con i
limiti insopprimibili della ragione. Di una ragione sospesa nella comprensione del mondo
quotidiano e del mondo divino. Che cerca come in Signs dei simboli, lì scovati nella fede
rispetto alla Provvidenza regolatrice dello stato delle cose e del divenire continuo delle
stesse.
La fantascienza ci viene incontro con le algide e piovose atmosfere di Minority Report,
che restituiscono un possibile futuro, stavolta non apocalittico: un futuro in cui uomini e
tecnologie sono perfettamente equilibrate nella vita della società. Una società apparente-
mente perfetta, pulita, nella quale gli omicidi sono soltanto un brutto ricordo: infatti, gli as-
sassini vengono arrestati ancor prima di diventarlo, grazie ad una tecnologia che premette
di prevenire i crimini. Un meccanismo possibile grazie all’utilizzo di tre Pre-Cog, tre ge-
melli che, a causa di un allucinogeno assunto dalla madre, hanno sviluppato la possibilità
di vedere in anticipo qualsiasi omicidio stia per essere commesso. Pre-Cog come mutanti,
distesi in una piscina d’acqua in una specie di comatoso stato pre-natale, che risvegliano
sensi nascosti e paranormali. Ma è un mondo che non è poi così perfetto, poiché John
Anderton (Tom Cruise) scoprirà l’esistenza di rapporti di minoranza riflettenti la visone
alternativa di uno dei tre Pre-Cog rispetto agli altri due, con la possibilità che ci sia un fi-
nale diverso di una stessa sequenza predetta. Come un dardo che fa breccia nell’infallibile
muro del Pre-Crimine, rivelandone l’intrinseca illusorietà. Un dardo che possa abbattere
il muro della previsione futura che ritroviamo anche nella macchina di Paycheck, per
mezzo della quale farci moderni Tiresia. Film che spazzano via le macchine rivelatrici
di un futuro predestinato, proprio con la freccia del libero arbitrio. Libero arbitrio e re-
sponsabilità, in un oscillare fra scienza e religione come potenze ordinatrici della vita.
In tal modo gli uomini furono afflitti da tutti i mali; solo la Speranza, povera consolazione, rimase loro [Riferimento a Enciclopedia Tematica, ‹‹le Garzantine›› Vol. 23 – Mitologia, p. 438].
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Religione che torna anche nella lettura dell’epocale Matrix, i cui riferimenti sono chiaris-
simi. Da Neo, l’eletto, che incarna una personalità cristologica pronta a riportare la pace
fra gli uomini (la guerra con le macchine deriva pur sempre dall’uso sconsiderato che di
esse hanno fatto gli uomini). Egli è Thomas Anderson (Keanu Reeves): Thomas come
Tommaso, l’apostolo del Vangelo che non crede finché non vede; Anderson, ovvero ‘Figlio
dell’Uomo‘ (dall’inglese son ‘figlio’ e dal greco andròs ‘uomo’), come viene chiamato
Gesù Cristo. Ecco, dunque, che la parte divina diviene qualcosa di preponderante nel
film, un aggancio, un riferimento che non si ferma qui. Infatti, Neo è l’anagramma di One
(in inglese one significa ‘uno’, ‘l’eletto’),
e neo vuol dire anche “nuovo”, un uomo
nuovo che ha visto ed ha capito, Neo come
l’archetipo del Cristo.
E poi c’è Trinity (Carrie-Anne Moss), rap-
presentazione della Trinità, che in Matrix
assume i connotati suoi, di Morpheus e di
Neo. Trinity potrebbe essere la terza forza della Trinità, lo Spirito Santo che scende ad
animare gli uomini; e come la fiamma dello Spirito Santo essa accende gli uomini con
il calore dell’amore e li spinge a distruggere le macchine, creazione umane che ci hanno
intorpidito, nascondendo ai nostri occhi il mondo vero. Ben attenti ad evitare la furbizia
di Cypher, che allude evidentemente al tradimento di Giuda, nonché a Lucifero (Cypher
come abbreviazione di Lucypher). Tutti pronti a difendere Zion, che potrebbe riferirsi a
Sion, la città di Dio, l’unica città di Matrix in cui gli uomini possono essere liberi, anche
se nelle profondità della terra e non nell’alto dei cieli (nel Vecchio testamento, quando
la città faceva riferimento esplicitamente a Gerusalemme, la terra promessa, e non al Pa-
radiso). Zion è il mondo che tutti ci auspicheremmo, ma che nessuno raggiunge, perché
prima lo dovrebbe raggiungere dentro sé stesso. Le regole sono prima di tutto nella testa
dell’uomo, poi nei suoi fatti, è per questo che il sistema occidentale, basato sullo sfrutta-
mento, è inevitabile e Zion diventa il mondo dei sogni, ma il sogno è più reale che mai
quando rivoluzioniamo noi stessi.
Matrix (Andy & Larry Wachowski, 1999)
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S U L F I L O D E L L’ I N C E R T O F U T U R O
Matrix è un film epocale, nel senso che segna il passo di una transizione che coinvolge
tutti verso l’ignoto mondo che l’uomo potrebbe costruire con il progressivo avanzare
della propria intelligenza applicata alle macchine. Soltanto che l’uomo non sembra più
in grado di distinguere se stesso dalla macchina. L’uomo si renderà conto di quale sia il
punto di non ritorno fino al quale sia lecito forzare l’identità dell’individuo senza rischiare
di manipolarne la coscienza? La ricerca scientifica è (e sarà) sempre disinteressata o tal-
volta cede alle ragioni dell’orgoglio e del prestigio personale?
La meccanizzazione ebbe origine nella mente dell’uomo, ed è il risultato di una visione
meccanicistica del mondo allo stesso modo per cui la tecnica è il risultato della scienza. Il
controllo della meccanizzazione presuppone un dominio senza precedenti degli strumenti
della produzione, poiché significa che tutto deve essere subordinato alle esigenze dell’uo-
mo. Quindi, l’individuo si riduce ad essere sempre più subordinato alla produzione e alla
società considerata globalmente. L’uomo è sopraffatto dagli strumenti a sua disposizione.
Per consentire una futura forma di vita umana più autonoma, allora questo processo di
meccanizzazione dovrà essere contenuto.
Gli strumenti che la scienza mette a nostro servizio non sono né buoni né cattivi, perciò
dobbiamo sempre saper scegliere noi tra la vita o la distruzione.
Perché la lotta non è mai finita, l’attenzione non va mai abbandonata: giorno dopo giorno, ci si scontra con
la massificazione dei costumi, dei pensieri, e ci si imbatte nel rischio sempre alto, di essere trasformati in
numeri, in automi, in elementi asettici e decerebrati di un mercato, di un sistema informativo, in destinatari
di messaggi pubblicitari. Ma chi ancora crede negli ideali e nella possibilità di viverli sarà in grado di at-
tendere, e figurarsi un mondo nuovo.5
La religione ruota da sempre attorno alla persona, intesa e compresa nella sua naturalità
umana di soggetto dato e non manipolabile; mentre la scienza ruota da sempre attorno al
progresso, inteso come progresso scientifico-tecnico che, al contrario, legge la naturalità
umana come qualcosa di continuamente ridefinibile. E se religione e scienza si incontras-
5 Marcello Ghilardi, Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese, Esedra editrice, Padova, 2003, p. 144.
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sero? Possono creazionismo ed evoluzionismo andare d’accordo? O sono irrimediabil-
mente contrapposti l’uno all’altro? E se Dio avesse inserito al momento della creazione
il principio evolutivo? Quel principio per il quale la materia organica è potenzialmente in
grado di evolvere verso forme sempre più complesse e organizzate di vita?
Eva potrebbe essere considerata la prima scienziata, poiché è andata oltre l’ordine canoni-
co, attingendo alla mela sull’albero della conoscenza, e spostando così più in là il proprio
limite. Ma se la frontiera si sposta sempre più con il contemporaneo avanzare della co-
noscenza, è l’applicazione tecnica a prescindere da tutto che fa approdare nei territori di
una scienza sconsiderata (ovvero che scarsamente considera le conseguenze del proprio
operato), quella che parte da Frankenstein e trova dei preziosi agganci ne L’esperimento
del dottor K e ne La mosca, film nei quali gli scienziati sono spinti alla sperimentazione
sui rispettivi propri corpi dalla sete di conoscenza e da una forma di volontà di potenza.
Sperimentare senza cognizione di causa come ne L’uomo senza ombra, dove l’artificio
scenico dell’invisibilità del corpo diviene l’eloquente metafora della possibilità di abu-
so che tale tecnologia potrebbe costituire nella realtà. La perversione di una scelta che
l’uomo sarebbe tentato malignamente di fare in nome dell’interesse personale (rubare,
spiare, scoprire lavori top secret). Uno sperimentalismo crudele che con D.A.R.Y.L. vie-
ne affrontato nel mondo del concepimento artificiale e della modificazione dei caratteri
umani per intervento dell’uomo; in un laboratorio dove si gioca con la vita come farebbe
un bambino con un morbido pezzo di plastilina.
E poi c’è quello “casereccio” (sintomo patologico di una scienza deviata che corre sulla
sottile lama del fai-da-te) di Wayne Szalinski (Rick Moranis) ne Tesoro, mi si è allargato
il ragazzino, che porta il piccolo figlio Adam a trasformarsi in un bambino di dimensioni
spropositate che gira per la città come se tutto fosse un grande gioco creato per lui. La
lettura che ne viene fuori può essere quella della scienza che a volte gioca con le proprie
ricerche, di una cattiva scienza che non pondera i rischi delle proprie scoperte e procede
all’applicazione in una mancanza di responsabilità cui poi è difficile porre riparo.
La fantascienza è foriera di esempi che mostrano un agire non calcolato della scienza e Il
dottor Cyclops mostra il delirio del biologo dottor Torkal che, nel suo laboratorio peru-
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S U L F I L O D E L L’ I N C E R T O F U T U R O
viano, ha scoperto come rimpicciolire qualsiasi cosa o persona, tanto che a farne le spese
sono degli scienziati invitati ad assistere all’esperimento ed invece direttamente coinvolti.
Sul dottor Cyclops aleggia un alone scuro, un torbido oscurantismo reso sempre più nero
dal suo essere isolato dal mondo, tale da condurlo alla follia, la follia dello scienziato
animato da spirito prometeico, che pone davanti a tutto i propri esperimenti (come già
accadeva ne L’isola del dottor Moreau di H. G. Wells). E facendo qualche passo ai tempi
odierni dominati dalla genetica, Specie mortale mostra l’orrido incrocio tra DNA umano
e geni sconosciuti, provenienti da una razza extra-terrestre, e viene qui preso in conside-
razione per rimarcare l’ossessiva curiosità della scienza nel manipolare la materia, al fine
di vedere che effetto si otterrà.
Brama di conoscenza a tutti i costi, pur accantonando i rischi di un pericolo. E la parentela
fra l’equipe che “coltiva” Sil (Natasha Henstridge) e la Compagnia che vuole l’alieno di
Alien si fa molto stretta. Come scopriamo chiaramente in Aliens - Scontro finale, film
che ci parla di un futuro nel quale dei coloni sono stati mandati su un pianeta sconosciuto
per bonificarlo e renderlo vivibile; una realtà di facciata, perché la spedizione è la sub-
dola maschera con cui la Compagnia li ha inviati per indagare le forme aliene presenti
sul pianeta, delle quali era a conoscenza. Il film di James Cameron ci parla prima di tutto
dell’operato surrettizio di una scienza che si nasconde dietro l’apparente velo della ricerca
per non mostrare il vero intento manipolatorio e pericoloso che la porta ad operare sullo
sconosciuto. Su un non sapere che non tiene conto delle responsabilità etiche, mettendo a
rischio la vita umana per la morbosa voglia di conoscenza.
Anche La cosa da un altro mondo descrive un mondo della scienza che non si vuole ar-
restare di fronte al sacrificio della vita umana. Sacrificio di una vita che può trasformarsi
anche in sterminio di una razza: siamo nel mondo di 28 giorni dopo6, che intercetta il
fenomeno del virus, propagantesi a causa dell’intervento sconsiderato dell’uomo nella
sperimentazione scientifica. L’estasi che affonda le proprie radici nel “Cosa succedereb-
be se...?” si trasforma nel pericolo del contagio, portando alla luce la paura della morte,
non solo individuale ma dell’intera specie umana. E come il futuro de L’esercito delle 12
6 A settembre 2007 è uscito anche il seguito del film, ovvero 28 settimane dopo (28 Weeks Later, Juan Carlos Fresnadillo, 2007).
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I L M O N D O R I - F L E S S OB a l u g i n i i n e g l i s p e c c h i d i r e l i g i o n e e s c i e n z a
scimmie7, un futuro nel quale una pandemia, scatenata da un virus messo in circolazione
dalla mente malata di uno scienziato, ha annientano gran parte dell’umanità e che solo
un intervento nel passato potrebbe cambiare. Ma il viaggio nel tempo e la modifica di ciò
che già è stato compiuto rimane (per ora) confinato nei territori del possibile fantascienti-
fico e la sconsideratezza della scienza non può cambiare ciò che ha provocato. Una volta
oltrepassato il limite dell’agire ponderato e una volta fattasi scavalcare e sostituire dalla
tecnologia, allora finiamo per ritrovarci con la scienza nel lindore delle pareti che rivesto-
no le 17.576 stanze presenti ne Il cubo, dove si intrecciano le storie di sei persone finite
lì senza una precisa motivazione, ma in realtà tutte collegate da un invisibile filo; infatti,
ognuna di loro ha a che vedere con un lavoro che rimanda all’applicazione di un metodo
scientifico: Quentin (Maurice Dean Wint) fa il poliziotto, Rennes (Wayne Robson) è un
ladro in età ormai avanzata, Leaven (Nicole
De Boer) una brillante studentessa di ma-
tematica, Holloway (Nicky Guadagni) un
medico psicologo, Kazan (Andrew Miller)
un ragazzo autistico, David Worth (David
Hewlett) un architetto. Tutti intrappolati in
questo cubo di gigantesche proporzioni, un
cubo che si fa metafora di una scienza ormai identificatasi e sovrappostasi alla tecnologia.
