peter hedström: dissecting the social. on the principles of analytical sociology

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1 Lorenzo Ruzzene 128048 Recensione del libro: Peter Hedström: Dissecting the Social. On the Principles of Analytical Sociology. Cambridge: Cambridge University Press, 2005, 188 pp. trad. it.: Anatomia del sociale: sui principi della sociologia analitica Milano: Bruno Mondadori, 2006, 256 pp. Peter Hedström è conosciuto principalmente per aver curato insieme a Richard Swedberg “Social Mechanisms: An Analytical Approach to Social Theory” nel 1998, dove i maggiori scienziati sociali proponevano di colmare il divario presente in sociologia tra teoria e ricerca tramite teorie a medio raggio costruite partendo dai meccanismi sociali. “Dissecting the Social. On the Principles of Analytical Sociology" è un testo monografico dal taglio diverso, con lintenzione di mostrare lapproccio di riferimento come coerente e traducibile nel campo della ricerca empirica. Nel capitolo 1, intitolato La tradizione analitica in sociologia, troviamo la parte introduttiva del testo. Partendo dalla considerazione che negli ultimi decenni la teoria sociologica si è impegnata in teorizzazioni senza alcun referente empirico, mentre la ricerca si occupa solo di variabili ottenendo così scarsa capacità esplicativa, Hedström si propone di tracciare un percorso tra queste due componenti. La grand theory è poco considerata nel testo, tanto quanto i lavori di quello che definisce «empirismo eclettico». La proposta di Hedström fa capo alla sociologia analitica, che si propone di spiegare processi complessi scomponendoli (dissecting) attentamente, portando in rilievo i componenti costitutivi. Essa opera su problemi tipici della sociologia, utilizzando però spiegazioni provenienti dalla filosofia analitica e dalleconomia behaviorista. Le spiegazioni per i diversi fenomeni devono essere precise, astratte, realistiche e basate sulla teoria dellazione. Le caratteristiche distintive dellapproccio sono la spiegazione, la scomposizione e astrazione, precisione e chiarezza, nonché lazione. La prima è da intendere come la ricerca della risposta al «perché» di un determinato fenomeno, non al «cosa» come avviene per la descrizione. Perché accadono gli eventi, perché qualcosa cambia nel tempo, perché stati o eventi variano

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Recensione del libro: Peter Hedström: Dissecting the Social. On the Principles of Analytical Sociology. Cambridge: Cambridge University Press, 2005, 188 pp. trad. it.: Anatomia del sociale: sui principi della sociologia analitica Milano: Bruno Mondadori, 2006, 256 pp.

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Lorenzo Ruzzene 128048

Recensione del libro:

Peter Hedström: Dissecting the Social. On the Principles of Analytical Sociology. Cambridge: Cambridge University Press, 2005, 188 pp.

trad. it.: Anatomia del sociale: sui principi della sociologia analitica Milano: Bruno Mondadori, 2006, 256 pp.

Peter Hedström è conosciuto principalmente per aver curato insieme a Richard

Swedberg “Social Mechanisms: An Analytical Approach to Social Theory” nel 1998, dove i maggiori scienziati sociali proponevano di colmare il divario presente in sociologia tra teoria e ricerca tramite teorie a medio raggio costruite partendo dai meccanismi sociali. “Dissecting the Social. On the Principles of Analytical Sociology" è un testo monografico dal taglio diverso, con l’intenzione di mostrare l’approccio di riferimento come coerente e traducibile nel campo della ricerca empirica.

Nel capitolo 1, intitolato La tradizione analitica in sociologia, troviamo la parte

introduttiva del testo. Partendo dalla considerazione che negli ultimi decenni la teoria sociologica si è impegnata in teorizzazioni senza alcun referente empirico, mentre la ricerca si occupa solo di variabili ottenendo così scarsa capacità esplicativa, Hedström si propone di tracciare un percorso tra queste due componenti. La grand theory è poco considerata nel testo, tanto quanto i lavori di quello che definisce «empirismo eclettico».

La proposta di Hedström fa capo alla sociologia analitica, che si propone di

spiegare processi complessi scomponendoli (dissecting) attentamente, portando in rilievo i componenti costitutivi. Essa opera su problemi tipici della sociologia, utilizzando però spiegazioni provenienti dalla filosofia analitica e dall’economia behaviorista.

Le spiegazioni per i diversi fenomeni devono essere precise, astratte, realistiche e basate sulla teoria dell’azione. Le caratteristiche distintive dell’approccio sono la spiegazione, la scomposizione e astrazione, precisione e chiarezza, nonché l’azione.

La prima è da intendere come la ricerca della risposta al «perché» di un determinato fenomeno, non al «cosa» come avviene per la descrizione. Perché accadono gli eventi, perché qualcosa cambia nel tempo, perché stati o eventi variano

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insieme? Lo scopo del libro è quello di descrivere e discutere una strategia esplicativa, non quella tipica della spiegazione statistica, ma una strategia basata sui meccanismi. Ovvero si spiega un fenomeno riferendosi a una costellazione di entità e attività, tipicamente gli attori e le loro azioni, che sono legate le une alle altre, in una maniera tale che regolarmente generano il tipo di fenomeno che cerchiamo di spiegare.

