mag'zine issue #3

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MAG'ZINE è un magazine dedicata alla fotografia documentaria e reportage. In questo numero: Alfredo Chiarappa e Michela Benaglia. PHOTOTALK con Linfa Ferrari THINKING ABOUT a cura di Claudio Menna

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MAG'ZINE

Sep 2015ISSUE #3

CONTENTS

PhototalkLinda Ferrari

thinking abouta cura di Claudio Menna

Timeline Photo:Michela Benaglia

PhotograPhers

alfredo ChiaraPPaItaly

MiChela benagliaItaly

alfredo ChiaraPPaItaly

www.alfredochiarappa.com

Alfredo Chiarappa, nato a Melfi (PZ) nel 1982.Pur avendo vissuto negli ultimi anni a Milano, attualmente lavora ed abita a Matera. Fotografo documentarista ma anche filmmaker e direttore di fotografia, laureato in Visual Communication and Movie Design al Politecnico di Milano, ha conseguito il diplomadi reportage d’autore alla Scuola Romana di Fotografia. Alfredo ha cominciato la sua attività lavorando come assistente e multimedia producer per Franco Pagetti, uno dei più grandi fotoreporter italiani, socio dell’agenzia VII Photo. Molti viaggi nella sua vita, dalla Russia al Kosovo e ancora in Bosnia e Serbia, collaborando connumerose testate nazionali ed internazionali, focalizzando il suo lavoro sulle nuove generazioni e il confronto con l’attuale situazione politica e sociale. I suoi progetti hanno partecipato a vari contests ricevendo premi e riconoscimenti come nel 2011 al Photodreaming,World Photo Contest e nel 2012 all’OER 2, quale Best photoreporter 2012 e ancora a Bruxelles in Belgio.

Cosa rappresenta per te la fotografia?La fotografia è una lente, la mia lente d’ingrandimento su quello che mi accade intorno. E’ una riflessione personale, la mia muta per immergermi nelle contraddizioni della vita delle persone, è la sveglia la mattina presto. Il motivo per cui a volte mi trovo in situazioni che non avrei neanche immaginato. E’ il mio lavoro.

Come nasce l’idea di un progetto e cosa ti porta ad affrontarloCi sono progetti che nascono da una necessità, altri che nascono da una ricerca, altri ti si mostrano davanti, sono quelli più complicati, perché a volte sono ingestibili. Ci sono progetti che ho dovuto affrontare per capirmi, sono stati terapeutici per me. Ogni progetto ti cambia un po’, a volte ti esalta, alle volte alla fine sei completamente sfinito, alcune volte lo lasci galleggiare per un po’ prima di riprenderlo.

Hai realizzato diversi progetti all’estero, cosa rappresenta per te il viaggio e i luoghi che decidi di fotografareI luoghi che fotografo hanno sempre a che fare con un progetto più grosso, dovunque sono diretto focalizzo l’attenzione sulle nuove generazioni, che è l’argomento principale dei miei lavori. Ho finalmente accettato il viaggio come parte integrante della mia vita e non mi riesco più a immaginare senza.

Un tuo progetto a cui sei più legato e perché?Sicuramente “Crossing Leningrad”, un lavoro di ritratto sulla notte a San Pietroburgo. E’ il primo lavoro pubblicato e perché analizzandolo ho capito dove dovevo insistere e quali erano le situazioni in cui mi trovavo a mio agio e quali dovevo lasciare perdere, è stato un po’ l’inizio di tutto.

Progetti per il futuro.Sicuramente continuare a fare questo lavoro e affrontarlo con meno frustrazione e più intraprendenza, non lasciarmi prendere e tirare giù dai momenti negativi del nostro lavoro. Cercare sempre di avere lo sguardo bello dritto davanti a me e i piedi per piantati a terra.

Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro.Proprio in questo momento mi trovo a riflettere sul concetto di fotografia, sul concetto di fonte e di fiction nel fotogiornalismo e sopratutto sul raccontare la realtà, dopo aver visto la campagna pubblicitaria del falso migrante su Instagram. Il citizen journalist, le storie raccontate in prima persona, hanno bisogno di essere verificate, ci vuole una coscienza critica più forte da parte degli editori, non si può continuare a pubblicare qualsiasi cosa.Rispetto a qualche anno fa sono più fiducioso, più ottimista. Mi sembra che le cose stiano andando meglio, c’è ancora tantissima fotografia forte, molti fotogiornalisti che lavorano con ancora più passione e più consapevolezza.

MiChela benagliaItaly

www.michelabenaglia.it

1980. Vive e lavora a Milano.Laureata in Disegno Industriale al Politecnico di Milano, dal 2004 si occupa di art direction per importanti marchi di arredamento, design e moda, per i quali cura e realizza grafica, allestimenti, installazioni, video.Nel 2012 realizza da maggio a ottobre un reportage sul terremoto in Emilia: Gli altri volti, identità di un terremoto viene esposto a maggio-giugno 2013 a Milano nella mostra Blind photo date .Da qui l’interesse per il sociale la porta a conseguire due master, entrambi sotto la direzione di Massimo Mastrorillo: il primo in reportage all’Accademia Jhon Kaverdash di Milano, il secondo in storytelling presso l’agenzia LUZ Photo. Partecipa inoltre a numerosi workshops con autori e attori importanti della fotografia contemporanea tra cui Antoine D’Agata, Daphne Angles, Renata Ferri, Clau-dia Hinterseer.Dal 2014 insegna Rappresentazione fotografica all’ISAD di Milano.Nel 2015 la fotografia diventa la principale attività.Nello stesso anno è selezionata tra i vincitori della Residenza Artistica con Alex Webb e Rebecca Norris Webb organizzata da Camera Torino per la Regione Piemonte e partecipa al Circuito OFF di Savignano Immagini con Images of Identity – Polaroids from Uganda.Fotografa freelance lavora su commissionati, reportage sociali e progetti personali a lungo termine.

Cosa rappresenta per te la fotografia?La fotografia è un mezzo: attraverso la lente è più facile guardare il mondo, e la macchina fotografica è una buona scusa per farlo. È un filtro che permette di spingermi dove a occhio nudo non avrei mai osato, e così imparo, approfondisco, soddisfo la mia curiosità. Ho un approccio egoistico: la fotografia è il linguaggio che sposa il mio carattere, dato che non amo parlare né scrivere, piuttosto osservo e ascolto.Raccontare per immagini è più efficace che attraverso le parole: in una fotografia ci sono molteplici livelli di lettura che si intrecciano, si sovrappongo-no, si dilatano e si comprimono, dialogando tra di loro e con l’osservatore. L’interpretazione è sempre unica e mai univoca muovendo dall’esperienza personale.Sui miei progetti cerco di raccogliere pareri da persone diverse, per età, provenienza, cultura: resto in silenzio e lascio che i loro pensieri e sensazioni fluiscano. Non mi interessa che capiscano cosa volevo dire, o il perché ho scattato una determinata immagine, ma voglio capire cosa smuove in loro, aprendomi a nuovi livelli di lettura che mi spingono ad approfondire direzioni alle quali da sola non sarei potuta arrivare. Se solo sapessi leggere la mente... chissà cos’altro potrei scoprire!Non credo che la fotografia possa dare risposte, né che lo debba fare: si chiamerebbe politica e sarebbe unidirezionale. Senza imporre il certo cerco di lasciare strade aperte per smuovere un desiderio di approfondimento, per far nascere domande.