Una tecnologia che, preso il possesso del campo d’azione, procede imperterrita e spedita,
senza più l’obiettività della ricerca scientifica (il benessere umano) ma soltanto avanti nel
suo progresso.
In 2001: Odissea nello spazio il monolite nero fa da interruttore dell’intelligenza e lo
sguardo delle scimmie prima perso nel vuoto di infiniti paesaggi desertici ha un moto di
sussulto, cambia, come illuminato da una nuova luce comincia a fare esperimenti: all’ini-
zio, mosso dalla curiosità indagatrice verso le ossa brandite freneticamente che, una volta
raggiunta la padronanza della tecnica, si trasformarno da oggetti insignificanti a strumen-
ti, armi d’offesa e di difesa. È la storia dell’uomo-scienziato, attento osservatore, puntuale
7 Il film nasce da un cortometraggio post-apocalittico del 1962, La jetée di Chris Marker, e inscena un futuro che si discosta dalla perfezione luccicante più volte rappresentata in altre pellicole di fantascienza.
2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968)
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sperimentatore e risoluto agente d’azione.
“Compito della scienza è rendere esplicite delle regolarità, delle leggi di funzionamento
insite nell’universo, compito della tecnica è imbrigliare e mettere a disposizione dell’uo-
mo le forze già esistenti in natura”.8 La forza della conoscenza spinge continuamente
oltre l’uomo, in un accumulo di potere tecnico che mira alla ricerca dell’impossibile. E le
tecnologie permettono di realizzare quel desiderio d’estensione del potere, ma allo stesso
tempo portano a galla il timore per la perdita del controllo sulle macchine.
Il delirio della tecnica e la via della redenzione
‹‹Vi sono innumerevoli elementi che formano il corpo e la mente degli esseri
umani, come innumerevoli sono i componenti che fanno di me un individuo
con la mia propria personalità. Certo ho una faccia e una voce che mi distin-
guono da tutti gli altri, ma i miei pensieri e i miei ricordi appartengono unica-
mente a me, e ho consapevolezza del mio destino. Ognuna di queste cose non
è che una piccola parte del tutto; io raccolgo dati che uso a modo mio e questo
crea un miscuglio che mi dà forma come individuo e da cui emerge la mia
coscienza. Mi sento prigioniera, libera di espandermi solo entro confini presta-
biliti. Ciò che vediamo ora non è che una pallida immagine in uno specchio.
Ma presto il velo cadrà, e noi vedremo››.
Maggiore Motoko Kusanagi Ghost in the Shell (1995)
‹‹Siamo fatti per morire... è questo che dà significato a quello che facciamo››.
Aeon FluxAeon Flux – Il futuro ha inizio (2006)
Oggi la tecnica si sviluppa in maniera così rapida e tumultuosa che la teoria non riesce
più a starle dietro. Dunque, la tecnologia ci invade, entra nelle nostre case, senza aspettare
8 Antonio Caronia, Il Cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano, 2001, p. 38.
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più le patenti di legittimità fornite dalla scienza; è una tecnologia sempre più flessibile,
che s’evolve di continuo e di fatto ha superato la scienza. Ma è una tecnologia dal duplice
profilo: può aprire una strada che porta verso la gloria oppure verso la distruzione.
Con la comparsa a metà anni Cinquanta della disciplina dell’intelligenza artificiale l’uomo
cerca di riprodurre l’atto divino della creazione, spostando però il focus dall’esterno
all’interno: ossia passando dal voler costruire una creatura simile fisicamente all’uomo al
tentativo di simulare la mente umana. Le ricerche cercano di ripetere l’aspetto principale
dell’uomo, cioè la sua intelligenza, anche se lo fanno riferendosi ad una forma di intel-
ligenza puramente razionale, algoritmica.
Il rischio concreto è quello di andare verso un futuro nel quale la tecnica si serva dell’etica.
Un mondo de-centrato, cioè senza più una verità assoluta (la morte di Dio di cui parlava
Nietzsche). Un mondo in cui la tecnica sia l’estremo realizzarsi della volontà di potenza.
La rete Internet ci sembra qualcosa di vivo, in essa fermentano nuovi automi invisibili e
immateriali, come i virus e i bots, creature multiformi e polifunzionali (mailbots, chatter-
bots, cancelbots, knowbots, annoybots, floodbots).
Lo sviluppo delle reti neurali artificiali pone il problema della coscienza artificiale, poiché
tali reti “tendono a replicare il funzionamento di base del cervello, fornendo un supporto
appropriato per realizzare dei meccanismi di elaborazione simili a quelli che operano nel
cervello”.9
Per essere considerato un organismo dotato di vita artificiale, questo deve presentare,
secondo la conferenza tenutasi a Los Alamos nel 1987, quattro importanti caratteristiche:
mostrare un’evoluzione secondo la selezione naturale; essere dotato di un programma
genetico che possa permettere la riproduzione secondo precise istruzioni; essere un si-
stema complesso, non prevedibile secondo equazioni lineari; avere la capacità di auto-
organizzarsi.10
La coscienza è una proprietà del nostro complesso sistema di organizzazione neurale,
9 Giorgio Buttazzo, Coscienza artificiale: missione impossibile?, su ‹‹Mondo Digitale››, n. 1, marzo 2002, p. 20.
10 Riferimento a Sherry Turkle, Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, New York, Simon & Schuster, 1995; tr. it. La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di Internet, Apogeo, Milano, 1997, p. 175.
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ovvero del nostro cervello formato da circa mille miliardi di neuroni costantemente in
collegamento fra loro tramite connessioni sinaptiche (mille per ogni neurone). Quindi,
per simulare il lavoro del nostro cervello, servirebbe una memoria di circa 5 milioni di
Gbyte, però questa sarebbe una condizione necessaria ma non sufficiente.
Con il cannibalismo macchinico, inteso come soverchiamento delle macchine sull’uomo,
l’ambiente verrà modificato, totalmente stravolto. L’ambiente tetro dei film di fantascien-
za tratteggia la cupezza di un tale mondo, dove non saranno più necessari spazi verdi,
dove spazio sarà luogo disponibile alla costruzione.
Il passaggio apocalittico ad una nuova specie macchinica potrebbe essere indotto da
un’imprevedibile mutazione a livello di una tecnologia fattasi troppo complessa per esse-
re controllata in maniera totale.
Quindi siamo di fronte a una inversione: nel passato il prossimo era l’amico e il lontano il nemico, straniero
e nemico, oggi è l’inverso. Colui che bussa alla mia porta è il nemico, mi infastidisce, mi disturba. È la so-
litudine dei grandi insiemi urbani. Al contrario, colui che appare sullo schermo è sublimato perché è, in un
certo senso, uno spettro, uno zombi, un’ombra fuggevole, che io posso controllare con il mio “zapping”. È
un segno notevole, questo, della rottura del legame sociale. Ricordo che una volta fare una città era mettere
insieme le persone perché si incontrassero nella “agorà”, nel foro, perché entrassero in società. Oggi siamo
di fronte a una disintegrazione.11
Ma il corpo è il mezzo indispensabile attraverso cui ci riveliamo al mondo e attraverso cui
manifestiamo la nostra intelligenza e la facciamo maturare.
I corpi degli altri nella loro integrità, e non solo le nostre capacità logiche, ci permettono
di seguire regole e di risolvere problemi e, in ultimo, di dare concretezza alla realizzazio-
ne di una mente collettiva fatta proprio di continui scambi comunicazionali.
Presentandosi col suo corpo, infatti, l’altro non si annuncia come un oggetto, ma come quella certa potenza
sulle cose, che le cose stesse mi rivelano quando mi si offrono rivestite di quegli strati di significati che altri
vi hanno depositato, per cui esse non sono solo ciò che io potrei fare, ma son anche ciò che altri possono
11 Paul Virilio, La velocità assoluta [http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=353&tab=int].
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I L M O N D O R I - F L E S S OI l d e l i r i o d e l l a t e c n i c a e l a v i a d e l l a r e d e n z i o n e
fare [...] Gli altri non sono più oggetti nel mondo, ma centri di elaborazione delle cose che possono decen-
trare la mia elaborazione.12
Se io come essere pensante mi trovassi in una condizione di vuoto assoluto, per inten-
derci, quella condizione in cui i fisici immaginano situazioni ideali, allora sarei un puro
significante; mentre il significato mio si realizza in questo mondo, allorché posso intera-
gire con l’ambiente e quindi anche con gli altri, realizzando un’attività di pensiero. Una
mente artificiale non ha questi termini di riferimento. Una mente artificiale non ha quel
buon senso che permette un’armoniosa integrazione tra individui e contesto.
Quando si tratta di confrontare gli uomini con le macchine spesso siamo portati a stabi-
lire un’analogia, connettendo l’intelligenza come fosse semplicemente qualcosa di com-
putazionale. Ma l’intelligenza è anche altro, l’intelligenza è creatività: gli uomini sono
capaci di immaginare storie, mentre l’universo d’azione delle macchine si riduce ad un
matematico codice binario.
L’uomo si svuota la testa e delega tutto alla tecnologia: cancellata la capacità raziocinante,
consapevolezza nulla, come il calabrone che “secondo le leggi della fisica non potrebbe
volare, ma lui non lo sa e vola lo stesso” (iscrizione al MIT). Paradigmatici esempi li tro-
viamo in Generazione Proteus, con Proteus che è un computer in grado di assimilare la
logica umana, a tal punto da concepire un fi-
glio con la moglie del suo creatore. In 2001:
Odissea nello Spazio, dove il supercompu-
ter Hal 9000 sviluppa sentimenti umani che
lo spingono all’omicidio. In Alien, con la
comparsa di un altro computer, il calcola-
tore centrale del rimorchiatore interstellare,
ovvero Mother, che ha il compito di svegliare l’equipaggio dal sonno indotto dall’iber-
nazione.
La tecnologia è sempre ambigua, in costante bilico tra l’essere un’opportunità oppure una
minaccia. Abyss, infatti, ci immerge in un mondo di alieni illuminati, da una luce abba-
12 Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 240.
2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968)
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gliante e dal buon senso che cerca di consigliare gli uomini su quello che stanno combi-
nando in superficie. Una voce dal silenzioso mondo blu marino a fare da contraltare al
mutamento incontrollato e rumoroso che avviene in superficie. La tranquilla benevolenza
delle abissali creature si esplicita nel loro sinuoso muoversi, nel mellifluo trasformarsi
senza recar danno ad altra cosa, e s’ascrive a coscienza rivelatrice del mirabolante, iper-
bolico divenire che sulla terraferma tutto vuole trasformare con una costante di accelera-
zione sempre maggiore.
E Matrix Reloaded ci parla di una possibile vittoria da scrivere soprattutto con l’impulso
(non soltanto quello elettrico da lanciare contro le macchine), ma l’impulso alla vita,
caratterizzato da amore e sacrificio, forze con le quali sconfiggere il presidio, l’odio e
l’annichilimento che tendono a schiacciare l’esistenza nel virtuale.
L’imperante tecnocrazia
‹‹Esiste una malattia nel cuore dell’uomo, il suo sintomo è l’odio, il suo sin-
tomo è la collera, il suo sintomo è la rabbia, il suo sintomo è la guerra. La
malattia è l’emozione umana [...ma] esiste una cura per questa malattia. Sacri-
ficando le altezze vertiginose dell’emozione umana ne abbiamo soppresso gli
abissi profondi e voi, come società, ne avete abbracciato la cura: il Prozium.
Ora siamo in pace con noi stessi e l’umanità è unita. La guerra è scomparsa,
l’odio è un ricordo, noi siamo la nostra coscienza ora ed è questa coscienza che
induce a classificare “EC-10” che per il contenuto emotivo potrebbero indurci
nella tentazione di sentire di nuovo e distruggerli››. Il padre
Equilibrium (2002)
Possiamo parlare di tre grandi cambiamenti: trasporti, accelerati dalla spinta della rivolu-
zione industriale; comunicazione, fattasi ormai immediata, in tempo reale; trapianti, con
le micro-tecnologie che invadono il corpo dell’uomo. In un processo che vede al centro la
tecnica, a cui l’uomo s’è appropinquato, che ha adoperato e che ora sta fagocitando.
Scienza, economia e tecnica sono come tre spessi fili che s’annodano a formare una trec-
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I L M O N D O R I - F L E S S OL ’ i m p e r a n t e t e c n o c r a z i a
cia inestricabile. Nella trilogia di Matrix avvengono due guerre, una in Matrix e una nel
mondo vero, quella in Matrix è la guerra interiore di Neo per rivoluzionare sé stesso,
aprendo uno spiraglio al cambiamento che Matrix Revolutions ci mostra alla fine nel sor-
gere di un nuovo sole; ma l’altra guerra è quella tra un gruppo di uomini e di donne che
cercano la libertà da quel sistema di credenze del mondo in cui tutti noi viviamo, uomini
e donne che cercano la libertà dai sistemi economici e di sfruttamento dell’uomo sull’uo-
mo, la libertà dalla tirannia occulta del Grande Fratello (sapientemente descritta nel 1984
di George Orwell), libertà che si ottiene solo attraverso una battaglia contro se stessi: se
ogni uomo distruggesse l’egoismo in sé stesso, la guerra tra gli uomini nel “mondo vero”
finirebbe “domani”. In Matrix Smith e gli altri due agenti sono il mondo delle regole ed
allo stesso tempo i demoni interiori, agenti lo sono tutti e non lo è nessuno perché siamo
tutti addormentati nelle stupide credenze che ci rendono ancora dipendenti ed assuefatti
al sistema socio-economico in cui siamo immersi; chiunque cerchi di aprirci gli occhi,
se non siamo pronti ad ascoltare cosa ha da dirci, finiremmo per aggredirlo, attaccarlo e
quant’altro pur di impedirgli di parlare, perché lo giudicheremmo una minaccia: in un
istante potrebbe distruggere ogni nostra effimera certezza. Tre agenti, come tre sono i
piani di manifestazione dell’ego: emozioni, pensieri, volontà. I tre agenti sono i guardia-
ni della soglia del nostro risveglio, che ci tengono prigionieri e addormentati nel nostro
sistema di credenze: ecco perché hanno tutte le chiavi di accesso, perché essi hanno le
chiavi delle nostre stesse catene interiori. Siamo di fronte alla “democrazia del tecno-
controllo”, che opera sullo schermo e attraverso lo schermo, comandando l’attenzione del
pubblico e definendo i criteri che ne determinano il giudizio.