Con scomposizione e astrazione l’autore intende il decomporre la totalità complessa in entità e attività costitutive, e il portare in rilievo gli elementi essenziali. Si tratta di due attività che vanno insieme. Astratto non vuol dire fittizio (non risponderebbero in maniera convincente alla domanda “perché osserviamo quello che osserviamo”), ma nel senso di Parsons in La struttura dell’azione sociale, ovvero il «realismo analitico».

La precisione e la chiarezza stanno a significare che deve essere chiaro quello che una teoria o un teorico sostiene, dato che dovrebbe far luce, non rendere più oscuro. Hedström porta ad esempio la spiegazione del concetto di habitus di Bourdieu, poco chiara e dove è difficile essere sicuri di aver interpretato correttamente ciò che intendeva esprimere con quella definizione. Inoltre bisogna considerare che piccole variazioni possono generare risultati diversi, dunque serve chiarezza, precisione e distinzioni «a grana fine», in quanto fondamentali.

L’ultima caratteristica distintiva dell’approccio è l’azione, incentrata dunque sull’attore; non si tratta di un approccio teso all’individualismo metodologico sfrenato, ma a un “individualismo strutturale” (riprendendo la definizione di Udehn). Ciò che interessa è l’azione dotata di significato, analizzando perché gli attori fanno quello che fanno, non tanto però il comportamento degli individui singoli, quanto piuttosto il risultato voluto o non voluto a livello collettivo. Per livello collettivo Hedström intende le “proprietà collettive” che in quanto tali non sono ascrivibili a nessun individuo (quali ad

esempio le azioni tipiche, i desideri e le credenze diffuse collettivamente, le norme le regole informali, e così via).

La tradizione analitica in sociologia ha per Hedström come riferimenti Alexis de Tocqueville, Max Weber, il primo Talcott Parsons e Robert K. Merton. Tra i contemporanei figurano: Jon Elster, al quale si deve la fondazione filosofica e lo studio del nesso tra l’azione, le norme sociali e le emozioni offrendo spiegazioni basate sulla teoria dell’azione in quanto realista analitico, Raymond Boudon, interessato ai pericoli dello strumentalismo e alla teoria dell’azione similmente ad Elster, dialogando però con i classici della sociologia e generando la nota formula M=MmSM’; Thomas Schelling, il

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quale ha lavorato sul nesso micro-macro, ossia sugli effetti (anche inattesi) che gli individui generano interagendo tra loro; infine James Coleman, noto e riportato nel testo per il suo studio con Katz e Menzel sulla diffusione dei farmaci, la celebre e più recente “Coleman Boat” e per essere uno dei pochi a condurre vere e proprie ricerche empiriche.

Nel capitolo 2 Hedström spiega perché attuare la spiegazione per meccanismi, ed è perciò il nucleo del testo in quanto gli altri capitoli fanno riferimento ad esso, il quale mostra le conseguenze che un approccio basato sui meccanismi ha per una teoria sociologica esplicita.

Nel capitolo 3 l’autore mette in rilievo che l’azione ha un ruolo esplicativo fondamentale; essa viene spiegata in termini di desideri, credenze e opportunità, formando la teoria DBO, la quale assume che le azioni e il comportamento degli attori possano influenzare l’azione di altri attori. Il passo successivo e fondamentale è l’esplicazione dell’interazione, in quanto le azioni non possono essere spiegate se non relate a quelle degli altri attori. Infine, è presente una critica della teoria della scelta razionale, considerata elegante e predittiva nei suoi modelli, basati tuttavia via su falsi assunti.

Il capitolo 4 tratta del modo in cui gli individui interagendo generano degli effetti e contiene la critica a quanti ritengono che ci siano strati indipendenti tra loro basati su differenti livelli ontologici. La parte più cospicua è tuttavia dedicata all’applicazione della teoria DBO tramite una simulazione ad agenti, che dimostra l’importanza della struttura.

Il capitolo 5 presenta le differenti tradizioni di ricerca empirica e la critica a buona parte delle ricerche condotte oggi. Questo in quanto per Hedström sono solo analisi statistiche che riassumono particolari relazioni trovate nei dati. È preferibile invece l’utilizzo di modelli dotati di significato dei meccanismi che si credono all’opera o meno.

Nel capitolo 6 lo scopo è quello di testare e calibrare empiricamente la spiegazione basata su meccanismi, fornendo un’analisi della disoccupazione giovanile a Stoccolma negli anni ’90. Hedström mostra come utilizzare l’analisi statistica per «ingranaggi» e poi suggerisce un modello di simulazione in base ai risultati; questo consente la possibilità di derivare le implicazioni a livello sociale dei meccanismi, ovvero di compiere il percorso da micro a macro.

