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Humanitas 68(6/2013) 975-986 MARIA CHIARA GIORDA - SARA HEJAZI LUOGHI MONASTICI COME SPAZI SACRI Il monastero Dominus Tecum di Prà d’Mill e il tempio zen sōtō Shobozan Fudenji di Salsomaggiore «Monasteries are sacred because they are inhabited by women or men who want to make their lives a worship of God. Some of them may be holy people, others not. What makes a sacred place of their place is the holiness of the spiritual goal they have chosen for their lives» 1 1. Che cosa è un monastero? La questione che ci poniamo in questo articolo è quella di indagare le caratteristiche del monastero come specie di luogo di quel più ampio ge- nere che è lo spazio sacro, avente sue caratteristiche e funzioni specifiche 2 . La nostra ipotesi è che il monastero abbia tratti caratteristici che lo distinguono, quali il fatto che l’atto cultuale che vi si compie coincida con il vissuto quotidiano. Non vi è separazione tra rito e vita ordinaria, ma sovrapposizione costante, in un’ottica di totalità e unità 3 . La pratica di vita dei monaci, una vera e propria art de vivre 4 , è routine sacralizzata, con ritmi e tempi che si riflettono sul luogo in cui essi abitano, che essi modellano e dal quale sono modellati 5 . In questo senso, vi è contemporaneamente una sincronizzazione dei tempi di vita dei singoli individui e della comunità, all’unisono. La prati- 1 A. Veilleux, What Makes a Monastery a Sacred Place?, in T. Coomans - H. De Dijn - J. De Maeyer - R. Heynickx - B. Verschaffel (eds.), Loci sacri. Understanding Sacred Places, Leuven University Press, Leuven 2012, pp. 29-33, qui p. 30. 2 M. Barrett, The Monastery as Sacred Space, in S. Brie - J. Daggers - D. Torevell (eds.), Sacred Space. Interdisciplinary Perspectives within Contemporary Contexts, Cambridge Scholars, Cam- bridge 2009, pp. 9-22. 3 F. Debuyst, Le génie chrétien du lieu, Cerf, Paris 1997, p. 80: il monastero è il luogo della totalità e pienezza di vita cristiana. 4 Sul concetto di art de vivre si veda D. Hervieu-Léger, «Tenersi fuori dal mondo». Le diverse valenze dell’extramondanità monastica, in «Etnografia e ricerca qualitativa» 2(2012), pp. 185-202, in part. p. 199. 5 Si vedano le riflessioni sulla reciprocità/circolarità esistente tra un determinato luogo e l’attività che in esso si compie di A. Wathen, Space and Time in the Rule of S. Benedict, in «Cistercian Stud- ies» 17(1982), pp. 81-98, in part. p. 90. 18_H13,6_Spazi_Giorda-Hejazi.indd 977 26/03/14 22:07

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Humanitas 68(6/2013) 975-986

Maria Chiara Giorda - Sara hejazi

Luoghi monastici come spazi sacriIl monastero Dominus tecum di Prà d’Mill e il tempio zen sōtō shobozan Fudenji di Salsomaggiore

«Monasteries are sacred because they are inhabited by women or men who want to make their lives a worship of God. Some of them may be holy people, others not. What makes a sacred place of their place is the holiness of the spiritual goal they have chosen for their lives»1

1. Che cosa è un monastero?

La questione che ci poniamo in questo articolo è quella di indagare le caratteristiche del monastero come specie di luogo di quel più ampio ge-nere che è lo spazio sacro, avente sue caratteristiche e funzioni specifiche2.

La nostra ipotesi è che il monastero abbia tratti caratteristici che lo distinguono, quali il fatto che l’atto cultuale che vi si compie coincida con il vissuto quotidiano. Non vi è separazione tra rito e vita ordinaria, ma sovrapposizione costante, in un’ottica di totalità e unità3. La pratica di vita dei monaci, una vera e propria art de vivre4, è routine sacralizzata, con ritmi e tempi che si riflettono sul luogo in cui essi abitano, che essi modellano e dal quale sono modellati5.

In questo senso, vi è contemporaneamente una sincronizzazione dei tempi di vita dei singoli individui e della comunità, all’unisono. La prati-

1 A. Veilleux, What Makes a Monastery a Sacred Place?, in T. Coomans - H. De Dijn - J. De Maeyer - R. Heynickx - B. Verschaffel (eds.), Loci sacri. Understanding Sacred Places, Leuven University Press, Leuven 2012, pp. 29-33, qui p. 30.

2 M. Barrett, The Monastery as Sacred Space, in S. Brie - J. Daggers - D. Torevell (eds.), Sacred Space. Interdisciplinary Perspectives within Contemporary Contexts, Cambridge Scholars, Cam-bridge 2009, pp. 9-22.