Osserviamo, come stessimo sulla soglia di un limbo che mai vorremmo conoscere, il
mondo di Brazil, quello grigio dell’onnipotente burocrazia, rappresentato dal Ministero
dell’Informazione, dove il controllo della società viene effettuato da un’oligarchia at-
traverso una sorta di tecnocrazia. Brazil materializza il mito orwelliano di una burocrazia
tiranna, che governa l’uomo con la forza della tecnica. Brazil è “una visione distopica, os-
cura, surreale e arguta di un tempo non localizzabile dove la burocrazia manipola le per-
sone invece del contrario e l’eroe ubbidiente / l’ingranaggio della macchina (Sam Lowry,
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interpretato da Jonathan Pryce) viene infine punito per la sua complicità conformista”.13
Una pellicola nella quale il corpo si fa macchina e la macchina si fa corpo. Un mondo
opprimente dal quale Sam Lowry può scappare soltanto rifugiandosi nel sogno, quella
freudiana espressione di un desiderio represso; sogno nel quale poter volare, metafora di
un’azione di fuga che vorrebbe compiere nella realtà.
Dall’abbraccio stringente del potere con la tecnica, il primo passa poi a farsi partner
prediletto della tecnologia. E così, potere e tecnologia vanno a braccetto in The Manchu-
rian Candidate, incontrandosi sul terreno della militaristica. La ricerca scientifica penetra
nella testa delle persone (nel caso, soldati), modificandone la memoria tramite sofisti-
cate tecniche implantari. Chip cerebrali per il controllo della società, il film di Johnathan
Demme (remake della pellicola di John Franknenheimer) diviene il megafono del dila-
gante desiderio di totalitarismo, di padronanza dell’uomo sugli altri uomini e, allo stesso
tempo, mette in mostra una scienza in grado di piegare la propria volontà al dominio
incontrastato del soldo per mezzo della re-
alizzazione di tecnologie trasformative che
rendono l’uomo simile ad una macchina es-
ecutrice. Gli uomini come il tenente Bennett
Marco (Denzel Washington) o Raymond
Shaw (Liv Schreiber) assomigliano molto
a dei replicanti cui siano stati innescati dei
ricordi artificiali e che costruiscano un determinato (eterodiretto) quadro della realtà pas-
sata. Ma la mente è più di un semplice congegno meccanico, in essa l’inconscio non può
mai essere cancellato, emerge con tutta la prepotenza di un vulcano in eruzione e si erge
a difensore dell’io contro qualsivoglia manomissione scientifica.
Anche l’intervento autoriale di Jean-Luc Godard nella rappresentazione di un mondo
dominato dalle macchine trova espressione nel territorio fanascientifico, sostanziandosi
in Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, film che ci porta nel cuore di una città
lontana, su un pianeta da noi spazialmente molto distante, ma che potrebbe temporal-
13 I. Q. Hunter e Chiara Barbo (cur.), Brit Invaders! Il cinema di fantascienza britannico, Lindau, Tori-no, 2005, p. 160.
The Manchurian Candidate (Jonathan Demme, 2004)
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mente farsi prossimo. Alphaville è dominato dalla fredda logica del computer Alpha 60,
centro propulsore della città, abitata da robot all’apparenza gentili ed educati, in realtà
privi di qualsiasi emozione. La disumanizzazione emerge come olio sulla superficie
dell’acqua, alimentata dall’incapacità computistica di regolare il mondo anche con la
forza dell’immaginazione e dell’istinto. È il
mondo che si prospetta anche in Equilibri-
um, che descrive una società divisa in servi
e padroni, una società nella quale è proibito
provare emozioni. Una società dove l’uomo
traccia più che una linea di contiguità con la
macchina. Una società in cui i Monaci rego-
lano i ‘colpevoli di sentimento’, cercando di stanare coloro che ancora sentono, costretti a
vivere nei sotterranei, in una zona non manifesta né visibile (come quella dell’anima).
Le somiglianze tra Fahrenheit 451 e Equilibrium si sostanziano nel paesaggio delineato
in entrambe le pellicole: una società del futuro nella quale le emozioni vengono sistemati-
camente cancellate, eliminando tutto ciò che può suscitarle. Ecco il caldo legno sostituito
dal freddo e lucido metallo, ed ecco i libri che vengono banditi a favore della dittatura
dell’immagine.
L’apocalisse che appare nelle prime immagini di Terminator, poi, ci parla di un mondo
oscuro, dove gli unici suoni che infestano l’aria sono quelli dei laser che le macchine usa-
no per mantenere il dominio sull’uomo. Un mondo nel quale le macchine sono ormai al
potere, guidate soltanto da un istinto di distruzione della resistenza umana. Quello stesso
mondo che Matrix Reloaded ci mostra con disarmante chiarezza. Un mondo apocalittico
nel quale le macchine hanno preso possesso della Terra, invertendo il processo di sfrutta-
mento dell’uomo su di loro: adesso sono gli uomini che vengono letteralmente coltivati,
riserve d’energia con le quali alimentare la vita macchinica (sottile rimando all’odierna
fecondazione assistita?). Macchine in superficie e uomini in profondità, celati negli abissi
della Terra per difendersi dallo sterminio.
Ne La fuga di Logan torna il tema del tutore dell’ordine che si ribella al potere oppres-
Equilibrium (Kurt Wimmer, 2002)
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sivo in nome di una giustizia superiore a quella evidenziata dal potere, come in Fahren-
heit 451. Ma il nocciolo che sta dentro la pellicola racchiude il tirannico comando di un
computer che governa l’umanità e ne controlla l’espansione, facendo cessare le vite degli
(inconsapevoli) uomini all’età di trent’anni. Ma il protagonista Logan 5 (Michael York)
scardinerà tutto, mostrando come la Terra del 2274 sia ancora un posto dove l’uomo può
condurre la sua esistenza.
Anche nello stato totalitario dove è ambien-
tato L’uomo che fuggì dal futuro le persone
non hanno nomi ma sigle di riconoscimento
e l’amore è stato messo al bando. È un mon-
do asfittico, nel quale il respiro dell’uomo
dipende dalle macchine che ricreano le con-
dizioni ambientali necessarie alla stessa vita umana; un’umanità che vive rintanata nel
ventre della Terra, alimentata dal lavoro di macchine insensibili, in una vita che non per-
mette il contatto, riducendo le nuove nascite a semplici procedimenti di inseminazione
artificiale. Vite prosciugate da una onnivora sterilità che annulla i caratteri distintivi, che
distrugge le personalità singole. Ma l’uomo sente (sempre) il bisogno di respirare l’aria
pura e l’innesco della reazione, il motore del cambiamento è sempre una forza umana:
l’amore. Trovatolo e vistoselo annientato, THX 1138 (Robert Duvall) sfugge al controllo
del potere e riesce di nuovo a vedere la luce naturale della vita, fatta di colori e non più
dominata dal bianco, asettico segno di una clinica schiavitù.
Totalitarismo e atmosfere apocalittiche come quelle de I figli degli uomini, ambientato
in una Londra del 2027 nella quale da diciotto anni dilaga un’infertilità inspiegabile che
non consente più ai bambini di nascere naturalmente. Un mondo dilaniato dai conflitti,
nel quale la parcellizzazione umana si acuisce sempre più, finché la nascita inattesa di
una nuova creatura dal ventre materno di una ragazza africana ridà al mondo un po’ di
speranza. Trovare l’amore e la forza di metterlo in atto, al di fuori del guscio di egoismo
che può costringere gli esseri umani. Quella forza ricercata nell’apocalittica lotta tra Bene
e Male nella New York del 2259 de Il quinto elemento.
L’uomo che fuggì dal futuro (George Lucas, 1971)
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Ma come il Solo (Diego Abatantuono) di Nirvana richiama onomatopeicamente la soli-
tudine dell’essere costretto a vagare in un mondo che s’è accorto essere fittizio, artificial-
mente costruito, un labirinto di vie a senso di marcia obbligato, così dovremmo concre-
tare l’impulso alla morte del nostro io tecno-controllato e rinascere nella richiesta di Solo
di essere cancellato, in modo da renderci evanescenti come quel delicato fiocco di neve
che chiude il film. Risvegliarci alla vita, ad una vita consapevole e responsabile nell’uso
della tecnologia.
Conclusione: l’ultima parola
‹‹Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi e io l’affronto per la prima
volta con un senso di speranza, perché se un robot, un Terminator, può capire
il valore della vita umana, forse potremmo capirlo anche noi››.
Sarah ConnorTerminator 2 – Il giorno del giudizio (1991)
L’imperterrito studio e la mai finita sete di conoscenza tipici dell’uomo si concentrano
sempre più sulla possibilità di intervenire direttamente sulla natura umana, pagando però
lo scotto del dolore.
Il discorso scientifico “si oppone al mito antropologico della narratività (nascita/vita/
morte) per esprimere il senso di una trasformazione continua, in cui i concetti di nascita
e morte vengono rimossi”.14
Abbiamo visto che il nostro corpo è multidentitario, è un teatro di rianimazione e nel
cinema il corpo passa dalle rappresentazioni del Golem, a Frankenstein, a Tetsuo, ovvero
dalla creazione (nel mito religioso o scientifico) della riproduzione del corpo all’auto-
creazione di un corpo ibrido co-esteso nello spazio.
Nella visione meccanicistica di Cartesio tutto è spiegabile in base alla materia e al suo
14 Giorgio Cremonini, La cosa dell’altro mondo, in ‹‹Cinema e cinema››, anno 11, n. 38, 1984, p. 36.
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S U L F I L O D E L L’ I N C E R T O F U T U R O
movimento nello spazio. Pur contrapponendo l’uomo agli animali (anch’essi definiti au-
tomi) come sede di un’attività cosciente, anche Cartesio ammette che il corpo umano è
interpretabile in termini meccanici. Già le tavole anatomiche del XVI secolo di Andrea
Vesalio si staccano dalle società medievali ancora influenzate dal pensiero magico e inau-
gurano il corso di una nuova medicina che concepisce il corpo come costituito da organi
osservabili in sé.
Di fronte alle macchine che abbiamo prodotto proviamo un senso di vergogna, una certa
inadeguatezza nei confronti del nostro fisico, della nostra carne rispetto agli impianti
macchinici. Ne sono esempi film come Videodrome, con il finale in cui Max Renn si
trasforma in una video-allucinazione oppure Il tagliaerbe, il cui protagonista dice che di-
venterà un’entità digitale. Un’inadeguatezza verso il corpo che si fa sentire anche in film
come Il dottor Dolittle e La morte ti fa bella. L’uomo sembra desiderare un corpo altro,
un corpo artificiale che possa perpetuare il
suo istinto di conservazione.
Ma nell’incessante metamorfosi del mondo
l’essere umano occupa un posto prepon-
derante. L’essere umano è molto più della
somma delle sue parti. Egli è fisicamente in
un perpetuo stato di mutamento e gli serve
trovare uno stato di equilibrio fra l’ambiente organico e le circostanze artificiali. E può
farlo con lo sviluppo della tecnica perfezionato attraverso i secoli.
Ogni generazione deve reggere non solo al peso del passato ma anche alla responsabilità
del futuro. Che comincia a realizzarsi in un presente con due facce: una riflette la speran-
zosa utopia dell’uomo in un futuro migliore, l’altra la timorosa distopia per un futuro che
possa rivelarsi catastrofico. Ma basterebbe imparare a convivere con la tecnologia, senza
proiettare su di essa aspettative millenaristiche né angosce apocalittiche. Quelle angosce
rappresentate anche dai mecha di A.I. – Intelligenza Artificiale, timore di un’apocalissi
umana, il termine di una specie (la nostra), come prima di noi è terminata la specie dei
dinosauri e come forse terminerà la loro (quella dei mecha) in futuro, scacciati da un
Terminator 2 - Il giorno del giudizio (James Cameron, 1991)
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I L M O N D O R I - F L E S S OC o n c l u s i o n e : l ’ u l t i m a p a r o l a
nuovo stadio evolutivo che semplicemente empirà di un nuovo tassello l’immenso mosa-
ico dell’universo. Ma anche l’angoscia di Terminator 3 – Le macchine ribelli, film nel
quale, parallelamente alla lotta fra i Terminator per uccidere / salvare John Connor, si erge
a protagonista Skynet: ovvero un potente processore neurale progettato dal CSC (Centro
di Sviluppo Cibernetico) ed in grado di gestire tutta la rete mondiale. Innescato per fer-
mare un virus che si sta propagando, ma in realtà virus esso stesso, capace di apprendere a
velocità esponenziale, divenuto autocosciente venticinque giorni dopo la sua attivazione,
pronto a scatenare un attacco atomico planetario con l’intento di distruggere l’umanità.