Il capitolo 7 è la parte conclusiva, dove è presente un sommario degli argomenti presentati nel testo e una veloce esposizione di quelle che per Hedström saranno le prossime priorità della sociologia analitica.

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Analizziamo adesso in dettaglio il contenuto dei capitoli del testo. Il capitolo 2, intitolato Meccanismi sociali e teoria esplicativa pone le basi dello

sviluppo dell’intero testo. In esso Hedström chiarisce che cosa intende per «teoria» (la sociologia è una disciplina frammentata, ci sono diversi modi di concepire il termine) e

«spiegazione» in questo testo. In quest’ultimo caso, la letteratura filosofica ci permette di capire la differenza tra descrizione e spiegazione, e tra spiegazioni adeguate ed inadeguate. Egli esplicita inoltre le ragioni dell’approccio basato su meccanismi.

La sociologia è dotata di una pluralità di approcci. Domandandosi quale deve essere l’obiettivo della disciplina, Hedström non ritiene che esso debba significare dare voce ai sentimenti nascosti della società, descrivere trend e condizioni o porsi una finalità normativa. Per Hedström l’obiettivo della sociologia consiste invece nello «spiegare». Non si tratta di una semplice descrizione, per quanto le due componenti spesso siano compresenti. La spiegazione non è ottenibile tramite tipologie, che potranno anche essere eleganti e semplificatorie, ma in realtà nulla ci dicono in più dei fenomeni che siamo interessati a studiare.

Esistono tre tipi di spiegazioni: nomologiche, statistiche, basate sui meccanismi. Nel primo caso, sussumendo una regola generale, il fattore proposto deve esibire una relazione nomologica con l’evento da spiegare. Tramite alcuni esempi e il supporto di diversi testi filosofici, Hedström critica Blau in quanto la sua teoria osserva la presenza di black box. In sostanza il modello nomologico-deduttivo di Hempel non è applicabile, in quanto non esistono le leggi social che presuppone, legittima spiegazioni superficiali e lascia poco spazio all’azione e le spiegazioni intenzionali.

Il tipo di spiegazione statistica si pone come obiettivo quello di individuare, ovviamente, una relazione statistica, e il fattore proposto deve essere statisticamente

pertinente per l’evento da spiegare. Si tratta di un approccio induttivo che non presuppone teoria: quando abbiamo individuato i fattori che portano a differenze nella probabilità dell’evento che vogliamo spiegare, si procede ad una divisione in categorie, fino a che la differenza non sparisce. Questo è sufficiente per avere una (parziale) spiegazione. Hedström non nega sin da ora l’utilità di questo approccio, ma evidenzia il rischio della costruzione di artefatti, piuttosto che la scoperta di fatti, nel caso in cui gli assunti siano erronei. Inoltre la causalità che si vuole rilevare è spiegabile in diversi modi. Resta un approccio utile per testare una spiegazione, ma non è una spiegazione.

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La spiegazione basata su meccanismi invece ha come principio la specificazione di un meccanismo sociale e come fattori chiave pone entità e attività adeguate a livello dell’azione sociale e la specificazione delle loro interdipendenze. Ci sono varie definizioni di quello che si intende per questo tipo di spiegazioni (tra cui Hedström e Swedberg, Elster e Stinchombe). Ciò che li accomuna è lo sforzo di rendere intelleggibili

le regolarità osservate al fine di spiegare come esse emergono, senza la presenza di black box. Ogni disciplina ha le sue “soglie d’arresto”, il regresso all’infinito che viene imputato dai critici non costituisce un problema (si sposta solamente di un livello la black box). Diverse combinazioni di attori portano a risultati diversi e la struttura ha una rilevanza fondamentale (come nelle scienze biologiche). Tutto questo porta a produrre spiegazioni più precise e intelleggibili, e la scomparsa delle sociologie specialistiche. La causazione risulta più certa, non solo una semplice correlazione. La spiegazione è infatti basata sulla teoria dell’azione, dove se avessimo la possibilità di schiacciare il tasto «pause» noteremmo quanto la causalità sia da attribuire all’attore; tra gli altri vantaggi Hedström segnala la maggiore comprensione e intendimento, e la riduzione dell’errore nelle inferenze causali.

Per quanto riguarda un raffronto tra questi tre tipi di spiegazione, si nota che i primi due tipi sarebbero perfettamente opportuni se il mondo fosse deterministico. Le spiegazioni basate su meccanismi vanno viste come proposizioni su particolari aspetti della totalità causale, senza la pretesa che la tendenza in questione sia la dominante. Interessa piuttosto capire la probabilità che differenti risultati emergano a dovute condizioni.

In sintesi, Hedström riscontra il bisogno di far valere la spiegazione basata sui meccanismi, anche perché l’impasse tra quella nomologica e statistica ha danneggiato fortemente la sociologia. Giunge quindi il momento di definire nettamente cosa intende

l’autore per meccanismo sociale: “è una costellazione di entità e attività organizzate in modo tale da produrre regolarmente un particolare tipo di esito. Noi spieghiamo un fenomeno sociale osservato rinviandolo al meccanismo attraverso cui tali fenomeni sono regolarmente prodotti; questo significa porre attenzione ai fenomeni sociali cui attori in interazione possono probabilmente dar luogo”. Resta il fatto che è necessario ricorrere alla statistica per controllare empiricamente le nostre teorie.