3 F. Debuyst, Le génie chrétien du lieu, Cerf, Paris 1997, p. 80: il monastero è il luogo della totalità e pienezza di vita cristiana.

4 Sul concetto di art de vivre si veda D. Hervieu-Léger, «Tenersi fuori dal mondo». Le diverse valenze dell’extramondanità monastica, in «Etnografia e ricerca qualitativa» 2(2012), pp. 185-202, in part. p. 199.

5 Si vedano le riflessioni sulla reciprocità/circolarità esistente tra un determinato luogo e l’attività che in esso si compie di A. Wathen, Space and Time in the Rule of S. Benedict, in «Cistercian Stud-ies» 17(1982), pp. 81-98, in part. p. 90.

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ca monastica costruisce l’identità del monaco e della comunità monastica all’interno del monastero6. È questa cultura che si forma e riforma nel luogo monastico che segna uno spartiacque tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi ha compiuto una scelta di vita – fatta di ritualità e culto nella di-mensione quotidiana – e chi non lo ha fatto; tra chi costruisce un habitus e il resto del mondo.

L’ipotesi dell’esistenza del luogo del monastero come una specie del più ampio genere spazio sacro in cui si verifica e si celebra l’atto cultuale di una comunità che ne definisce l’identità e il confine, scaturisce dall’os-servazione del caso di due monasteri contemporanei di tradizioni differen-ti, entrambi situati nell’Italia settentrionale: il monastero Dominus Tecum di Prà d’Mill e il tempio zen sōtō Shobozan Fudenji di Salsomaggiore.

2. Osservare il monastero

Nel caso dei monasteri, non si tratta solo di analizzarne i differenti ambienti destinati alle azioni quotidiane e ai rituali per capire come sono disposti, secondo quale evoluzione storica, con quali progettualità, ma di cogliere il nesso costante tra il luogo che “crea” il monaco e la comunità monastica, che sacralizza lo spazio in cui vive.

Le scienze sociali – e in particolare modo l’antropologia culturale – hanno portato avanti questo tipo di analisi attraverso l’utilizzo dell’osser-vazione partecipata come strumento privilegiato per conoscere l’alterità, il che ha implicato in alcuni casi una residenza prolungata del ricercatore presso i monasteri di interesse e, a volte, persino un avvicinamento spiri-tuale, una conversione, o la presa in carico di alcuni voti monastici7.

Anche nel caso dei due contesti sopraelencati, monastero Dominus Tecum e tempio buddhista Shobozan Fudenji, si è utilizzata l’osserva-zione partecipata per analizzare il rapporto tra spazio monastico e cultu-ra monastica, anche se si è scelta la residenza ripetuta per brevi periodi di ritiro, piuttosto che un’unica residenza prolungata di diversi mesi. Vi sono infatti modi multipli nell’antropologia contemporanea di affrontare

6 E. Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina, Mi-lano 2006 (orig. Communities of Practice. Learning, Meaning and Identity, Cambridge University Press, New York 1998).

7 Si vedano, ad esempio, il lavoro di Joanna Cook, Meditation in Modern Buddhism. Renuncia-tion and Change in Thai Monastic Life, Cambridge University Press, Cambridge 2010, in cui la stu-diosa prende otto dei voti delle monache e risiede per più di un anno nel monastero di Wat Bonamron, nel nord della Tailandia, e il lavoro di Francesca Sbardella, più volte residente in un monastero fem- minile di clausura, M. Giorda - F. Sbardella (eds.), Famiglia monastica. Prassi aggregative di isola-mento, Pàtron, Bologna 2012.

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la ricerca etnografica e l’osservazione partecipata nei contesti complessi8, specie se si tiene conto del fatto che tutta la ricerca sociale è una forma di osservazione partecipata, essendo il ricercatore parte del mondo che studia9; questo è particolarmente vero nel caso dello spazio monastico che, attraverso la costante uscita ed entrata dei monaci dal monastero e dei sempre più numerosi visitatori (turisti, ricercatori, giornalisti) fuori e dentro lo spazio monastico, si dilata ripercuotendosi nelle città e negli spazi circostanti, anche attraverso l’utilizzo specifico di una auto-rappre-sentazione monastica ad hoc per il mondo fuori, che fa abitualmente uso delle moderne tecnologie per raggiungere spazi sempre più lontani.

