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ROMEO E GIULIETTA: L’OPERA DI UN AMORE IMPOSSIBILE a cura di LUCIANA DISTANTE 08 VOLUME

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ROMEO E GIULIETTA:

L’OPERA DI UN AMORE IMPOSSIBILE

a cura di

LUCIANA DISTANTE

08 VOLUME

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Cap. 1.

1.0 Introduzione.

La triste storia degli innamorati veronesi Romeo e Giulietta, è nota a tutti. La versione più conosciuta è senza dubbio quella di William Shakespeare (The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet) ma numerose sono le riduzioni musicali (si ricordano: il poema sinfonico di Čajkovskij, il balletto di Prokof’ev, l’opera di Bellini, il notissimo musical West Side Story) e cinematografiche (fra le più popolari quelle dirette da Zeffirelli e Luhrmann). La vicenda dei due protagonisti ha assunto nel tempo un valore simbolico, diventando l’archetipo dell’amore perfetto ma avversato dalla società. Questo lavoro non si focalizzerà sull’opera del grande drammaturgo inglese, ma poichè è evidente ed innegabile l’influenza di questa versione sulle rielaborazioni successive, è opportuno, in questo luogo, riassumere brevemente la trama del dramma che si apre con un coro racconta agli spettatori come due nobili famiglie di Verona, i Montecchi e i Capuleti, e della loro guerra senza tregua. Il primo atto comincia con una rissa di strada tra le servitù delle due famiglie, interrotta da Escalus, principe di Verona, il quale annuncia che, in caso di ulteriori scontri, i capi delle due famiglie saranno considerati responsabili e pagheranno con la vita. Quindi fa disperdere la folla. Paride, un giovane nobile, ha chiesto al Capuleti di dargli in moglie la figlia poco meno che quattordicenne, Giulietta. Capuleti lo invita ad attirarne l’atten-zione durante il ballo in maschera del giorno seguente, mentre la madre di Giulietta cerca di convincerla ad accettare le offerte di Paride. Questa scena introduce la nutrice di Giulietta, l’elemento comico del dramma. Il rampollo sedicenne dei Montecchi, Ro-meo, è innamorato di Rosalina, una Capuleti (personaggio che non compare mai). Mer-cuzio (amico di Romeo e congiunto del Principe) e Benvolio (cugino di Romeo) cerca-no invano di distogliere Romeo dalla sua malinconia, quindi decidono di andare ma-scherati alla casa dei Capuleti, per divertirsi e cercare di dimenticare. Romeo, che spera di vedere Rosalina al ballo, incontra invece Giulietta. I due ragazzi si scambiano poche parole, ma sufficienti a farli innamorare e a spingerli a baciarsi. Prima che il ballo fini-sca, la Balia rivela a Giulietta il nome di Romeo. Rischiando la vita, Romeo si trattiene nel giardino dei Capuleti dopo la fine della festa. Durante la famosa scena del balcone, i due ragazzi si dichiarano il loro amore e decidono di sposarsi in segreto. Il giorno seguente, con l’aiuto della Balia, il francescano Frate Lorenzo unisce in matrimonio Romeo e Giulietta, sperando che la loro unione possa portare pace tra le rispettive fa-miglie. Le cose precipitano quando Tebaldo, cugino di Giulietta e di temperamento iracondo, incontra Romeo e cerca di provocarlo a un duello. Romeo rifiuta di combatte-re contro colui che è ormai anche suo cugino, ma Mercuzio (ignaro di ciò) raccoglie la sfida. Tentando di separarli, Romeo inavvertitamente permette a Tebaldo di ferire Mer-cuzio, che muore. Romeo, nell'ira, uccide Tebaldo. Il Principe condanna Romeo solo all’esilio (perché Mercuzio era suo congiunto e Romeo l’ha solo vendicato): dovrà la-