Il capitolo 3, intitolato Azione e interazione, inizia ad approfondire quella che per

Hedström è per l’appunto la teoria dell’azione e dell’interazione. Il riferimento

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all’individualismo metodologico è chiaro ed esplicito, richiamando la metodologia weberiana e il suo invito a non analizzare i fenomeni aggregati come tali. L’autore pone tre condizioni per questa teoria: deve essere psicologicamente e sociologicamente plausibile (evitare l’uso di miti e descrizioni immaginarie, tenendo conto anche della struttura), il più semplice possibile (il passaggio al livello macro sarà più verosimilmente

percorribile in questo caso) e deve spiegare l’azione in termini intenzionali dotati di significato. Su quest’ultimo punto bisogna precisare che Hedström non nega che esistano conseguenze non intenzionali. Tuttavia per il suo scopo è necessario che l’atto sia comprensibile (ecco un altro richiamo a Weber) per arrivare a definire lo stato futuro che gli attori volevano ottenere. È importante non lasciarsi tentare dall’unilateralità presente sia in economia che in sociologia, ma nemmeno dal pluralismo assoluto, che è accettabile solo se l’approccio è in via di definizione. Un’ultima precisazione prima di procedere nell’analisi spetta al tipo d’attore assunto in questa teoria dell’azione: si tratta di un attore ideal-tipico, che non esiste in realtà; le motivazioni che lo muovono non sempre sono uguali alla realtà, anche se sono comunque tipiche (nel pieno del principio del realismo analitico).

La teoria DBO di Hedström, nella spiegazione della quale non mancano certo i riferimenti ad altri autori, costituisce la microfondazione della teoria sociologica che attraversa l’intero testo. I desideri (D), le credenze (B) e le opportunità (O) sono le cause prossime dell’azione degli attori. Dato che come si è detto Hedström è interessato a ciò che gli individui fanno intenzionalmente, un individuo agisce se e solo se la sua azione è spiegabile in modo adeguato dai suoi desideri, dalle sue credenze e dalle sue opportunità. Vediamo cosa intende l’autore come questi termini. I desideri riguardano un’aspirazione o un volere, le credenze concernono una proposizione sul mondo ritenuta vera, e le opportunità sono un “menù di azione” a disposizione

dell’attore, indipendente dalle credenze. Le credenze e i desideri fanno quindi capo agli stati mentali che sono causa dell’azione in quanto ne forniscono le ragioni. Soprattutto possiamo analizzare gli individui tramite gli stati mentali che li portano ad agire in tal modo. La costellazione DBO è la causa dell’azione alla luce di cui questa appare ragionevole. I meccanismi dell’azione variano in base a come queste entità sono legate l’una all’altra. Connettendole tra loro si possono ottenere tre modalità molto importanti per le scienze sociali: le preferenze adattative («faccio quello che credo di poter fare»), le preferenze controadattative («voglio solo quello che non posso») e il wishful thinking

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(«credo solo a quello che desidero»). Ciò non toglie che anche la teoria DBO abbia delle lacune, in fattispecie non riesce a rapportarsi con la debolezza della volontà.

Questo però non può che essere un primo punto da cui partire. Quello d’arrivo è infatti analizzare e scomporre i vari meccanismi con cui l’azione di un attore può influenzare l’azione degli altri. Ricordando che una teoria non va valutata per la sua

eleganza o attrazione che riesce ad ottenere, ma alla luce di quanto e di cosa riesce a portare, Hedström mette in risalto come la DBO possa essere in grado di analizzare la situazione sociale in cui si trova l’attore. Si tratta di comprendere come gli atteggiamenti degli individui e le credenze siano modellate nell’interazione con altri, ad esempio quali sono i meccanismi che portano degli individui a coalizzarsi a “p”, piuttosto che a “q”. In questo caso si ritrovano tre tipi di interazione: mediate dalle credenze (Ai bj Aj), dai desideri (Ai dj Aj) e dalle opportunità (Ai dj Aj). Anche se solo in nota, Hedström ritiene il contributo della teoria dei giochi ininfluente al suo lavoro, in quanto l’interazione non strategica sarebbe più frequente nella vita quotidiana ed esiste comunque molta letteratura nel campo. Sollevo alcuni dubbi su questa omission, anche perché in altri scritti più recenti Hedström non ne nasconde l’importanza. Infine l’autore precisa, a scanso di equivoci, che i meccanismi d’interazione non sono da intendersi solo tra individui, ma anche nei confronti di un altro generalizzato o di gruppi di individui.

