le reti matrimoniali del patriziato veneziano
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In questa ricerca si intende analizzare il peso esercitato dalle rete matrimoniale,in una realtà molto delicata e complessa, in particolare quella presente nella Venezia delSettecento. Introducendo il lettore nella dimensione famigliare tipica dell’età moderna, si intende analizzare la rete sociale aristocratica veneziana attraverso l’analisi delle reti matrimoniali. Non bastarono le alleanze matrimoniali, le abili strategie e limitazioni per evitare il declino stesso della Serenissima Repubblica. Il divario socio-economico era molto ampio nel patriziato stesso, un sistema sociale ormai vecchio e parassitato, non ancora pronto alle sfide imposte. Non bastò la figura dell’ultimo Doge Lodovico Manin, uomo nuovo al potere, per evitare la disfatta totale. Il fallimento della politica matrimoniale, un mancato rinnovamento della classe politica e le disuguaglianza nel sistema oligarchico veneziano, comportò un lento inesorabile declino: un destino demografico.TRANSCRIPT
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LE RETI MATRIMONIALI DEL PATRIZIATO VENEZIANOIL DESTINO DEMOGRAFICO NEL SETTECENTO
Una ricerca specialistica approvata dal Prof. Derosas dell’Università Ca’Foscari di Venezia.
STORIA MODERNARi
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ABSTRACT: In questa ricerca si intende analizzare il peso esercitato dalle rete matrimoniale, in una realtà molto delicata e complessa, in particolare quella presente nella Venezia del
Settecento. Introducendo il lettore nella dimensione famigliare tipica dell’età moderna, si intende analizzare la rete sociale aristocratica veneziana attraverso l’analisi delle reti
matrimoniali. Non bastarono le alleanze matrimoniali, le abili strategie e limitazioni per evitare il declino stesso della Serenissima Repubblica. Il divario socio-economico era molto ampio nel
patriziato stesso, un sistema sociale ormai vecchio e parassitato, non ancora pronto alle sfide imposte. Non bastò la figura dell’ultimo Doge Lodovico Manin, uomo nuovo al potere, per
evitare la disfatta totale. Il fallimento della politica matrimoniale, un mancato rinnovamento della classe politica e le disuguaglianza nel sistema oligarchico veneziano, comportò un lento
inesorabile declino: un destino demografico.
«I ga fato Dose un furlan, ła Republica ła xé morta!» - Pietro Gradenigo di Rio Marin
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Una cospicua letteratura scientifica, negli ultimi anni, si è occupata della famiglia nell’età moderna.
Molti studiosi hanno analizzato le varie componenti presenti: identità, comunità di appartenenza e
ritualità. Studi antropologici, storiografici, sociologici e psicanalitici hanno messo in evidenza la
componente sociale del matrimonio. Nel campo della storiografia bisogna ricordare il lavoro prezioso
sulla famiglia moderna, svolto dalla studiosa italiana Silvana Seidel Menchi2. Notevoli risultano essere
le ricerche svolte da Giovanni Levi3 e Gérard Delille, per comprendere l’ambiente famigliare italiano
nel periodo moderno. Altro studioso italiano come Marzio Barbagli4 ha evidenziato i momenti chiave di
transizione della famiglia moderna. Il territorio italiano, così immerso nel proprio particolarismo
culturale, offre differenti scenari possibili. La sfera matrimoniale rimane senza dubbio uno dei temi
maggiormente discussi e controversi in ambito storiografico, tanto da risultare molto affascinante
addentrarsi in questo scenario complesso e lontano dall’attuale società. Le alleanze matrimoniali erano
significanti per una serie di vicende emblematiche, che caratterizzarono un “trend” sociale, economico e
politico; infatti il periodo moderno rimane rappresentativo nel suo susseguirsi di vicende e varie
congiunture storiche, poiché la società europea viene coinvolta in una rapida evoluzione.
LA FAMIGLIA NELL’ETÀ MODERNA: SIGNIFICATI, RELAZIONI E POTERI.
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La famiglia durante l’epoca moderna era sicuramente differente da come oggi invece viene
interpretata. Durante il periodo moderno, la famiglia rappresentava un vero sistema-mondo, dove si
annodavano interessi sia pubblici che privati. Dal periodo successivo al Medioevo, conosciuto come
Rinascimento e celebrato da artisti e letterati come una renovatio culturale, che spezzava le catene
imposte al pensiero dal Medioevo, non si vide la rivalutazione del ruolo della donna appartenente ai ceti
sociali medio-bassi. La donna appartenente ai ceti sociali alti, invece poteva iniziare a godere di un
minimo di autonomia confermata dalla possibilità di studiare e condurre una vita più autonoma, sempre
limitata dalla morale comune, mentre quella appartenente ai ceti sociali medio-bassi era costretta a
vivere nella netta subordinazione alla figura maschile. La figura della donna2 nello stereotipo dell’epoca
moderna veniva rapportata sempre e solo in relazione al suo rapporto con un uomo: una vita da figlia,
sorella, moglie e madre. Il matrimonio diviene la tappa culminante nella vita di una ragazza, e per
raggiungere tale scopo non esita ad essere anche impiegata in un lavoro lontano dalla sua famiglia
d’origine e dalla sua terra natia, pur di mettere insieme la “dote”: uno strumento indispensabile per
contrarre il matrimonio.
Una donna lavorava prima di contrarre matrimonio, ma raramente dopo, a meno che la famiglia non
versasse in condizioni economiche disperate e anche in questo caso il suo ruolo era subordinato alla
gestione del suo guadagno da parte del marito. Difficilmente si poteva concepire una donna che non
fosse stata sposata e che non avesse avuto dei figli. Questa visione ristretta dei compiti femminili,
perennemente incentrati sulla cura dei figli e del marito, della casa e dei vari doveri ad essa connessi,
determinava una sorta di schiavitù domestica alla quale era difficile sfuggire, e faceva della maternità
una funzione sociale in cui la donna trovava la sua unica dimensione. Una diversa situazione investiva
la donna appartenente ai ceti alti: donne intellettuali ed ereditiere affollavano i maggiori salotti d’Europa
in epoca moderna. La cultura maschilista coeva lascia allo studioso un messaggio evidente: la funzione
della donna era quella di restare al suo posto. Tutto questo viene enfatizzato anche dalle immagini
popolari della donna in quanto personaggio negativo,
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come ad esempio la bisbetica, la strega o la vedova che mina l’equilibrio di una determinata
comunità; tuttavia non mancano anche esempi positivi con l’immagine dell’eroina.
