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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BRESCIA ‐ FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA
CENTRO DI STUDIO E RICERCA QUALITY AND TECHNOLOGY ASSESSMENT, GOVERNANCE AND COMMUNICATION STRATEGIES IN HEALTH SYSTEMS 1
CENTRO DI STUDIO E DI RICERCA
QUALITY AND TECHNOLOGY ASSESSMENT, GOVERNANCE
AND COMMUNICATION STRATEGIES IN HEALTH SYSTEMS
L’OSPEDALE CIVILE DI SAN GIOVANNI BIANCO:
modelli organizzativi per l’integrazione con il suo territorio
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Il contesto territoriale : la Valle Brembana
Per meglio comprendere la realtà socio-territoriale cui fa riferimento l’ospedale di San Giovanni
Bianco, occorre analizzare il contesto geografico nel quale tale
opera assistenziale prende vita: la Valle Brembana.
La Valle Brembana si trova in provincia di Bergamo e deve il suo
nome al fiume Brembo dal quale è attraversata. Chiusa a
settentrione dai contrafforti delle Alpi Orobie, la Valle Brembana si
stende per oltre 60 chilometri dalle sorgenti del Brembo, alle falde
del Pizzo del Diavolo (m. 2.914), fino allo sbocco nella pianura nei
pressi di Villa d'Almè (m. 300). Nella valle principale del Brembo
confluiscono poi le valli laterali come la Valle di Olmo, la Val
Taleggio, la Val Brembilla e la Val Seriana.
Le difficoltà frapposte dalla conformazione orografica hanno sempre costituito un notevole
ostacolo al collegamento con la pianura e con le confinanti Valle Seriana, Valtellina e Valsassina.
La Valle Brembana costituisce pertanto un'entità ben distinta non solo sul piano fisico e territoriale,
ma anche su quello storico e culturale.
Paesaggisticamente, la Valle si presenta con aspetti impervi, mutevoli e disparati che dipendono da
variazioni altimetriche ma anche dal differente livello di urbanizzazione. I connotati ambientali del
fondo-valle sono caratterizzati da un'urbanizzazione molto accentuata e diffusa e molte aree
presentano effetti di degradazione ambientale e di riduzione dell'attività agricola. Superato il fondo
valle ci si immerge nel paesaggio pre-alpino, dove si sottolinea la presenza di borghi tradizionali e
di paesaggi incontaminati.
Si entra in Valle Brembana non appena superata Villa d’Almè, la strada compie una brusca virata a
destra, costeggia la Botta di Sedrina e, dopo un paio di chilometri di curve raggiunge Sedrina,
primo comune della Valle situato a circa 15 Km da Bergamo. Poi la strada, la vecchia provinciale
SS470 che ricalca il tracciato della cinquecentesca strada “Priula”, mentre da una parte taglia verso
l’industriosissima Brembilla, dall’altra prosegue lungo l’asse principale della valle entrando nella
vasta e verde conca di Zogno che, con i suoi quasi diecimila abitanti, le sue industrie ed i suoi uffici,
è il capoluogo della valle.
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Proseguendo il viaggio si raggiunge la più nota stazione di tutta la zona, San Pellegrino Terme, con
i suoi alberghi uno dei punti fermi del turismo provinciale e regionale, situato a circa 24 Km da
Bergamo, collegato a valle solo con la strada provinciale che, dal dicembre 2003, non attraversa più
il centro abitato, essendo state inaugurate due gallerie che permettono uno scorrimento più veloce
del traffico. Dopo circa 5 km, proseguendo sempre sulla provinciale, incontriamo, pressoché a
centro valle, San Giovanni Bianco, il paese dei ponti (ne ha ben 7, alcuni di antica costruzione), e
Camerata Cornello, patria dei Tasso.
Poi si punta decisamente verso l’Alta Valle che nasce a Lenna, piccolo borgo sempre più centro di
produzione industriale ed artigianale, e Piazza Brembana, cittadina posta all'incrocio dei due rami
del Brembo (ramo di Mezzoldo e ramo di Val Fondra) a livello della quale la Valle si apre a
ventaglio:
♦ A destra Valnegra e la Valle di Roncobello, la perla verde della Valle; più oltre Isola di Fondra,
Trabuchello e quindi Branzi da cui si dipartono altri due rami secondari, quello di Carona (base
di partenza per i leggendari Laghi Gemelli e per la zona alpinistica del Rifugio Calvi) e quella di
Valleve e Foppolo, centri sciistici di prima importanza meta ricercata di sciatori provenienti da
tutta Europa.
♦ A sinistra Olmo al Brembo, centro di smistamento per altre valli: la Valle Stabina (con Cassiglio,
Ornica e Valtorta,), la Valle di Averara con Averara, Santa Brigida e Cusio; la Valle di Mezzoldo
con Piazzolo, Piazzatorre (la cosiddetta "vecchia signora" del turismo brembano, stazione
sciistica di primordine ben conosciuta e frequentata da decenni) e Mezzoldo che fa capolinea della
strada Priula, che è oggi il punto di partenza della bella strada panoramica che sale alla Cà San
Marco e all’omonimo passo da dove scende verso Morbegno (Valtellina).
Le strade La viabilità della Valle Brembana , com’è noto , è sofferta, a causa del
dell’intensità degli insediamenti produttivi e del traffico turistico e
sportivo , nonostante gli interventi provinciali e comunali siano stati
molteplici negli anni e abbiano interessato sia l’arteria principale
(diventata “Statale 470” nel 1967) sia le strade delle valli periferiche e
laterali (di competenza provinciale) sia quelle interne dei vari comuni,
lunghe, costose e di difficile gestione, che raggiungono le
innumerevoli frazioni e contrade, anche le più lontane.
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Certamente la dinamica stradale valligiana subì il contraccolpo della inevitabile soppressione della
ferrovia avvenuta nel 1966. Quest’ultima era una ferrovia elettrica a corrente alternata aperta nei
primi anni del novecento che collegava la città di Bergamo con Piazza Brembana. Nata come
ferrovia turistica, la FVB alimentava anche un cospicuo traffico merci attraverso i numerosi
raccordi che la collegavano alle industrie della zona. Alla fine degli anni cinquanta a fianco del
servizio ferroviario vennero istituiti servizi automobilistici paralleli alla ferrovia. Ormai fatiscente
negli impianti e obsoleta nei mezzi di trazione, la ferrovia, venne chiusa il 17 marzo 1966 e
sostituita integralmente da un servizio di autobus gestito dalla società SAB, erede delle due società
ferroviarie delle valli bergamasche.
Da allora, a causa dell’esponenziale incremento del numero di veicoli trafficanti, molteplici furono
gli interventi volti a migliorare la viabilità dell’unica angusta strada provinciale; i principali
riguardarono il fondo valle, con la costruzione del ponte di Zogno (1978) e di due viadotti (uno dei
quali scavalca interamente Sedrina) (1981). Recentemente (2003) a San Pellegrino sono state
inaugurate due gallerie che permettono uno scorrimento più veloce del traffico.
È quindi rilevante l’impatto di tale situazione di viabilità sul servizio di assistenza primaria al
cittadino: solo con l’uso dell’elicottero è infatti possibile ovviare alle spesso enormi difficoltà viarie
della valle e garantire la tempestività del soccorso e del trasporto in ospedale.
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La storia dell’Ospedale “Utilis est medicina suoque tempore venit”(giovano le cure se prestate per tempo)
Il caso della valle Brembana, che, come descritto, si snoda per una sessantina di chilometri da Villa
D’Almè (situato al fondo valle) a Foppolo (il comune più a nord) è emblematico: disporre il più
vicino possibile di una struttura destinata all’assistenza sanitaria degli ammalati è stato desiderio
condiviso dalle comunità valligiane fin da tempi molto lontani.
La prima notizia documentata sull’assistenza sanitaria a San Giovanni Bianco risale alla seconda
metà del secolo XVII e si tratta di una convenzione stipulata nel 1666 fra alcuni maggiorenti di
questo comune per una condotta medica. È abbastanza verosimile che, nel convento dei padri
cappuccini, costruito nel 1646 su di un terreno oggi adiacente l’ospedale, fosse aperta un’infermeria
per l’intera popolazione del borgo e delle contrade vicine.
Nel XIX secolo venne aperto, proprio nei locali dell’antico convento dei Cappuccini e per
disposizione del Governo del Regno Lombardo-Veneto, un nosocomio per la cura degli ammalati di
tifo petecchiale, epidemia che, nel 1816, afflisse anche la popolazione valligiana.
Attorno al 1911, ancora negli stessi ambienti e , precisamente, nella chiesa ora dedicata a San
Rocco, ebbe sede il dispensario per la prevenzione e la cura del colera.
Negli anni del ventennio fu più volte invocata, dopo averne dimostrato e rimarcato la necessità,
l’istituzione di un ospedale finanziato dalla Cassa di Risparmio e da costruirsi sul territorio del
Mandamento di Piazza Brembana; gli anni del fascismo passarono senza alcun cambiamento
sostanziale, dopo di che, a liberazione avvenuta, il problema dell’ospedale ritornò prepotentemente
all’ordine del giorno.
Il proposito di dare soluzione concreta e decisiva all’esigenza, da tempo avvertita dalle popolazioni
della media e dell’alta valle Brembana, di disporre di un proprio ospedale, sia pur di limitate
capacità, venne formalizzato dalle autorità competenti solo nell’immediato dopoguerra (1945).
Ma dove costruirlo? Fu subito scontro tra Zogno e San Giovanni Bianco perché la candidatura di
Piazza era bocciata a priori per la scarsità della popolazione dell’alta valle e per motivi economici:
ebbe la meglio, anche perché posto al centro della comunità, San Giovanni Bianco.
Nonostante in un primo momento la proposta del nuovo ospedale non incontrasse favori a causa del
disinteresse dimostrato dalla maggior parte delle amministrazioni locali valligiane, col tempo l’idea
prese corpo così che nel 1953 il consiglio comunale di San Giovanni Bianco ne deliberò la necessità
ed indicò l’area su cui edificare l’importante opera dell’Alta Valle.
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Questo era un fondo prativo, sito sulla sponda sinistra del Brembo, ex proprietà del convento di San
Francesco dei padri Cappuccini che l’avevano prevalentemente adibito a brolo fino al 1798, anno
in cui furono sfrattati dall’editto napoleonico, che soppresse molti enti religiosi.