Occorre considerare infatti che le distanze tra monaci e laici “vicini” a vario titolo al generico spazio monastico tendono a ridursi in un’attualità che vede templi e monasteri confondersi nello spazio della città10, o persi-no monaci vivere da soli in appartamenti nel cuore delle metropolitane11 Si tratta di una riduzione che non è solo geografica e spaziale, e nemmeno è limitata all’avvicinamento dello spazio monastico allo spazio profano; piuttosto, essa è costituita da un processo di inglobamento e accoglienza dello spazio profano e della cultura laica all’interno del luogo monastico, attraverso un’apertura ai laici sempre più costante da parte dei monasteri. I monasteri – anche quelli situati nei luoghi più impervi12 – hanno svilup-pato e incrementato la propria capacità di ricevere intere famiglie di laici, di promuovere corsi e ritiri destinati a una moltitudine variegata di perso-ne: vi è un modo differente di abitare, transitare, soggiornare nei monasteri che scaturisce da e fa scaturire differenti attribuzioni di senso ai riti e alla quotidianità monastica. Anche il processo inverso è sempre più frequen-te: il sapere monastico corre sul web13, i monaci partecipano a conferenze ed eventi culturali di loro interesse in città, quando non sono loro stessi a presentare al pubblico laico – in occasione di fiere, conferenze ecc. – i libri che hanno scritto: è lo spazio monastico che si espande e al contempo si esaurisce, si mette in scena nel profano, uscendo dall’ambito del sacro.

8 Si veda a questo proposito P. Atkinson - S. Delamont - W. Housley (eds), Contours of Culture. Complex Ethnography and the Ethnography of Complexity, AltaMira Press, Plymouth 2008.

9 M. Hammersley - P.Atkinson, Ethnography. Principles in Practice, Tavistock, London-New York 1983.

10 A proposito di un’antropologia urbana si veda Ulf Hannerz, Exploring the City. Inquiries Toward an Urban Anthropology, Columbia University Press, New York 1992.

11 Tra questi, anche il noto Henry Quinson, un monaco trappista che risiede nelle banlieues al nord di Marsiglia.

12 Si veda F. Galmiche, A Retreat in a Southern Korean Buddhist Monastery. Becoming a Lay Devotee through Monastic Life, in «European Journal of East Asian Studies» 9/1(2010), pp. 47-66.

13 Per entrambi i casi studio la comunicazione e lo scambio di informazioni e di materiali tra mo- naci e ricercatori sono avvenuti anche via mail. Si veda, a tale proposito, lo studio di P. Maffeo, Voci dal chiostro. Monache di clausura raccontano, Ancora edizioni, Milano 2013.

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La possibilità di un contatto frequente tra monaci e laici apporta im-portanti cambiamenti all’identità monastica, che si fa elastica, abituata all’interazione costante con il mondo fuori, autoconsapevole al punto da rendere possibile anche ai ricercatori di osservare e partecipare “a in-termittenza” alla vita e alla pratica monastica, cogliendone alcuni tratti fondamentali legati al suo agire nel luogo del monastero e al suo rapporto con lo spazio profano.

Come si leggerà più avanti, vi sono ambienti del monastero inaccessi-bili ai laici, così come – per esempio nel caso del sangha misto di Shobo-zan Fudenji – vi sono ambienti che periodicamente, o in base al rituale, sono accessibili solo agli uomini o solo alle donne. In questi casi, all’os-servazione partecipata si associa il lavoro di un informatore, di solito un monaco o una monca residente, che rende “accessibili” tali luoghi descri-vendoli, filmandoli o fotografandoli per conto del ricercatore.

Per osservare il luogo del monastero e dunque provare a riflettere sul più generico spazio monastico, ci siamo infatti avvalse anche dello stru-mento fotografico per coglierne i molteplici livelli: per fotografare am-bienti a cui abbiamo potuto accedere; per fotografare le attività dei monaci all’interno di questi ambienti; per fare fotografare ai monaci gli ambienti a cui non avevamo accesso; per rappresentare a terzi il monastero.

Già Roland Barthes aveva individuato il carattere polisemico delle foto e degli strumenti visivi nello studio etnografico14. Per l’antropologo, la foto è un oggetto capace di generare significati multipli, che vanno dal processo di realizzazione della foto stessa ai significati veicolati ai destinatari delle immagini. Come osserva Giovanni De Luna nella prefazione a Le fotogra-fie e la storia, le immagini fotografiche sono state quasi sempre utilizzate anche dagli storici per “illustrare” una narrazione basata sull’unicità del documento scritto15. Solo di recente, una nuova tendenza di studi ha rico-nosciuto alla fotografia altre due funzioni16. Innanzitutto quella di essere fonte storica, ovvero una testimonianza diretta di un evento; in secondo luogo quella di ricoprire il ruolo di vero e proprio agente di storia: una foto è capace infatti di suscitare, in chi la vede, reazioni di ogni tipo (so-ciale, morale o politico) e riesce in alcuni casi a orientare i comportamenti

14 R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980 (orig. La chambre claire. Note sur la photographie, Cahiers du Cinéma-Gallimard-Le Seuil, Paris 1980).