Le eroine popolari erano veri soggetti ammirati, non tanto per quello che facevano, ma per la loro
devota sofferenza. Per le donne il martirio2 era praticamente la sola via utile per raggiungere la santità e
molte sono le leggende di vergini martiri difficili da distinguere l’una dall’altra, eccetto che per il tipo di
morte o di tortura a cui le eroine andavano incontro: come S.Agata a cui fu portato via il seno, S.
Caterina decapitata, S. Lucia a cui furono strappati gli occhi, e così via. Di particolare popolarità godette
nei Paesi Bassi, in Francia e in Germania la storia di Genoveffa di Brabante, che, erroneamente veniva
accusata di adulterio e in seguito cacciata di casa dal marito, venne da questi abbandonata nella foresta
finché si scoprì la sua innocenza. Una passività analoga dimostrano due eroine che presero spesso il
posto di sante nei paesi protestanti: la casta Susanna e la paziente Griselda, ambedue celebrate nei
drammi tedeschi, nel teatro inglese dei burattini, nelle ballate svedesi, nei libretti popolari danesi. La
stessa passività la si ritrova nella stessa Madonna, personificazione dell’obbedienza attraverso
l’Annunciazione o del paziente soffrire con la Crocefissione di Gesù.Altro stereotipo femminile durante
il periodo moderno è quello della donna malvagia: una figura scomoda di femmina seduttrice,
maliziosa e sobillatrice.
Riassumendo quanto detto in precedenza, l’opinione maschile e quindi il pensiero comune di
una comunità moderna sulla figura della donna si evidenziava attraverso queste due categorie: la donna
passiva e la donna malvagia. Come evidenzia Peter Burke3, un «problema femminile» esiste per gli
storici e per gli antropologi. La cultura delle donne non era la stessa di quella dei loro mariti, padri, figli
o fratelli perché, sebbene vi fosse molto in comune fra loro, parecchio era anche quello da cui le donne
venivano escluse: le corporazioni, ad esempio, e spesso anche la confraternite, come pure il mondo della
taverna, non erano fatti per loro. “Esclusione e passività” furono le parole che dominarono la vita delle
donne nella difficile Europa moderna. Ovviamente esistono anche alcune particolarità rispetto al trend
generico europeo: ad Amsterdam nel 1630, il 32% delle spose sapeva scrivere, ma bisogna ricordare
che i Paesi Bassi rappresentano un luogo favorevole di interscambio culturale all’epoca.
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Il cristianesimo aveva già da tempo contribuito a fare della cultura europea più che un complesso
unitario: in tutta Europa venivano dovunque celebrate le stesse feste e venerati gli stessi santi maggiori.
Il matrimonio era strettamente correlato nel rapporto tra casa e famiglia e l’idea stessa di casa.
Non era solamente una funzione religiosa, ma anche uno strumento di controllo sociale, che diveniva
indispensabile per la preservazione della comunità stessa: esemplare può essere la partecipazione allo
Charivari. Questa processione era caratterizzata da gesti, musiche e grida, indirizzata contro le vedove o
vedovi che si risposavano, ma non solo anche alle mogli infedeli. Ovviamente lo scenario matrimoniale
si diversificava a seconda dei tempi e della zona, differenziandosi in particolare nella suddivisione
Nord/Sud e Ovest/Est del Vecchio Continente. Il matrimonio non aveva solo funzione religiosa, bensì
attuava una funzione sociale vera e propria. Per esempio a Parigi, verso il 1770, le autorità
denunciavano una situazione particolare: un grande numero di poveri che non erano uniti in
matrimonio, per questo motivo vennero invitate le autorità religiose a provvedere con matrimoni
gratuiti per conservare l’ordine sociale. Non sempre si ritrova questo atteggiamento delle autorità verso
gli indigenti, per esempio in Inghilterra la situazione non era analoga: indigenti ed emarginati non
potevano sposarsi perché costava troppo. Questi vincoli spezzati sono un problema da non sottovalutare
in una buona analisi storica: precarietà abitativa e familiare si intrecciano, poiché sposarsi era una forma
di garanzia sia per l’individuo che per la società stessa. Cosa caratterizzava il matrimonio nel periodo
moderno?
Il matrimonio durante il periodo moderno era un “matrimonio a tappe”, cioè la situazione si
diversificava molto da quella attuale. I matrimoni legittimi avevano un’importanza centrale rispetto ai
rapporti patrimoniali dei membri della famiglia: un padre poteva volontariamente lasciare qualcosa in
eredità ad un figlio “bastardo”, ma erano i suoi figli “legittimi”, vale a dire nati nell’ambito del
matrimonio, che avevano diritto di succedere ai genitori ereditandone i beni, come conferma anche
Raffaella Sarti2 nelle sue ricerche. Esistevano inoltre limitazioni alla possibilità di legittimare i figli
“bastardi”. Per la gente coeva, il matrimonio non era un evento puntuale, in virtù del quale si era
inesorabilmente tutt’a un tratto marito e moglie.
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Era piuttosto un “matrimonio a tappe”, che si snodava attraverso una serie di check-points
accompagnati da svariati riti e cerimonie. I rituali che scandivano la formazione delle nuove coppie
erano vari e diversificati a seconda della zone e non di rado anche delle persone coinvolte, mentre le fasi
erano più o meno le stesse dappertutto, anche se alcune volte certe venivano saltate. Il procedimento
solitamente era il seguente: una volta avviati i contatti tra le famiglie o tra i due diretti interessati, se
c’era l’accordo si arrivava alla promessa di matrimonio, che già costituiva un impegno formale.