Il progetto redatto dall’ing. Primo Zefinetti Colombo di Bergamo venne approvato nello stesso anno
con previsione di spesa per 90 milioni. L’onere si coprirà in base alle determinazioni consiliari,
mediante un mutuo di pari importo, da contrarsi con la Cassa Depositi e Prestiti.
Si richiese per l’ammortamento l’ammissione ai benefici della legge 3 agosto 1949 n. 589
(contributo statale pari al 4% per la durata di 35 anni). In quello stesso atto deliberativo veniva
ribadito come le Superiori Autorità Provinciali Sanitarie riconoscevano la necessità di un Ospedale
in questo comune, posto alla confluenza di ben 23 comuni, con una popolazione di circa 25000
abitanti, che si eleva a 40000 nella stagione della villeggiatura.
Una volta ricevuto il benestare da parte del Ministero dei Lavori Pubblici, nel marzo 1956 il
progetto ricevette la formale approvazione; esso si articolava in un progetto esecutivo generale
(costo presunto 200 milioni di lire) e in un progetto stralcio (primo lotto, costo presunto 100 milioni
di lire). Fu una decisione sicuramente coraggiosa. Infatti, nonostante il Ministero dei Lavori
Pubblici concedesse la sovvenzione statale del 4% relativamente al primo lotto di opere, l’onere che
il comune di San Giovanni Bianco s’apprestava ad assumere era, per quei tempi, davvero ingente:
significava per la sola attuazione delle opere murarie e degli impianti, contrarre un mutuo di 200
milioni.
Fu per questi motivi che la successiva amministrazione comunale cercò di coinvolgere nel progetto
l’Ospedale Maggiore di Bergamo. I contatti ebbero un primo esito positivo, come ci testimoniano i
documenti originali: ”..il consiglio ospitaliero, compiacendosi della iniziativa assunta da codesto
comune per la costruzione in San Giovanni Bianco di un ospedale di originari 70 letti assicura che,
ad opera compiuta, la gestione di tale Ospedale sarà assunta dall’Ospedale Maggiore di Bergamo.
Più precisamente il fabbricato passerà di proprietà dell’Ospedale di Bergamo, il quale si assumerà
l’onere dell’ammortamento del mutuo che, con il concorso dello Stato, il Comune di San Giovanni
Bianco avrà stipulato per il finanziamento di detta costruzione. Resta convenuto che l’ospedale di
Bergamo provvederà all’arredamento del nuovo fabbricato e che quest’ultimo avrà perpetua
destinazione di Centro Sanitario.”
La macchina poteva finalmente partire; il 22 giugno 1958 fu posta solennemente la prima pietra,
cerimonia alla quale presenziarono numerosi parlamentari, autorità civili e religiose, attorniati da
un’enorme folla festante giunta da tutta la valle. La costruzione procedette regolare così che, alla
fine del 1961, l’opera poteva considerarsi ultimata.
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L’Ospedale Maggiore di Bergamo, al momento di mantenere gli impegni assunti tuttavia, inviò sul
posto una commissione di esperti allo scopo di acquisire tutti gli elementi utili per decidere in
merito all’assunzione o meno della gestione dell’Ospedale di San Giovanni Bianco; la relazione
redatta espresse, dato l’elevato costo di gestione, giudizio negativo.
Ebbe così inizio un biennio difficile, nel quale l’abbandono materiale della struttura era gravato
dall’amarezza di tutta una comunità comprensibilmente delusa nelle proprie speranze e rattristata
per l’inutilità dei propri sacrifici.
Fu solo grazie alla tenacia dei convinti promotori dell’opera e all’interessamento di due enti locali
(il Consiglio di Valle Brembana e il Consorzio del Bacino Imbrifero Montano) che la fiducia e
l’intraprendenza non vennero meno. Il consiglio d’amministrazione dell’Ospedale Maggiore di
Bergamo, con il quale il comune di San Giovanni Bianco non aveva tralasciato di mantenere i
rapporti, riesaminò attentamente tutti i presupposti perché la gestione del nosocomio brembana
potesse venire assunta dallo stesso ospedale e, con una lettera datata marzo 1964, espresse
finalmente parere positivo; l’Ospedale Maggiore di Bergamo si sarebbe addossato l’onere di
mettere a disposizione dell’ospedale civile di San Giovanni Bianco il personale sanitario
indispensabile all’avvio dell’attività e di versare un contributo a fondo perduto al piccolo comune
valligiano per provvedere all’arredamento e all’attrezzatura mancante.
L’intricata avventura che ne seguì, mirata alla definizione degli accordi logistici e degli oneri
sopraggiunti, ebbe il suo definitivo compimento il 22 gennaio 1967 allorchè il consiglio comunale
deliberò, all’unanimità dei voti, l’apertura del nuovo ospedale. In via provvisoria, la gestione
immediata del nosocomio veniva affidata al locale Ente Comunale d’Assistenza nel cui comitato
direttivo ebbero spazio, oltre ai rappresentanti del comune, quelli del Consiglio di Valle, del
Consorzio del Bacino Imbrifero Montano e dell’Ospedale Maggiore di Bergamo. L’attività sanitaria
del nuovo ospedale iniziò alcuni mesi dopo, il 5 settembre 1967.
Il presidente, avv. Giuseppe Calvi, ne diede così l’annuncio al sindaco: “È con grande
soddisfazione che Le partecipo ufficialmente l’inizio, con oggi, dell’attività del nostro ospedale. Nel
momento in cui le attese della nostra gente trovano motivo di bene sperare per una migliore e più
adeguata assistenza sanitaria, mi torna particolarmente doveroso esprimere a Lei, sig. Sindaco, ed
al Consiglio Comunale di San Giovanni Bianco, il più caloroso ringraziamento per essersi fatti
promotori e sostenitori, con tanto sacrificio, di così onerosa iniziativa. Dal canto nostro Le posso
assicurare, a nome del Consiglio di Amministrazione, che, nei limiti del nostro possibile, nessuno
sforzo sarà omesso per il miglioramento dell’Ospedale e dei servizi ad esso connessi.”
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Le vicissitudini amministrative La gestione dell’ospedale venne affidata all’Ente Comunale d’Assistenza (E.C.A.) di San Giovanni
Bianco, che durò meno di un biennio. Apertosi nel settembre del 1968, l’E.C.A. concluse il
mandato il 22 maggio 1970, giorno in cui, esaminata senza rilievi dagli organi tutori (medico
provinciale), divenne esecutiva la deliberazione n. 309 del 15 maggio 1970 con la quale il consiglio
d’amministrazione prese atto del decreto del Presidente della Repubblica n. 1274 del novembre
1969, che costituiva in Ente Ospedaliero l’ospedale civile di San Giovanni Bianco.
La tortuosa vicenda amministrativa proseguì, negli anni, scandita dalle diverse normative
promulgate da Stato e Regione.
Se, nel 1977, il rinnovo del consiglio d’amministrazione avvenne ancora nel rispetto della legge n.
132/1968, analogo adempimento avvenne, nel 1980, in un nuovo quadro normativo: quello
delineato dalle leggi regionali 5 aprile 1980 n. 35 e 36, concernenti l’ordinamento dei servizi di
zona, e 11 aprile 1980 n. 39, istitutivo delle Unità socio-sanitarie locali (USSL).
Erano gli anni in cui prese avvio la riforma sanitaria ( L.833/78) che attribuiva ai comuni singoli o
associati o alle comunità montane le funzioni e la gestione dei servizi in materia di sanità e di
assistenza. Detti servizi, nel caso di San Giovanni Bianco, vennero attivati dall’ Ente Responsabile
dei Servizi di Zona (Associazione dei Comuni della valle Brembana – Ambito territoriale n. 27)
fino all’entrata in vigore della L.R. n. 43/1982 che sancì la cessazione dell’associazione stessa e il
trasferimento delle sue funzioni alla Comunità Montana Valle Brembana – USSL n. 13.
1981: Territorio U.S.S.L. 27 e relativi distretti
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Un ulteriore mutamento della guida dell’ospedale si ebbe, nel 1991, a seguito dell’entrata in vigore
delle Norme sulla gestione transitoria delle Unità sanitarie locali, dettate dalla legge 4 aprile 1991
n. 111, che stabilivano , in attesa del riordino del Servizio Sanitario Nazionale e comunque non
oltre il 30 giugno 1992, che tutti i poteri di gestione, compresa la rappresentanza locale, fossero
esercitati da un amministratore straordinario nominato dal presidente della giunta della regione.
Nel contempo veniva istituito per ogni unità socio sanitaria locale un comitato di garanti le cui
funzioni erano svolte dalla giunta della Comunità Montana.
L’amministrazione straordinario era tenuto a trasmettere a quest’organo collegiale, per le
osservazioni, i propri provvedimenti più importanti nonché i progetti d’attuazione del Piano
Sanitario Regionale e la localizzazione di nuovi presidi e servizi. Gli uni e gli altri restavano, ad
ogni modo, soggetti all’approvazione della regione.
Il primo gennaio 1995 anche il nosocomio sangiovannese conobbe gli effetti della “miniriforma
ospedaliera”: così, nel dizionario della sanità pubblica italiana venne etichettato quel complesso di
disposizioni che, mentre sopprimeva un certo numero di USSL, ne trasferiva le funzioni alle
cosiddette Aziende Sanitarie.
In questa parte d’Orobia essa prese le mosse dal decreto n. 4031 emesso dal presidente della ragione
Lombardia 6 mesi prima (30 giugno 1994) e sanzionante l’istituzione dell’Azienda USSL con sede
in Ponte San Pietro (a questa erano assegnati i compiti svolti in precedenza dalle disciolte USSL n.
27, 28 e 29 già facenti capo all’Ambito territoriale n. 11, comparto che rimaneva in vita).
La miniriforma fu il penultimo ritocco apportato allo status dell’ospedale di San Giovanni Bianco;
l’ultimo ebbe luogo tre anni dopo,in applicazione della L.R. 31/97 quando il presidente della
regione Lombardia, a mezzo decreto n. 070608 del 22 dicembre 1997, costituì l’Azienda
Ospedaliera (A.O.) Ospedale Treviglio-Caravaggio, con sede in Treviglio, disponendo il
contestuale trasferimento alla stessa delle funzioni già svolte dai presidi ospedalieri e dalle
strutture sanitarie delle soppresse USSL di cui agli ambiti territoriali n. 11 di Ponte San Pietro, n.