Nel tuo progetto “From 7 to 7. When time stands still” hai deciso di indagare la generazione dei trentenni. Cosa rap-presenta per te questo progetto?Era il Dicembre 2012, avevo appena terminato il mio primo lavoro di reportage Gli altri volti – Identità di un terremoto sul sisma in Emilia: 6 mesi passati sul territorio tra la gente, oltre l’evento mediatico. Un’esperienza talmente densa che ho deciso di cambiare tutto, di lasciare il lavoro avviato e stabile che mi accompagnava da oltre 10 anni, e che la fotografia sarebbe diventata il mio futuro. Avevo bisogno di respirarne a tempo pieno, e d’impulso mi iscrivo ad un workshop intensivo di una settimana con Antoine D’Agata. From 7 to 7 nasce con queste premesse: in piena crisi di riflessione sulla vita, appena superata la soglia dei 30 anni, quando per la prima volta mi sono sentita realmente consapevole di me stessa. Un progetto che continua tutt’oggi, cambiando forma, tutt’ora in evoluzione. Ciò che è rimasto sempre invariato è l’approccio di lavoro: le persone ritratte sono sconosciuti, incontrati per caso o per passaparola, a cui ho chiesto di ospitarmi a casa loro dal rientro dal lavoro fino alla mattina seguente, ore di sonno comprese. Le condizioni per partecipare al progetto: avere più di 30 anni, vivere da soli (ed essere da soli al momento degli scatti) e non rivolgermi parola.All’inizio cercavo di ritrovare me stessa nelle vite degli altri, ma col passare del tempo un turbinio voyeuristico mi ha portata a cercare quasi ossessivamente le unicità delle persone che fotografavo, ad innamorarmi di ogni dettaglio, abbandonando l’approccio descrittivo trasformandolo in metafore ed ambiguità.Dall’esperienza personale è nata così la necessità di mostrare il lavoro all’esterno, ed ho visto la fotografia per la prima volta attraverso il confronto, scoprendo un’ottica che non avevo mai valutato: all’interno della medesima cornice, ognuno legge parti di sé e delle proprie esperienze.È un progetto ibrido fatto di frammenti, fortemente autobiografico ma raccontato con un approccio documentaristico, in cui l’osservatore non è più passivo ma diventa attore fondamentale per dare senso alla storia o, meglio, alle storie.Un dialogo aperto con la mia generazione.

Il tuo lavoro “Images of identity” è stato selezionato per il circuito OFF del SiFest, parlaci di com’è nato questo pro-getto?A febbraio 2015 Emanuela Colombo, fotografa e amica, mi ha coinvolto in un viaggio di lavoro per Ewe Mama, Onlus di Varese che sta realizzando un centro per bambini con disabilità nei pressi di Rushooka, nell’angolo sud-occidentale dell’Uganda, punto di incrocio strategico tra due città commerciali, Kabale e Mbarara, e il confine ruandese. Il lavoro di documentazione sull’attività dell’associazione è stato finalizzato alla realizzazione di un libro a quattro mani, che uscirà a breve.Come sempre faccio prima di partire ho cominciato a leggere ed informarmi su territorio, storia, politica e situazione attuale. Quando siamo arrivate si era appena concluso il censimento della popolazione e da lì a poco sarebbe scaduto il termine ultimo per la registrazione obbligatoria al fine di ottenere il documento di identità. Tra la diffidenza della gente, specialmente nelle zone rurali, e i tempi biblici tutti africani della burocrazia ugandese era chiaro che il processo, che ha portato al rilascio della prima carta d’identità al Presidente Museweni nel 2011, ma che era iniziato ufficialmente nel 2009 come National ID Project, sarebbe stato ancora molto, molto, molto lungo.Ho cominciato, così, ad interrogarmi su cosa significhi avere un documento di identità, se fosse un diritto o un dovere registrarsi, considerando il fatto che storicamente l’introduzione della carta d’identità in Rwanda, con la divisione Hutu e Tutsi voluta dai coloni Belgi, è stato uno dei motivi scatenanti il genocidio.Non ero interessata al problema di tempistiche né di burocrazia, ma mi sono concentrata sul significato di relazione tra Stato e Cittadini. Esistiamo solo perché il nostro nome è scritto su un documento? Se non sei registrato al censimento, è davvero come se non esistessi? Dove è effettivamente la nostra identità?Quando viaggio porto sempre una vecchia Polaroid, di quelle che oltre all’istantanea lasciano il negativo, e ho pensato fosse il mezzo giusto da utilizzare. Ho potuto così lasciare di volta in volta alla persona ritratta l’unica copia originale della fotografia, che probabilmente sarà l’ultima immagine stampata che avranno di sé prima di quella ufficiale della carta d’identità, mentre i negativi sono rimasti a me: li avrei sviluppati una volta a casa. Che si sarebbero rovinati durante il viaggio ne ero consapevole, ma ho pensato che quei segni sarebbero stati significativi nella loro casualità ren-dendo le immagini e i volti irriconoscibili, evanescenti, spettrali, pittorici. Così è nato il progetto Images of Identity – Polaroids from Uganda.