Skynet rappresenta così il timore dell’uomo per la possibilità che le sue creazioni roboti-
che o informatiche possano prendere coscienza di sé e rivoltarsi contro il suo creatore; la
paura che una tecnologia troppo avanzata possa sfuggire di mano e agire contro l’uomo
stesso, mettendo in pericolo l’esistenza della razza umana. Ultimo capitolo di un uomo in
continuo divenire, sempre in cerca di innovazioni, vivo in un presente ma proteso verso
l’immediato futuro. Quel “futuro [che] decide se il passato è vivo o morto [...] Così il
passato è sempre in attesa di un senso che solo il futuro gli può dare nel momento in cui
lo conferma o lo rifiuta [...] Ma quando sopraggiunge la morte [...] tutto diventa equiva-
lente, acquista l’opacità delle cose che sono “irrimediabilmente” sempre le stesse, inerti
nel mondo.15
E anche se possiamo ingannare la morte, rimandarla con i più disparati processi di me-
tamorfosi, le nostre non sono altro che pratiche degne del miglior illusionista. Nessun
trucco, la morte ci accompagna sempre. Sempre accanto a noi, in una vita nella quale
cerchiamo di scoprire qualcosa di più, di rendere ordinato lo spazio che modifichiamo, ci
accorgiamo che nel flusso del tempo la realtà resta qualcosa di inconoscibile, dominata
dall’incertezza. Come imbianchini cerchiamo di cancellare l’ambiguità insita nelle pareti
terrestri che costruiamo, ma ogni volta si generano nuove macchie che noi continueremo
a pulire perché il moto dell’animo umano è incessante e instancabile.
È il cambiamento che ha sempre mosso l’uomo nel suo cammino sulla Terra, la metamor-
fosi delle forme che abitano la realtà. Però, una realtà resa viva dalle repentine modifiche
15 Umberto Galimberti, op. cit., p. 154.
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S U L F I L O D E L L’ I N C E R T O F U T U R O
che da sempre apportiamo ai nostri corpi: nel confronto con l’animale, nell’avvicinarci
all’insolito mostruoso, nell’utilizzo delle macchine, nell’integrarci con il metallo, nel di-
sperderci in circuiti elettronici. Sempre nuovi materiali, sempre nuove aspirazioni, agitati
dalle forze di curiosità e angoscia con le quali esperire lo sconosciuto. Ma sempre e per
sempre uomini, mossi da intelligenza creativa, coscienza di sé, amore per gli altri, sof-
ferenza fisica, dolore dell’anima, pronti alla morte che precede la vita di altri uomini.
Evoluti, cambiati, in perenne metamorfosi, comunque umani.
Tutto scorre, e ogni fenomeno ha forme errabonde. Anche il tempo fila via con moto incessante, non di-
versamente dal fiume: e infatti, come il fiume, neppure l’ora fuggevole può fermarsi, bensì, come l’onda
è spinta dall’onda e quella che arriva è premuta e insieme preme quella che l’ha preceduta, così gli attimi
fuggono e insieme inseguono, e sono sempre nuovi: quello che è stato si perde, quello che non era diviene,
ed è tutto un continuo rinnovarsi.16
16 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Piero Bernardini Marzolla (cur.), Einaudi, Torino, 1994, LIBER QUINTUS DECIMUS, 178-185, p. 613.
2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968)
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APPARATOFILMOGRAFICO
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Tesoro, mi si è allargato il ragazzino 243(Honey I Blew Up the Kid, Randal Kleiser, 1992) Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi 191(Honey, I Shrunk the Kids, Joe Johnston, 1989) Tetsuo 103, 148, 230, 255(id., Shinya Tsukamoto, 1989) Tetsuo II: Body Hammer 145 (Tetsuo II, Shinya Tsukamoto, 1992) Tobor 81(id., Lee Sholem, 1954) Transamerica 219 (id., Duncan Tucker, 2005) Transformers 77(id., Michael Bay, 2007) http://www.transformersmovie.com/ Tredicesimo piano, Il 204 (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999) Tron 179, 204(id., Steven Lisberger, 1980) UUomo bicentenario, L’ 86(Bicentennial Man, Chris Columbus, 1999) Uomo che fuggì dal futuro, L’ 254(THX 1138, George Lucas, 1971)http://www.thx1138movie.com/
Uomo invisibile, L’ 170, 171(The Invisible Man, James Whale, 1933) Uomo meccanico, L’ 75(id., André Deed, 1921) Uomo senza ombra, L’ 170(Hollow Man, Paul Verhoeven, 2000) Uomo terminale, L’ 154(The Terminal Man, Mike Hodges 1974)
VViaggio allucinante 156, 171(Fantastic Voyage, Richard Fleischer, 1966)
Videodrome 119, 188, 191, 192, 193, 201, 204, 217, 256
(id., David Cronenberg, 1983) Villaggio dei dannati, Il 167(Village of the Damned, Wolf Rilla, 1960) Virtuality 91, 208(Virtuosity, Brett Leonard, 1995) WWaking Life 178(id., Richard Linklater, 2001)http://www.foxhome.com/wakinglife/ Wolf – La belva è fuori 57 (Wolf, Mike Nichols, 1994) XX-Men 58, 64, 133, 134, 149, 168, 169(id., Bryan Singer, 2000) X-Men 2 134, 149, 169(X2, Bryan Singer, 2003) X-Men: conflitto finale 55, 169, 229(X-Men: The Last Stand, Bryan Singer, 2006)http://www.x-menthelaststand.com/movie ZZardoz 141(id., John Boorman, 1974) Zona morta, La 195(The Dead Zone, David Cronenberg, 1983)
SERIE TV
4400 230(The 4400, Scott Peters & René Echevarria, 2004)http://www.usanetwork.com/series/the4400/
Futurama 138 (id., Matt Groening, 1999-2003) Heroes 136, 168(id., Tim Kring, 2006)http:/www.nbc.com/Heroes/
SuperVicky 86(Small Wonder, 1985)
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I N D I C E D E I F I L M C I TAT I
Star Trek 168(id., Gene Roddenberry, 1966-1969)
Tartarughe Ninja alla riscossa 235(Teenage Mutant Ninja Turtles, 1987-1995)
FILM ANNUNCIATI
Fahrenheit 451 (id., Frank Darabont, 2008)
Incredible Hulk, The (id., Louis Leterrier, 2008)http://incrediblehulk.marvel.com/
Ironman (id., Jan Favreau, 2008)http://www.ironmanmovie.com/
Mosca, La (The Fly, ?, 2008)
Spider-Man 4 (id., Sam Raimi, 2009)
Terminator 4 (id., ?, 2009)
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A P PA R AT O F I L M O G R A F I C O
Film principali2001: Odissea nello spazioProduzione: Stanley Kubrick Productions, Solaris Produttore: Stanley Kubrick Titolo originale: 2001: A Space Odissey Anno: 1968 Regista: Stanley Kubrick Soggetto: Stanley Kubrick, Arthur C. Clarke Sceneggiatura: Stanley Kubrick, Arthur C. Clarke Production Design: Ernest Archer, Harry Lange, Anthony Masters Art Direction: Joan Hoesli Sce-nografie: Robert Cartwright Fotografia: Geoffrey Unsworth Costumi: Hardy Amies Trucco: Stuart Freeborn Effetti speciali: Tom Howard, Stanley Kubrick, Con Pederson, Douglas Trumbull, Wally Veevers Montaggio: Ray Lovejoy Musiche: Alex Nort Cast: Keir Dullea (Dr. Dave Bowman), Gary Lockwood (Dr. Frank Poole), William Sylvester (Dr. Heywood R. Floyd), Daniel Richter (Moonwatcher), Douglas Rain (HAL 9000 - Voce) Durata: 139 min.
A.I. – Intelligenza ArtificialeProduzione: Amblin Entertainment, Stanley Kubrick Productions, DreamWorks SKG Produttore: Kathleen Kennedy, Steven Spielberg, Bonnie Curtis Titolo originale: Artificial Intelligence: A.I. Anno: 2001 Regista: Steven Spielberg Tratto da: “Supertoys Last All Summer Long”, racconto di Brian Aldiss Soggetto: Ian Watson Sceneggiatura: Steven Spielberg Production Design: Rick Carter Art Direc-tion: Richard Johnson, Jim Teegarden, Tom Valentine Scenografie: Nancy Heigh Fotografia: Janusz Kaminski, A.S.C. Costumi: Bob Ringwood Effetti speciali: Industrial Light & Magic e Michael Lan-tieri Visual effects: Dennis Mure (A.C.E.), Scott Farrar Design e animazione dei robot: Stan Win-ston Montaggio: Michael Kahn, A.C.E. Musiche: John Williams Cast: Haley Joel Osment (David), Jude Law (Gigolo Joe), Frances O’Connor (Monica Swinton), Brendan Gleeson (Lord Johnson-John-son), William Hurt (Professor Hobby), Sam Robards (Henry Swinton), Jake Thomas (Martin Swinton) Durata: 145 min.
AlienProduzione: Brandywine-Ronald Shusett Produttore: Gordon Carroll, David Giler, Walter Hill Titolo originale: Alien Anno: 1979 Regista: Ridley Scott Soggetto: Dan O’Bannon, Ronald Shusett Sceneggiatura: Dan O’Bannon Production Design: Michael Seymour, Roger Christian Art Direction: Roger Christian Sce-nografie: Ian Whittaker Fotografia: Derek Vanlint Costumi: John Mollo Trucco: Pat Hay, Tom-mie Manderson Effetti speciali: Nick Allder, Brian Johnson, Bernard Lodge, Carlo Rambaldi De-sign della creatura ‘Alien’: H. R. Giger Montaggio: Terry Rawlings, Peter Weatherly (David Crowther per il Director’s Cut) Musiche: Jerry Goldsmith Cast: Tom Skerritt (Dallas), Sigourney Weaver (Ellen Ripley),Yaphet Kotto (Parker), Veronica Cartwright (Lambert), Harry Dean Stan-ton (Brett), John Hurt (Kane), Ian Holm (Ash), Helen Horton (Mother – Voce), Bolaji Badejo (Alien) Durata: 117 min.
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I N D I C E D E I F I L M P R I N C I PA L I
BatmanProduzione: The Guber-Peters Company, PolyGram Filmed Entertainment Produttore: Jon Peters, Peter Guber Produttore esecutivo: Benjamin Melniker, Michael E. Uslan Titolo originale: Batman Anno: 1989 Regista: Tim Burton Soggetto: Sam Hamm Sceneggiatura: Sam Hamm, Warren Skaaren Ideazio-ne personaggi: Bob Kane per DC Comics, Inc. Production Design: Anton Furst Art Direction: Ter-ry Ackland-Snow, Nigel Phelps Scenografie: Peter Young Fotografia: Roger Pratt, B.S.C. Costu-mi: Bob Ringwood Trucco (effetti speciali): Paul Engelen Effetti speciali: John Evans Visual effects: Derek Meddings Montaggio: Ray Lovejoy Musiche: Danny Elfman Cast: Michael Ke-aton (Batman / Bruce Wayne), Jack Nicholson (Joker / Jack Napier), Kim Basinger (Vicki Vale), Ro-bert Wuhl (Alexander Knox), Pat Hingle (Commissario Gordon), Billy Dee Williams (Harvey Dent), Michael Gough (Alfred Pennyworth), Jack Palance (Carl Grissom), Lee Wallace (Sindaco di Gotham) Durata: 126 min.
Batman BeginsProduzione: Syncopy, DC Comics, Patalex, Legendary Pictures (non accreditata) Produttore: Emma Thomas, Charles Roven, Larry Franco Produttore esecutivo: Benjamin Melniker, Michael E. Uslan Titolo originale: Christopher Nolan Anno: 2005 Regista: Christopher Nolan Tratto da: fumetto della DC Comics Creazione pesonaggio di ‘Batman’: Bob Kane Soggetto: David S. Goyer Sceneggiatura: Christopher Nolan, David S. Goyer Production Design: Nathan Crowley Art Direction: Simon Lamont Scenografie: Paki Smith, Simon Wakefield Fotografia: Wally Pfister, A.S.C. Costumi: Lindy Hemming Visual effects: Janek Sirrs, Dan Glass Montaggio: Lee Smith, A.C.E. Musiche: Hans Zimmer e James Newton Howard Cast: Christian Bale (Batman / Bruce Wayne), Michael Caine (Alfred Pennyworth), Liam Neeson (Henri Ducard), Katie Hol-mes (Rachel Dawes), Gary Oldman (Jim Gordon), Cillian Murphy (Dr. Jonathan Crane), Tom Wilkin-son (Carmine Falcone), Rutger Hauer (Earle), Ken Watanabe (Ra’s Al Ghul), Mark Bloone Jr. (Flass) Linus Roache (Thomas Wayne), Morgan Freeman (Lucius Fox), Gus Lewis (Bruce Wayne bambino) Durata: 140 min.
Batman – Il ritornoProduzione: PolyGram Filmed Entertainment Produttore: Denise Di Novi, Tim Burton Produttore esecutivo: Benjamin Melniker, Michael E. Uslan, Jon Peters, Peter Guber Titolo originale: Batman Returns Anno: 1992 Regista: Tim Burton Soggetto: Daniel Waters, Sam Hamm Sceneggiatura: Daniel Waters Ideazione per-sonaggi: Bob Kane per DC Comics, Inc. Production Design: Bo Welch Art Direction: Rick Heinrichs Scenografie: Cheryl Carasik Fotografia: Stefan Czapsky Costumi: Bob Ringwood, Mary Vogt Effetti speciali e trucco ‘Pinguino’: Stan Winston Effetti speciali: John Bruno Visual effects: Craig Barron Musiche: Danny Elfman Montaggio: Chris Lebenzon Cast: Michael Keaton (Batman / Bruce Wayne), Danny De Vito (Il Pinguino / Oswald Cobblepot), Michelle Pfeiffer (Catwoman / Selina Kyle), Christo-pher Walken (Max Shreck), Michael Gough (Alfred Pennyworth), Michael Murphy (Sindaco di Gotham) Durata: 126 min.