12 di Bergamo e n. 13 di Treviglio.
L’Azienda Ospedaliera così costituita risultò dalla fusione di 5 stabilimenti ospedalieri:
• "Ospedale Treviglio-Caravaggio" di Treviglio
• Ospedale "SS Trinità" di Romano di Lombardia
• Ospedale di Martinengo
• Ospedale "F. M. Passi" di Calcinate
• "Ospedale Civile" di San Giovanni Bianco
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Lo sviluppo dell’Ospedale
Per rispondere in modo coerente all’evolversi delle esigenze dell’assistenza sanitaria pubblica
sempre più moderna e tecnologica, in parallelo all’evolvere della scienza medica, l’ospedale civile è
andato sviluppando progressivamente, nel corso degli anni successivi all’apertura, il complesso dei
propri servizi.
Negli anni seguenti l’ospedale incrementò le proprie unità d’offerta per l’apertura dei nuovi reparti
di ortopedia e traumatologia, fisiokinesiterapia, cardiologia, oltre a qualificati laboratori di analisi
chimico-cliniche e di radiologia e la messa in funzione del centro di dialisi; i posti letto da 80
salirono a 130.
A fianco degli ambulatori di reparto vennero attrezzati quelli di medicina sportiva, urologia,
dermatologia, neurologia, oncologia, O.R.L. e oculistica oltre al servizio di Pronto Soccorso.
Attualmente l'Ospedale di San Giovanni Bianco costituisce l'unico riferimento ospedaliero per acuti
della Valle Brembana e della contigua Valle Imagna.
L'ospedale è inoltre caratterizzato da una domanda di prestazioni la cui variabilità stagionale è in
diretta relazione ai flussi delle presenze turistiche, sia nel periodo estivo che invernale.
Questo un sommario elenco delle principali delibere riguardanti interventi operati sulla struttura e
servizi messi in atto dall’amministrazione mediante prevalentemente sovvenzioni statali e regionali:
1972 - istituzione della sezione trasfusionale e della sezione di medicina dello sport
1974 - istituzione del servizio autonomo di cardiologia
1985 - costruzione delle nuove sale operatorie di chirurgia, ortotrauma, del gruppo parto, dei
poliambulatori e delle sale per la terapia fisica, degli spogliatoi e dei magazzini;
- ristrutturazione e risanamento dei locali d’ingresso con allestimento dei nuovi spazi per
prelievi di laboratorio;
1987 - costruzione di un nuovo corpo di fabbrica su quattro piani per gruppi ospedalieri e
laboratorio d’analisi con adeguamento dei reparti di degenza
1989 - istituzione del dipartimento materno-infantile
1993 - ristrutturazione dei reparti di medicina, chirurgia e pronto soccorso
1994 - interventi edili ed impiantistici per il centro dialisi
1997 - costruzione di un immobile da adibire a sede del nuovo servizio psichiatrico di diagnosi e
cura;
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- ristrutturazione dei reparti di degenza e adeguamento degli impianti tecnologici;
- assistenza specialistica: espansione dell’attività di oculistica;
1998 - realizzazione di opere edili e necessarie per l’installazione di un’apparecchiatura ad alto
contenuto tecnologico: la Tomografia Assiale Computerizzata (TAC) con relativi
accessori ed apparecchiature radiologiche ed iconografiche.
2005 - apertura di un nuovo ambulatorio di chirurgia senologica;
- rinnovamento del settore della camera mortuaria;
- rifacimento degli ambulatori;
2006 - ristrutturazione del servizio di radiologia;
- messa a norma di sicurezza l’intera struttura;
- inizio lavori di realizzazione di un eliporto adiacente l’ospedale per il miglioramento
del servizio di pronto intervento e soccorso sanitario in valle; inizio lavori
ampliamento parcheggi (80 posti auto);
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Il distretto sanitario della Valle Brembana La provincia di Bergamo presenta 12 distretti sanitari; quello della Valle Brembana (n°10) è il
distretto sanitario con il maggior numero di comuni, 38, della provincia bergamasca.
COMUNE N° ABITANTI Algua 686 Averara 202 Blello 94 Bracca 755 Branzi 762 Brembilla 4242 Camerata Cornello 594 Carona 383 Cassiglio 107 Cornalba 286 Costa Serina 914 Cusio 329 Dossena 1015 Foppolo 208 Gerosa 383 Isola di Fondra 184 Lenna 702 Mezzoldo 222 Moio de’ Calvi 195 Olmo al Brembo 534 Oltre il Colle 1139 Ornica 210 Piazza Brembana 1183 Piazzatorre 477 Piazzolo 99 Roncobello 479 San Giovanni Bianco 4997 San Pellegrino Terme 4976 Santa Brigida 635 Sedrina 2377 Serina 2192 Taleggio 573 Ubiale Clanezzo 1271 Valleve 158 Valnegra 230 Valtorta 345 Vedeseta 244 Zogno 9026
TOTALE ABITANTI 43408 Tab 1: Comuni dell’U.S.S.L. 27 (dati aggiornati al 2001)
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Distretti Sanitari della provincia di Bergamo:
01: Bergamo 02: Dalmine 03: Seriate 04: Grumello 05: Valle Cavallina 06: Monte Bronzone (comprensorio Valle Camonica) 07: Alto Sebino (comprensorio Valle Camonica) 08: Valle Seriana 09: Alta Valle Seriana e Val di Scalve 10: Valle Brembana 11: Valle Imagna e Villa D’Almè 12: Isola Bergamasca 13: Treviglio 14: Romano di Lombardia
Analisi di attrazione e fuga La raccolta dei dati a nostra disposizione si è basata su uno strumento informativo che costituisce la
sintesi delle informazioni contenute nelle cartelle cliniche relative ad ogni singolo ricovero: la
Scheda di Dimissione Ospedaliera (SDO).
Le SDO
La SDO è stata istituita come strumento di supporto ai processi di valutazione, programmazione,
gestione e controllo delle attività ospedaliere, nonché quale rilevazione sistematica di carattere
epidemiologico; è un documento sintetico, relativo al profilo di cura cui il paziente è sottoposto.
In ogni SDO sono contenute diverse informazioni; i dati da noi estrapolati sono quelli riguardanti
informazioni relative all’Unità Operative di dimissioni per individuare la classificazione del reparto
di dimissione, l’ospedale in cui è avvenuto il ricovero e la diagnosi principale di ricovero.
Le SDO vengono compilate e validate dal responsabile dell’Unità operativa dell’ospedale o da un
suo delegato. L’inserimento dei dati viene effettuato in una base di dati dell’azienda ospedaliera e
quindi inviati in Regione Lombardia. Qui viene effettuata l’eventuale revisione e i dati possono
essere nuovamente inviati all’ospedale. Infine avviene l’invio delle SDO all’ASL di competenza.
In ogni SDO si possono trovare dati anagrafici, clinici e amministrativi, dati di codifica di diagnosi,
di procedura e di intervento. Per ogni ricovero è indicata sempre una diagnosi principale e una o più
diagnosi secondarie.
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Nella SDO si utilizza l'International Classification of Disease (Icd), un sistema che traduce in codici
numerici tutti gli eventi che determinano alterazioni nello stato di salute del paziente.
Le unità operative di dimissione analizzate sono:
1) Medicina Generale
2) Chirurgia Generale
3) Ginecologia
4) Riabilitazione
5) Ostetricia
6) Pediatria
7) Ortopedia
Nell’ambito di ogni unità operativa di dimissione è stata analizzata l’attrazione verso l’ospedale di
San Giovanni Bianco con la percentuale di ricovero per ogni singolo comune del distretto.
In tale analisi, condotta dal Dipartimento Programmazione Acquisto e Controllo ASL della
Provincia di Bergamo, sono stati considerati i ricoveri ordinari dei residenti dal primo gennaio
2003 al 31 dicembre 2005.
Le strutture ospedaliere comparse all’interno dell’analisi, escluso l’Ospedale di San Giovanni
Bianco, sono:
STRUTTURA LOCALITA’ DISTANZA DA
SAN GIOVANNI BIANCO (Km)
TEMPO MEDIO PERCORRENZA
(min)
Clinica Quarenghi San Pellegrino Terme 4,8 7 Policlinico San Pietro Ponte San Pietro 28,1 35 Clinica Castelli Bergamo 28,5 36 Clinica Gavazzeni Bergamo 30,2 36 Ospedali Riuniti Bergamo 29,3 38 Casa di Cura San Francesco Bergamo 29 38 Casa di Cura Palazzolo Bergamo 30 38 Ospedale di Alzano Lombardo Alzano Lombardo 32,5 38 Ospedale Bolognini di Seriate Seriate 31,2 38 Policlinico San Marco Zingonia 37,9 45 Ospedale di Calcinate Calcinate 47,3 54 Ospedale “Briolini” Gazzaniga Gazzaniga 43,3 54 FERB di Trescore Balneario (Ospedale Civile S.Isidoro) Trescore Balneario 49,7 57
Ospedale di Treviglio Treviglio 48,1 63 Ospedale Santissima Trinità Romano di Lombardia 57,9 65 Ospedale San Biagio di Clusone Clusone 49,6 67 Ospedale di Lovere Lovere 66 87
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I tempi medi sono stati calcolati dal sistema “googlemaps” considerando velocità medie di
percorrenza in condizioni ottimali di traffico.
La Clinica Quarenghi di San Pellegrino Terme è l’unica struttura rientrante nello stesso distretto di
San Giovanni Bianco, il distretto 10 della Valle Brembana.