Un tuo progetto a cui sei più legata e perché?Sono profondamente legata a più di un progetto perché sono legata alle persone che ho incontrato, che mi hanno fatto l’incredibile regalo di permettermi di entrare nelle loro vite, di ritrarle e di condividerle col mondo. Gli altri volti – Identità di un terremoto, ad esempio, ha portato a forti legami di amicizia che durano tutt’ora. Vorrei però raccontare del progetto su cui sto lavorando attualmente e che sto portando avanti da qualche mese. Il lavoro è cominciato come as-signment commerciale per il sito della Fondazione Sicomoro, ma immediatamente dopo il primo approccio istituzionale ho deciso di approfondire il tema a livello personale.

Il lavoro parla di dispersione scolastica, che in Italia tocca il 17% con costi annui per la collettività tra l’1,5 e il 6,8 % del PIL e che porta i giovani dai 18 ai 24 anni ad abbandonare gli studi senza aver conseguito il diploma di scuola superiore.Parla di scuole della seconda opportunità, le istituzioni che cercano di arginare il problema che, nate a partire dalla fine degli anni ’80 come sperimentazioni dal basso per giovani a rischio marginalità, offrono percorsi paralleli o alternativi alla scuola dell’obbligo finalizzati al conseguimento della licenza media.Ma soprattutto parla di persone. A quanto pare non sono capace di fotografare senza mettere in primo piano il genere umano e le sue molteplici identità fram-mentate tra positivo e negativo.Perché sono legata a questo progetto? Forse perché entrambi i miei genitori sono stati insegnanti. O forse perché mi fa arrabbiare profondamente il sentir parlare di fallimento di vita riferito a ragazzi così giovani. O, ancora, perché ho visto un mondo al di là delle convenzioni sociali, dove il gusto per la trasgressione e il rifiuto delle regole accompagnano lealtà e amicizia sopra ogni cosa.Ma probabilmente sono troppo “dentro” per poterti dare una risposta sensata in questo momento. Ne riparliamo l’anno prossimo?

Progetti per il futuroPensare a futuro mi mette sempre un po’ in agitazione. Per certo so che voglio continuare a fare fotografia, per quanto abbia sempre paura di non essere all’altezza di potermi chiamare fotografa perché ancora acerba e con molto da imparare. Ma forse questa sarà una sensazione che mi accompagnerà sempre, e non mi dispiace, in fondo è uno stimolo per continuare in una direzione di ricerca continua.Tra gli altri progetti: crescere, cambiare, alimentare passioni e curiosità, cercare nuove strade e nuovi linguaggi che di volta in volta possano essere il mezzo migliore per raccontare questa o quella storia, lavorare sodo ed essere felice. Senza dimenticarmi di vivere. Il futuro, in fondo, si costruisce nel presente.

Come vedi la fotografia oggi e il suo futuroUn gran casino, in cui è sempre più difficile orientarsi. A ben pensarci non è poi tanto diversa dalla mia vita!

linda ferrariEducatorE alla fotografia

Laureata in psicologia della formazione, ex fotografa editoriale, dal 2012 ha iniziato ad occuparsi degli aspetti educativi e formativi della fotografia sia comeorganizzatrice di workshop (Photo-Berlin) e Masterclass (con l’Agenzia VII) che come formatrice sui social media (Photoskine).