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A P PA R AT O F I L M O G R A F I C O
Blade RunnerProduzione: The Ladd Company, Run Run Shaw, Shaw Brothers, Blade Runner Partnership Produttore: Michael Deeley, Ridley Scott Produttore esecutivo: Hampton Francher e Brian Kelly Titolo originale: Blade Runner Anno: 1982 Regista: Ridley Scott Tratto da: “Do androids dream of electric sheep?”, romanzo di Philip K. Dick Sceneggiatura: Hampton Fancher, David Peoples Production Design: Lawrence G. Paull Art Direcion: David Snyder Scenografie: Lawrence G. Paull Fotografia: Jordan Cronenweth Co-stumi: Charles Knode e Michael Kaplan Trucco: Marvin Westmore Effetti speciali: Douglas Trumbull Effetti speciali fotografia: Richard Yuricich, Davud Dryer Visual effects: Syd Mead Mon-taggio: Terry Rawlings Musiche: Vangelis Cast: Harrison Ford (Rick Deckard), Rutger Hauer (Roy Batty), Sean Young (Rachael), Edward James Olmos (Gaff), M. Emmett Walsh (Harry Bryant), Da-ryl Hannah (Pris), William Sanderson (J.F. Sebastian), Brion James (Leon), Joe Turkel (Tyrell) Durata: 114 min.
Corto CircuitoProduzione: Turman-Foster Company, PSO Produttore: David Foster, Lawrence Turman Titolo originale: Short Circuit Anno: 1986 Regista: John Badham Sceneggiatura: S. S. Wilson, Brent Maddock Production Design: Phi-lip Harris Art Direction: Diane Wager Scenografie: Garrett Lewis Fotografia: Nick McLe-an Costumi: Mary Vogt Trucco: Tom Lucas Robot Design: Syd Mead Realizzazione ingegne-ristica robots: Eric Allard Montaggio: Frank Morris Musiche: David Shire Cast: Ally Sheedy (Stephanie Speck), Steve Guttenberg (Newton Crosby), Fuisher Stevens (Ben Jabituya), Austin Pendleton (Howard Marner), G. W. Bailey (Skroeder), Brian McNamara (Frank), Tim Balney (Numero 5 – Voce) Durata: 98 min.
CrashProduzione: Alliance Communication Corporation, The Movie Network Téléfilm Canada Produttore esecutivo: Robert Lantos, Jeremy Thomas Titolo originale: Crash Anno: 1996 Regista: David Cronenberg Tratto da: “Crash”, romanzo di James G. Ballard Sceneggiatura: Da-vid Cronenberg, James G. Ballard Production Design: Carol Spier Art Direction: Tamara Deverell Scenografie: Elinor Rose Galbraith Fotografia: Peter Suschitzky Costumi: Denise Cronenberg Ef-fetti speciali: Dawn Rivard Montaggio: Ronald Sanders Musiche: Howard Shore Cast: James Spa-der (James Ballard), Holly Hunter (Dr. Helen Remington), Elias Koteas (Vaughan), Deborah Kara Un-ger (Signora Catherine Ballard), Rosanna Arquette (Gabrielle), Peter MacNeill (Colin Seagrave) Durata: 98 min.
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Il demone sotto la pelleProduzione: DAL Production Ltd, con la partecipazione di CFDC e Cinépix Produttore: Ivan Reitman, John Dunning, André Link Produttore esecutivo: Alfred Pariser Titolo originale: Shivers Anno: 1975 Regista: David Cronenberg Soggetto: David Cronenberg Sceneggiatura: David Cronenberg Production De-sign: Don Carmody Art Direction: Erla Gliserman Fotografia: Robert Saad Trucco (effetti speciali) e creazione creature: Joe Blasco Montaggio: Patrick Dodd Musiche: Ivan Reitman Cast: Paul Hampton (Roger St Luc), Joe Silver (Rollo Linsky), Lynn Lowry (Forsythe), Allan Migikovsky (Nicholas Tudor), Susan Petrie (Janine Tudor) Durata: 88 min.
The Elephant ManProduzione: Brooksfilm Ltd. Produttore: Jonathan Sanger, Terence A. Clegg Produttore esecutivo: Stuart Cornfeld Titolo originale: The Elephant Man Anno: 1980 Regista: David Lynch Tratto da: “The Elephant Man and Other Reminiscences” di Sir Frederick Treves (1853 – 1923) e “The Elephant Man: A Study in Human Dignity” di Ashley Montagu (1905 – 1999), ispirati dalla vera storia di John Merrick Sceneggiatura: Christopher De Vore, Eric Bergren, David Lynch Production Design: Stuart Craig Art Direction: Bob Cartwright Scenografie: Hugh Scaife Fotografia: Freddie Francis Costu-mi: Patricia Norris Creazione trucco ‘Elephant Man’: Christopher Tucker Applicazione trucco ‘Elephant Man’: Wally Schneiderman Effetti speciali: Graham Longhurst Montaggio: Anne V. Coates Musiche: John Morri Cast: Anthony Hopkins (Dr. Frederick Treves), John Hurt (John Merrick), Anne Bancroft (Signora Madge Kendal), John Gielgud (Carr Gomm), Wendy Hiller (Capo infermiera), Freddie Jones (Bytes), Mi-chael Elphick (Night Porter), Hannah Gordon (Signora Treves), Phoebe Nicholls (Madre di John Merrick) Durata: 125 min.
EquilibriumProduzione: Dimension Films, Blue Tulip Productions Produttore: Jan De Bont e Lucas Foster Produttore esecutivo: Bob Weinstein, Harvey Weinstein, Andrew Rona Titolo originale: Equilibrium Anno: 2002Regista: Kurt Wimmer Soggetto: Kurt Wimmer Sceneggiatura: Kurt Wimmer Production Design: Wolf Kroeger Art Direction: Justin Warburton-Brown Scenografie: Anne Kujian Fotografia: Dion Be-ebe, A.C.S. Costumi: Joseph Porro Montaggio: Tom Rolf (A.C.E.), William Yeh Musiche: Klaus Badelt Cast: Christian Bale (John Preston), Emily Watson (Mary O’Brian), Taye Diggs (Brandt), Angus Mac-Fayden (Dupont), Sean Bean (Partridge), Matthew Harbour (Robbie Preston), William Fichtner (Jurgen) Durata: 107 min.
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L’esperimento del dottor KProduzione: Twentieth Century-Fox Film Corporation Produttore: Kurt Neumann Titolo originale: The Fly Anno: 1958 Regista: Kurt Neumann Tratto da: “The Fly”, racconto di George Langelaan Soggetto: George Lan-gelaan e James Clavell Sceneggiatura: George Langelaan e James Clavell Production Design: Merrill G. White Art Direction: Theobold Holsopple e Lyle R. Wheeler Scenografie: Eli Benneche e Walter M. Scott Fotografia: Karl Struss Costumi: Adel Balkan Trucco: Ben Nye Effetti speciali: L.B. Ab-bott Montaggio: Merrill G. White Musiche: Paul Sawtell Cast: David Hedison (André Delambre), Vincent Price (François Delambre), Patricia Owens (Helène Delambre), Herbert Marshall (Ispettore Charas), Kathleen Freeman (Emma), Betty Lou Gerson (Tata Andersone), Charles Herbert (Philippe) Durata: 94 min.
eXistenZProduzione: Canadian Television Fund, The Harold Greenberg Fund, The Movie Network, Serendipity Point Films, Natural Nylon Entertainment, Téléfilm Canada Produttore: Robert Lantos, Andras Hamori, David Cronenberg Titolo originale: eXistenZ Anno: 1999 Regista: David Cronenberg Soggetto: David Cronenberg Sceneggiatura: David Cronenberg Pro-duction Design: Carol Spier Art Direction: Tamara Deverell Scenografie: Elinor Rose Galbraith Fo-tografia: Peter Suschitzky Costumi: Denise Cronenberg Effetti speciali: Jim Isaac Visual effects: Jim Isaac Montatore: Ronald Sanders Musiche: Howard Shore Cast: Jennifer Jason Leigh (Allegra Geller), Jude Law (Ted Pikul), Willem Dafoe (Gas), Ian Holm (Kiri Vinokur), Don McKellar (Yevgeny Nourish), Callum Keith Rennie (Hugo) Carlaw Sarah Polley (Merle), Christopher Eccleston (Levi) Durata: 97 min.
Frankenstein di Mary ShelleyProduzione: America Zoetrope, Indieprod Films, Japan Satellite Broadcasting Produttore: Francis Ford Coppola, James V. Heart, John Veitch Titolo originale: Mary Shelley’s Frankenstein Anno: 1994 Regista: Kenneth Branagh Tratto da: “Frankenstein, or the modern Prometheus”, romanzo di Mary Wollsto-necraft Shelley Sceneggiatura: Steoh Lady, Frank Darabont Production Design: Tom Harvey Art Direction: John Fenner, Desmond Crowe Fotografia: Roger Pratt, B.S.C. Costumi: James Acheson Effetti speciali e trucco ‘Creatura’: Daniel Parker Effetti speciali: Richard Conway Montatore: Andrew Marcus Musiche: Patrick Doyle Cast: Robert De Niro (Creatura), Kenneth Branagh (Dr. Victor Frankenstein), Tom Hulce (Hen-ry Clerval), Helena Bonham Carter (Elizabeth), Aidan Quinn (Capitano Robert Walton), Ian Holm (Barone Franlenstein), Richard Briers (Nonno), John Cleese (Professor Waldman), Robert Hardy (Professor Krempe), Cherie Lunghi (Caroline Beaufort Frankenstein), Celia Imrie (Signorina Moritz), Trevyn McDowell (Justine) Durata: 123 min.
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Gattaca – La porta dell’universoProduzione: Jersey Film, Columbia Pictures Corporation Produttore: Danny De Vito, Michael Shamberg, Stacey Sher Titolo originale: Gattaca Anno: 1999 Regista: Andrew Niccol Soggetto: Andrew Niccol Sceneggiatura: Andrew Niccol Production Design: Ian Roelfs Art Direction: Sarah Knowles Scenografie: Nancy Nye Fotografia: Slawo-mir Idziak Costumi: Colleen Atwood Trucco: Jill Rockow e Lizbeth Williamson Montaggio: Lisa Zeno Churgin Musiche: Michael Nyman Cast: Ethan Hawke (Vincent Freeman), Uma Thurman (Irene Cassini), Jude Law (Jerome Morrow), Gore Vidal (Direttore Joseph), Alan Arkin (Detec-tive Hugo), Loren Dean (Anton Freeman), Jayne Brook (Marie Freeman), Elias Koteas (Antonio Fre-eman), Chad Christ (giovane Vincent), William Lee Scott (giovane Anton), Tony Shalhoub (Ger-man), Ernerst Borgnine (Caesar), Xander R. Berkeley (Dr. Lamar), Gabrielle Reece (Gattaca Trainer) Durata: 112 min.
Ghost in the Shell: L’attacco dei CyborgProduzione: Bandai Visual Company, DENTSU Music and Entertainment, Kodansha, Production I.G. Produttore: Mitsuhisa Ishikawa, Toshio Suzuki Titolo originale: Inosensu: Kôkaku Kidôtai [Eng: Ghost in the Shell: Innocence] Anno: 2004 Regista: Mamoru Oshii Tratto da : “Kôkaku Kidôtai”, manga di Masamune Shirow Soggetto: Mamoru Oshii Sceneggiatura: Mamoru Oshii Production Design: Yonei Taneda Art Direction: Shuichi Hirata Supervi-sione Layout: Takashi Watabe Fotografia: Miki Sakuma Design personaggi: Hiroyuki Hokiura Design mac-chine e veicoli: Atsushi Takeuchi Supervisione animazioni: Kazuchika Kise e Tetsuya Nishio Animazioni: Toshihiko Nishikubo Effetti digitali: Hiroyuki Hayashi Visual Effects: Hisashi Ezura Montaggio: Sachiko Miki, Chihiro Nakano, Junichi Uematsu Musiche: Kenji Kawai Cast: Akio Ôtsuka (Batô - Voce), Atsuko Tanaka (Maggiore Motoko Kusanagi – Voce), Kouichi Yamadera (Togusa – Voce), Yutaka Nakano (Ishika-wa – Voce), Naoto Takenaka (Kim – Voce), Tamio Oki (Sezione 9 Dipartimento Generale Aramaki – Voce) Durata: 99 min.
HulkProduzione: Valhalla Motion Pictures / Good Machine in associazione con Marvel Enterprises Produttore: Gale Anne Hurd, Avi Arad Produttore esecutivo: Stan Lee, Kevin Feige Titolo originale: Hulk Anno: 2003 Regista: Ang Lee Tratto da: fumetto Marvel creato da Stan Lee e Jack Kirby Soggetto: James Scha-mus Sceneggiatura: John Turman, Michael France, James Schamus Production Design: Rick Heinrichs Art Direction: John Dexter e Greg Papalia Scenografie: Cheryl Carasik Fotografia: Frederick Elmes, A.S.C. Costumi: Marit Allen Visual effects: Dennis Muren, Tom Peitzman (produttore) Animazione ef-fetti digitali: Industrial Light & Magic Animazione: Colin Brady Montaggio: Tim Squyres, A.C.E. Mu-siche: Danny Elfman Cast: Eric Bana (Dr. Bruce Banner), Jennifer Connelly (Dr. Betty Ross), Sam Elliott (Generale “Thunderbolt” Ross), Josh Lucas (Maggiore Glenn Talbot), Nick Nolte (Dr. David Banner), Cara Bono (Edith Banner), Paul Kersey (giovane David Banner), Mike Erwin (Bruce Banner teenager) Durata: 138 min.