Per comprendere la mentalità dell’epoca, basta riflettere sulla parola italiana «sposi»2 , che deriva dal
verbo latino spondeo, «promettere»; dunque si può cogliere l’importanza stessa anche della promessa di
matrimonio, in tempi ravvicinati seguiva lo scambio dei consensi. I due promessi dichiaravano cioè
reciprocamente di prendersi come marito e moglie, suggellando spesso la loro unione con un anello: una
pratica comune nell’Europa cristiana. C’erano poi le nozze, cioè i festeggiamenti connessi al
trasferimento della sposa nella dimora dove avrebbe abitato la nuova coppia. Essi potevano durare vari
giorni, ma talvolta venivano ridotti al minimo o addirittura soppressi per la povertà degli sposi, la loro
estrema giovinezza o altri determinati motivi. Prima o dopo le nozze, ma non dappertutto, la coppia
veniva benedetta da un prete. Questo iter prolungato poteva dare origine ad affermazioni ai nostri giorni
incomprensibili: «Ha preso moglie ma non hanno ancora fatto il matrimonio», si dice di un uomo ad
Augusta nel 1528. «Andrò alla chiesa e per le strade con il corteo nuziale, secondo l’usanza cristiana,
con mio marito con il quale ora sono sposata», sostiene una donna della stessa città. Come sottolinea
Raffaella Sarti3 attraverso le sue ricerche sulla vita casalinga durante l’epoca moderna, le tradizioni
locali e comportamentali avevano precise ripercussioni nell’individuo stesso all’interno della sfera
matrimoniale. Molto diversa e meno ambigua era la concezione che dell’essere sposati aveva la Chiesa,
che considerava il matrimonio un sacramento, non un affare mondano. Secondo la concezione che essa
si era sforzata di imporre in tutt’Europa dal XI secolo, il matrimonio era, molto semplicemente, l’unione
consensuale di un uomo e di una donna. Per sposarsi era dunque sufficiente non essere legati da vincoli
di parentela in un grado proibito, essere in età nubile, 12 anni per le ragazze e 14 per i ragazzi, per
dichiarare reciprocamente e liberamente di prendersi come coniuge pronunciando i cosidetti “verba de
praesenti”.
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La Chiesa incoraggiava il fatto che tale dichiarazione fosse fatta in chiesa, alla presenza del prete e di
testimoni e con il consenso dei genitori; tuttavia, pur considerandoli “illegittimi”, riteneva validi e
vincolanti anche i matrimoni privi di qualsiasi forma di pubblicità (matrimoni segreti), Per sposarsi
secondo la Chiesa, non era insomma necessario essersi preventivamente impegnati con una promessa,
né avere il consenso dei genitori, né c’era bisogno di prete, testimoni, dote, anelli o festeggiamenti. I
“verba de praesenti” erano considerati impliciti, quando ad una promessa di matrimonio seguivano dei
rapporti sessuali o la coabitazione (matrimonio presunto). Una donna che fosse stata conosciuta
carnalmente da un uomo dietro promessa di sposarla avrebbe d’altronde potuto legittimamente chiedere
alle autorità competenti il mantenimento della promessa: in linea di massima questo principio restò
valido anche dopo la sistemazione matrimoniale operata dal Concilio di Trento da un lato e dai
riformatori protestanti dall’altro, ovviamente pur con differenze tra una zona e l’altra. Rispetto alle
tradizioni e quanto stabilito dalle leggi civili, la Chiesa proponeva un matrimonio tutto incentrato su un
solo momento, lo scambio dei consensi, piuttosto che allungato in una serie di tappe, come nella
tradizione popolare.
Ciò, senza dubbio, da un lato permetteva di distinguere in modo più netto tra relazioni matrimoniali e
convivenze. Dall’altro affidava solo all’assenza di dichiarati propositi matrimoniali la distinzione del
concubinato dai matrimoni segreti; infatti bisogna ricordare che le relazioni concubinarie erano in parte
accettate nel mondo laico, ma erano condannate dalla Chiesa. Gli sposi erano i protagonisti indiscussi
della scena matrimoniale, limitando così il carattere del matrimonio quale evento collettivo e sminuendo
il ruolo del riconoscimento sociale quale ingrediente di un’unione valida e vincolante. Negli statuti
bolognesi del 1454 si stabilivano che scambio di consensi, anello e pubblicità fossero i tre requisiti di un
matrimonio valido. Nel contempo, permettendo ai giovani di sposarsi senza l’approvazione dei genitori,
sottraeva il matrimonio al controllo delle famiglie, per le quali esso era tradizionalmente un mezzo per
stringere alleanze e per creare parentele in base a motivi di interesse.
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Importante è comprendere che la concezione ecclesiastica del matrimonio si scontrava spesso con la
legislazione civile: per esempio, in Francia nel 1556 i matrimoni conclusi contro la volontà dei genitori,
per i maschi di età inferiore ai trent’anni e le femmine fino ai venticinque, vennero dichiarati illeciti e
puniti diseredando i disubbidienti. Interessante fu l’ingresso di Lutero nella scena matrimoniale: il
matrimonio non è considerato un sacramento. Questo comporterà alle dure condanne e riforme contro la
dottrina eretica di Lutero, attraverso norme precise relative al matrimonio da parte della Chiesa di
Roma. Attraverso il processo storico conosciuto come Controriforma, la Chiesa cattolica riafferma il
valore sacramentale del matrimonio, in particolare nell’ambito del grande sforzo di riorganizzazione e
razionalizzazione messo in atto durante il Concilio di Trento (1545-63). Da questo momento si
stabiliscono norme volte ad unificare le cerimonie nuziali. Il punto di partenza dell’intervento era
rappresentato proprio dai matrimoni segreti e da quelli conclusi senza il consenso dei genitori. La
Chiesa cattolica ribadiva sempre la condanna di chi sostiene «erroneamente che i matrimoni contratti da
figli di famiglia senza il consenso dei genitori siano nulli». Tuttavia imponeva un nuovo cerimoniale
volto ad eliminare la possibilità che due persone si sposino in modo valido e vincolante, scambiandosi il
consenso sole solette in mezzo a un campo o in una cucina. In base alle nuove norme, prima che sia
contratto un matrimonio, nella parrocchia in cui ciascuno dei due nubendi risiedevano, il curato doveva
annunciare il progetto «tre volte pubblicamente nella chiesa, durante la messa solenne, per tre giorni di
festa consecutivi». Dopo le pubblicazioni, se non c’era opposizione legittima, si procedeva alla
celebrazione del matrimonio al cospetto del parroco con due o tre testimoni. Tutti i matrimoni contratti
senza tale formalità venivano dichiarati nulli, anche se restava la possibilità di sposarsi di nascosto,
purché davanti a prete e testimoni. Allo stesso tempo veniva ribadito il principio di una sessualità
legittima, da esercitare solo all’interno del matrimonio; dunque in questo modo la Chiesa cattolica
condannava con rinnovato vigore la prostituzione e il concubinato. Ecco dunque che una parte dei
matrimoni celebrati con il vecchio sistema diventano unioni concubinarie, e relazioni di concubinato un
tempo tollerate si trasformavano in meretricio. Naturalmente le nuove regole richiesero un po’ di tempo
per imporsi. A Siena si denunciarono 291 coppie di concubini tra il 1604 e il 1628, 78 tra il 1629 e il
1653, solo 21 nei 120 anni successivi, tra il 1654 e il 1773.