15 G. De Luna, Prefazione all’opera, in G. De Luna - G. D’Autilia - L. Criscenti (eds.), Storia del Novecento. Le fotografie e la storia, vol. i, Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), Einaudi, Torino 2005, p. xxxv.

16 G. D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, La Nuova Italia, Firenze 2001; P. Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci, Roma 2002; A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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collettivi17. Byers si era spinto oltre18, considerando la foto come un mate-riale grezzo capace di veicolare un numero quasi infinito di messaggi che l’osservatore può ricavare da sé. In questo senso l’immagine fotografica diventa un pretesto per uno scambio di informazioni variabili tra l’oggetto fotografato, il fotografo e il suo destinatario, piuttosto che un messaggio in sé. È capitato per esempio che alcune monache in abito da lavoro – ve-dendo la macchina fotografica – chiedessero di potersi andare a cambiare per “vestirsi da monache”. L’oggetto fotografato è infatti intenzionato a veicolare delle informazioni, almeno quanto lo è il fotografo. Come accade al ricercatore del film Kitchen Stories del regista norvegese Bent Hamer (2003)19, l’osservato e l’osservatore diventano vesti e ruoli intercambiabili, al punto in cui il progetto finale del ricercatore si modifica e si plasma a seconda delle esigenze, degli stimoli offerti dall’oggetto della ricerca.

3. Dentro ai monasteri: un percorso nel luogo sacro

L’osservazione dei casi studio ha messo in luce alcune caratteristiche peculiari del luogo monastico.

La relazione con l’ambiente circostante il monastero è bi-univoca: lo spazio monastico è circoscritto, ma al contempo immerso in uno specifi-co ambiente dal quale non si può prescindere. L’accesso al monastero è un accesso facilitato, agevolato: sia nell’uno che nell’altro caso, insegne stradali indicano la via per arrivarvi; ma è anche un accesso preparato-rio, nel senso che il percorso presenta una serie di ostacoli o di azioni pre-liminari: ad esempio, a Prà d’Mill si accede da una salita, in un bo-sco sempre più fitto, in una valle, quella dell’Infernotto, chiusa e spesso all’ombra, lungo una strada che si fa sempre più accidentata. Sempre in salita – anche se non accidentato – è il percorso verso il monastero Fu-denji, che si trova sulla cima della collina di Tabiano. Una volta avuto ac-cesso al giardino che circonda la casa colonica, si ridiscende per accedere al sōdō – la stanza della meditazione – ma solo dopo aver tolto le scarpe e aver percorso un tratto su una pedana di legno che unisce la casa coloniale al secondo edificio.

17 G. De Luna, Prefazione all’opera, cit., p. xxxvi.18 P. Byers, Still Photography in the Systematic Recording and Analysis of Behavioral Data, in

«Human Organization» 23(1964), pp. 78-84.19 Nel film, un ricercatore siede su un trespolo nella cucina di uno sconosciuto per osservare

l’utilizzo che questi fa degli utensili e degli spazi di quell’ambiente. Il fine della ricerca è quella di ottimizzare la cucina per un’utenza maschile. Alla fine però, sarà proprio il ricercatore sul trespolo ad essere osservato di nascosto dall’inquilino della casa.

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Il monastero Dominus Tecum è stato costruito per mimetizzarsi, este-ticamente e architettonicamente, nel paesaggio circostante: dai materiali usati, le pietre, lose sovrapposte e il legno20; alle pendenze della monta-gna, rispettate e quasi accompagnate, il monastero è stato quasi invisibile negli anni, confondendosi e conformandosi con il declivio.

Il rapporto del tempio buddhista Fudenji con l’ambiente circostante e con la tradizione zen è di tipo mimetico21 cioè riflette una volontà di imi-tazione e integrazione consapevole dell’altro: si tratta di un’alterità ambi-gua, perché ingloba identità molto diverse tra loro: quella della tradizione del buddhismo giapponese zen, e quella territoriale. Questo è evidente nell’utilizzo dei materiali locali, come il cotto e il mattone, che fanno sì che dalla strada il tempio somigli a una delle tante case della zona, integrandosi perfettamente nel suo contesto, ma presentando caratteri di forte innovazione e rottura: le porte scorrevoli Shoji, caratteri giapponesi all’entrata che presentano il tempio, sovrastati da un tettoia a pagoda si-mile a quella dei templi zen giapponesi.

Si assiste quindi a una sorta di doppia permeazione dello spazio ester-no rispetto a quello monastico e viceversa del monastero rispetto al suo esterno, in una sorta di evanescenza o di appiattimento dei confini netti che dovrebbero segnare la distinzione tra sacro e profano, tra il qui e l’altrove.