È importante evitare la confusione nell’interpretazione delle uniformità comportamentali, non tutte ascrivibili alle interazioni sociali. Vi sono infatti anche effetti ambientali (il noto esempio di Weber riguardo all’apertura degli ombrelli), e gli effetti di selezione (quando degli individui si trovano casualmente nello stesso posto). Solo gli effetti dell’interazione sociale sono suddivisibili secondo lo schema DBO.

Passiamo ad una veloce scorsa dei tre tipi di interazioni. Quelle mediate dalle credenze vedono ad esempio il fenomeno del rallentamento reciproco sulle strade, il

teorema di Thomas e la profezia che si autoadempie di Merton. Ci sono anche fenomeni di imitazione razionale, suscettibili al numero di persone che agiscono in un determinato modo («avranno una buona ragione per…»), di coordinazione tra gli individui (e anche in questo caso non capisco perché la teoria dei giochi non possa fornire qualche contributo), e la dissonanza cognitiva, causata dalle credenze in dissonanza che portano all’emergere di fenomeni di persuasione. Le interazioni mediate dai desideri, una volta operata la distinzione tra desideri primari e desideri secondari (un individuo è davvero altruista solo se essere gentile con gli altri è un suo desiderio primario), vedono vari tipi di meccanismi: feedback positivi e negativi, riduzione della

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dissonanza, cosa determina la “normalità”, l’accettazione da parte di una comunità, il conformismo (comportarsi come chi si vorrebbe diventare), o più semplicemente fare come gli altri (anche qualcosa a cui non crediamo) perché ci aiuta ad arrivare dove vorremmo. Le interazioni basate dalle opportunità trovano un ottimo riscontro nei lavori di White, che ha studiato la mobilità sociale nelle organizzazioni, i posti vacanti, o

comunque condizioni di interdipendenza. Anche questi meccanismi d’interazione possono essere combinati, portando alla

spiegazione di fenomeni apparentemente distanti come l’andamento del tasso di criminalità (influenzato da quanti altri compiono atti criminali e dunque al rischio di essere scoperti), il mercato del lavoro e la secolarizzazione post-rivoluzione in Francia descritta da Tocqueville. Hedström propone uno schema di queste diverse concatenazioni, e si nota come connessioni diverse degli stessi elementi portino a diversi meccanismi anche molto diversi tra loro (sono tutti analizzati nel capitolo in questione).

Il capitolo si conclude con una lunga argomentazione contro lo strumentalismo della teoria della scelta razionale (RCT). Essa ha sempre in qualche modo contribuito alla tradizione sociologica, ma è dagli anni ’80 che ha acquisito notevole importanza e riconoscimento. Hedström non nega di esservi stato inizialmente favorevole, sebbene ora sia poco convinto riguardo allo strumentalismo. Tutto sommato la teoria DBO ha tratti simili alla RCT, anche se la prima non afferma che gli individui agiscono razionalmente, ma solo ragionevolmente e intenzionalmente. La spiegazione nella RCT assume che gli attori scelgono il corso d’azione ottimale rispetto alle loro preferenze e desideri. Nella realtà è difficile conoscere le alternative disponibili. Le credenze devono essere fondate sulle informazioni disponibili, e bisogna conoscere ex ante la quantità ottimale di informazione disponibile. La situazione si complica notevolmente in un

quadro teorico dove le interazioni con gli altri individui influiscono come nel DBO. Hedström passa successivamente a un passaggio di fondamentale importanza nei riguardi del realismo analitico, ma che viene esplicitato solo in questa sezione di critica alla RCT. Partendo da una citazione di Friedman (del 1953), il quale sostiene che le ipotesi devono essere false per forza, l’autore spiega semplicemente che dato un insieme A = {a,b,c,d} che costituisce il totale complesso di un fenomeno, l’ipotesi A = {e,f} è effettivamente falsa, mentre A = {a,d} è solamente parziale (descrittivamente incompleta). Si tratta infatti di una teoria che si focalizza su aspetti limitati della totalità complessa. Tuttavia Hedström ammette che oramai Friedman non ha più molti seguaci.

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Ciò che viene asserito nel dibattito contemporaneo è che è meglio avere modelli parsimoniosi con chiare soluzioni analitiche, cosicché si possano produrre modelli semplici ed eleganti. Piuttosto calzante il paragone con l’uomo che cerca il suo mazzo di chiavi solo dove può vedere e non dove sa che è finito. Lo stesso avviene anche nella sociologia: Coleman, nel suo studio dove associa il rapporto tra studenti e