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Come sottolinea attraverso questi dati Raffaella Sarti, l’andamento rifletteva lo zelo iniziale di chi
doveva imporre le nuove regole nonché la presenza, nella prima fase, di unioni che nella situazione
precedente sarebbero stato considerate veri matrimoni. Profondo sintomo di un cambiamento del modo
di concepire il matrimonio e di intendere il ventaglio delle possibili relazioni umane. Non si può certo
dimenticare che le “vecchie tradizioni” non si lasciavano sempre cancellare facilmente; infatti nelle
campagne friulane ancora nel Settecento era viva la consuetudine di considerare come legame
matrimoniale a tutti gli effetti lo scambio di una promessa, in particolare seguito dalla consumazione di
rapporti sessuali. Differente, per esempio, era la situazione nello stesso periodo in certe aree dell’Austria
o Baviera, dove i rapporti sessuali tra persone non sposate continuavano a venir considerati leciti o
almeno tollerati. Altra cosa importante da evidenziare: la lotta al concubinato non veniva combattuta
dappertutto con lo stesso vigore, per esempio in Spagna era ritenuta uno strumento di adeguamento
sociale tra classi sociali miste. Con nuove direttive del Concilio di Trento, la Chiesa romana organizzò
una nuova politica unitaria in materia matrimoniale.
Non si possono negare contrasti con persone e tradizioni insite nelle differenti zone, anche le autorità
secolari erano interessate a mantenere un certo controllo sulla materia. Emblematica fu l’istituzione del
matrimonio civile nel 1782 da parte dell’imperatore d’Austria Giuseppe II, ma ancora più significativa
fu l’impronta sulla scena matrimoniale della Francia rivoluzionaria: il matrimonio viene considerato un
contratto e per questo si introduce anche il divorzio (1791-92). Una cosa è certamente chiara, se nella
prima età moderna i confini tra matrimonio e convivenza sono piuttosto labili, in seguito si ha, dunque,
tanto in area cattolica quanto in area protestante, l’imposizione di norme più rigide e chiare. Sia la
Riforma che la Controriforma attuano inoltre un più rigoroso controllo sulla morale sessuale. Purtroppo
permane la persistenza in varie zone di antiche tradizioni, come l’esclusione di una parte della
popolazione dalla possibilità di sposarsi, per legge o di fatto, comportando di conseguenza di relazioni
extra-coniugali. Considerando la diversità nell’interpretazione del matrimonio, non è difficile cogliere la
pluralità delle relazioni in gioco all’epoca: non tutti nascono da un padre e una madre regolarmente
sposati. Cattolicesimo e protestantesimo danno al matrimonio un diverso valore.
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Nonostante una maggiore apertura alla vita coniugale rispetto al passato, il Concilio di Trento
riafferma la superiorità della “verginità” rispetto al matrimonio e conferma l’obbligo al celibato per il
clero regolare e secolare. Nell’Europa cattolica, infatti, conventi e monasteri in età moderna accolgono
quote non indifferenti di popolazione maschile e femminile. Per alcune fasce sociali, come la nobiltà,
l’esigenza di non disperdere il patrimonio condanna al celibato una percentuale sensibile dei figli, che
così finiscono in buona parte per ingrossare le fila della popolazione religiosa: le ragazze solo quelle del
clero regolare, gli uomini anche quelle del clero secolare. Non è dunque del tutto vero ciò che si è
spesso sostenuto, cioè che la Riforma avrebbe completamente eliminato il convento come strumento di
controllo sociale: rimane la sua funzione sociale di controllo e certamente si riconferma una valida
alternativa alla vita familiare. Sulla scena hanno cominciato a profilarsi le figure di giovani costretti dai
genitori a sposarsi con una certa persona per ragioni di interesse, ma anche quelle di poveri
impossibilitati a regolarizzare i loro amori poiché privi di mezzi. Il convento diviene un simbolo nell’età
moderna, attraverso il suo ruolo sociale; infatti molte ragazze adolescenti, prima di decidere il “loro”
futuro (negli interessi della famiglia d’origine), erano «lasciate» in convento per scegliere il loro futuro.
Il convento diviene strumento di controllo sociale e di minaccia per preservare l’ordine comunitario.
Il controllo esercitato dal convento è diretta conseguenza del concetto di “onore”, per le donne, il tutto
era collegato alla sessualità: bisognava conservare la verginità. Secondo la tradizione ricorrente fornita
dall’uso contemporaneo del termine «Famiglia»2, di solito si intende l’insieme costituito da
un gruppo determinato di persone che vivono congiuntamente aventi in comune la discendenza,
dimostrata o stipulata, da uno stesso progenitore o progenitrice nel caso di famiglia matriarcale, da una
unione legale o da una adozione. Tra i membri di una famiglia si individuano varie relazioni e gradi
di parentela. Nella cultura occidentale, una famiglia spesso è definita in modo specifico come un gruppo
di persone affiliate da legami consanguinei o legali. Molti antropologi sostengono che la nozione di
"consanguineo" deve essere intesa in senso metaforico; alcuni sostengono che ci sono molte società di
tipo non occidentale in cui la famiglia viene intesa attraverso concetti diversi da quelli del "sangue".
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I teorici del conflitto considerano la famiglia come un’unità nella quale sono continuamente in gioco
tensioni di diverso genere. Proprio il conflitto di potere tra uomini e donne all’interno della famiglia è
uno dei problemi più studiati dai teorici del conflitto. La famiglia pare, infatti, essere l’istituzione
sociale in cui più di ogni altra si svolge la lotta quotidiana tra i sessi. Già in passato Friedrich Engels2
aveva sostenuto che il matrimonio rappresenta “la prima forma di lotta di classe che appare nella storia
in cui il benessere e lo sviluppo di un gruppo sono acquisiti attraverso la miseria e l’oppressione
dell’altro”. I rapporti tra coniugi nel matrimonio, affermava Engels, sono il modello sul quale si sono
fondate le altre forme di oppressione, e in particolare tra capitalisti e proletari. Questa idea è stata
sviluppata tra gli altri da Randall Collins3, il quale ritiene che all’origine della lotta per il potere sia la
forza fisica maggiore degli uomini, che permette a questi di avanzare diritti sessuali sulle donne. Il
matrimonio sarebbe originariamente un contratto che impone il rispetto di questa pretesa. La genesi di
tale parola «famiglia» si ha nella sua derivazione passata: «Familia» deriva da «famuli». Tutte queste
parole, direttamente o indirettamente, derivano come detto in precedenza dal latino familia.
In origine familia ricorreva in riferimento al gruppo di servi (famuli) dipendenti da un unico padrone.