I risultati dell’analisi sono i seguenti: 1) Medicina Generale
76,6
7,3 4,1 2,5 1,9 1,8 1,3 1 1 0,8 0,4 0,4 0,3 0,2 0,2 0,1 0,1 0,1 0,10
102030405060708090
S.Giov
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CRMPF BG
PO Gaz
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a
PO C
• Il 76,6% dei ricoveri è avvenuto presso l’Ospedale di San Giovanni Bianco,il 23,4% presso altre
sedi;
• Nel distretto si sono avuti un totale di 83,9% di ricoveri;
• Gli Ospedali Riuniti di Bergamo con il 4,1% sono l’ospedale più frequentato sito fuori distretto;
• I ricoveri fuori provincia sono il 4,6%
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2) Chirurgia Generale
67,5
7,4 6,6 4,6 4,1 2,8 2,3 1,1 1 0,9 0,6 0,3 0,2 0,2 0,10
1020304050607080
San G
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• Il 67,5% dei ricoveri è avvenuto presso l’ospedale di San Giovanni Bianco, il 32,5% presso altre
sedi;
• Nel distretto si sono avuti un totale di 67,5% di ricoveri;
• Gli Ospedali Riuniti con il 7,4% sono l’ospedale più frequentato sito fuori distretto;
• I ricoveri fuori provincia sono il 4,6%
3) Ginecologia
49,5
28,9
11,4
4,8 3,6 1,4 0,40
10
20
30
40
50
60
PO San G. OO Riuniti Fuori PO Alzano Pol. San PO Seriate PO TreviglioBianco BG Provincia Pietro
• Il 49,5% dei ricoveri è avvenuto presso l’ospedale di San Giovanni Bianco, il 50,5% presso altre
sedi;
• Gli Ospedali Riuniti con il 28,9% sono l’ospedale più frequentato sito fuori distretto;
• I ricoveri fuori provincia sono l’11,4%;
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4) Riabilitazione
60
21,8
8,32,7 1,5 1,2 1,2 1,2 1 0,6 0,3 0,1 0,1
0
10
20
3040
50
60
70
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San G. B
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Pietro
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PO C
• Il 21,8% dei ricoveri è avvenuto presso l’ospedale di San Giovanni Bianco, il 78,2% presso altre sedi;
• L’ospedale con più ricoveri in riabilitazione dei distretti risulta essere la Casa di Cura Quarenghi di San Pellegrino Terme con il 60% dei ricoveri;
• Nel distretto si sono avuti un totale di 81,8% di ricoveri; • La Casa di Cura San Francesco con il 2,7% dei ricoveri risulta essere l’ospedale più frequentato
sito fuori distretto; • I ricoveri fuori provincia sono l’8,3%;
5) Ostetricia
64,4
25,3
3 2,6 2,2 1,3 0,7 0,3 0,10
10
20
30
40
50
60
70
PO San OO PO Fuori Pol. San PO PO PO POG. Bianco Riuniti BG Alzano Provincia Pietro Seriate Calcinate Clusone Treviglio
• Il 64,4% dei ricoveri è avvenuto presso l’Ospedale di San Giovanni Bianco; il 35,6% presso altre sedi
• Gli Ospedali Riuniti di Bergamo con il 25,3% sono l’ospedale più frequentato sito fuori distretto • I ricoveri fuori provincia sono il 2,6%
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6) Pediatria
91,3
4,4 2,6 0,5 0,5 0,4 0,30
102030405060708090
100
PO San G. OO Riuniti Fuori PO Alzano PO Treviglio Pol. San PO SeriateBianco BG Provincia Pietro
• Il 91,3% dei ricoveri è avvenuto presso l’Ospedale di San Giovanni Bianco; l’8,7% presso altre sedi
• Gli Ospedali Riuniti di Bergamo con il 4,4% sono l’ospedale più frequentato sito fuori distretto • I ricoveri fuori provincia sono il 2,6%
7) Ortopedia
73,2
5,2 5,1 4,5 3,9 3,1 2,4 0,8 0,6 0,4 0,4 0,2 0,10
1020304050607080
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PO Alzano
PO Rom
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PO Treviglio
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• Il 73,2% dei ricoveri è avvenuto presso l’Ospedale di San Giovanni Bianco; il 26,8% presso altre sedi
• Gli Ospedali Riuniti di Bergamo con il 5,2% sono l’ospedale più frequentato sito fuori distretto • I ricoveri fuori provincia sono il 5,1%
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I seguenti sono dati statistici che ci offrono la visione dell’attività recettiva e dello sviluppo
graduato dei servizi offerti in questi 40 anni di vita dell’Ospedale di San Giovanni Bianco:
STATISTICA ANNO 1969 N° RICOVERI
Medicina 791 Chirurgia 1207 Ostetricia 530
TOT. 2528
STATISTICA ANNO 1979 N° RICOVERI Medicina 950 Chirurgia 1329 Ostetricia/Ginecologia 883 Pediatria 302
TOT. 3464
STATISTICA ANNO 1989 N° RICOVERI Medicina 991 Chirurgia 1019 Ortopedia 829 Ostetricia/Ginecologia 607 Pediatria 284
TOT. 3730
STATISTICA ANNO 1999 N° RICOVERI Medicina 1307 Chirurgia 1266 Ortopedia 1078 Ostetricia/Ginecologia 501 Pediatria 464 Nido 155
TOT. 4771
ATTIVITA’ DAY HOSPITAL ACCESSI
Medicina 473
Chirurgia 255
Ortopedia 424
Ostetricia/Ginecologia 300
Pediatria 343
Cardiologia 428
TOT. 2223
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Il Dibattito sulla afferenza del Presidio Il dibattito sulla afferenza del Presidio di S. Giovanni Bianco viene avviato nel marzo 2005 allorchè
il consigliere regionale Carlo Saffiotti incontrando gli operatori sanitari e gli amministratori locali
esprime l’opportunità di un passaggio della struttura dall’Azienda Ospedaliera di Treviglio agli
Ospedali Riuniti di Bergamo e 15 consiglieri della Comunità Montana Valle Brembana avanzano
una mozione per l’afferimento della struttura agli Ospedali Riuniti di Bergamo.
L’ipotesi di una diversa appartenenza scaturisce dalla necessità di dare risposte alle istanze di
miglioramento della funzionalità dei servizi offerti dall’ospedale alla popolazione della Valle ; la
via breve per risolvere alcune criticità osservate sembrava poter essere rappresentata dalla guida
affidata ad una azienda ospedaliera di grandi dimensioni , con esperienza e prestigio tali da fornire
al Presidio di S. Giovanni Bianco quei collegamenti a servizi e professionalità che rappresentassero
garanzia di qualità e scurezza dei servizi sanitari .
La ricerca di una Azienda Ospedaliera di riferimento diversa da parte della popolazione è,
comunque la si legga, espressione di una situazione di disagio sul quale è opportuno interrogarsi .
Le ipotesi di risoluzione del problema non possono prescindere da alcune considerazioni desunte
dall’analisi dei dati di funzionalità del presidio e dell’attrazione che i servizi esercitano sulla
popolazione .
I dati pubblicati dall’ASL di Bergamo relativi all’anno 2005, fanno pensare ad un ospedale che
risponde ai bisogni di prestazioni di ricovero per la maggioranza dei residenti nel distretto 10,
mediamente circa il 64% dei ricoveri per le specialità esaminate avviene al Presidio di S. Giovanni
Bianco, circa l’11% ai Riuniti di Bergamo , il 25% circa viene assorbito dalle Case di Cura e dai
Presidi Ospedalieri della provincia , mentre il 5% circa viene erogato fuori dalla provincia di
Bergamo.
La popolazione quindi si rivolge per le specialità di base al Presidio dimostrando di gradire una
risposta locale alla necessità di ricovero e di confermare al Presidio il ruolo di ospedale di
riferimento.
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Nonostante ciò non si può sottovalutare il disagio che ha fatto sorgere il dibattito sulla diversa
appartenenza del Presidio, le cui cause non vanno tanto ricercate nei dati di attività, ma anche
• nella debolezza della rete per l’integrazione delle prestazioni del Presidio con quelle del
territorio per realizzare la continuità assistenziale
• nella carenza di coinvolgimento dei Medici di Medicina Generale nella gestione dei
percorsi diagnostico terapeutici dei loro pazienti
• nella carenza di partecipazione alla programmazione degli interventi di carattere sanitario
da parte della comunità locale
• nel mancato riconoscimento di una specificità organizzativa all’ospedale di S. Giovanni
Bianco in ragione della collocazione e delle funzioni esercitate
Si tratta quindi di individuare alcuni modelli /indirizzi organizzativi che rafforzino da un lato
l’attivazione della rete ospedale territorio , e dall’altro creino le condizioni per riassegnare alla
comunità della Valle un ruolo che l’appartenenza ad una Azienda Ospedaliera , percepita come
distante, ha forse posto in secondo piano.
Le proposte riguardano l’identificazione del Presidio Ospedaliero di S. Giovanni Bianco come
Ospedale di Montagna , la sua integrazione con una sezione di Ospedale di Comunità e l’adozione
di provvedimenti organizzativi interni al Presidio che ne aumentino l’autonomia gestionale.
L’autonomia gestionale : uno strumento per migliorare la risposta alle istanze
del territorio fondamenti normativi
La storia dell’Ospedale di S. Giovanni Bianco non è dissimile a quelli di altri presidi ospedalieri
fortemente rappresentativi della volontà della popolazione montana di disporre dei servizi sanitari
sul proprio territorio : l’istanza degli abitanti è quella di partecipare attivamente alla vita delle
struttura sanitarie con la consapevolezza di poter aggiungere valore alla gestione dei servizi
rendendola più rispondente alle necessità locali.
Viene dunque invocata una maggiore autonomia decisionale e operativa che sembra venire meno
allorché la Direzione Aziendale , impegnata nella razionalizzazione dei processi gestionali , opera
scelte nelle quali i portatori di interessi locali non si identificano.
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Gli strumenti per garantire l’autonomia gestionale del Presidio Ospedaliero all’interno della
complessità organizzativa di un’Azienda Ospedaliera esistono e sono ravvisabili , nei fondamenti
normativi, nelle leggi di riordino del SSN e nei provvedimenti di queste attuativi emanati dalla
regione Lombardia : riportiamo di seguito i passaggi salienti riguardanti l’argomento.
L.R. 31/97
Art. 7: La natura e gli organi delle Aziende sanitarie
- Comma 1: “L’A.S.L. e l’Azienda Ospedaliera hanno personalità giuridica pubblica, autonomia
organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.
L’autonomia dell’Azienda sanitaria si esercita nell’ambito degli indirizzi
programmatici della regione.”
Art. 8: L’organizzazione delle Aziende sanitarie Il dipartimento per le attività socio-sanitarie
integrate
- Comma 2: “(…) Le A.S.L. sono organizzate in distretti, presidi, dipartimenti, servizi, unità
operative ed uffici, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative.”
- Comma 3: ”Le Aziende Ospedaliere sono organizzate in aree omogenee, presidi, dipartimenti,
servizi, unità operative ed uffici, sentite le organizzazioni sindacali di categoria
maggiormente rappresentative. Il presidio, qualora sia di dimensione significativa o
di peculiarità specialistiche, può identificarsi in un singolo stabilimento ospedaliero
o in una singola struttura diagnostica o terapeutica. Negli altri casi, il presidio
raggruppa più strutture ospedaliere o diagnostiche omogenee per collocazione
geografica o per specificità.