La costruzione del luogo monastico è frutto di azioni differenti succes-sive ed è organizzato e ordinato; il lavoro è sempre in itinere, laddove l’iter segue uno sviluppo: la prima è la costruzione degli ambienti monastici al- l’epoca dell’installazione dei monaci, con i lavori di ristrutturazione, di organizzazione degli spazi secondo un progetto che rispettasse la natura del luogo, lo schema architettonico dei monasteri cistercensi o un riman-do più o meno esplicito ai monasteri zen, con tutti gli elementi che la storia e la tradizione monastica hanno definito nel tempo. Per il Dominus Tecum: il chiostro, il capitolo, la chiesa, le celle, il refettorio dei monaci e quello degli ospiti, la biblioteca, i laboratori, il capitolo, i terreni, il cimi-tero, la foresteria22. Per Fudenji il sōdō, la stanza del dharma, i bagni, lo spazio per l’insegnamento dell’abate, il giardino.

20 M. Momo, Il progetto del monastero «Dominus Tecum», in «Aión» 2(2003), pp. 66-73, p. 70. Id., Sulle pendici del Monviso. Il rifugio Vallanta e il monastero di Prà ’d Mill, «Rifugio dello spiri-to», in AA.VV., Architettura moderna alpina. I rifugi, Musmeci, Quart 2006, pp. 45-58, in part. p. 51. In realtà vi è una trave di acciaio dipinta dello stesso colore di quelle di legno che sostengono il tetto della chiesa, aggiunta in un secondo momento per ragioni di sicurezza e solidità e l’armatura dei muri è in calcestruzzo: pilastri verticali e orizzontali ricoperti di pietre sorreggono la struttura monastica.

21 R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980 (orig. Violence and the Sacred, Con-tinuum, London 1988).

22 Come ha messo in luce A. Longhi nel suo articolo in questo volume, esistono modelli differenti di monastero oggi che sono stati progettati da architetti in dialogo con il mondo monastico: il mona-

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Lo studio di Maurizio Momo si è occupato fin dall’inizio della ristrut-turazione degli edifici storici presenti, partendo dalle esigenze legislati-ve e funzionali, dalla morfologia del territorio, dalle sperimentazioni dei monaci e dalle norme dell’architettura monastica cistercense23. Il mona-stero non è rigidamente legato alla pianta “classica” cistercense24 costrui- ta intorno a un chiostro e che prevede la chiesa a nord o sud, speculare al refettorio, il capitolo, il locutorium, la sacrestia, i libri per la lectio a est: basti citare il fatto che il capitolo è sopra la chiesa, per una ragione di pendenze, o che non esiste uno scriptorium per la lectio che viene fatta dai monaci nella propria stanza e manca un’infermeria. Dell’architettura cistercense sono state prese, senza dubbio, le linee spoglie, essenziali, la semplicità25 e l’adattamento alle esigenze della comunità: sono gli uomini che abitano il monastero a rendere lo spazio sacro.

Al Dominus Tecum, all’inizio della installazione, erano presenti due gruppi di case: in basso, sul limitare del bosco, tre fabbricati settecen-teschi, un palazzotto, con grangia e cappella, costituivano una piccola residenza nobiliare (questi i terreni appartenenti alla famiglia d’Isola, do-nataria dei terreni). In alto, alla base del pendio montagnoso, sorgevano diversi fabbricati rurali, una lunga manica discontinua, a due piani, che verso il bosco si ampliava e i fabbricati si fronteggiavano. Qui c’era e c’è ancora una grande baita, ora inserita nel monastero, risparmiata da un incendio che aveva quasi distrutto le altre grange26. I lavori iniziarono nel 1988 e nel 1991 il progetto del monastero venne inserito nel nuovo piano regolatore, nel 1992 arrivava la luce elettrica, nel 1994 a seguito di una frana si procedette con uno studio sulla situazione geologica dei terreni, nel 1995 si lavorò alla foresteria, nel 1996 fu costruita una palizzata con valenza più simbolica che reale per indicare la clausura. Nel 1998 iniziò la ristrutturazione della seconda parte delle case antiche, la stalla dove si

stero-villaggio, il monastero-casa, il monastero a struttura aperta, il monastero sviluppato intorno al chiostro: A. Longhi, Spazio sacro e architettura liturgica, supra, p. 955. Al Dominus Tecum il chio-stro è stato un nucleo importante del monastero, anche se i nuovi ampliamenti costringono a parlare di chiostri al plurale, ma la chiesa è sempre al centro: l’altare è al centro di due linee incrociate in diago-nale che partono l’una dalla cappellina e va alla biblioteca, l’altra al palazzotto e va verso la foresteria (T. Kinder, I cistercensi. Vita quotidiana, cultura e arte, Jaca Book, Milano 1998, p. 92; orig. The Cistercian Europe, Zodiaque, St. Léger Vauban 1997, p. 89). Sull’architettura cistercense: A. Dimier, Recueil de plans d’églises cisterciennes, Abbaye Notre-Dame D’Aiguebelle, Vincent Freal, Paris 1949; G. Viti, Una architettura per l’Europa: l’abbazia cistercense, Certosa Cultura, Firenze 2000.