Presso i Romani gli schiavi divenivano uno status della ricchezza, assumendo anche il significato di
“patrimonio”.Il suo campo semantico si allargò pure in altre direzioni: per designare da un lato tutti
coloro che dipendevano dallo stesso padre di famiglia, ovvero il paterfamilias, fossero essi servi, figli o
altri; dall’altro tutti coloro che discendevano da un unico capostipite, che erano cioè stati, realmente o
potenzialmente, sottomessi ad un comune paterfamilias ormai estinto. Era dunque la dipendenza, non la
convivenza, l’elemento che accomunava i diversi significati che il termine aveva in latino. Non stupisce,
in quest’ottica, che il concetto di paterfamilias non corrispondesse esattamente con la paternità
biologica: il paterfamilias era colui che ricopriva autorità nell’ambito domestico, e poteva anche non
avere figli.Il significato etimologico della parola «Familia» torna in primo piano nel Medioevo, quando
essa indica prevalentemente il complesso dei dipendenti di un signore.
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Ed è soprattutto con tale significato che risulta inizialmente attestato, dal Trecento e ancora nel
Cinquecento, il termine francese “famille” o quello inglese “family”. Anche quando non erano impiegati
in tale accezione i termini europei derivati dal latino familia avevano spesso un significato differente da
quello attuale. «Famiglia è figliuoli, la moglie, e gli altri domestici, famigli e servi», scrive Leon
Battista Alberti nel Quattrocento: «Famiglia sono i figliuoli, che vivono, e stanno sotto la potestà, e
cura paterna, comprendendosi anche moglie, e sorelle, e nipoti del padre, e gli tenesse in casa», recita
la prima delle definizioni del termine riportate nelle quattro edizioni del Vocabolario degli Accademici
della Crusca, apparse tra il 1612 e il 1738. Diverse l’una dall’altra queste due definizioni sono
accomunate dal fatto di considerare come famiglia solo gruppi più o meno estesi di persone dipendenti
dal padre, non una comunità comprendente il padre stesso. In altri casi l’elemento della convivenza
balza in primo piano a scapito dell’elemento gerarchico, fornendo così un’immagine di famiglia un po’
più consona alla sensibilità odierna, seppur in genere non ristretta ai soli genitori e figli. Secondo
Giovan Battista Assandri, la famiglia è «uno accoppiamento de compagnie de persone, sotto un sol tetto
naturalmente unite, ad uso e commodo scambievole, nelle opere necessarie e cotidiane».
Comune al passato e al presente è invece la possibilità di usare il termine famiglia nel senso di stirpe.
Non bisogna sottovalutare il fatto che il termine “famiglia” poteva avere diversi significati e
interpretazioni. A favore del diffondersi della parola “famiglia” da un lato e, dall’altro, a sostegno
dell’idea che la comunità domestica gerarchicamente strutturata composta di padre, moglie, figli e servi
rappresenti una cellula fondamentale della vita associata militano altri fattori: ruolo del capofamiglia in
ambito educativo, religioso e sociale. Le direttive religiose investivano il capofamiglia di compiti di
controllo morale e religioso su tutti i conviventi, regole presenti nel mondo cattolico e ancor più nel
mondo protestante, dove scompare la figura del confessore e del padre spirituale che dall’esterno della
compagine familiare consiglia e dirige il tutto. Leggi e consuetudini davano così al padre potere
correzionale su tutti i suoi sottoposti, che gli devono obbedienza; gli permettevano di influenzare in
modo determinante il destino della prole con le sue scelte; impedendo ai figli di famiglia conviventi con
il padre, anche se adulti, di vendere, comperare o fare testamento senza la sua autorizzazione; dunque
stabilivano che la moglie non poteva disporre liberamente del suo patrimonio. In questo scenario
complesso, molto lontano e differente rispetto a quello odierno, si instaurano veri intrighi amorosi,
relazioni di carattere socio-economico e scontri per il potere all’interno delle famiglie: differenze ricche
di disagi vengono a galla, partendo dal matrimonio arrivando fino all’eredità contestata.
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Le networks matrimoniali sono oggetto di studio da diverso tempo; infatti basta ricordare la ricerca
effettuata sulle 20 famiglie londinesi da Elisabeth Bott, attraverso l’analisi delle dimensioni e natura
della segregazione coniugale, che quantificava la relativa compattezza delle reti in questione. Notevoli
sono state le ricerche svolte da Sandro Guzzi-Heeb sulla parentela in una valle alpina nel 19° secolo,
oppure l’indagine di Cyril Grange, che era incentrata sulla comprensione delle reti matrimoniali intra-
confessionali dell’alta borghesia ebraica parigina del XIX secolo. In questa ricerca si vogliono cogliere i
meccanismi di una rete di alleanze familiari, che ne determinavano le strategie e direzioni nelle
genealogie del patriziato veneziano settecentesco. Le misure dell’analisi di rete2 e le procedure per la
loro elaborazione sono state effettuate mediante il software UCINET3.
La diffusione delle tecniche e delle procedure sviluppate nell’ambito dell’analisi relazionale, negli
ultimi anni, ha raggiunto una fase di progressivo consolidamento; difatti attraverso la crescente
disponibilità di programmi per l’elaborazione dei dati relazionali, il ricercatore può compiere la scelta
più opportuna alle proprie esigenze. L’elaborazione dei dati è stata effettuata con la sesta versione del
software UCINET, iniziando dalla costruzione della matrice dei dati. Nonostante il mercato offrisse un
panorama ampio di programmi disponibili, la scelta di questo software è dovuta e giustificata dal
consistente numero di procedure, non statistiche e statistiche, in esso disponibili. Per questo motivo lo si
può considerare il più completo ed aggiornato strumento di analisi disponibile sul mercato. La
potenzialità dell’analisi delle reti, attraverso l’uso di UCINET, permette allo studioso di familiarizzare
con tecniche di analisi delle reti sociali, composta da un linguaggio altamente tecnico e matematico.
RETI MATRIMONIALI: LA NOBILTÀ VENEZIANA SETTECENTESCA.
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Il primo passo fondamentale è la definizione del tipo di dati per i quali l’analisi delle reti sociali è più
appropriata. I dati in possesso, derivano dall’opera del Nani2, aiuteranno nella comprensione delle
networks matrimoniali presenti nella società veneziana del Settecento: le relazioni di potere, le varie
alleanze, le strategie. Riprendendo quanto osservato da Sandro Guzzi-Heeb, anche nella Venezia del
‘700, come nella Bagnes del XIX secolo, la parentela rituale interagiva con la solidarietà parentale e
fattori ideologici, formando reti sociali dense, per lo più basate su comuni orientamenti politici. Tali
ambienti (milieus) favorirono la costruzione di fazioni politiche, costituendo una rete sociale densa
imperniata sul conflitto ideologico e comportando una graduale scomparsa del patriziato veneziano
stesso.