Al presidio è attribuita in ogni caso autonomia gestionale ed economico-finanziaria,
con contabilità separata all’interno dell’Azienda.”
Art. 9: “L’A.S.L. articola nel proprio piano di organizzazione l’ambito territoriale in distretti
comprendenti ciascuno una popolazione di norma non inferiore ai 40000 abitanti;
nelle aree ad alta densità abitativa tale rapporto è elevato fino a 100000 abitanti.
Nelle aree montane e nelle zone a scarsa densità abitativa può comprendere una
popolazione minima di 15000 abitanti (…).”
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Art. 10 : I presidi dell’azienda ospedaliera sono retti da un dirigente responsabile amministrativo ed
un dirigente responsabile sanitario , preposti dal DG . I dirigenti operano nel quadro degli indirizzi
emanati dal DG ed assumono la responsabilità della struttura loro affidata. Il direttore Generale
individua per ciascun presidio il dirigente responsabile della gestione complessiva.
D.Lgs. 502/1992
Art. 1: Tutela del diritto alla salute, programmazione sanitaria e definizione dei livelli essenziali e
uniformi di assistenza
Art. 2: Competenze regionali
Art. 3: Organizzazione delle unità sanitarie locali
Art. 4: Aziende ospedaliere e presidi ospedalieri
- Comma 1bis:“Nell’ambito della riorganizzazione della rete dei servizi conseguente al riordino
del sistema delle aziende previsto dal presente decreto, le regioni possono proporre
la costituzione o la conferma in aziende ospedaliere dei presidi ospedalieri in
possesso di tutti i seguenti requisiti:
organizzazione dipartimentale di tutte le unità operative presenti nella struttura
disponibilità di un sistema di contabilità economico patrimoniale e di una
contabilità per centri di costo
presenza di almeno tre unità operative di alta specialità
dipartimento di emergenza di secondo livello
ruolo di ospedale di riferimento in programmi integrati di assistenza su base
regionale e interregionale…
attività di ricovero in degenza ordinaria, nel corso dell’ultimo triennio, per
pazienti residenti in regioni diverse, superiore di almeno il 10% rispetto al
valore medio regionale
disponibilità di un proprio patrimonio immobiliare adeguato e sufficiente per
consentire lo svolgimento delle attività istituzionali di tutela della salute e di
erogazione di prestazioni sanitarie
- Comma 4: “Le regioni possono altresì costituire in azienda i presidi ospedalieri in cui insiste la
prevalenza del percorso formativo del triennio clinico delle facoltà di medicina e
chirurgia, i presidi ospedalieri che operano in strutture di pertinenza dell’università
nonché gli ospedali destinati a centro di riferimento della rete dei servizi di
emergenza (…) e che siano, di norma, dotati anche di elisoccorso.”
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- Comma 9: “Gli ospedali che non siano costituiti in azienda ospedaliera conservano la natura di
presidi dell’unità sanitaria locale. Nelle unità sanitarie locali nelle quali sono presenti
più ospedali, questi possono essere accorpati ai fini funzionali. (…)”
L’autonomia del Presidio Ospedaliero all’interno dell’Azienda Ospedaliera si realizza attraverso la
formalizzazione del suo assetto organizzativo interno con la precisa identificazione delle funzioni
dei singoli Dirigenti .
L’attribuzione dell’autonomia gestionale si traduce nella
• identificazione di un bilancio separato
• nella assegnazione del budget economico idoneo a realizzare gli obiettivi indicati dalla
Direzione Strategica Aziendale
• nella definizione dei livelli di autonomia di spesa
• nella definizione delle modalità di acquisizione e gestione delle risorse umane.
La Direzione del Presidio viene fiduciariamente affidata dal Direttore Generale al Direttore
Amministrativo ed al Direttore Sanitario e tra questi viene identificato il Responsabile di Presidio al
quale è attribuita la responsabilità unica e complessiva del funzionamento del Presidio stesso; esso è
la figura istituzionale di riferimento sia per la Direzione strategica che per gli interlocutori
istituzionali del territorio (ad es. : Comuni, ASL, Medici di Medicina generale).
L’identificazione di un Responsabile di Presidio con poteri delegati dal Direttore generale
dell’Azienda Sanitaria ed esplicitati nell’Atto Aziendale potrebbe rispondere all’esigenza di avere
un interlocutore assiduo in grado di contemperare la gestione aziendalistica con la realtà locale.
Un modello per l’ ”Ospedale di Montagna” Fare sanità in montagna comporta un notevole sforzo organizzativo di messa “in rete” dei vari
operatori, immaginando anche modelli organizzativi innovativi, che possono differire da
impostazioni pensate, a livello nazionale, in modo uniforme.
Lo strumento della sperimentazione gestionale previsto dal decreto legislativo 229/99 (art.9bis)
potrebbe trovare, nelle strutture sanitarie di montagna, applicazione utile attraverso anche una
semplificazione delle procedure decisionali , la enfatizzazione di autonomie organizzative che in
contesti urbani non si rendono opportune, il reperimento di soluzioni innovative stimolate proprio
dalla necessità di offrire al cittadino risposte a peculiari bisogni .
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Anche la definizione del contesto “montagna” è questione controversa.
Innanzitutto possiamo considerare “zone montane” i Comuni montani, così come riconosciuti per
legge. L’orizzonte di riferimento è rappresentato dunque dalla montagna cosiddetta “legale”. Ciò
soprattutto dal lato della rete territoriale: ospedali, distretti, medicina generale, organizzazione
dell’urgenza-emergenza.
I territori montani rappresentano un sistema diffuso e composito: più grande di una “grande città”,
connotato da una popolazione molto più anziana rispetto al resto del Paese e, nello stesso tempo,
interessato da una frequentazione turistica che registra punte rilevanti in particolari momenti
dell’anno.
In Italia sono 163714 Kmq, più della metà della superficie nazionale. In queste montagne risiedono
oltre 10 milioni di persone che possono raddoppiare di numero durante le stagioni turistiche.
Se è vero che i territori di montagna non sono espressione di marginalità, ma territori peculiari,
contraddistinti da una spiccata propensione all’autogoverno, in un quadro articolato dei “poteri
locali”, non è azzardato ritenerli un luogo di eccellenza, se posti in condizione di vedersi assicurare
un livello di residenzialità e di accessibilità ai servizi che ne attenui il disagio connesso con la
morfologia dell’ambiente naturale.
Va tenuto conto anche delle recenti novità - legislative e non - introdotte sul piano dei rapporti tra
centro e periferia in materia sanitaria.
Alla “riforma ter” (decreto legislativo 229/1999) è seguito in data 3 agosto 2000 un ampio accordo
Stato-Regioni. Va inoltre ricordata l’entrata in vigore del decreto legislativo 56/2000 (Federalismo
fiscale) e della legge-quadro (328/2000) per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali.
Non si può quindi non considerare l’evoluzione del dibattito sulla riforma in senso autonomista e
federalista dello Stato ed il sempre più stretto nesso fra politiche e servizi sanitari, e politiche e
servizi sociali.
In sostanza, in materia sanitaria si delineano due ambiti di responsabilità: da parte dello Stato
l’impegno-dovere di garantire, su tutto il territorio nazionale, in ragione dell’universalità dei diritti
sanciti dall’art. 32 della Costituzione, livelli essenziali ed uniformi di assistenza sanitaria e socio-
sanitaria; a livello regionale una competenza piena quanto ad organizzazione dei servizi e
allocazione delle risorse finanziarie con cui “coprire” la spesa sanitaria e socio-sanitaria.
Livelli uniformi di assistenza sanitaria e socio-sanitaria sono da un lato una garanzia per il cittadino,
ma dall’altro lato non possono essere ritenuti un “recinto” all’interno del quale innestare scelte e
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processi uguali per tutte le situazioni. Le zone montane sono territori sicuramente appetibili quanto
a modelli e stili che si possono praticare; peraltro si tratta di territori in cui le condizioni di vita
associata risultano abbastanza difficili.
Molteplici sono i fattori che concorrono a disegnare il disagio in montagna: svantaggi naturali,
svantaggi orografici, svantaggi talvolta di condizioni economiche, senza contare gli squilibri nella
struttura demografica e altri fattori sociali.
Senza mezzi termini, va sottolineato il problema fondamentale: la sanità in montagna comporta
costi strutturali superiori alla media nazionale. A causa della morfologia del territorio, della bassa
densità demografica, delle caratteristiche intrinseche alla popolazione si è nel tempo sviluppata una
organizzazione, in particolare ospedaliera, che un approccio “razionale” mette in discussione spesso
alla radice.
Una sia pure sommaria rassegna della legislazione regionale a margine dell’attuazione del decreto
legislativo 229 non fa emergere - per ora - particolari spunti, né organizzativi né finanziari, per
quanto concerne i servizi sanitari nelle zone montane, salvo forse tre casi sui quali vale la pena di
soffermarsi.
Innanzitutto il cosiddetto “modello veneto”: connotato con alcuni trasferimenti “aggiuntivi” per le
Aziende ULSS operanti in tutto o in parte sui territori montani e contraddistinto dalla massima
responsabilizzazione delle aziende sanitarie e ospedaliere sul terreno dei risultati gestionali.
Merita di essere citata anche la L.R. Lombardia 10/1998 per la valorizzazione, lo sviluppo e la
tutela del territorio montano. L’art. 36 impegna espressamente la Giunta regionale alla definizione
di criteri di organizzazione dell’assistenza sanitaria sul territorio montano alla luce degli “elementi
di condizionamento e disagio costituiti dalla bassa densità di popolazione, dalla sua dislocazione,
dalle difficoltà dei collegamenti, anche in relazione alle condizioni climatiche, dalla strutturazione
dei rapporti familiari”.
La legge lombarda così prosegue: “L’organizzazione sanitaria sul territorio montano può
prescindere dai parametri di costo e di efficienza utilizzabili per il territorio urbano e comunque a
limitato disagio. La Giunta regionale determina le possibilità di scostamento dai suddetti parametri,
in relazione alla necessità di garantire al territorio montano un servizio sanitario efficiente e
comunque ricompreso nei livelli minimi di assistenza previsti, sia in termini di raggiungibilità dei
presidi ospedalieri per l’urgenza e l’emergenza, che per quanto riguarda le prestazioni sul territorio,
nel generale quadro di compatibilità economica”. Infine la Regione Lombardia “garantisce il
servizio di eliambulanza per tutto il territorio montano ed attrezza le strutture ospedaliere con idonei
punti di atterraggio".