23 M. Momo, Sulle pendici del Monviso, cit., p. 51. 24 T. Kinder, I cistercensi, cit., p. 72. In uno dei primi progetti del monastero i disegni prevede-

vano la pianta classica con il chiostro al centro, tuttavia l’idea è stata abbandonata per questioni di adattamento al territorio.

25 Ibidem. 26 Ibidem.

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celebrava la messa – oggi refettorio dei monaci –, per organizzare me-glio il monastero e la clausura27. Nel 2000 nuovi lavori portarono alla costruzione della Chiesa, consacrata nel 2004 e infine nel 2011 furono av-viati i lavori – tuttora in corso – per l’ampliamento della parte dell’acco-glienza. Una sorta di continua progettazione secondo il criterio dell’am-pliamento o, come lo ha definito il priore padre Cesare, un «monastero componibile»28. Non vi è un progetto che a priori ne ha determinato la struttura e la morfologia, ma vi sono dei principi direttori operativi, basati sulle esigenze pratiche, condivise dagli attori della costruzione29.

Shobozan Fudenji è stato fondato nel 1984, per iniziativa di Fausto Taiten Gureschi, allora maestro di arti marziali, che aveva ricevuto la trasmissione del dharma qualche anno prima a Parigi, da Taisen Deshi-maru Roshi. La conversione al buddhismo in quegli anni era un fatto che riguardava la frattura rispetto all’ambiente cattolico di provenienza del primo nucleo fondatore, che era composto per lo più da studiosi di arti marziali provenienti da Fidenza. La struttura odierna del monastero ri-flette questo percorso in itinere: il gruppo di fondatori acquistò all’inizio degli anni ’80 una casa colonica e un terreno di 40.000 metri quadrati che era in disuso da un ventennio. Dopo aver ristrutturato la casa, nel corso di un decennio, fu costruito il secondo edificio, a un solo piano, che oggi è anche la parte più importante del monastero: la sala di meditazione. Ma il progetto è ancora in itinere, perché mira alla costruzione di altri due edifici, che disposti a chiostro, avranno al proprio centro una nuova sala del dharma.

La costruzione dello spazio sacro, proprio perché è frutto della pratica e del vissuto, è continua nel tempo per adeguare lo spazio alle nuove pratiche e alle nuove esigenze: le comunità sono cresciute, il numero di visitatori e ospiti anche, le attività dei monaci sono cambiate: al Dominus Tecum, se si producono più marmellate occorre un luogo idoneo per esporle e venderle perché anche l’economia fa parte della vita quotidiana; è uno spazio, quel-lo monastico, non dato una volta per tutte, ma in divenire, in evoluzione, in costante discussione e rimodellamento. Nell’aprile 2012 sono iniziati infatti i lavori di ampliamento del monastero che prevedono l’aggiunta di due stanze alla foresteria, la portineria, l’ufficio per il forestario, alcuni parlatori, una sala conferenze (di quaranta posti circa), un portico di acces-

27 Tutte le informazioni sono state tratte dalle lettere annuali dei fratelli del Dominus Tecum e da colloqui ripetuti nel 2012/2013 con Maurizio Momo e con padre Cesare Falletti.

28 L’espressione è stata utilizzata dal priore padre Cesare Falletti durante l’intervista di Maria Chiara Giorda del 23 luglio 2013.

29 Dai colloqui con l’architetto Momo durante il 2013 è emerso come il progetto è stato via via discusso e strutturato insieme alla comunità monastica, a partire da necessità e bisogni dei monaci.

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so alla chiesa, un parcheggio e un ingresso pedonale, la tettoia di riparo per auto e mezzi agricoli (su cui sono stati montati pannelli fotovoltaici), un luogo più raccolto per gli ospiti della foresteria e un piccolo negozio, con il suo deposito, dove poter esporre le confetture e alcuni libri30.

a Fudenji non si vendono prodotti, ma saperi. I vari corsi e seminari attivati nel corso dell’anno variano dalla calligrafia alla cerimonia del tè; proprio perché quasi tutti gli insegnamenti mirano a sacralizzare i gesti quo-tidiani (lo scrivere, il battere un ritmo attraverso lo strumento del Taiko, il cucinare), lo spazio del monastero si è definito in base a un’attenzione ele-vata verso il particolare; la disposizione degli oggetti, così come la perfezio-ne del giardino, non lasciano nulla al caso presentando un luogo che vuole distinguersi dal mondo fuori per un valore specifico, che ha anche un senso spirituale: la bellezza. Così il monastero vuole essere in primis bello, in quanto perfetto, ordinato, curato, contrapponendosi alla bruttezza del mon-do fuori, «dove caso-caos e stupidità umana tolgono spazio all’armonia»31.