La Venezia settecentesca3 non era solamente una vittima predestinata del decadimento politico, ma
anche sociale dovuto al notevole peggioramento delle condizioni sanitarie4 generali; dunque era
inevitabile un declino economico, demografico e un destino avverso nella strategia matrimoniale delle
varie casate veneziane. Il Seicento si chiuse in maniera molto negativa per la Serenissima Repubblica,
uscita ridimensionata dopo il lungo conflitto con l’Impero ottomano, nonostante facesse parte della
Lega Santa. Il crollo dello Stato da Mar, in realtà, iniziò già con il decentramento delle attività
economiche dovuto alla Rivoluzione atlantica del XVI secolo. Venezia sopravviveva come la propria
classe dominante, attraverso una struttura in notevole difficoltà. La profonda lacerazione interna del
corpo aristocratico e l’estrema polarizzazione fra gli interessi dei diversi gruppi, alla fine comportò il
tramonto della Repubblica di San Marco. Enormi spaccature fra le diversi classi aristocratiche,
insanabili a causa dei vari interessi in gioco, allontanavano quelle riforme che sarebbero servite per
salvaguardare gli interessi stessi della Serenissima Repubblica. L’incapacità sul piano politico, il ruolo
passivo della compagine aristocratica veneziana, non riuscirono ad evitare gli avvenimenti del maggio
1797. Questo fallimento della Repubblica, senza opporre resistenza alle truppe francesi, derivava dalle
strategie matrimoniali coeve.
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Escludendo il costo sociale dovuto alle epidemie, molto presenti in questo periodo, si è indirizzata
l’analisi dei dati attraverso alcuni momenti-chiave della Serenissima Repubblica nel ‘700. Il primo
momento-chiave, fattore genesi, organizzazione socio-politica della nobiltà veneziana, ovvero il periodo
che va dalla Pace di Carlowitz del 1699 fino alla Pace di Passarowitz del 1718. Sono stati presi in
analisi i matrimoni avvenuti nel periodo 1699-1718, in modo da poter comprendere le varie strategie in
gioco. In questo periodo di grandissima crisi, vengono registrati moltissimi matrimoni.
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Come si evince dalla Figura 1, elaborata incrociando le date matrimoniali con le famiglie, si può
notare l’incremento di matrimoni dopo il 1699, data che coincide con la Pace di Carlowitz del 1699. La
cosa più interessante è il biennio 1716-1718, dove si può cogliere una notevole quantità di matrimoni,
un periodo molto favorevole per le alleanze matrimoniali già iniziato nel 1710. Nel gruppo 1
risiedevano tutte quelle famiglie ricche e appartenenti all’élite aristocratica. Nel gruppo 2 risiedevano
tutte quelle famiglie che avevano più del loro bisogno, ovvero le famiglie senatorie; mentre nel gruppo
3 risiedevano famiglie che avevano il loro bisogno, in pratica membri delle Quarantie (organi giudiziari
di media importanza). Il gruppo 4 rappresentava quelle famiglie che avevano meno del loro bisogno,
infine il gruppo 5 il gruppo 6 condividevano una situazione comune di povertà.
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L’estrema condizione di povertà era il riflesso dell’ingiusta suddivisione patrimoniale, all’interno del
ceto aristocratico veneziano molto incerto sulla propria condizione. Inevitabilmente la seconda guerra
della Morea aveva rivelato le debolezze veneziane in ambito militare. Con la conclusione della pace di
Passarowitz, la Serenissima Repubblica si trovò dalla parte dei vincitori grazie all’alleanza con il potere
austriaco, ma si vide privata dei frutti della vittoria che non si era conquistata con le proprie forze. Un
rilevante problema economico per i futuri “serenissimi interessi”2, che nel lungo periodo hanno inciso
sul malcontento del ceto patrizio veneziano. Un forte desiderio di ritornare una “grande potenza”
commerciale, che rimase intatto sino già all’elezione del doge Marco Foscarini: illusione durata a lungo,
nonostante la minacciosa situazione internazionale coeva.
Il ceto patrizio veneziano non ebbe coscienza della tempesta rivoluzionaria, che si sarebbe scatenata
a breve. Nell’Europa dell’Illuminismo, il declino politico di Venezia e della storia del suo patriziato può
equivalere ad un vero e proprio “suicidio”: un destino demografico accompagnato dal tramonto delle
Repubbliche aristocratiche europee. Nonostante il concetto riassunto nella formula «uguaglianza di
Dominio in disuguaglianza di fortune», le notevoli differenze economiche ebbero un peso determinante
nel crollo del sistema veneziano, ma ancor più le strategie matrimoniali insite nella società nobiliare.
Infatti esistevano moltissime distinzioni e differenze fra i beni di fortuna, l’età e la distribuzione del
potere tra il patriziato veneziano. Lo “spirito di famiglia” determinava i rapporti sociali, attraverso
un’altra dimensione familiare, ambienti denominati milieus, dove si progettavano le varie strategie,
come quella matrimoniale per esempio.
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Per comprendere cosa fossero le milieus, ambienti strategici dal punto di vista politico, bisogna
ripercorrere un altro momento chiave per la Serenissima Repubblica nel ‘700: l’ingresso in scena di
Lodovico Manin. Disponendo di una fonte molto interessante, come la ricerca2 svolta dalla Prof.ssa
Raines, si può evidenziare la rete dei sostenitori politici nella Venezia settecentesca e cogliere quali
meccanismi matrimoniali si celassero dietro. Interessante è notare che da diverso tempo, la vita politica
veneziana era frutto di una cultura plurisecolare del potere: esistevano meccanismi nati per bloccare
eventuali concentrazioni di potere, favorendo una graduale creazione di una rete sofisticata di
dipendenze. Il patrizio e il suo ramo (nucleo abitativo) dovevano affermare il proprio status in questo
delicato sistema politico, un sistema dentro il sistema costituito da opposte fazioni del patriziato.
Questo rapporto clientelare, insieme ai retroscena, favoriva alleanze e scambi di favore. Grandi abilità
personali, utili per evitare il blocco imposto dalle leggi veneziani sul broglio, escluso ufficialmente dalla
sfera politica, ma in realtà presente grazie alla creazione di una lobby per rendere vincente un
procedimento elettorale della fazione stessa. Sottili giochi di potere, basati sui legami di parentela della
“Casata”, che attraverso una politica matrimoniale molto attenta agli interessi in gioco, stringeva
alleanze con nuove famiglie di status vario nel blocco votante. Le famiglie di alto livello, che sono il
fulcro di un fazione, non stringeranno legami con famiglie rivali, ma con quelle di livello inferiore, in
particolare i quarantiotti e i barnabotti già escluse dalle logiche dall’alta aristocrazia veneziana.