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Più recente, e successiva al decreto legislativo 229, la legge 22/2000 della Regione Toscana, la
quale prevede l’istituzione di “un fondo per sostenere i programmi regionali finalizzati alla
valorizzazione e qualificazione dell’assistenza sanitaria nelle zone montane”.
Il quadro di riferimento sembra a questo punto abbastanza chiaramente delineato. I cittadini
residenti in montagna e quelli che la frequentano hanno diritto a sentirsi “garantiti” dal sistema
sanitario nazionale.
In ragione delle particolari caratteristiche del territorio, vanno ricercati e incentivati i percorsi
diagnostico-terapeutici che facilitino le cure in strutture il più possibile vicine alla residenza dei
cittadini, collegando i presidi ospedalieri montani “in rete” tra di loro e con i centri specialistici
contermini per le prestazioni di media ed alta complessità.
Cruciale è la diffusione, in tutte le realtà montane, del sistema d’urgenza-emergenza 118, con
particolare riguardo alla graduale attivazione dell’elisoccorso notturno e a una rete di
comunicazione che dia ampia “copertura” territoriale. Le tecnologie a supporto della telemedicina
posso costituire un valido supporto alla realizzazione di interventi di eccellenza anche in zone
disagiate .
Fondamentale risulta anche la valorizzazione delle risorse umane e professionali, disposte ad
impegnarsi nella sanità di montagna, a cui bisogna assicurare percorsi formativi che i modesti
bacini d’utenza montani non sempre possono offrire né in chiave di specializzazione né in termini
di casistica.
Contestualmente va accentuata l’attenzione verso l’ambiente naturale montano come risorsa per la
promozione della salute, la cura del benessere psico-fisico e la riabilitazione post-acuzie.
Le montagne italiane sono territori di qualità: in tal modo sono percepite sia dalle popolazioni che le
abitano e, ancor più, dalle popolazioni del piano e delle città.
La qualità è certamente riferibile a valori reali ed oggettivi di sanità e salubrità dell’aria e delle
acque, alla minore incidenza di rumori e di tassi di inquinamento di ogni tipo, a modi e ritmi diversi
della stessa vita dei singoli all’interno delle comunità locali, ai prodotti alimentari locali , alla
presenza di tradizioni che consolidano il senso di appartenenza della popolazione.
I territori di qualità sono una ricchezza per l’intero Paese e vanno preservati con idonee politiche
che consentano di mantenerli tali, se possibile di migliorarli e di assicurarne un adeguato utilizzo da
parte delle popolazioni locali e da parte di quanti desiderano goderne anche per brevi periodi.
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Il fenomeno del turismo montano, sportivo e non, sia nelle forme tradizionali che in altre più
leggere ed innovative proprie di questo ultimo periodo, sta conoscendo un importante momento di
crescita, di ulteriore diffusione in aree un tempo tralasciate, di assestamento su quantità di accessi,
di impieghi di strutture ed infrastrutture, di consumi, ecc.
La morfologia territoriale, la bassa densità demografica hanno favorito nel passato modelli di
assistenza ospedaliera con ampia diffusione sul territorio. Ora, una visione moderna della sanità
impone di ripensarli in un’ottica di sistema, per conciliare bisogni e standard di appropriatezza.
Il criterio di progettazione della sanità in montagna deve comunque tenere conto della specificità e
tipologia della domanda di servizi e della necessità di organizzare l’offerta in modo duttile, per
conciliare qualità, efficienza ed accessibilità.
Le zone di montagna sono caratterizzate principalmente dalla dispersione della popolazione e dalla
difficoltà di accesso ai servizi che di norma si concentrano laddove c’è una maggiore densità di
popolazione. I servizi sanitari non si sottraggono a questa logica anche se, per la loro importanza e
peculiarità, si sono diffusi nelle zone periferiche anche a prescindere da considerazioni di natura
economica e talvolta da considerazioni legate all’appropriatezza e all’efficacia delle prestazioni
erogate.
La sanità, peraltro, sta subendo una serie di importanti cambiamenti che necessariamente stanno
portando ad un ripensamento complessivo dei servizi e delle strutture di offerta, anche in montagna.
I cambiamenti più significativi sono costituiti da:
a) dinamiche demografiche (aumento della popolazione anziana), epidemiologiche (prevalenza
delle malattie croniche rispetto a quelle acute) e sociali (inurbamento con tendenza allo
spopolamento della montagna, immigrazione);
b) esigenze economiche (contrazione delle risorse finanziarie, tendenza verso maggiori livelli di
efficienza);
c) nuove visioni culturali (perseguimento della salute come stato di benessere e non come assenza
di malattia con conseguente aumento delle attese e della fiducia nella medicina);
d) sviluppo della medicina (attraverso il miglioramento soprattutto delle capacità diagnostiche, ma
anche di quelle terapeutiche);
e) “rete” come nuova metafora organizzativa dell’attività umana e quindi anche dell’assistenza
sanitaria;
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f) evoluzione delle telecomunicazioni (le informazioni si muovono al posto delle persone
rendendo possibile il decentramento di una più ampia gamma di servizi che possono essere
trasferiti dall’ospedale al territorio e dal territorio al domicilio).
Alla luce delle considerazioni esposte e dei cambiamenti che stanno caratterizzando la sanità, la
ricerca di soluzioni possibili che consentano di tenere in considerazione, in una logica di equilibrio,
una serie di spinte talvolta opposte è impresa difficile. In ogni caso, senza avere la pretesa di essere
esaustivi, vengono proposte alcune ipotesi di soluzione per l’organizzazione dei servizi sanitari
nelle aree di montagna:
perseguire il mantenimento delle persone malate a domicilio favorendo la massima
integrazione fra la componente sanitaria e quella sociale dei servizi;
specializzare le strutture di degenza in strutture in grado di assicurare efficaci ed
appropriate prestazioni di urgenza ed emergenza sanitaria, di assistenza sanitaria post-
acuzie e di lungodegenza sulla base di protocolli concordati con le strutture per acuti di
riferimento (modello “hub and spokes”);
integrare i servizi sanitari territoriali e di degenza in un sistema a rete utilizzando la
modalità organizzativa dipartimentale ed adottando metodologie telematiche
(telemedicina, teleassistenza) per favorire il coordinamento degli operatori, lo sviluppo
delle competenze professionali e l’efficacia degli interventi.
Le risorse
L’ospedale di montagna deve confrontarsi , per la produzione di servizi, con costi spesso
notevolmente superiori alla media nazionale, dovuti alla necessità di garantire servizi ospedalieri e
territoriali diffusi che, operando in piccoli bacini di utenza, hanno economie di scala quasi
inesistenti ed una bassa produttività di sistema.
Il modello di funzionamento delle strutture sanitarie /ospedaliere di montagna dev’essere perciò
diverso e tenere conto dei maggiori costi di produzione dei servizi.
Le strutture sanitarie di montagna hanno crescenti difficoltà nel reperire sul mercato, in talune
discipline, medici specialisti e personale tecnico ed infermieristico.
Vanno quindi pensati sistemi di incentivazione che stimolino i giovani ad intraprendere percorsi
formativi universitari in grado di rispondere alla domanda inevasa.
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Va pertanto stimolata la nascita di accordi con le Università per garantire adeguati spazi agli
studenti provenienti dai territori montani che si impegnano a rimanervi, una volta completati gli
studi e a prestare la loro opera per almeno cinque anni.
Se la carenza di risorse umane specializzate dovesse perdurare andranno individuati meccanismi di
incentivazione economica per il personale che volesse trasferirsi in montagna.
Per l’Ospedale di Montagna debbono quindi essere identificate ed attribuite risorse economiche
specifiche destinate a premiare la posizione individuale dei professionisti e gli obiettivi di
miglioramento dei servizi , finalizzati a promuovere effettivi e significativi miglioramenti nei livelli
di efficienza, di efficacia e di qualità.
L’incentivazione inoltre dovrà prevedere che l’indennità corrisposta presupponga comunque una
valutazione delle prestazioni offerte dal personale e dei risultati conseguiti e garantire che
l’ammontare della corresponsione non sia predeterminata in misura fissa ma vari a seconda degli
obiettivi assegnati e dalle disponibilità di finanziamento.
E’ fondamentale che, ancorché in misura differenziata, il meccanismo di incentivazione collegato
alla prestazione d’opera nell’Ospedale di Montagna, veda coinvolto tutto il personale.
I medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta andranno a loro volta valorizzati, motivati
a integrarsi nelle politiche aziendali (budget, percorsi diagnostico-terapeutici, ospedali di
comunità) , riconoscendo loro il ruolo di protagonisti dei processi assistenziali sul territorio.
Le tecnologie
L’ospedale in montagna ha soprattutto nella telemedicina uno strumento efficiente per mettere in
rete gli ospedali tra loro e con il territorio, per ridurre di fatto la variabile spazio-tempo.
La trasmissione digitale di immagini in radiologia o cardiologia consente infatti rapidi consulti tra
piccoli ospedali e strutture di riferimento, in grado di supportare nella fase diagnostica gli ospedali
meno specializzati ed anche i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta.
Lo sviluppo delle reti telematiche potrà consentire anche il dialogo e lo scambio di informazioni
con l’utente, superando, almeno parzialmente, i problemi di chi vive in zone decentrate e disagiate.
Il rapporto con il territorio
L’ospedale di montagna nasce come realtà integrata tra esigenze sanitarie e sociali.
Storicamente, in molti territori ha rappresentato l’unico punto di riferimento per la sicurezza e
l’assistenza alla popolazione.
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L’evoluzione normativa e tecnologica ha comportato una trasformazione di tali strutture
ospedaliere: tuttavia l’ospedale deve rimanere al centro dei processi formativi rivolti ai medici di
medicina generale nonché delle azioni di prevenzione ed educazione sanitaria nei confronti delle
popolazioni.
L’attivazione inoltre di una sezione dedicata all’Ospedale di Comunità dotata di autonomia
organizzativa ma integrata rispetto ai servizi specialistici dell’Ospedale , contigua all’attuale
Presidio di S. Giovanni Bianco, potrebbe realizzare quella auspicabile ottimizzazione dei rapporti
tra medicina specialistica e medicina territoriale che favorirebbe la partecipazione attiva, nel
percorso di cura dei pazienti, di professionisti appartenenti ad ambiti tradizionalmente poco
sinergici.