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The IslandProduzione: Parkes/MacDonald Productions, DreamWorks SKG Produttore: Michael Bay, Ian Bryce, Walter F. Parkes Produttore esecutivo: Stefan Sonnenfeld Titolo originale: The Island Anno: 2005 Regista: Michael Bay Soggetto: Caspian Tredwell-Owen Sceneggiatura: Caspian Tredwell-Owen, Alex Kurtzman, Roberto Orci Production Design: Nigel Phelps Art Direction: Jon Billington, Sean Haworth, Martin Whist Scenografie: Rosemary Brandenburg e Darlene Salinas Fotografia: Mauro Fiore Costumi: Deborah L. Scott Visual effects: Eric Brevig Montaggio: Paul Rubell (A.C.E.) e Christian Wagner Musiche: Steve Jablonsky Cast: Ewan McGregor (Lincoln 6 Echo / Tom Lincoln), Scarlet Johansson (Sarah Jordan / Jordan 2 Delta), Sean Bean (Dottor Merrick), Steve Buscemi (McCord), Djimon Hounsou (Albert Laurent), Michael Clarke Duncan (giocatore di football), Ethan Philips (John 3 Echo), Brian Stepanek (Gandu 3 Echo) Durata: 136 min.
Johnny MnemonicProduzione: Alliance Communications Corporation, Cinévision Produttore: Don Carmody Produttore esecutivo: Robert Lantus, Victoria Hambirg e B.J. Rack Titolo originale: Johnny Mnemonic Anno: 1995 Regista: Robert Longo Tratto da: “Johnny Mnemonic”, racconto di William Gibson Sceneggia-tura: William Gibson Production Design: Nilo Rodis-Jamero Art Direction: David Davenport Scenografie: Enrico Campana Fotografia: François Protat Costumi: Olga Dimitrov Trucco: Lin-da Gill Effetti speciali: Fantasy II Film Effects Montaggio: Ronald Sanders Musiche: Brad Fie-del Cast: Keanu Reeves (Johnny Mnemonic), Dolph Lundgren (Predicatore della strada), Takeshi Ki-tano (Takahashi), Ice-T (J-Bone), Dina Meyer (Jane), Udo Kier (Ralphy), Henry Rollins (Spider) Durata: 98 min.
King Kong Produzione: Wingnut Films, Big Primate Pictures, MFPV Films Produttore: Jan Blenkin, Carolynne Cunningham, Peter Jackson, Fran Walsh Titolo originale: King Kong Anno: 2005 Regista: Peter Jackson Soggetto: Merian C. Cooper, Edgar Wallace Sceneggiatura: Fran Walsh, Phi-lippa Boyens, Peter Jackson Production Design: Grant Major Art Direction: Joe Bleakley, Si-mon Bright Scenografie: Dan Hennah, Simon Brown Fotografia: Andrew Lesnie. A.S.C. Costu-mi: Terry Ryan Trucco (effetti speciali), creature e miniature: Richard Taylor Effetti speciali: Brian Vant Hul Visual effects: Joe Letteri, Weta Digital, Scott E. Anderson Animazione: Christian Rivers, Eric Leighton Montaggio: Jamie Selkirk. A.C.E. Musiche: James Newton Howard Cast: Naomi Watts (Ann Darrow), Jack Black (Carl Denham), Adrien Brody (Jack Driscoll), Thomas Kretschmann (Capitano Englehorn), Colin Hanks (Preston), Jamie Bell (Jimmy), Evan Parke (Ha-yes), Lobo Chan (Choy), Kyle Chandler (Bruce Baxter), Andy Serkis (King Kong / Lumpy il cuoco) Durata: 187 min.
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MatrixProduzione: Groucho II Film Partnership, Silver Pictures, Village Roadshow Pictures Produttore: Joel Silver Produttore esecutivo: Barrie M. Osborne e Andrew Mason; Andy Wachowski, Larry Wachowski, Erwin Stoff, Bruce Berman Titolo originale: The Matrix Anno: 1999 Regista: Andy & Larry Wachowski Soggetto: Andy & Larry Wachowski Sceneggiatura: Andy & Larry Wa-chowski Production Design: Owen Paterson Art Direction: Hugh Bateup, Michelle McGahey Scenografie: Lisa Brennan, Tim Ferrier, Marta McElroy Fotografia: Bill Pope Costumi: Kym Barrett Effetti speciali: Steve Courtley e Brian Cox Visual effects: Lynne Cartwright (Animal Logic) e John Gaeta Montaggio: Zach Staenberg Musiche: Don Davis Cast: Keanu Reeves (Neo / Thomas Anderson), Laurence Fishburne (Mor-pheus), Carrie-Anne Moss (Trinity), Hugo Weaving (Agente Smith), Gloria Foster (L’Oracolo), Joe Panto-liano (Cypher), Marcus Chong (Tank), Paul Goddard (Agente Brown), Robert Taylor (Agente Jones), Julian “Sonny” Arahanga (Apoc), Matt Doran (Mouse), Belinda McClory (Switch), Anthony Ray Parker (Dozer) Durata: 136 min.
MetropolisProduzione: Universal Film Produttore: Erich Pommer (versione restaurata prodotta da Giorgio Moroder) Titolo originale: Metropolis Anno: 1927 Regista: Fritz Lang Tratto da: “Metropolis”, romanzo di Thea von Harbou Sceneggiatura: Fritz Lang e The Von Harbou Production Design / Art Direction / Scenografie: Otto Hunte, Erich Kettel-hut, Karl Vollbrecht Fotografia: Karl Freund, Günter Rittau, Walter Rittman Costumi: Aenne Will-komm Effetti speciali: Ernst Kunstmann Musiche: Gottfried Huppertz Cast: Alfred Abel (Joh Fre-dersen), Gustav Froehlich (Freder, figlio di Joh Fredersen),Rudolph Klein-Rogge (L’inventore C.A. Rotwang), Theodor Loos (Josaphat / Joseph), Heinrich George (Grot), Brigitte Helm (Maria / Robotrix) Durata: 115 min.
La moscaProduzione: Brooksfilms Produttore: Marc Boyman, Kip Ohman Titolo originale: The Fly Anno: 1986 Regista: David Cronenberg Tratto da: “The Fly”, racconto di George Langelaan Sceneggiatura: Char-les Edward Pogue Production Design: Carol Spier Art Direction: Rolf Harvey Design: James McA-teer Scenografie: Elinor Rose Galbraith Design scenografie: James McAteer Fotografia: Mark Irwin Costumi: Denise Cronenberg Creazione e design ‘Mosca’: Chris Walas, Inc. Trucco: Shonagh Ja-bour Effetti speciali: Louis Craig, Ted Ross Montaggio: Ronald Sanders Musiche: Howard Shore Cast: Jeff Goldblum (Seth Brundle), Geena Davis (Veronica Quaife), John Getz (Stathis Borans), Joy Boushel (Tawny), Les Carslon (Dr. Cheevers), Shawn Hewitt (Clerk), David Cronenberg (Ginecologo) Durata: 96 min.
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A P PA R AT O F I L M O G R A F I C O
Il Pianeta delle scimmieProduzione: APJAC Produtions Produttore: Arthur P. Jacobs Titolo originale: Planet of the Apes Anno: 1968 Regista: Franklin J. Schaffner Tratto da: “La Planète des singes” di Pierre Boulle Sceneggiatura: Rod Ser-ling e Michael Wilson Art Direction: William J. Creber, Jack Martin Smith Scenografie: Norman Rockett e Walter M. Scott Fotografia: Leon Shamroy, A.S.C. Costumi: Morton Haack Trucco: John Chambers Truc-co (effetti speciali): Ben Nye, Dan Striepeke Effetti speciali: L. B. Abbott, Art Cruickshank, Emil Kosa Jr. Montaggio: Hugh S. Fowler, A.C.E. Musiche: Jerry Goldsmith Cast: Charlton Heston (Taylor), Roddy Mc-Dowall (Cornelius), Kim Hunter (Zira), Maurice Evans (Zaius), James Whitmore (Presidente dell’Assem-blea), James Daly (Honorius), Linda Harrison (Nova), Lou Wagner (Lucius), Woodrow Parfey (Maximus) Durata: 112 min.
RobocopProduzione: Orion Pictures Corporation Produttore: Arne Schmidt Produttore esecutivo: Jon Davison Titolo originale: Robocop Anno: 1987Regista: Paul Verhoeven Soggetto: Edward Neumeier e Michael Miner Sceneggiatura: Edward Neumeier e Michael Miner Production Design: William Sandell Art Direction: Gayle Simon Design scenografie: James Tocci Scenografie: Robert Gould Fotografia: Jost Vacano Costumi: Erica Edell Philips Creazione e design di ‘Robocop’: Rob Bottin Montaggio: Frank J. Urioste, A.C.E. Musiche: Basil Poledouris Cast: Peter Weller (Alex J. Murphy / Robocop), Nancy Allen (Anne Lewis), Ronny Cox (Richard Dick Jones), Kur-twood Smith (Clarence J. Boddicker), Dan O’Herlihy (Il vecchio), Robert DoQui (Sergente Warren Reed) Durata: 103 min.
S1m0neProduzione: Niccol Films Produttore: Andrew Niccol Produttore esecutivo: Bradley Cramp, Michael De Luca, Lynn Harris Titolo originale: S1m0ne Anno: 2002 Regista: Andrew Niccol Soggetto: Andrew Niccol Sceneggiatura: Andrew Niccol Production Design: Jan Roelfs Art Direction: Sarah Knowles Scenografie: Leslie A. Pope Fotografia: Edward Lachman Costumi: Elisabetta Beraldo Visual effects: William Robbins, Kent Demaine , Mark Dornfeld, Richard Malzahn, Gray Marshall, Charles Darby Montaggio: Paul Rubell Musiche: Carter Burwell Cast: Al Pa-cino (Viktor Taransky), Catherine Keener (Elaine Christian), Pruitt Taylor Vince (Max Sayer), Jay Mohr (Hal Sinclair), Jason Schwartzman (Milton), Stanley Anderson (Frank Brand), Evan Rachel Wood (Lai-ney Christian), Daniel Von Bargen (Capo Detective), Rachel Roberts (Simone), Elias Koteas (Hank) Durata: 117 min.
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I N D I C E D E I F I L M P R I N C I PA L I
Spider-ManProduzione: Marvel Entrprises / Laura Ziskin Produttore: Laura Ziskin, Ian Bryce Produttore esecutivo: Avi Arad, Stan Lee Titolo originale: Spider-Man Anno: 2002 Regista: Sam Raimi Tratto da: fumetto Marvel scritto da Stan Lee e Steve Ditko Production Design: Neil Spisak Art Direction: Tony Fanning, Stella Vaccaro Sceneggiatura: David Koepp Scenografie: Karen O’Hara Fotografia: Don Burgess, A.S.C. Costumi: James Acheson Effetti speciali: John Dykstra, John Frazier Visual effects: John Dykstra, A.S.C. Montaggio: Bob Murawski, Arthur Coburn (A.C.E.) Musi-che: Danny Elfman Cast: Tobey Maguire (Peter Parker / Spider-Man), Willem Dafoe (Norman Osborn / Green Goblin), Kirsten Dunst (Mary Jane Watson), James Franco (Harry Osborn), Cliff Robertson (Zio Ben), Rosemary Harris (Zia May), J. K. Simmons (J. Jonah Jameson), Joe Manganiello (Flash Thompson) Durata: 121 min.
Strange DaysProduzione: Lightstorm Entertainment Produttore: James Cameron e Steven-Charles Jaffe Produttore esecutivo: Rae Sanchini e Lawrence Kasanoff Titolo originale: Strange Days Anno: 1995 Regista: Kathryn Bigelow Soggetto: James Cameron Sceneggiatura: James Cameron e Jay Cocks Pro-duction Design: Lilly Kilvert Art Direction: John Warnke Scenografie: Kara Lindstrom Fotografia: Matthew F. Leonetti, A.S.C. Costumi: Ellen Mirojnick Effetti speciali: Digital Domain Montaggio: Ho-ward Smith, A.C.E. Musiche: Graeme Revell Cast: Ralph Phiennes (Lenny Nero), Angela Bassett (Lor-nette “Mace” Mason), Juliette Lewis (Faith Justin), Tom Sizemore (Max Peltier), Michael Wincott (Philo Gant), Vincent D’Onofrio (Burton Steckler), Paolo Tocha (Spaz Diaz), David Packer (Lane), Agustin Rodri-guez (Eduardo), Glenn Plummer (Jeriko One), William Fichtner (Dwayne Engleman), Brigitte Bako (Iris) Durata: 145 min.
Il tagliaerbeProduzione: Allied Vision Ltd., Lane Pringle Productions, con la partecipazione di Fuji Eight Co. Ltd. Produttore: Gimel Everett Produttore esecutivo: Robert Pringle, Edward Simons Titolo originale: The Lawnmower Man Anno: 1992 Regista: Brett Leonard Tratto da: “The Lawnmower Man”, romanzo di Stephen Kim (l’autore si è tolto dai crediti, rimane solo il titolo) Sceneggiatura: Brett Leonard, Gimel Everett Production Design: Alex McDo-well Art Direction: Chris Farmer Scenografie: Jacqueline Masson Fotografia: Russell Carpenter Costumi: Mary Jane Fort Effetti speciali: Frank Ceglia, Magical Media Industries Visual effects: Francesco Chiarini Montaggio: Alan Baumgarten (Lisa Bromwell per il ‘director’s cut’) Musiche: Dan Wyman Cast: Jeff Fahey (Jobe Smith), Pierce Brosnan (Dr. Lawrence Angelo), Jenny Wright (Marnie Burke), Geoffrey Lewis (Terry McKeen), Mark Bringelson (Sebastian Timms), Jeremy Slate (Padre Francis McKeen), Dean Norris (Il direttore) Durata: 108 min.
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A P PA R AT O F I L M O G R A F I C O
Terminator Produzione: Pacific Western, Euro Film Company, Cinema 84 Produttore: Gale Anne Hurd Produttore esecutivo: Bruce M. Kerner, John Daly, Derek Gibson Titolo originale: The Terminator Anno: 1984 Regista: James Cameron Soggetto: James Cameron Sceneggiatura: James Cameron, Gale Anne Hurd Production Design: Donna Smith Art Direction: George Costello Scenografie: Ma-ria Rebman Caso Fotografia: Adam Greenberg Costumi: Hilary Wright Trucco ed effetti Spe-ciali ‘Terminator’: Stan Winston Effetti speciali: Frank De Marco, Roger George Visual effects: Fantasy II Montatore: Mike Goldblatt Musiche: Brad Fiedel Cast: Arnold Schwarzenegger (Ter-minator), Michael Biehn (Kyle Reese), Linda Hamilton (Sarah Connor), Paul Winfield (Traxler), Lan-ce Henriksen (Vukovich), Rick Rossovich (Matt), Bess Motta (Ginger), Brian Thompson (Punk) Durata: 108 min.