Lavorando e confrontandoti con la fotografia al di fuori delle mura Italiane, trovi delle differenze tra la “scena” fotografica italiana e quella estera, soprattutto per quanto riguarda i giovani.Ho vissuto all’estero per periodi relativamente brevi ma penso possa essere utile riportare l’esperienza che ho fatto a New York dove ho passato 3 mesi osservando il mondo fotografico americano. La principale differenza che ho notato rispetto a ciò che conosco del mondo fotografico italiano è che il fotografo americano si vive molto più come un imprenditore che come un artista e/o autore. Non c’è paura a “sporcarsi le mani” con parole come marketing, target, budget. Non ci si sente in colpa ad essere pagati per far bene il proprio lavoro. Mentre qua in Italia, sia per mia esperienza personale che per la percezione che ho di alcuni meccanismi di questo settore, il fare il fotografo viene vissuto come un privilegio a cui, se accedi, significa che possiedi un vero talento. Questo comporta non solo che si sviluppino delle di-namiche da star (con tappeti rossi annessi) ma anche un’estrema volubilità e vulnerabilità di buona parte di questo mercato.

Parlaci di Photoskine e di cosa intendi per Social Media Photography?Photoskine è nato prima come gruppo in Facebook (www.facebook.com/groups/photoskine) e poi come blog (www.photoskine.com) ed è un nome che ho creato dalle due parole Photo(graphy) e (Mole)skine. Nasce quindi come mio quaderno di appunti sulla trasformazione in atto del linguaggio fotografico. Credo possa essere interessante vedere come la produzione di immagini, entrata ormai da qualche anno nel quotidiano di tutti, stia aggiungendo un nuovo significato alla Fotografia. Questa nuova declinazione fotografica viene chiamata Social Media Photography: “la fotografia” (anche se in italiano sarebbe meglio dire “le immagini”) che si esprime attraverso i social media. La Social Media Photography si avvicina forse più alla Comunicazione e alla Psicologia che all’Arte. Anche se in molti casi risulta difficile tracciare dei confini netti: anche l’artista comunica attraverso le sue opere. Quello che lo rende diverso da un qualsiasi utente di Instagram sono molti fattori (preparazione e studio, cura e serietà, sensibilità e apertura mentale), ma il più importante, secondo me, risulta essere la progettualità.

Oggi è cambiato il modo di condividere la fotografia, grazie alla nascita di molte piattaforme digitali e tramite la diffusione sui social network. Cosa pensi di queste piattaforme che ospitano e danno visibilità a tanti nuovi fotografi emergenti, e del “fenomeno” fotografia sui social network, ovvero condivisione e diffusione di contenuti di cui non sempre si è in possesso dei diritti di riproduzione.Credo che queste piattaforme siano una grande risorsa per chi vuole far conoscere il proprio lavoro. Come ogni strumento creato dall’uomo, bisogna imparare ad usarlo per-ché sia effettivamente utile. Come dedichiamo mesi per prendere la patente di guida, allo stesso modo dovremmo dedicare almeno qualche settimana a capire come usare le piattaforme che ci interessano. Come non ci verrebbe mai in mente di salire su una macchina e pensare che sia sufficiente sedersi al posto di guida per saperla guidare, allo stesso modo per sapere usare i social media bisogna mettersi a studiare.