In questa costante ri-organizzazione dello spazio, esso si compone di strutture ordinate dove vi si trovano elementi che rimandano a tale ordine: barriere, figure geometriche, l’elemento della luce e del buio che si alter-nano, porte scorrevoli da aprire e chiudere: confini insomma, in una logi-ca di esclusione e inclusione. I confini sono anche interni e in particolare vi è una barriera, non solo metaforica e spirituale, segnata dal silenzio che va rispettato, ma fisica, come attestano cartelli e cancelli, tra la clausura e la parte aperta ai non-monaci nel caso del Dominus Tecum, o l’obbligo di togliere e mettere le scarpe, nel caso di Fudenji.

Al centro del monastero la chiesa – così come il sōdō – pur essendo “altamente” monastico per la liturgia che vi si celebra – è al contempo il luogo più accessibile, sempre, da tutti; intorno ad esso si aprono (e si chiudono) spazi più o meno accessibili.

La chiesa del Dominus Tecum, è il luogo della celebrazione liturgica, che non è solo la Messa ma la liturgia monastica, peculiare perché è cantata ed è capace di scandire il tempo quotidiano nelle differenti ore, con canti che sono costantemente introdotti, imparati e trasmessi tra i monaci32.

30 Lettera xxiii dei fratelli del Dominus Tecum del 2011.31 Fausto Taiten Guareschi, intervista di Sara Hejazi del 27 febbraio 2013.32 Al monastero la liturgia delle ore segue lo schema benedettino dei 150 Salmi in una settimana,

secondo i principi della stabilità e regolarità: D. Ogliari, Tempo e spazio. Alla scuola di san Benedet-to, La Scala, Noci 2012, in part. pp. 43-57; per i diversi sviluppi dell’ufficio divino nell’ambiente ci-stercense contemporaneo si veda: http://www.ocist.org/cms/index.php?option=com_content&view= article&id=84&Itemid=89&lang=it. Il Dominus Tecum segue lo schema Psalterium integrum per unam hebdomadam distributum. Per un’introduzione storica alla liturgia delle ore, si veda A. Elberti, Canto di lode per tutti i suoi fedeli. Origini e sviluppo della liturgia delle ore in Occidente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011; Si veda anche lo studio di M. Augé, Liturgia. Storia, celebrazione,

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La cappella è il luogo della comunicazione con il divino per eccellenza, il luogo dell’incontro e l’altare l’elemento centrale33; antistante ad esso vi è il coro dei monaci, costituito da sedie in legno disposte a ferro di cavallo, non separato da elementi fisici rispetto all’assemblea34.

Quali sono gli spazi vietati al Dominus Tecum? Quelli in cui esclusi-vamente i monaci mettono in azione – quotidianamente – la loro pratica di vita, fatta di una precisa e regolata scansione tra giorno e notte, con un’attenzione particolare per la lectio (la cella del monaco), la preghiera che è anche personale (chiostro e le celle), la costruzione della comunità/le regole (il capitolo), un controllo dell’alimentazione, una pratica di di-giuni (la cucina e refettorio dei monaci), il lavoro (i laboratori e una parte dei terreni per le attività pratiche e la biblioteca per la lettura e lo studio) e infine la morte (lo spazio dedicato al cimitero). La clausura è il cuore del monastero, ma lo spazio monastico è tutto spazio sacro, non importano le gerarchie interne, ma tutto è permeato dalla vita dei monaci: mentre i viaggiatori, fedeli, frequentatori non possono andare dappertutto, i mona-ci invece sì, ed è il loro passaggio, la loro vita a rendere sacro lo spazio, nella clausura, nell’accoglienza e anche nella tripla divisione che diven-terà concreta al termine degli ultimi lavori: gli spazi per i visitatori di una giornata e coloro che si fermano più giorni, i cui spazi saranno separati da un cancelletto o una porta35.

a Fudenji gli spazi vietati sono la cucina, che è accessibile solo al Tenzo, colui o colei tra i monaci che ha avuto accesso a questa carica di grandi responsabilità e valore spirituale nello zen, e i bagni, dove una volta alla settimana i monaci compiono il rituale della rasatura della testa.