E’ auspicabile altresì che l’Ospedale di Montagna potenzi i collegamenti con il mondo
universitario e le grandi strutture sanitarie d’eccellenza, per interscambi scientifici e per individuare
percorsi diagnostico-terapeutici “mirati” volti a risolvere le criticità specifiche determinate dalla
distribuzione delle unità d’offerta di prestazioni sanitarie sul territorio montano.
Tali collegamenti alimentano anche scambi culturali che possono costituire un sistema
incentivante non solo economico, in grado di sostenere la motivazione degli professionisti che
scelgono di operare in territori non urbani.
L’Ospedale di Montagna integrato con l’ospedale di comunità
L' Ospedale di Comunità si definisce come struttura residenziale o semiresidenziale intermedia
nata dall'esigenza di dare una risposta ai bisogni di salute per quella fascia di pazienti che non
necessita, a giudizio del Medico di Medicina Generale, dell' Ospedale per acuti corrispondente al
secondo livello di assistenza sanitaria, ma nel contempo non può vedere risolti tutti i propri
problemi sociosanitari in ambito domiciliare, attraverso l'A.D.I. o presso una R.S.A. a indirizzo
riabilitativo.
L'alto costo che oramai caratterizza l'intero quadro delle prestazioni ospedaliere in rapporto alla
gestione delle patologie cronico - degenerative, unitamente all'incremento che tali processi morbosi
hanno subito nel tempo e che subiranno a causa del progressivo invecchiamento della popolazione,
impongono una sempre più attenta e mirata riflessione rispetto alla possibilità di definire e
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sviluppare modelli assistenziali alternativi al ricovero ospedaliere in grado di modificare, in senso
migliorativo, il rapporto costo - benefìcio.
L'insieme di questi fenomeni pone, in maniera sollecita ed assoluta, la necessità di risoluzione del
problema di assistere un ampio ventaglio di utenti/pazienti che presentano almeno quattro diversi
tipi di bisogno sanitario - assistenziale:
• gestione a breve / medio termine di pazienti anziani, disabili, con patologia cronico -
degenerativa instabile o riacutizzata che richieda un intervento efficace di medicalizzazione;
• gestione a breve / medio termine di pazienti anziani disabili, in fase di convalescenza post -
acuta o post - chirurgica o, in ogni caso, con la necessità di eseguire terapie programmate in
un ambiente con assistenza infermieristica;
• riabilitazione in fase post - acuta;
• gestione a medio / lungo termine di pazienti non autosufficienti o in condizioni di fragilità
sociale.
Anche se l'Ospedale di Comunità si sta costituendo nel nostro Paese come tipica struttura
sanitaria territoriale in linea con i percorsi a livello europeo che mirano a distinguere in maniera
chiara e netta le strutture per le cure a lungo termine dai presidi ospedalieri per acuti, è
indispensabile che presso le suddette strutture, vengano implementate le metodologie che connotano
i processi di assistenza di primo livello, rivolte alla estensività e non alla intensività delle procedure
cliniche e dei percorsi assistenziali secondo un modello bio - psico - sociale avente per oggetto lo
stato di salute complessivo dell'individuo.
In tale contesto la medicina di base e la medicina ospedaliera classica non possono assolutamente
configurarsi in maniera antagonista, bensì come due approcci che si integrano e si completano
vicendevolmente tenendo conto delle differenze sostanziali che le caratterizzano.
L'attenzione sempre maggiore alla gestione delle risorse limitate, sono spesso intese ed
interpretate come un ridimensionamento inaccettabile, un allontanamento dei servizi sanitari dal
luogo della esplicitazione del bisognosa più frequentemente può rappresentare una opportunità per
migliorare la distribuzione e l’accesso ai servizi .
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Idee guida che ne sostengono l’esperienza
L'utente - tipo dell’ Ospedale di Comunità è rappresentato dal paziente non autosuffìciente, non
curabile a domicilio affetto da:
• esiti di malattia cerebrovascolare ( ictus ischemico o emorragico)
• bpco in precario equilibrio respiratorio
• scompenso cardiaco
• diabete mellito in scompenso
• stabilizzazione e ripristino dei livelli di autosufficienza in pazienti anziani
• terapia infusionale in pazienti anziani o affetti da patologia cronica degenerativa
• controllo del dolore oncologico
• deficit nutrizionale
• patologia neurodegenerativa
• problematiche psichiatriche
• disabilità di origine sociale
• patologia ortopedica e reumatologica non acuta
• patologia vascolare periferica cronica
• patologia a carico dell'apparato digerente non acuta o post - chirurgica
• accertamenti diagnostici orientati per problema clinico
La durata del ricovero può essere compresa tra 30 e 60 giorni, può essere prevista anche ospitalità
di " sollievo alla famiglia" per periodi non superiori a 20 giorni.
Molto importante è ritenuto il rapporto con i familiari, la loro presenza nella struttura, in quanto
elemento determinante per l'equilibrio psico-relazionale dell'ospite, per la capacità di recupero dello
stesso, e per agevolare il rientro al domicilio istruendo i familiari alla gestione del paziente.
L'Ospedale di Comunità deve nascere dal consenso dei Medici di Medicina Generale che
concordino con l'intento di perseguire i seguenti obiettivi:
FAVORIRE il consenso, il senso di sicurezza e di appartenenza di una popolazione che viene
tutelata attraverso tipologie di intervento integrate tra sanitario e sociale;
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GESTIRE attraverso un percorso sanitario che punta alla qualità, quelle patologie diffìcilmente
trattabili a domicilio che necessitano di indagini diagnostiche complesse;
RICERCARE una modalità erogativa attraverso un rapporto costo - beneficio equilibrato.
All'interno dell'Ospedale di Comunità i Medici di Medicina Generale vedono completato il loro
ruolo sul versante dell'azione e del rapporto professionale, la possibilità di analizzare e di esprimersi
in un gruppo di lavoro, confrontandosi sugli aspetti diagnostico – terapeutici in un rapporto di
continuità terapeutica con l’ambiente specialistico ospedaliero.
L’Origine degli ospedali di Comunità
Come noto il termine Ospedale di Comunità (OdiC) deriva dalla traduzione letterale di "Community
Hospital", fatta propria dalla Regione Toscana, su imitazione di servizi sorti in Emilia-Romagna che
per prima li attivò a Premilcuore (1995) e Modigliana (1996), chiamandoli però Country Hospital
(CH).
Questi ospedali sono radicati in Gran Bretagna fin dagli anni '20 dove se ne contano 471 e
rappresentano il 3% dei posti letto totali (circa 18.500), gestiti dai GPS (i MMG italiani), con un
grande coinvolgimento delle comunità e notevole integrazione con i servizi sociali.
Questo modello innovativo è diffuso in Europa, con realizzazioni in Inghilterra, Catalogna e del
Nord Europa, dove il medico generale gestisce i pazienti oncologici terminali in strutture protette;
da tempo si parla di iniziative del genere in Francia, Svizzera, Germania
Una situazione del tutto particolare che vale la pena ricordare, è quella del Canada francofono del
Quebec, dove anche gli ospedali generali vengono gestiti da MMG, responsabili del servizio con la
collaborazione di assistenti simili ai tirocinanti italiani del biennio di formazione specifica, mentre
gli specialisti hanno una pura funzione di consulenti.
In Italia sono stati attivati ad oggi 23 Ospedali di Comunità che vengono chiamati in vario modo
nelle Regioni di appartenenza, in cui è possibile riconoscere caratteristiche comuni.
In moltissime aziende sanitarie è in corso un dibattito sull'opportunità di attivare questo servizio e il
2003 si caratterizza per un elevato numero di OdiC ai nastri di partenza che potrebbero raddoppiare
l'attuale dotazione: infatti là dove Ospedali di Comunità sono stati attivati l'apprezzamento risulta
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evidente perché ne vengono aumentati i posti letto, oppure ne sorgono altri in comuni limitrofi,
tanto che l'OdiC sta sempre più affermandosi come una necessità socio-sanitaria territoriale.
E' vero che in sanità i cambiamenti sono difficili ed in genere per le novità l'organizzazione nel suo
complesso entra a regime nel corso di decenni, quindi il fatto che in così poco tempo molte Regioni
siano intervenute con provvedimenti legislativi propri in mancanza di una chiara disposizione
nazionale e, soprattutto, siano intervenute con risorse proprie (economiche, strutturali e
professionali), anche qui per carenza di provvedimenti d'incentivazione a livello nazionale, la dice
lunga sulla reale necessità avvertita dalle comunità locali di dotare il territorio di strutture
assistenziali adeguate alle esigenze della popolazione.
L'Ospedale di Comunità non rappresenta sempre la soluzione ai problemi socio-sanitari di una
realtà, ma rappresenta la più alta forma di confronto fra professionalità (MMG, Dirigenti Asl,
Continuità Assistenziale, Specialisti del territorio, Infermieri, Addetti alla cura della persona, uffici
amministrativi, ecc) al momento realizzata.
La nuova impostazione, contenuta anche nell'Accordo Collettivo Nazionale per la Medicina
Generale, promuove l'Associazionismo tra i medici di famiglia e identifica le risorse professionali e
gli obiettivi che vanno attribuiti alle équipe territoriali: "al fine di assicurare l'intersettorialità e
l'integrazione degli interventi sociosanitari nell'ambito territoriale di riferimento".
A metà degli anni '90 ha ripreso vigore la teoria dell'intervento globale sull'anziano, "l'intervento
biopsicosociale", che s'ispira all'approccio olistico nei confronti dell'individuo malato attuando una
medicina centrata sul paziente, a differenza della medicina centrata sulla patologia. Tale prospettiva
indica come l'assistenza alla persona risulta parziale e limitata se indirizzata solo al settore sanitario
o sociale o psicologico, perché il malato ha generalmente un'associazione dei diversi problemi da
cui l'esigenza di un trattamento e di un'assistenza omnicomprensiva, magari modulata su risposte
diverse in relazione alla prevalenza dei bisogni.
Il MMG, non a caso indicato anche come medico di famiglia o di fiducia, è da sempre considerato il
più idoneo ad avere un quadro totale del paziente, comprendendo non solo la storia sanitaria ma, per
la confidenza che s'instaura tra medico ed assistito, una conoscenza approfondita delle condizioni
familiari, delle vicissitudini, dei problemi economici, insieme ad un radicamento sociale e culturale
nelle comunità locali che poche altre professioni possono vantare.