insegnanti con quello tra compratori e venditori è fondato su premesse chiaramente false. Può essere frustrante, dato che difficilmente in sociologia si hanno teorie precise e matematicamente eleganti. Ma non per questo bisogna creare un mondo fittizio. È necessario che gli assunti teorici siano sufficientemente validi nella realtà, come ad esempio nella profezia che si autoadempie di Merton: quello che ci dice riguardo al meccanismo ci basta per applicarla dove più opportuno. Si tratta semplicemente di un pattern che è probabile osservare, processi plausibili tramite cui il fenomeno è emerso. Hedström chiude il capitolo con una citazione di Tukey: “meglio una soluzione approssimativa a una domanda giusta, di una risposta esatta alla domanda sbagliata”. Tutto sommato però la teoria DBO è semplicemente una versione più ampia della scelta razionale, dato che comunque la prima assume comunque (anche se non detto esplicitamente da Hedström) la massimizzazione dell’utilità. Inoltre la visione che l’autore ha (o che volutamente pone) della scelta razionale è eccessivamente estrema. Nessun economista considera la scelta razionale come fa lui, ma in termini, ad esempio, di bounded rationality. Infine la teoria DBO viene data per ovvia, ma considerato quanta importanza gli assegna, poteva impegnarsi maggiormente nel giustificare questa scelta, che altrimenti rischia di presentarsi simile alla spiegazione nomologica, altro bersaglio polemico del libro.

Il capitolo 4, intitolato Interazione sociale e cambiamento sociale, si concentra al

livello macro, a quello che le azioni possono generare. Si tratta di proprietà collettive non ascrivibili al singolo membro della collettività, come: “azioni, credenze e desideri tipici (perché alcuni pregiudizi razziali sono mutati nel tempo? perché alcune comunità sono più conformiste di altre?); distribuzioni e configurazioni aggregate (perché alcune città sono più interessate dalla segregazione sociale di altre? perché alcune società sono più antiegualitarie di altre?); topologie di reticoli sociali (perché i reticoli sociali hanno maglie più strette in alcune comunità piuttosto che in altre? perché alcuni reticoli sono fortemente agglomerati mentre altri non lo sono?); regole informali o norme sociali (perché le norme di reciprocità sono comuni in alcuni gruppi e non in altri? perché le

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norme del lavoro sono più rigide in alcune società che in altre?)”. Hedström fa esplicito riferimento a Durkheim, Weber e Coleman, Katz e Menzel, intendendoli come prototipi di questo interesse per le proprietà collettive. Gli assunti della spiegazione basata su meccanismi prevedono di aprire la black box che nasconde i meccanismi emergenti di un fenomeno, e tra gli autori citati Durkheim è ovviamente quello che meno si attiene a

questo assunto. Come si è visto, è necessario esaminare l’interazione dinamica fra le azioni

individuali e i macroesiti generati da queste azioni. Le azioni individuali sono ad un livello inferiore dei fenomeni analizzati da Hedström, ma anche i fenomeni sociali sono alla base se sono componenti dei meccanismi dei fenomeni. Il termine “livello” è quindi da assumere relativamente al meccanismo in considerazione.

La ricerca quantitativa tratta gli individui come atomi, estraendoli dalla struttura in cui si trovano. È necessario non farlo, in quanto basta un piccolo cambiamento per produrre rilevanti mutazioni del risultato a livello macro. È tuttavia onestamente difficile studiare come l’interazione tra individui porti all’emergere di un fenomeno sociale, perciò è necessario astrarre, per evitare di pensare che il sociale sia dotato di proprietà emergenti proprie, indipendenti dalle componenti individuali.

Arriviamo dunque alla proposta di Hedström: per lo studio delle configurazioni sociali di desideri, credenze e azioni è possibile svolgere delle simulazioni al computer. La più famosa proposta in tal senso appartiene a Schelling ed è datata 1971. Il sistema che si vuole analizzare si suppone chiuso, anche se ovviamente non significa che in realtà sia così. Tramite una griglia, un numero n di simulazioni e attribuzioni random di caratteristiche ai soggetti, è possibile studiare i pattern emergenti, ovvero l’analisi di quanto visto nel capitolo 3 (teoria DBO, wishful thinking e uva acerba). Non bisogna tuttavia simulare solo le proprietà degli attori, ma anche il modo in cui interagiscono:

Hedström riesce a dimostrare come un piccolo cambiamento nella struttura dell’azione produce fenomeni anche sensibilmente diversi. L’inserimento di un attore casuale nell’interazione degli individui porta ad esempio a differenti soglie e curve di svolgimento dell’azione. Non bisogna dimenticare tuttavia che per quanto svolgere simulazioni sia facile ed appassionante, il modello che si realizza deve essere comunque più semplice della realtà.

Il capitolo termina con la discussione di alcuni capisaldi della disciplina, primo tra tutti il già citato studio di Coleman, Katz e Menzel, ma anche l’applicazione della distinzione tra legami forti e deboli di Granovetter, ma soprattutto la messa in

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discussione di una delle più note teorie dell’azione collettiva. Hedström mostra come grazie alla simulazione sia stato in grado di ottenere un risultato significativo nei riguardi di quanto sostenuto da Olson. Per quest’ultimo infatti gli individui agiscono in organizzazioni di rappresentanza degli interessi o per motivi irrazionali, o per ragioni che non hanno nulla a che vedere con l’interesse pubblico. Questo in quanto l’azione

del singolo non ha alcun impatto sulla fruizione di quel bene. Hedström sostiene invece che in determinate condizioni il particolarismo alimenta l’universalismo: se gli individui sono divisi socialmente, e tendono a fare ciò che i consimili fanno, tendono ad emergere organizzazioni grandi e pervasive. Tramite un grafico è possibile notare che l’azione del singolo ha impatto, se le collettività è divisa in strati distinti. Gli individui che agiscono per primi infatti, se sono consapevoli dell’impronta del loro agire, agiscono sia per interessi propri che collettivi, portando ad aumentare il numero di quanti parteciperanno alla produzione di quel bene.