teologia, spiritualità, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994. 33 Sulla centralità dell’altare e dell’ambone, G. Boselli (ed.), L’Altare mistero di presenza, opera

dell’arte, Qiqajon, Bose 2005, in part. M. Valdinoci, Realizzazioni di altari in Italia. Altri recenti esempi, pp. 153-158, con riferimento alle pp. 157-158 e tav. 45 (le opere degli arredi liturgici sono di Hilario Isola); G. Boselli (ed.), L’ambone tavola della parola di Dio, Qiqajon, Bose 2006. Sul rapporto tra spazio e della liturgia si vedano Id. (ed.), Spazio liturgico e orientamento, Qiqajon, Bose 2007; A. Longhi, Comunità, liturgie e società. Architetture per il culto nel Novecento, in Id., Luoghi di culto. Architetture 1997-2007, Motta Architettura, Milano 2008, pp. 6-41, con riferimento alla p. 39 e alla foto di p. 40. Rimando anche al tema della desacralizzazione dello spazio, molto vivace tra i teologi nati negli anni ’30, ben sintetizzato (e osteggiato) da K. Ott, Das Wechselspiel von Architektur und Theologie, Akademie der Diözese, Rottenberg-Stuttgart 1992.

34 L’ottica della partecipazione liturgica ha determinato, in questo caso, la disposizione del coro dei monaci. Interessante il fatto che chi partecipa alla liturgia, arrivando e uscendo dalla chiesa da un accesso laterale, sia spesso nel dubbio se genuflettersi di fronte al tabernacolo oppure al coro dei mo-naci, presenza viva di Cristo; questo particolare mi è stato fatto notare da Zeno, maestro dei novizi, durante un’intervista il 23 agosto 2013.

35 Sulla continua tensione tra “ospitalità incondizionata” e clausura, si veda D. Hervieu-Léger, «Tenersi fuori dal mondo», cit., p. 200.

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4. Conclusioni

Nel monastero il sacro è quotidiano e routinizzato, è frutto di una pra-tica che si ripete e al cessare di essa cessa anche la sacralità dello spazio: a differenza di una chiesa, sacra anche se è vuota, non esiste un monastero senza monaci e lo spazio sacro cessa di essere tale.

La pratica, vissuta e condivisa, non è isolata ma aperta, a tratti con-divisa, quindi sempre in tensione tra apertura e chiusura, accoglienza e isolamento. Questo si riflette sul luogo del monastero con due conse-guenze; in primis, non è sempre vero che il confine è più netto, ma anzi lo spazio monastico riesce a permeare lo spazio, spesso naturale, che ha intorno: boschi, strade, prati, colline diventano elementi naturali veicolo di accesso al sacro, una sorta di preparazione e percorso attraverso cui ci si prepara all’entrata nel monastero.

Inoltre il monastero è il luogo del compromesso paradossale: il sacro in un luogo definito e anche recintato è, al contempo, dappertutto e non si può contenere.

In secondo luogo se la pratica crea il luogo sacro monastico, è com-prensibile come, nella tensione irrisolta tra inclusione ed esclusione, si creino anche dei confini interni e il monastero finisca per essere altamen-te gerarchizzato; vi è come una doppia scala di sacralità per cui alcune porzioni di tale spazio sono inaccessibili e i confini necessari perché han-no a che fare con la costruzione dell’identità monastica.

Il monastero è al contempo centro, verso cui il mondo converge, ma anche confine, spartiacque tra ciò che è dentro e ciò che è fuori; vi sono confini geografici visibili ma anche invisibili, impercettibili che aprono verso mondi altri rispetto a quello umano.

Il legame tra pratica quotidiana e ambiente è quanto mai creatore e centrale non solo nella definizione del luogo del monastero, ma anche nella sua formazione e ri-organizzazione continua.

Abstract: The article focuses on the issue of constructing a sacred space, and in particular, the ascetic-monastic space, including the definitions and values it displays. The research on the specific monastic space highlights the tensions between the opposites: closure/isolation and opening/welcoming; it also consid-ers the liaison between the precepts of sacred contemporary architecture and the architectural history of the monastery, and finally it tackles the relation be-tween city and village. The case studies listed are two: the Dominus tecum monastery founded in 1995 by the Congregation “Immacolata Concezione” of the Cistercian Order. The project of the Prà d’Mill monastery was made by

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Maurizio Momo who started from the functional and legislative necessities and from the morphology of the territory to conceal the monk’s desire for innovating experimentations and traditional norms of Cistercian monastic architecture. The Buddhist soto zen temple Shobozan Fudenji, founded in 1984 by Fausto Taiten Guareschi, disciple of Shuyu Narita Roshi, one of the first Japanese masters of soto zen Buddhism in Europe. The actual current project of the zen temple in which less than 10 monks and nuns are now residing, originates as the restor-ing of a colonial house and has ever since been developed ever since, looking searching for a mediation – as its founder himself states – between local tradi-tion and oriental zen Buddhism.

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