Non basta esserci. A volte il numero di like può esser fuorviante e si tende a identificarsi eccessivamente con l’identità virtuale credendosi “importanti”. Ma non dovremmo mai dimenticarci che la vanità, alla fine, ci rende solo più insicuri e fragili. Per l’utilizzo improprio di immagini altrui, è una cosa abbastanza normale che succede quando si sta creando un nuovo mondo. Le regole non sono ancora state scritte, è l’uomo che, dando forma a un sistema nuovo, man mano deve confrontarsi e definire quali sono i corretti comportamenti da tenere. Ovviamente all’inizio tutto questo crea grande confusione, ci sono sempre molti caduti in battaglia – se la si pensa come una guerra per la difesa del territorio. Ma col tempo le cose si dovrebbero stabilizzare e armonizzare e dovrebbe nascere un senso di imbarazzo verso chi non segue le regole, mentre - per ora - l’imbarazzo è verso chi si comporta con serietà.

Parlaci del progetto Photo-Berlin, in cosa consiste e qual è il tuo ruolo.Photo-Berlin (www.photo-berlin.org) è il mio primo progetto educativo legato alla fotografia. E’ nato come una serie di workshop con fotoreporter riconosciuti a livello internazionale. La prima edizione è stata nel 2012-2013, mentre quest’anno, grazie soprattutto alla collaborazione con Chiara Luxardo, abbiamo realizzato una seconda edizione. L’idea da cui nasce Photo-Berlin è di raccontare la città di Berlino nella sua storia unica ma anche nella sua contemporaneità europea. E’ un progetto ideato appena mi ero trasferita - all’epoca facevo ancora la fotografa di reportage. Dopo appena 2 mesi avevo realizzato di essere in una città piena di storie interessanti e che non sarei mai riuscita a documentarle tutte! Così ho pensato di creare un progetto che si auto-sostenesse economicamente e che mi permettesse di crearmi nuove relazioni fotografiche nella città.

Quali consigli ti senti di dare ad un giovane che si avvicina a questo mondo.Ascoltare chi è più grande ma tenere sempre le orecchie attente ad ascoltare anche chi è più giovane, perché non si sa mai da dove arriverà la frase che ti farà capire come diventare migliore. Restare umili. Non cedere alle lusinghe. Non puntare tutto a diventare un Nome. Anzi, dimenticarsi proprio del Nome perché, anche se è quello che ci contraddis-tingue, resta pur sempre quello che ha scelto qualcun altro per noi (i genitori!). Accompagnare l’atto del fotografare con un lavoro più organizzativo ed operativo, perché questo aiuterà a restare coi piedi per terra. E infine, last but not least: se vuoi farlo come lavoro, prendilo come tale. Bisogna ricordarsi sempre che l’autodisciplina è la più grande forma di libertà.

Il tuo ultimo progetto in cui sei impegnata è EXPOStories, come nasce questa idea?ExpoStories (www.expostories.com) nasce da un periodo in cui ero in una fase di intensa ricerca e studio dei nuovi linguaggi. E, oltre a leggere molto, dedicavo anche diverso tempo a conoscere realtà lavorative nuove. L’idea è nata dopo una serata con amici dove ero riuscita a staccarmi mentalmente da tutti quegli studi. Mettendo la mente a riposo, è stato facile vedere quello che avevo già a disposizione: un Masterclass per fotogiornalisti alla ricerca di nuove frontiere nella documentazione e un’app che cercava nuove storie da raccontare. Dopo qualche mese è arrivato il nome, anche lui in un momento in cui avevo lasciato un po’ il cervello “a riposo” :)

Come vedi il futuro della fotografia, soprattutto per quanto riguarda la fotografia documentaria e il fotogiornalismo.Avvincente. Succederanno cose meravigliose(!). Le storie verranno raccontate sempre meglio, la qualità si alzerà sempre più. Dopo lo scossone iniziale e – diciamolo! - la “puzza sotto al naso” ad usare gli smartphone per far le foto, finalmente ci si sta liberando anche di questo. La tecnologia è creata dall’uomo per sé stesso, per vivere meglio, non per mandarlo in crisi esistenziale...se poi decidiamo noi di vivere male ogni cambiamento, quello è un nostro problema europeo. Siamo un vecchio continente e come tutti i vecchi passiamo il tempo a dire “si stava meglio quando si stava peggio”. Siamo un po’ noiosi in questo, ma saremo sempre così: è la nostra storia. Che, comunque, porta a dei van-taggi: non siamo di facili entusiasmi però poi, quando una cosa ci convince, non la lasciamo ma, anzi, molto spesso la facciamo talmente bene che finiamo per “dettar legge”.