Gli esperimenti virtuali di laboratorio, che assumono il sistema sociale come chiuso, portano alle seguenti considerazioni: non c’è necessaria proporzionalità fra le dimensioni della causa e quelle dell’effetto; la struttura dell’interazione sociale è in sé di notevole importanza esplicativa per gli effetti sociali emergenti; l’effetto sociale prodotto da una certa azione può essere contingente alla configurazione strutturale in cui l’attore è inserito; i modelli aggregati dicono molto poco sui processi di livello micro da cui essi sono stati determinati.

La relazione tra l’individuale e il sociale non è trasparente e lineare, ma complessa e precaria. Tali considerazioni sono state colte da molti, ma la maggior parte dei sociologi non ne tiene conto (fallacia formale). Per questo astrazione, precisione e distinzioni dettagliate sono fondamentali: piccole alterazioni della struttura d’azione (tra attori e stati mentali) possono avere grande impatto sui fenomeni sociali emergenti.

Bisogna essere in grado di coglierle. Il capitolo 5, intitolato Sui modelli causali, è il primo capitolo che si sposta verso il

campo della ricerca. Il secondo riguardava le teorie della spiegazioni, il terzo le teorie dell’azione, il quarto le teorie che legano le azioni degli individui agli effetti sociali. Ora è arrivato il momento di analizzare la relazione tra teoria e ricerca. Hedström ritiene che la ricerca quantitativa sia necessaria, tutto sommato. Quella qualitativa invece manca di affidabilità e generalizzabilità.

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Per quanto riguarda i modelli causali in sociologia, Hedström ne esamina due: il primo fa capo a Lazarsfeld e Duncan, denominato causazione come dipendenza robusta, il secondo ha come esponenti Neyman e Rubin, ed è denominato causazione come manipolazione delle variabili indipendenti. Quest’ultimo ha risolto diverse problematiche del precedente, anche se i problemi che sono ravvisabili in entrambi i

modelli non sono di tipo statistico, quanto piuttosto a livello sociologico. L’analisi statistica è pratica, la maggior parte del lavoro viene compiuta dalle variabili. È facile dunque farsi trarre in inganno dalle virtù salvifiche della statistica. Molti sostenitori di questo modello usano le teorie per giustificare l’inclusione di certe variabili prese dal dataset, che spesso aveva finalità ben diverse. Illuminante dunque il paragone di Sørensen che vede i modelli di regressione come delle “stazioni di servizio”. La teoria deve avere più importanza, deve essere presa più seriamente, e deve avere assunti verosimili. Proprio ciò che propone il realismo analitico, che, ribadendo, non significa spostarsi nell’irreale ma nel semplificato.

La costruzione di un modello non deve essere interessata al raggiungimento di una buona accuratezza predittiva, in quanto essa è possibile ottenerla anche senza mettere in atto una spiegazione. La ricerca quantitativa è utile per calibrare il modello, non testarlo. La simulazione serve a questo: allo sviluppo di modelli generativi basati su dati empirici che rendano conto dei meccanismi all’opera. Su questo si trovano d’accordo altri grandi esponenti della nostra disciplina, come Coleman, Goldthorpe e Boudon. L’analisi statistica non può costituire una spiegazione di per sé, ma è solo un test su una spiegazione. Perciò, si stimano i parametri dei modelli teoricamente, fondati sulle opportunità degli individui, sui loro stati mentali e sulle loro azioni (incluse le azioni e gli stati mentali degli attori quando interagiscono tra loro).

Il capitolo 6, intitolato Ricerca quantitativa, modelli ad agenti e teorie del sociale, scritto da Hedström insieme a Åberg, tratta del cosiddetto “modello ad agenti empiricamente calibrati” (modello ECA). Il passaggio dal micro al macro, come riconosciuto dallo stesso Coleman e altri studiosi, è sempre stato un problema. Gli agenti che interagiscono reciprocamente determinano vari microeffetti. Ma anche calibrato con dati reali e prende in considerazione elementi del mondo reale rilevati durante l’analisi.