Inoltre, la Medicina Generale è il servizio che in tutta Europa soddisfa di più la popolazione e al
MMG, il cittadino ha assegnato un ruolo centrale per la sua credibilità basata sulla capacità di
dialogo con l'assistito e la capacità di instaurare un rapporto di fiducia.
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Il Medico di Famiglia opera all'interno delle cure primarie di cui è il principale "regista",
responsabile dei percorsi di cura e che sono rappresentate da "quell' insieme di prestazioni
essenziali, basate su tecniche scientificamente valide, socialmente accettabili, rese universalmente
accettabili a tutti gli individui e a tutte le famiglie della comunità, con la loro piena partecipazione e
a un costo che la comunità e il paese possono sopportare in ogni fase del loro sviluppo, in uno
spirito di auto-responsabilizzazione e autodeterminazione" (Dichiarazione di Alma Ata - 1978).
Questo settore delle cure primarie, rappresenta anche l'ambito dove queste innovative
sperimentazioni hanno avuto una prima concreta realizzazione, assumendone pertanto le
caratteristiche fondamentali che ne connotano i principali contenuti.
Le buone prassi emerse L’Ospedale di Comunità
- riduce i ricoveri impropri negli ospedali tradizionali, fornendo una risposta di livello appropriato
alla necessità assistenziale espressa;
- fermo restando la qualità assistenziale, contiene i costi di degenza per il minore impegno
economico rispetto a un ospedale classico;
- riesce a realizzare la necessaria flessibilità assistenziale che generalmente viene richiesta in caso
di complicanze delle malattie croniche legate all’invecchiamento e nelle condizioni al limite
della non autosufficienza, anche in considerazione del fatto che l’ospedalizzazione tradizionale
spesso peggiora la qualità di vita dei pazienti anziani;
- coinvolge maggiormente il Medico di famiglia con un uso più ragionato e responsabile delle
risorse aziendali nei percorsi assistenziali degli assistiti;
- promuove un’area di maggiore cooperazione e sinergia tra le competenze dell’ospedale e del
territorio con Infermieri più responsabilizzati e rapporto con il Medico di medicina generale
maggiormente collaborativo;
- facilita all’atto delle dimissioni, come “Ospedale del Territorio”, una migliore ed integrata
attivazione dei percorsi assistenziali, potenziando le risposte che il Distretto può offrire;
- valorizza il lavoro di èquipe favorendo una forte integrazione operativa delle figure
professionali via via coinvolte nei processi diagnostici, terapeutici e assistenziali (Medici di
Comunità, di Medicina generale e Specialisti, Infermieri, Terapisti, Assistenti socio-sanitari,
…);
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- viene percepito come una struttura che favorisce la centralità delle persone malate con una
dimensione il più possibile vicino a quella “domiciliare”, aperta al rapporto con i familiari e con
orari flessibili e il più possibile adeguati alle loro esigenze;
- rende possibile la continuità assistenziale del Medico di famiglia con maggiore gradimento e
apprezzamento dei pazienti e dei familiari, evitando la spersonalizzazione del paziente.
Considerazioni conclusive Il modello organizzativo sperimentale dell’Ospedale di montagna integrato con l’Ospedale di
comunità per S. Giovanni Bianco si propone di realizzare i seguenti obiettivi :
• migliorare il percorso di cura intra-extra-ospedaliero dei pazienti fragili
• garantire l’integrazione tra medicina specialistica e medicina territoriale nella gestione
della post-acuzie e della cronicità
• attivare le risorse umane e professionali locali nel processo di innovazione di una
struttura che potrà , al termine del percorso, venire percepita come “appartenente”
alla comunità territoriale.
Il percorso per la attivazione della sperimentazione implica la presentazione ai competenti
organismi regionali di un progetto di fattibilità per la integrazione delle attività dell’attuale
Presidio Ospedaliero con quelle dell’Ospedale di comunità che comprenda altresì l’individuazione
di strumenti idonei a supportare la gestione autonoma del Presidio, indipendentemente
dall’afferenza ad una specifica Azienda Ospedaliera.
Tale percorso dovrà prevedere :
1. l’attivazione di un gruppo di lavoro coordinato dalla Comunità Montana e composto da una
rappresentanza della Regione Lombardia , dell’ ASL di Bergamo, delle Aziende
Ospedaliere, dell’ Assemblea dei Sindaci della Valle e dei rappresentanti dei Medici di
Medicina Generale del Distretto 10
2. Redazione di progetto finalizzato alla identificazione e quantificazione delle risorse umane e
strutturali per la riqualificazione dell’Ospedale
3. Disegno dell’assetto organizzativo e funzionale della struttura
4. Ipotesi di modello gestionale
5. Tempi di realizzazione e durata della sperimentazione .
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Bibliografia
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L'Ospedale di Comunità: Linee guida Fimmg Commissione Nazionale Fimmg
"Domiciliarità & Residenzialità delle cure" Presidente: Massimo Magi
Segretario: Giancarlo Aulizio Componenti: Bruno Palmas, Dario Grisillo, Giuseppe Figlini, Marco Ragazzini
1. INTRODUZIONE La società italiana negli ultimi decenni ha subito importanti cambiamenti e per quanto riguarda gli aspetti socio-sanitari siamo in presenza di un Paese sempre più vecchio e quasi in assenza di un ricambio generazionale. Ciò introduce nuovi bisogni e richieste di salute proprio mentre le risorse economiche vengono continuamente ridotte così come gli ospedali tradizionali (348 ospedali disattivati o riconvertiti nel periodo dal 1995 al 2000, con 87.000 posti letto in meno). La famiglia, in passato punto di riferimento dell'assistenza soprattutto agli anziani tanto da essere definita la più grande azienda sanitaria del paese, ha perso alcune delle sue caratteristiche diventando, per ragioni a tutti note, ridotta nel numero dei componenti e sempre meno disponibile. L'Italia è dopo il Giappone, la nazione più vecchia al mondo con il 17,9% della popolazione over 65anni (circa 11 milioni di persone), delle quali il 20% con disabilità parziale e il 5% con disabilità grave e le proiezioni al 2020 stimano a 25-30% gli over 65anni che nel 2045 saranno 18,5 milioni, circa 8 milioni in più rispetto agli attuali (+78%). L'attesa di vita alla nascita che all'inizio del secolo scorso era di 43 anni per le donne e di 42,5 per gli uomini, attualmente è di 76 anni per gli uomini e 84 per le donne e salirà nel 2020 rispettivamente a 78,3 e 84,7, nel 2050 si incrementerà ulteriormente per entrambi i sessi raggiungendo gli 81,4 anni per i maschi e gli 88,1 anni per le femmine. Tutto ciò mentre l'indice di dipendenza degli anziani (rapporto popolazione over 65 su popolazione attiva 20-65 anni) passerà dall'attuale 29,4 al 68,6 nel 2050. Evidentemente queste stime evidenziano un sensibile aumento dei costi del SSN: la spesa sanitaria, assumendo il rapporto tra Consumo Medio Standardizzato (CPS) e il Prodotto Interno Lordo (PIL), passerebbe dal 6,3% del 2003 al 7,2 del 2050. A fronte di tale crescita complessiva, la spesa per l'acute care aumenterebbe del 26% mentre quella per la long term care del 61%. In questa situazione la necessità di fornire comunque risposte appropriate alla domanda di salute espressa soprattutto dagli anziani, può essere soddisfatta solo attivando nuove tipologie di servizi e modificando alcune logiche assistenziali. Appare quindi strategico realizzare strutture in grado di fornire risposte socio-sanitarie non basate soltanto sull'alta tecnologia ma che risultino appropriate, attente a superare anche quei disagi che il trasferimento lontano dalla propria residenza comporta, sia per gli ammalati che per i loro familiari. Sulla base di tali scenari la gestione delle patologie cronico-degenerative rappresenta sempre più uno dei principali problemi con cui i sistemi delle cure dovranno misurarsi nel prossimo futuro. Per tali motivi da alcuni anni si sono sperimentati modelli di gestione della cronicità in grado di offrire una alternativa ai regimi assistenziali impropri, sempre più costosi e la cui efficacia sul miglioramento delle condizioni di vita della persona non sempre è dimostrata. In tale contesto, si inserisce la nascita di una esperienza innovativa che in Italia a partire dalla metà degli anni 90 ha consentito di delineare una modalità assistenziale che consentisse di affrontare in termini di efficacia ed efficienza il problema delle patologie cronico-degenerative, con il complesso di problematiche clinico-assistenziali e gestionali ad esse collegato. Ci riferiamo alla esperienza conosciuta come Ospedale di Comunità o Country Hospital che tra il 1995 e 1996 nasce in Emilia-Romagna, prima a Premilcuore e poi a Modigliana e negli anni successivi ha iniziato a diffondersi nelle Regioni del centro-nord (Toscana, Marche), ed ancora in Umbria, Puglia, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Lazio, mentre altre come la Lombardia, la Campania e la Liguria sono molto interessate, con delle micro-realizzazioni che si avvicinano molto a questo modello (es. Liguria con i posti letto di Comunità). Si tratta di un modello sociosanitario e assistenziale che suscita interesse non solo fra gli operatori della Sanità ma anche nel mondo scientifico, del volontariato, in quello sindacale, fra gli amministratori pubblici e le Aziende Sanitarie Locali, che ha ottenuto lusinghieri riconoscimenti ed è stata l'esperienza d'assistenza territoriale più trattata sulle riviste specializzate negli ultimi otto anni. Tutto ciò perché attiva posti letto gestiti dai MMG destinati a persone prevalentemente anziane, a basso costo ed alto gradimento da parte dei ricoverati, spesso recuperando immobili (ex- ospedali) sotto-utilizzati o destinati al degrado, risparmiando risorse da destinare ad altri servizi e liberando gli ospedali dai cosiddetti "ricoveri impropri" che ne limitano le potenzialità. Queste prime sperimentazioni hanno generato una serie di modelli. Ora si pone il problema di come gestire questi modelli e attraverso quali linee di indirizzo implementare la loro applicazione a livello aziendale, uscendo di fatto dalla sperimentazione e consentendo di individuare alcune caratteristiche fondamentali in grado di realizzare una più ampia diffusione.