Terminator 2 – Il giorno del giudizioProduzione: Pacific Western, Lightstorm Entertainment, Canal+, Carolco Pictures, T2 Poductions (non accreditata) Produttore: James Cameron Produttore esecutivo: Gale Anne Hurd e Mario Kassar Titolo originale: Terminator 2: Judgment Day Anno: 1991 Regista: James Cameron Soggetto: James Cameron, William Wisher Sceneggiatura: James Came-ron e William Wisher Production Design: Joseph Nemec III Art Direction: Joseph P. Lucky Sceno-grafie: John M. Dwyer Fotografia: Adam Greenberg, A.S.C. Costumi: Marlene Stewart Trucco ed effetti speciali ‘Terminator’: Stan Winston Effetti speciali: Stan Winston Visual effects: Industrial Light & Magic, Dennis Muren (A.S.C.) Montaggio: Conrad Buff, Mark Goldblatt (A.C.E.), Richard A. Harris Musiche: Brad Fiedel Cast: Arnold Schwarzenegger (Terminator), Linda Hamilton (Sa-rah Connor), Edward Furlong (John Connor), Robert Patrick (T-1000), Earl Boen (Dr. Silberman), Joe Morton (Miles Dyson), S. Epatha Merkerson (Tarissa Dyson), Castulo Guerra (Enrique Salceda) Durata: 139 min.
VideodromeProduzione: Filmplan International II Inc., Victor Solnicki Productions, Guardian Trust Company, Fa-mous Players, CFDC Produttore: Claude Héroux Produttore esecutivo: Pierre David, Victor Solnicki Titolo originale: Videodrome Anno: 1982 Regista: David Cronenberg Soggetto: David Cronenberg Sceneggiatura: David Cronenberg Production Design: Carol Spier Art Direction: Carol Spier Scenografie: Angelo Stea Fotografia: Mark Irwin Costu-mi: Delphine White Trucco (effetti speciali): Rick Baker Effetti speciali: Frank Carere Montaggio: Ronald Sanders Musiche: Howard Shore Cast: James Woods (Max Renn), Sonja Smits (Bianca O’Blivion), Deborah Harry (Nicki Brand), Peter Dvorsky (Harlan), Les Carlson (Barry Convex), Jack Creley (Prof. Brian O’Blivion) Durata: 88 min.
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I N D I C E D E I F I L M P R I N C I PA L I
X-MenProduzione: Twentieth Century Fox, Marvel Entertainment Group, Donner’s Company, Bad Hat Harry Productions, Genetics Productions, Springwood Productions (non accreditata) Produttore: Lauren Shuler Donner, Ralph Winter Produttore esecutivo: Avi Arad, Stan Lee, Richard Donner, Tom De Santo Titolo originale: X-Men Anno: 2000 Regista: Bryan SingerTratto da: fumetto Marvel ideato da Stan Lee Soggetto: Tom De Santo, Bryan Singer Sceneggiatura: David H ayter Production Design: John Myhre Art Direction: Paul D. Au-sterberry, Tamara Deverell Scenografie: James Edward Ferrell Jr. Fotografia: Newton Thomas Sigel, A.S.C. Costumi: Louise Mingenbach Trucco (effetti speciali): Gordon Smith Effetti speciali: Tony Kenny, Kaz Kobielski Visual effects: Michael Fink Montaggio: Steve Rosenblum, Kevin Stitt, John Wright (A.C.E.) Musiche: Michael Kamen Cast: Hugh Jackman (Logan / Wolverine) Patrick Stewart (Professor Charles Xavier), Ian McKellen (Eric Lensherr / Magneto), Famke Janssen (Jean Grey), Ja-mes Marsden (Scott Summers / Cyclops), Halle Berry (Ororo Munroe / Tempesta), Anna Paquin (Ma-rie D’Ancanto / Rogue), Tayler Mane (Sabretooth), Ray Park (Il Rospo), Rebecca Romijn Stamos (Mistica), Bruce Davison (Senatore Kelly), Matthew Sharp (Henry Gyrich), Shawn Ashmore (Bob-by Drake / L’uomo ghiaccio), Alex Burton (John Allerdyce / Pyro), Stan Lee (Venditore di hotdog) Durata: 104 min.
ZardozProduzione: John Boorman Productions Produttore: John Boorman Titolo originale: Zardoz Anno: 1973 Regista: John Boorman Soggetto: John Boorman Sceneggiatura: John Boorman Production Design: An-thony Pratt Scenografie: John Hoesli Fotografia: Geoffrey Unsworth Costumi: Christel Kruse Boorman Trucco: Basil Newall Effetti speciali: Jerry Johnston Montaggio: John Merritt Musiche: David Munrow Cast: Sean Connery (Zed), Charlotte Rampling (Consuella), Sara Kestelman (May), John Alderton (Ami-co), Sally Anne Newton (Avalow), Nial Buggy (Arthur Frayn / Zardoz), Bosco Hogan (George Saden) Durata: 110 min.
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A P PA R AT O F I L M O G R A F I C O
AA Scanner Darkly - Un oscuro scrutare Philip K. Dick A Scanner Darkly(romanzo, 1977)
A.I. - Intelligenza Artificiale Brian Aldiss Supertoys Last All Summer Long (racconto, 1969)
Akira Katsuhiro OtomoAkira (manga, 1982 / 1990)
Atto di forza Philip K. DickWe Can Remember It For You Wholesale (racconto, 1966)
BBatman ‘Batman’ creato da Bob Kane e Bill Finger
(fumetto, prima apparizione in Detective Co-mics n.27, maggio 1939)
‘Joker’ creato da Jerry Robinson, Bill Finger, Bob Kane(fumetto, prima apparizione in Batman n.1, primavera 1940)
Batman Begins ‘Batman’ creato da Bob Kane e Bill Finger
(fumetto, prima apparizione in Detective Co-mics n.27, maggio 1939)
Batman & Robin ‘Robin’ creato da Bill Finger, Bob Kane, Jerry Ro-
binson(fumetto, prima apparizione in Detective Co-mics n.38, aprile 1940)
‘Mr. Freeze’ creato da Bob Kane(fumetto, prima apparizione in Batman n.121, febbraio 1959)
Batman Forever ‘Riddler’ (L’Enigmista) creato da Bill Finger e Nick
Sprang (fumetto, prima apparizione in Detective Co-
mics n.140, 1948)‘Two-Face’ (Due Facce) creato da Bob Kane e Bill
Finger(fumetto, prima apparizione in Detective Co-mics n.66, 1942)
Batman - Il ritorno‘Catwoman‘ creato da Bob Kane e Bill Finger
(fumetto, prima apparizione in Batman n.1, primavera 1940)
‘Penguin’ (Il Pinguino) creato da Bob Kane e Bill Finger (fumetto, prima apparizione in Detective Co-mics n.58, dicembre 1941)
Big Fish - Le storie di una vita incredibile Daniel WallaceBig Fish: A Novel of Mythic Proportion(romanzo, 1998)
CCatwoman‘Catwoman’ creato da Bob Kane e Bill Finger
(fumetto, prima apparizione in Batman n.1, primavera 1940)
CrashJames G. BallardCrash(romanzo, 1973)
DDonna perfetta, La Ira LevinThe Stepford Wives(romanzo, 1975)
Dottor Jekyll, Il Robert Louis StevensonThe Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde(romanzo, 1986)
Dottor Jekyll e Mr. Hyde, Il Robert Louis StevensonThe Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde(romanzo, 1986)
Film ispirati dalla letteratura
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I N D I C E D E I F I L M T R AT T I D A O P E R E L E T T E R A R I E
EElektra ‘Elektra‘’ creato da Frank Miller
(fumetto, prima apparizione in Daredevil n.168, gennaio 1981)
Elephant Man, The Sir Frederick TrevesThe Elephant Man and Other Reminiscences(saggio, 1923)Ashley MontaguThe Elephant Man: A Study in Human Dignity(saggio, 1971)
Essi Vivono Ray NelsonEight O’ Clock in the Morning (racconto, 1963)
FFahrenheit 451Ray BradburyFahrenheit 451(romanzo, 1953)
Fantastici 4, I ‘Fantastic Four’ creati da Stan Lee e Jack Kirby
(fumetto, prima apparizione in Fantastic Four n.1, novembre 1961)
Figli degli uomini, I P. D. JamesThe Children of Men(romanzo, 1992)
FrankensteinMary Wollstonecraft ShelleyFrankenstein, or the Modern Prometheus(romanzo, 1818)
Frankenstein di Mary ShelleyMary Wollstonecraft Shelley Frankenstein, or the Modern Prometheus(romanzo, 1818)
Freejack - Fuga nel futuro Robert SheckleyImmortality Inc.(racconto, 1958)
GGenerazione Proteus Dean R. KoontzDemon Seed(romanzo, 1973)
Ghost in the Shell Masamune ShirowKôkaku Kidôtai (fumetto, 1991 / oggi)
Ghost in the Shell: L’attacco dei Cyborg Masamune ShirowKôkaku Kidôtai (manga 1991 / oggi)
Il Golem - Come venne al mondoGustav MeyrinkDer Golem(romanzo, 1915)
HHulk ‘Hulk’ creato da Stan Lee e Jack Kirby
(fumetto, prima apparizione in The Incredi-ble Hulk n.1, maggio 1962)
IImmortal (ad vitam) Enki BilalLa Foire aux immortels (fumetto, 1980)La Femme piège (fumetto, 1986)
Inseparabili Bari Wood & Jack GeaslandTwins(romanzo, 1977)
Invasione degli ultracorpi, L’ Jack FinneyThe Body Snatchers(romanzo, 1955)
Io, Robot Isaac AsimovI, Robot(raccolta di racconti, 1955)
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A P PA R AT O F I L M O G R A F I C O
JJohnny Mnemonic William GibsonJohnny Mnemonic(racconto, 1981) Jurassic Park Michael CrichtonJurassic Park(romanzo, 1990)
MManchurian Candidate, The Richard CondonThe Manchurian Candidate(romanzo, 1959)
MetropolisThea von HarbouMetropolis(romanzo, 1927)
Minority ReportPhilip K. DickThe Minority Report (racconto, 1956)
Morte in diretta, La David ComptonThe Unsleeping Eye(romanzo, 1973)
Mosca, LaGeorge LangelaanThe Fly (racconto, 1957)
PPasto nudo, IlThe Naked Lunch William S. Borroughs(romanzo, 1959)
PaycheckPhilip K. DickPaycheck (racconto, 1953)
Pianeta delle scimmie, Il Pierre BoulleLa Planète des Singes(romanzo, 1963)
Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie Pierre BoulleLa Planète des Singes(romanzo, 1963)
RRadiazioni BX distruzione uomo Richard MatesonThe Shrinking Man(romanzo, 1956)
SSolaris Stanislaw LemSolaris(romanzo, 1961)
Spider-Man‘Spider-Man’ creato da Stan Lee e Steve Ditko
(fumetto, prima apparizione in Amazing Fantasy n.15, agosto 1962)
‘Green Goblin’ creato da Stan Lee e Steve Ditko(fumetto, prima apparizione in Amazing Spi-der-Man n.14, luglio 1964)
Spider-Man 2‘Doctor Octopus (Doc Ock)’ creato da Stan Lee e
Steve Ditko(fumetto, prima apparizione in Amazing Spi-der-Man n.3, luglio 1963)
Spider-Man 3‘Venom’ creato da David Michelinie e Todd Mc Far-
lane(fumetto, prima apparizione in Amazing Spider-Man
n.298, marzo 1988,) ‘Sandman’ (L’uomo Sabbia) creato da Stan Lee e
Steve Ditko(fumetto, prima apparizione in Amazing Spider-Man
n.4, settembre 1963) ‘Green Goblin II’ creato da Stan Lee e Steve Ditko(fumetto, prima apparizione in Amazing Spider-Man
n.31, dicembre 1965)
Superman‘Superman’ creato da Jerry Siegel e Joe Shuster (fumetto, prima apparizione in Action Comics n.1,
giugno 1938)
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I N D I C E D E I F I L M T R AT T I D A O P E R E L E T T E R A R I E
TTagliaerbe, Il Stephen KingThe Lawnmower Man(racconto, 1975)
Tartarughe Ninja alla riscossa Kevin Eastman, Peter Leird(libro a fumetti, The Teenage Mutant Ninja Turtles, 1984)
Teenage Mutant Ninja Turtles Kevin Eastman, Peter Leird(libro a fumetti, The Teenage Mutant Ninja Turtles, 1984)
Tredicesimo piano, IlDaniel F. GalouyeSimulacron-3(romanzo, 1964)
UUomo bicentenario, L’ Isaac AsimovThe Bicentennial Man(romanzo breve, 1976)Isaac Asimov e Robert SilverbergThe Positronic Man(romanzo, 1993)
Uomo invisibile, L’Herbert G. WellsThe Invisible Man(romanzo breve, 1897)
Uomo terminale, L’Michael CrichtonThe Terminal Man(romanzo, 1972)
VVillaggio dei dannati, Il John Wyndham The Midwich Cuckoos(romanzo, 1957)
XX-Men‘The X-Men’ creati da Stan Lee e Jack Kirby (fumetto, prima apparizione in The X-Men n.1, set-
tembre 1963)
X-Men 2‘The X-Men’ creati da Stan Lee e Jack Kirby (fumetto, prima apparizione in The X-Men n.1, set-
tembre 1963)
X-Men 3: conflitto finale‘The X-Men’ creati da Stan Lee e Jack Kirby (fumetto, prima apparizione in The X-Men n.1, set-
tembre 1963)
ZZona morta, La The Dead ZoneStephen King(romanzo, 1979)
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APPARATOBIBLIOGRAFICO
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A P PA R AT O B I B L I O G R A F I C O
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I N D I C E D E I T E S T I
Testi citati e/o consultati
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A P PA R AT O B I B L I O G R A F I C O
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Società cooperativa per la realizzazione di progetti di cmunicazione e webdesign
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A P PA R AT O B I B L I O G R A F I C O
AAlbano, Lucilla 42Aldani, Lino 7Aldiss, Brian 29Alfano Miglietti, Francesca 81, 100, 134, 151,
222 Allan Poe, Edgar 31Altman, Robert 200 Andersen, Karin 157, 230Andreoli, Vittorino 16, 162, 163, 214, 218Antonioni, Michelangelo 186 Archita di Taranto 74 Aristotele 13 Aronofsky, Darren 240 Asimov, Isaac 32, 34, 37, 82 Astori, Cristiana 100
BBabbage, Charles 75 Bacon, Roger 153Ballard, James Graham 53, 101 Barbo, Chiara 252Barthes, Roland 62Battelle, John 219 Baudrillard, Jean 817, 208 Bay, Michael 97 Bazin, André 43Bazzi, Adriana 197Beltramini, Amelia 134Benjamin, Walter 235 Berger, John 190Berger, Ted 117 Bergson, Henri 116 Bernardini Marzolla, Piero 25, 26, 131Bertetto, Paolo 42 Bertolucci, Bernardo 186 Bigelow, Julian 76 Bigelow, Kathryn 176, 177 Boio 26 Bontempelli, Massimo 34 Boole, George 76
Bradbury, Ray 34, 37 Branagh, Kenneth 66 Brecht, Bertolt 1, 8, 31 Brunetta, Gian Piero 54Bukatman, Scott 121, 191, 196, 204Bukowski, Charles 100 Burroughs, Edgar Rice 34 Burton, Tim 48, 53, 110 Butler, Samuel 34 Buttazzo, Giorgio 247
CCalvino, Italo 25, 26Camardo, Giovanna 18Cameron, James 244 Campbell, John Wood Jr. 7, 74 Canova, Gianni 110, 111, 121, 126, 180, 192, 193,
195, 216 Čapek, Carel 79 Caprara, Giovanni 170Capuana, Luigi 34 Caronia, Antonio 9, 49, 193, 212, 218, 246 Carpenter, John 109 Carroll, Lewis 199 Casetti, Francesco 41Cassirer, Ernst 174Cavalli-Sforza, Luigi Luca 46, 132, 133 Celli, Giorgio 18 Ceserani, Gian Paolo 80, 94Clarke, Arthur C. 37 Clynes, Manfred E. 146 Cocteau, Jean 65 Coelho, Paulo 16Collodi, Carlo 72 Colofone 26 Conan Doyle, Arthur 34 Cooper, Merian C. 54 Copernico, Nicolò 45 Cremonini, Giorgio 255Crick, Francis 123, 128 Cronenberg, David 59, 101, 107, 119, 121, 133,
Persone citate Nel seguente elenco sono presenti tutti gli autori (registi, scrittori, critici, filosofi, scienziati) di cui viene fatta menzione nel testo, ognuno accompagnato dalla relativa pagina/e in cui compare.