Hedström e Åberg applicano la teoria espressa nel libro alla disoccupazione giovanile di Stoccolma negli anni ’90, tenendo fede a quanto espresso nel testo, e

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dunque concentrandosi sugli effetti dell’interazione sociale. Una lacuna di rilievo è data dal fatto che non sono presenti dati sulle azioni intraprese dai disoccupati per uscire dalla loro condizione. La ricerca quantitativa è effettivamente incorporata nel delineamento del passaggio da micro a macro, e viene messa in atto una simulazione tramite la griglia di prossimità presente nei capitoli precedenti. Un’altra, forse ancor più

grave, lacuna è l’assenza di dati concernenti i desideri e le credenze dei soggetti. È alquanto grave che in un libro dove pone come fondamentale tracciare un sentiero tra teoria e ricerca, il capitolo dedicato alla ricerca manchi di credenze e desideri. Sarà possibile in futuro avere tale tipo di dati? Trovo che sia alquanto difficile riguardo alle credenze. Situazione alquanto deludente se il tentativo era quello di mettere alla prova la teoria DBO. Inoltre: critica pesantemente le indagini campionare, come se dati e informazioni sui reticoli non si possano raccogliere con questionari. Lo hanno fatto gli stessi Coleman, Katz e Menzel che cita di continuo, e adesso esistono tecniche ben più raffinate. Inoltre come vorrebbe raccogliere dati su desideri e credenze, se non chiedendoli ai diretti interessati?

Tuttavia, il risultato finale è quello di un modello ad agenti empiricamente

calibrato per l’analisi della disoccupazione. Dalla simulazione con attori ipotetici, la simulazione passa a trattare le “repliche virtuali degli individui”, distribuiti spazialmente come i reali. Un risultato di un certo rilievo al quale riescono ad arrivare è il mostrare come gli effetti di interazione siano molto simili a quelli dell’educazione.

Concludendo, se una teoria di solito si occupa della società, la ricerca solitamente studia a livello individuale. Il modello ECA integra entrambe le componenti. Infatti, per la spiegazione di un macrofenomeno basata su meccanismi empiricamente verificati, è necessario: “(1) Iniziare con un modello ad agenti stilizzato che svolga la logica del meccanismo che si ritiene in atto. Si simula poi il modello per esaminare la sufficienza generativa, ossia ci si assicura che il modello possa generare il tipo di effetto da spiegare. Se il modello presenta sufficienza generativa, abbiamo una spiegazione per meccanismi dell’effetto sociale, ma la spiegazione non è stata ancora verificata empiricamente. (2) Per una verifica empirica si utilizzano i dati rilevanti per esaminare gli ingranaggi più importanti del processo causale, controllando così che il meccanismo, funzioni effettivamente com’è stato postulato. (3) Si esamina poi la sufficienza generativa quando il modello ad agenti è stato modificato alla luce di (2) e dopo che siano state controllate eventuali variabili intervenienti.”

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Il capitolo 7 è dedicato alla conclusione del testo, e una cospicua parte di esso

contiene un sommario dei capitoli precedenti. Nelle ultime pagine però, Hedström delinea le prossime priorità della sociologia analitica. È particolarmente fiducioso che il metodo dell’economia sperimentale (ricerca sperimentale di laboratorio) dovrà prendere

il posto di gran parte delle ricerche sociologiche, e un esempio è, nuovamente, il problema del free-rider, già incontrato nel testo. In questo caso l’autore cita diversi lavori i quali spiegano la scarsa numerosità di tali soggetti con il sopravvenire di emozioni negative latenti che prevengono tale comportamento. Nelle ultime due pagine si sposta ancora più alle fondamenta della disciplina, enunciando la sostanziale inutilità dei concetti di classe, cultura e istituzione, utili al massimo come «proxy» se proprio non si dispone di dati migliori. Uno dei problemi maggiori di questi concetti (molto probabilmente presi ad esempio in quanto più utilizzati) secondo Hedström è la mancanza di un’unica definizione, di un accordo tra gli studiosi a questo riguardo.

Il testo termina con un ammonimento a quanti in questi ultimi anni dopo aver modificato il proprio vocabolario ritengono di essere studiosi dei processi basati su meccanismi, senza però seguirne i principi.

A mio avviso, visto nel complesso, si tratta di un libro importante, anche tenendo

conto che un testo da solo non possa risolvere tutti i problemi di un approccio, in special modo in così poche pagine. Sarebbe stato comunque il caso di precisare più esplicitamente che e si tratta di un nuovo passo, non di un traguardo raggiunto. Non esistono molti che cercano di integrare teoria e ricerca; un testo ben scritto, anche se sembra troppo pensato per chi ha già familiarità nel campo, come una sorta di «manifesto» della strategia esplicativa basata sui meccanismi. Trovo che come

introduzione alla sociologia analitica resti migliore il celebre “Come funziona la società” di Elster, oramai prossimo ai vent’anni. “Dissecting the Social” ha comunque meritatamente vinto il premio James Coleman come miglior libro nella tradizione della scelta razionale. Tra gli altri meriti, è da rilevare il risultato della simulazione al computer, che permette di dimostrare come piccoli cambiamenti nella struttura portino a differenze anche sensibili nei risultati. Infine è mirabile la proposta di riduzione della frammentazione della disciplina, e le conseguenze benefiche che ciò dovrebbe portare anche ai percorsi universitari e a quanti si apprestano a terminarli.