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Le leggi della Repubblica di San Marco vietavano la creazione di fazioni; dunque i legami fra il
patrono e la sua clientela assumevano solo una connotazione sociale, in apparenza innocente, attraverso
una ritualizzazione della vita privata. Di notevole impatto in questa vicenda erano le funzioni religiose,
dove si evidenziava il legame di fazione fra le famiglie: battesimi e matrimoni, erano considerate
situazioni molto vantaggiose. Non bisogna dimenticare il problema settecentesco veneziano delle forme
della sociabilità2 patrizia, sulla promiscuità dei ceti e sulla pericolosa libertà delle donne. La voce della
ragione di Stato si fece sentire negli anni cruciali di questo fenomeno, gli anni Settanta del secolo, con
alcuni interventi, volti a regolamentare la visibilità femminile in città nei caffè e nei teatri, e nello stesso
tempo a ristabilire alcune distinzioni tra i ceti anche attraverso l‟abbigliamento. La ragione di Stato fu
invece restia a intervenire direttamente nella questione matrimoniale, nelle mani piuttosto benevolenti
dell’autorità ecclesiastica, che limitò a sorvegliare e a punire, sotto le pressanti richieste dei padri, i
matrimoni tentati, cercando di evitare nozze con azioni correttive. L’intervento più decisivo fu infatti
quello riguardante i matrimoni clandestini dei patrizi nel 1739 che dovevano essere denunciati al
Consiglio dei Dieci e agli Inquisitori di Stato. I rischi di una politica matrimoniale così restrittiva erano
ormai evidenti. Molte donne allontanate dai padri potevano essere accolte dalle famiglie: non era una
novità che i patrizi sposassero donne non nobili e gli avogadori erano ora piuttosto di manica larga nel
giudicare la possibilità di una di queste donne di essere «abile a procreare figli per il Maggior Consilio».3 Un decadimento del patriziato veneziano, in particolare della propria identità e memoria storica, che
partiva dalla sfera privata investendo la sfera pubblica. Nonostante l’attività frenetica di amici, patroni e
clienti, il sistema patrizio stessa implodeva sotto gli effetti della cultura illuminista. Il potere degli
antichi patriarchi veneziani era indebolito, criticato e ridicolizzato dalla cultura illuminista e dalle
pratiche comuni: i giovani patrizi potevano contare sull’opinione pubblica.
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La cultura del ‘700 affrontava uno scontro tra Ragione di Stato e ragione famigliare, dove interessi
pubblici e privati crearono un destino demografico per il ceto patrizio stesso. Nel caso veneziano, come
sottolinea lo studioso Volker Hunecke:
[…] Senza dubbio non erano pochi i patrizi che si ribellavano contro lo spirito e le forme della tradizione familiare patrizia, che non condividevano o aborrivano lo spirito di patria e di famiglia orientato alle norme del
passato e che consideravano con indifferenza il destino della loro casa e della loro patria. Tuttavia finora non è assolutamente dimostrato che i casi di comportamento non conformista abbiano costituito una pericolosa
minaccia per il modello famigliare patrizio o addirittura per la Repubblica.2
Questa “questione morale” influiva direttamente sul destino politico del ceto patrizio veneziano,
ovvero il futuro della Serenissima Repubblica, con un problema che sfociava nella politica matrimoniale
stessa. Tale aspetto evidenziava che non solo le sconfitte militari, la crisi economica e il fallimento della
politica estera influivano pesantemente sulla Serenissima. Una struttura patrizia, inferiore rispetto al
passato, che non ha saputo rinnovarsi a seconda delle circostanze, forse troppo persa dietro alle lotte
intestine tra fazioni politiche. Particolarmente emblematico è il quadro delineato dalle stime riportate da
Volker Hunecke, dove si può notare un calo generale che coinvolgeva tutte le Case.
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Lodovico Manin incarna nella propria vicenda personale, in maniera chiara, l’importanza dei legami di
parentela e clientela utili per raggiungere i vertici della politica veneziana. Sposare Elisabetta Grimani
del ramo ai Servi fu davvero una mossa strategica: l’unione con una casata tra le prime della
Repubblica, ampliò una serie di legami di parentela molto importanti. Elisabetta Grimani ai Servi
portava in dote eccezionale a Lodovico Manin, senza dubbio, l’appartenenza al gruppo delle famiglie
ducali del Settecento: i Mocenigo di San Stae, i Pisani di San Vidal, i Loredan di San Stefano, i Corner
della Regina, i Foscarini ai Carmini, grazie ad un rituale matrimoniale che estendeva i rapporti di
patronage.
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Il matrimonio Manin-Grimani rappresentava l’unione formale al blocco votante della fazione Pisani-
Mocenigo-Corner, attraverso legami di parentela diretta e indiretta, che denotava già in partenza la
futura sfera d’influenza del futuro Doge Manin. Inevitabilmente da come si può evincere dal grado di
centralità, differenziato graficamente nella fig.3, Lodovico Manin apparteneva alla fazione più potente
nel Settecento veneziano.
Il prestigio lo si può dedurre, semplicemente, con una breve analisi superficiale della fig.4: il nodo
Manin è connesso con ogni nodo presente, così risulta essere connesso sempre, svolgendo un ruolo
centrale grazie ad un percorso raggiungibile dagli altri nodi presenti. Uno degli usi principali della teoria
dei grafi nella Social Network Analysis consiste nell’identificazione degli attori più importanti di una
rete sociale (Wasserman, 1998). Sono state date molte definizioni del concetto di importanza, tuttavia
tutti gli indici nati per misurare questo concetto hanno in comune il tentativo di localizzare la posizione
dell’attore in relazione a quella degli altri nella rete.
Figura 4
Prestigio e importanza del
personaggio Lodovico
Manin
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Ripercorrendo le “classi” 1-2 composte secondo il Nani, ovvero la posizione nella classificazione del
ceto patrizio, poi incrociando i dati relazionali dedotti dall’analisi documentaria, in seguito appare un
denso scenario clientelare nel contesto in questione.