thinking about

L’NPPA (National Press Photographers Association), fondata nel 1947, stilò le 9 regole alle quali ogni fotogiornalista doveva attenersi in base ad un preciso codice etico. Le regole sono indiscutibilmente giuste, ed eticamente corrette, ma è lecito chiedersi se ogni fotogiornalista del globo le rispetti. La storia ha spesso dimostrato che alcuni grandi reportage del passato siano stati dei veri e propri capolavori fotogiornalistici proprio perché il fotografo infranse alcune di queste regole, ma ovviamente non sempre è così.Basti ricordare il caso di Brian Walski, fotografo del Los Angeles Times che nel 2003 alterò in maniera evidente un immagine del conflitto in Iraq, fu smascherato per questo fotomontaggio mirato esclusivemente a creare la foto perfetta che pero’ non aveva scattato, e per questo fu licenziato. Anche nella cronaca recente si è discusso molto di etica fotografica, soprattutto in tema di immigrazione.Come non ricordare l’immagine straziante del piccolo corpicino di Aylan, giovane bimbo siriano di 3 anni, annegato nelle acque di Bodrum, in Turchia. L’immagine è rimbalzata sulle copertine di tutti i piu’ importanti giornali internazionali, e sembra abbia toccato a tal punto le coscienze dell’Establishment Europeo, che addirittura la Germania ha ammorbidito la sua politica organizzandosi per accogliere i rifugiati di guerra a casa propria. L’immagine del piccolo corpo a faccia in giu cullato come in un’ ultima ninna nanna dalle onde del mare è troppo cruda e troppo sfacciata per essere considerata uno stimolo a sensibilizzare il mondo intero. Non avevamo bisogno di osservare questa terribile scena per capire quanto fosse orribile la guerra e quanto strazianti le conseguenze sui popoli coinvolti, in fuga verso un futuro più sicuro per loro e sopratutto per i loro figli. In questo caso, nonostante il fotografo in questione, Nilufer Demir, abbia trasgredito al punto quattro del codice etico dell’NPPA, sono stati i giornali, gli editori ed i photo editor di tutto il mondo in maniera unanime, a decidere di pubblicare lo scatto addirittura in copertina.

Etica e Fotogiornalismodi Claudio Menna

Il mondo intero non aveva bisogno di quell’immagine per comprendere le conseguenze di una guerra, ma le logiche di mercato dimostrano di andare oltre l’etica ed il rispetto per i soggetti rappresentati, per quelle vittime, siano esse adulti o bambini che attraverso un’esposizione mediatica forzata finiscono per morire altre migliaia di volte.In conclusione, ritengo che è pur vero che le regole esistono per essere infrante, ma questa è prerogativa dei geni o dei “Maestri”, i comuni mortali invece, o comuni fotogiornalisti dovrebbero prestare più attenzione più cuore e più rispetto verso ciò che rappresentano con i loro scatti. Il mondo mai come ora ha bisogno di maggior sensibilità, etica e comprensione del dolore altrui, e se non è questa una prerogativa degli editori e dei giornali, sempre in affanno alla ricerca di immagini che arrivino in maniera “carnale” e diretta all’osservatore, come un cazzotto alla bocca dello stomaco, allora spetta al fotografo risolvere l’arcano evitando di presentare in redazione immagini che farebbero gola a tutti i magazine per la loro cruda rappresentazione di una triste realtà, pura merce da mettere sul banco prodotti surrogati, da vendere al grande pubblico affamato del piu’ macabro voyerismo. Ma i fotogiornalisti oggi, che prerogativa hanno nel loro mestiere ed a quanto sono disposti a rinunciare in termini di gloria personale nel rispetto di quanto sopra descritto ?

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