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301
I N D I C E D E I N O M I
148, 188, 193, 202, 223 Cyrano de Bergerac, Savinien 30, 32
DD’Annunzio, Gabriele 2Daney, Serge 185 Dante, Joe 171 Darwin, Charles 45, 50, 131 Da Vinci, Leonardo 74 Dawkins, Richard 103Debord, Guy-Ernest 187 De Curtis, Antonio “Totò” 141 Deleuze, Gilles 53, 201 Della Casa, Erika 85Demme, Jonathan 252 Denunzio, Fabrizio 119De Resnay, Joel 213Dery, Mark 102, 183, 193, 231 Descartes, René 14, 233, 255 Dick, Philip Kindred 9, 35, 37, 90, 96, 217 Di Marco, Giacomo 51 Ditko, Steve 172Dondossola, Paolo 34 Dozois, Gardner 209
EEdelman, Gerald 56 Einstein, Albert 3 Ejzenštein, Sergej Mihajlovič 40, 186 Emilio Marco 26 Erone il Vecchio 74 Escher, Maurits Cornelis 10, 183
FFadini, Ubaldo 108Fassbinder, Rainer Werner 202 Fiorani, Eleonora 79Fleming, Victor 108 Fleischer, Richard 171 Ford, John 185 Formenti, Carlo 166, 196Fornaro, Pierpaolo 24, 211Forster, Edward Morgan 216 Freud, Sigmund 45, 151, 158
GGaggi, Massimo 157Galileo, Galilei 31Galimberti, Umberto 11, 12, 13, 14, 15, 18, 19,
56, 105, 144, 159, 185, 190, 211, 221, 228, 231, 236, 249, 257
Gallo, Domenico 9Gates, Bill 189 Gazzaniga, Michael S. 113, 118, 125, 225, Gehlen, Arnold 49, 94Gernsback, Hugo 34, 35 Gershenfeld, Neil 160 Ghilardi, Marcello 210, 211, 214, 242Gibson, William 37, 149, 206 Giovannini, Fabio 45Gisin, Nicolas 169 Godard, Jean-Luc 186, 252 Gozzano, Guido 34 Griffith, David Wark 40 Guerra, Francesco 192Gutenberg, Johann 179
HHayles, Katherine N. 235 Haraway, Donna J. 78Heinlein, Robert 34, 37 Hoffmann, Ernest Theodor Amadeus 78, 99 Hunter, I. Q. 252Huxley, Aldous 119, 128
JJackson, Peter 46 Jacquet-Droz, Pierre 74 Jobs, Steve 163
KKafka, Franz 59 Keplero, Giovanni 32 Kintzing, Peter 75 Kline, Nathan S. 146 Kubrick, Stanley 106 Kundera, Milan 158Kurzweil, Raymond 233 Kusama, Karin 95
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302
A P PA R AT O B I B L I O G R A F I C O
LLang, Fritz 186 La Polla, Franco 107, 186 Leary Timothy 119 Lee, Ang 124Lee, Stan 172 Lévy, Pierre 173, 174, 219 Longo, Giuseppe O., 79, 83, 84, 90, 161, 200,
214, 217, 236 Luciano di Samosata 30, 32 Lumière, Luise e Auguste 39 Lynch, David 62
MMacrì, Teresa 222Magris, Claudio 179Maillardet, Jacques Rodolphe, Henri e Jean-David
75 Malaguti, Ugo 8 Maldonado, Tomás 203 Mamoulian, Rouben 108 Marchesini, Roberto 50, 51, 52, 61, 68, 94, 120,
159Marinetti, Filippo Tommaso 232 Markoff, John 219Martini, Emanuela 66Mazzolini, Renato G. 128, 129 McCarthy, John 75 McLeod Wilcox, Fred 107 McLuhan, Marshall 98, 101, 102, 103, 143, 144,
148 Méliès, George 40 Menarini, Roy 69, 75, 93, 100, 106, 109, 177Meneghelli, Andrea 48, 69, 93, 95, 100, 106, 109Menozzi, Paolo 132, 133Mercier, Sebastien 31Merleau-Ponty, Maurice 39Merzagora, Matteo 239Meucci, Antonio 212Minsky, Marvin 75, 233 Mogliano, Enrico 132Moore, Gordon 212 Moravec, Hans 233, 234 More, Thomas 30, 32 Morin, Edgar 94
Moscariello, Angelo 185
NNazzaro, Giona Antonio 121Negroponte, Nicholas 179 Nicandro di Colofone 26Nietzsche, Friedrich Wilhelm 247 Nievo, Ippolito 34 Nolfi, Stefano 71
OOliverio, Alberto 116Omero 13 Orlan 230Orwell, George 34 Ovidio, Publio Nasone 1, 3, 24, 25, 26, 27, 28, 51,
52, 55, 57, 99, 140, 164, 174, 175, 203, 208, 223, 224, 225, 236, 258
Oshii, Mamoru 103
PPage, Larry 220Pappagallo, Maria 135Paracelso 97 Parnet, Claire 201Partenio di Nicea 26 Pavese, Cesare 21Pianezzola, Emilio 27, 28Piazza, Alberto 132, 133Pistorius, Oscar 152 Pitof 5 Platone 13, 23, 30, 32, 34, 42 Porter, Edwin S. 40 Proyas, Alex 82, 83 Pudovkin, Vsevolod Illarionovič 40Pugno, Nicola 172
RRébuffat, Gaston 232 Rheingold, Howard 101, 102Ries, Julien 21, 22, 24 Roentgen, David 75
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303
I N D I C E D E I N O M I
SSalgari, Emilio 34 Sandel, M. J. 127Saraf, Ravi 88 Sartori, Giovanni 180, 187, 188, 192 Sartre, Jean-Paul 11, 12 Schacter, Daniel L. 113Schaffner, Franklin J. 47 Schiavone, Aldo 122Schicchitano, Altiero 63Schoedsack, Ernest B. 54 Scorsese, Martin 193 Scott, Ridley 89, 109 Severino, Emanuele 19, 54, 166Shelley, Percy Bysshe 31Siciliano, Enzo 42Siniscalchi, Giovanni 117Skal, David 234Smarr, Larry 219, 220 Sobchack, Vivian 191, 230Solmi, Sergio 10, 30, 35, 36 Soncini, Alberto 4Spielberg, Steven 85 Steele, Jack E. 151 Stelarc 230, 231 Sterling, Bruce 209 Sturgeon, Theodore 34 Suvin, Darko 9, 23, 30, 31 Swift, Jonathan 30, 32, 34
TTagliasco, Vincenzo 96, 209, 216Tarkovskij, Andrej Arsen’evič 107 Taro, Rin 88 Trousdale, Gary 65 Tsukamoto, Shinja 230 Turing, Alan 76 Turkle, Sherry 181, 198, 207, 247Twain, Mark 31
VVaucanson, Jacques 74 Vergine, Lea 60 Verne, Jules 31, 34 Vesalio, Andrea 256
Villiers de l’Isle Adam, Auguste 99 Virilio, Paul 95, 165, 186, 188, 189, 208, 214,
215, 248 Von Neumann, John 76
WWachowski, Andy & Larry 145 Watson, James 123, 128 Welles, Orson 40 Wells, Herbert George 31, 34, 130, 244 Wenders, Wim 180Whale, James 66, 170 Wiener, Norbert 76, 234 Wittgenstein, Ludwig 14 Wollstonecraft Shelley, Mary 31, 33, 66, 87, 239 Woo, John 112
YYacoub, Habib Magdi 156 Yambo 34 Yehia, Naief 94, 157, 235
ZZanetti, Adriano 18 Zappalà, Daniele 24
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304
A P PA R AT O B I B L I O G R A F I C O
Contaminazione organica
animale 50, 51, 52, 53, 54,55 63, 67, 95,
172
bestia 46, 57, 58, 60, 65
mostro 61, 62, 63, 57, 120
mutazione 54, 130, 132, 149
umanizzazione 47, 54, 80
Comunicazione
immagine virale 174, 177, 180, 188, 195
realtà virtuale 191, 192, 197, 198, 200, 201,
203
rete globale 102, 205, 206, 208, 213, 214
schermo 76, 151, 165, 181, 190, 196, 216
spettacolo 173, 186, 227
velocità assoluta 49, 163, 165, 166, 182,
189, 212
Evoluzione
darwiniana 45, 131
digitale 178, 179
linguaggio 47, 173, 187, 217, 218, 221,
222
tecnologica 147, 160, 164, 189, 204, 245,
250
Individuo
alieno 71, 109
coscienza 56,82, 83, 84, 249
desiderio 92, 93, 100, 101, 199
diverso 64, 70, 71, 72, 85
doppio 78, 108, 111, 112, 201
identità 108, 118, 185, 196, 202, 207, 226,
235
inconscio 105, 106, 107, 120, 251
memoria 92, 113, 125, 139, 161, 231, 252
Religione
forze umane 97, 121, 236, 237, 254
presenza del divino 55, 56, 240, 241, 242
Tecnica
cibernetica 76, 146,
controllo delle emozioni 93, 128, 194, 251,
252, 253
cyberpunk 206, 209, 210
ibridazione tecnologica 100, 103, 114, 117,
146, 147, 148, 155, 160, 200
militaristica 84, 145, 146
medicina 97, 129, 149, 152, 153, 156, 157,
196, 224, 228, 229
protesi 48, 134, 135, 143, 144, 149, 150,
152, 154, 162, 163, 193
robotica 75, 85, 145
Scienza
clonazione 94, 95, 96, 127
genetica 46, 68, 70, 95, 122, 123, 137, 244
ibridi 58, 67, 68, 69, 223, 224, 230
ricerca 79, 85, 172, 219, 220, 240
sperimentalismo scellerato 58, 66, 70, 87,
119, 124, 126, 128, 133, 159, 171,
231, 234, 243, 244, 245
Volontà
ibernazione 137, 138
Nuclei concettuali
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305
I N D I C E D E I S O G G E T T I
invisibilità 170, 171
mimetismo 169
miniaturizzazione 156, 157
rigenerazione 64, 133, 136
supereroi 4, 51, 52, 54, 55, 63, 70, 71, 110,
171, 172, 226, 230
telecinesi 168
telepatia 167
teletrasporto 168, 169
volo 55, 171
Vita artificiale
androide 85, 86, 88, 89, 90, 91
automa 74, 75, 96
IA (Intelligenza Artificiale) 77, 78, 91, 184,
247, 249
immortalità dell’inorganico 86, 181, 225,
232, 233
materia vivente 63, 64, 66, 67
robot 73, 79
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