Da quanto si può desumere osservando la fig.5, i favori politici possono coinvolgere le famiglie della
sfera dei Mocenigo-Pisani-Corner, grazie alle posizioni stesse dei singoli attori. Vengono create quattro
macro-aree, composte da attori come Pisani, Manin, Mocenigo e Corner. Questi nodi divengono centro
di smistamento di favori politici, che coinvolgono anche famiglie dei rami più poveri. L’appartenenza
del Manin alla sfera dei Mocenigo-Pisani-Corner, dimostra che ormai è saldamente unito alla fazione
stessa. Certamente tutte le relazioni presenti dimostrano l’appartenenza a quelle che vengono
denominate milieus, dove convergono micro interessi con macro interessi socio-economici.
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L’analisi delle varie realtà matrimoniali della prima e seconda “classe” dedotta dal Nani, dimostra
l’esistenza di un ceto aristocratico – nelle alte sfere – molto compatto, dove esisteva una forte pressione
(il concetto di lobby) nell’adeguarsi alle varie finalità politiche. Non tutti i giovani patrizi hanno potuto
“scalare” i vertici, come nel caso di Lodovico Manin; infatti egli conquistò la carica di procuratore di
San Marco per merito, grazie ai legami di parentela raggiunti dal suo matrimonio con una Grimani, una
grandissima vittoria per una famiglia nobiliare dalle radici nel Friuli. Il passaggio da “protetto” a
patrono era il punto di non ritorno nell’ascesa politica di un patrizio della Serenissima. Nella seguente
rete sociometrica (fig.6), si può cogliere l’importanza dell’alleanza trasversale Manin-Mocenigo
S.Samuele per l’ascesa politica del futuro “ultimo Doge” della Serenissima.
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Le relazioni si intensificano nell’analisi dei rapporti tra la prima e seconda classe, si riesce a cogliere la
struttura dell’azione socio-politica del Manin, come ribadita dalle fonti. Nella struttura “mista” prima-
seconda classe, si ha la composizione di relazioni dense, dove si esercita una forte pressione sui membri
appartenenti, come si può vedere dalla elaborazione dei dati.
Il ruolo influente giocato dai Corner-Mocenigo-Pisani, sul tessuto sociale del ceto patrizio della prima/
seconda classe, appare molto chiaro. L’intreccio e incrocio delle relazioni attraverso cui tutte le azioni
patrizie vengono organizzate, corrispondono agli interessi di ogni singola casata: in questo scenario
Manin riesce a comprenderne i meccanismi sociali.
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Le reti matrimoniali del patriziato veneziano del Settecento dimostrano di essere molto compatte,
favorendo densi rapporti sociali disuguali a causa del grosso divario economico. L’aristocrazia
veneziana non riesce a modificare la propria identità, sorpassando il blocco del vecchio patriziato e la
tipica gestione degli affari di Stato. Dai dati in possesso, dopo l’elaborazione dei sottogruppi delle prime
tre classi, si può rappresentare graficamente la situazione della fazioni patrizie opposte a Venezia
durante il periodo 1748-1796.
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Come sottolineato anche dalla Raines, la fazione di parentela, composta da famiglie di tutte le classi
– secondo la divisione del Nani – aveva un punto debole nella propria struttura: poteva garantire
l’adesione completa delle fasce deboli, per una carica ambita da un patrizio dei “grandi”, perché la
decisione era stata pilotata. Problematica l’assegnazione di una carica a un barnabotto o quarantiotto,
perché la maggior concorrenza evitava ogni possibilità di un accordo fra le micro-fazioni. La solidarietà
di classe oltrepassava il muro della fazione di parentela, creando così un fronte unico di malcontenti.
Fin troppo pericolosi per le famiglie dell’alta sfera patrizia, che di fronte alla nobiltà inferiore si univa
per mantenere lo status quo. In mezzo si trovavano le famiglie patrizie di medio livello, micro-centri di
potere, che dovevano assorbire le pressioni dall’alto e dal basso inevitabilmente. Purtroppo la cattiva
situazione economica degli anni ’70 della Serenissima Repubblica, inasprì il conflitto tra le fazioni;
l’appartenenza alla fazione non corrispondeva sempre ad una corretta distribuzione del potere. Non è
del tutto sbagliato ipotizzare, almeno per gli ultimi decenni del ‘700, una gestione plutocratica dei
poteri e interessi della Repubblica.
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Nonostante i recenti progressi tecnologici, ancora oggi alcuni ricercatori diffidano dall’uso di uno
strumento utile come UCINET; tuttavia altri studiosi considerano la SNA come un insieme di metodi e
tecniche relativamente innovative che possono essere usate all’interno di diversi frames di ricerca e di
analisi. Nella teoria delle reti sociali - social network theory - la società è percepita e studiata come una
rete di relazioni, più o meno estese e strutturate. Il presupposto fondante è che ogni individuo – attore - si
relaziona con gli altri e questa sua interazione plasma e modifica il comportamento di entrambi. Lo
scopo principale dell'analisi delle reti è appunto quello di individuare e analizzare tali legami – ties - tra
gli individui - nodes. Come spesso si ribadisce, l’elemento discriminante è costituito dalla natura
dell’oggetto della ricerca, su cui si pesa la valutazione del ricercatore che stabilisce,
pragmaticamente, quale sia il disegno di ricerca più consono alla soddisfazione delle esigenze
conoscitive di partenza. In questa ricerca si è cercato di analizzare il peso esercitato dalle reti
matrimoniali, in una realtà molto drammatica per il ceto patrizio, come il drastico crollo demografico nel
Settecento. Inevitabilmente una drastica diminuzione della popolazione aristocratica, dovuta ad agenti
esterni come il declino dell’identità patrizia, ma ancor di più collegata ad agenti interni come la lotta tra
fazioni, che logorava la classe politica veneziana.
La cosa interessante, dalle stime desunte, è il calo vertiginoso nella frequenza dei matrimoni,
cambiamenti che hanno influito direttamente sulla rete patrizia. Non bastarono le alleanze matrimoniali,
accompagnate da strategie a tavolino e limitazioni per evitare il declino stesso delle casate della
Serenissima Repubblica. Un sistema sociale allo sbando, che non avrebbe mai resistito all’ondata
napoleonica, poiché non adeguato nelle stesse relazioni e legami, troppo vecchio e parassitato. Tutto
questo era riflesso nella politica matrimoniale patrizia settecentesca. Nemmeno Manin, ultimo Doge
della Serenissima, ma primo Doge straniero, vero uomo nuovo al potere, riuscì ad evitare una disfatta
totale. Amaro destino demografico scritto ancora prima dell’arrivo delle truppe napoleoniche, dove un
dannoso comportamento matrimoniale dei patrizi – attraverso una politica di limitazione matrimoniale da
parte delle classi alte – inaugurava la fine stessa della Repubblica.
CONCLUSIONE
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