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sciare la città prima dell’alba. I due sposi riescono a passare insieme un’unica notte d’amore. All’alba si separano e Romeo fugge a Mantova. Giulietta dovrebbe però spo-sarsi tre giorni dopo con Paride. Frate Lorenzo, esperto in erbe medicamentose, dà a Giulietta una pozione che la porterà a una morte apparente per quarantadue ore. Nel frattempo il frate manda un messaggero a informare Romeo affinché egli la possa rag-giungere al suo risveglio e fuggire da Mantova. Sfortunatamente il messaggero del frate non riesce a raggiungere Romeo poiché Mantova è sotto quarantena per la peste, e Ro-meo viene a sapere da un suo amico della morte di Giulietta. Romeo disperato si procu-ra un veleno (arsenico), torna a Verona in segreto e si inoltra nella cripta dei Capuleti, determinato ad unirsi a Giulietta nella morte. Romeo, dopo aver ucciso in duello Pari-de, che era giunto anche lui nella cripta, e aver guardato teneramente Giulietta un’ ulti-ma volta, si avvelena pronunciando la famosa battuta “E così con un bacio io muoio” (Atto 5 scena III). Quando Giulietta si sveglia, trovando l’amante e Paride mor-ti accanto a lei, si trafigge con il pugnale di Romeo. Nella scena finale, le due famiglie e il Principe accorrono alla tomba, dove Frate Lorenzo gli rivela l’amore e il matrimo-nio segreto di Romeo e Giulietta. Le due famiglie, come anticipato nel prologo, sono riconciliate dal sangue dei loro figli, e pongono fine alla loro guerra. L’obiettivo di questo lavoro è quello di analizzare, attraverso uno studio di tipo compa-rativo, le versioni che tre grandi autori della musica classica europea hanno dato dello stesso soggetto. Onde procedere in tal senso, reputo però necessaria una preliminare riflessione sulle origini del mito e sulla sua evoluzione letteraria e teatrale attraverso i secoli. A seguire un breve excursus di questi processi. 1.1 Origini.

Il dramma è essenzialmente di ispirazione medievale ma Carol Gesner e J.J. Munro hanno dimostrato che il motivo era presente già nella letteratura greca antica nei Ba-byloniaka di Giamblico e negli Ephesiaka1 di Senofonte Efesio. Per quanto riguarda la tradizione letteraria italiana, i nomi delle due famiglie in lotta erano noti sin dal Trecento, inserite da Dante nella sua Commedia (Purgatorio,VI, 105). Solo i Montecchi sono originari di Verona, i Capuleti provengono invece da Brescia, ma si trovano anche a Verona fino agli anni della permanenza di Dante, nella attuale casa di Giulietta2. Non ci sono notizie di lotte tra Capuleti e Montecchi, mentre questi

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1. In questo secondo romanzo Anzia, una donna separata dal marito a causa della sorte avversa, viene salvata da una banda di ladri di tombe. Sopraffatti dall'eroico Perilao, questi pretende da lei di sposarlo per ricono-scenza, creando la stessa situazione provocata da Paride in Shakespeare. Disperata, beve una pozione che crede essere veleno, ma che produce, come in Giulietta solo uno stato letargico. Risvegliatasi, è tratta in salvo dagli stessi tombaroli con i quali parte per altre avventure. 2. La presenza della famiglia è, peraltro, testimoniata dallo stemma del cappello sulla chiave di volta dell'arco di entrata al cortile dell'edificio duecentesco.

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ultimi hanno portato avanti per molto tempo una lotta sanguinosa contro i guelfi. Le notizie sui Montecchi risalgono al tempo in cui furono banditi dalla città da Cangrande della Scala, per aver tentato un complotto contro di lui. Il contesto storico in Dante non fa riferimento alle vicende dell’amore contrariato tra gli amanti di queste famiglie, che non vi appaiono, ma parla delle due famiglie, commiserandole. Una prima struttura della trama si delinea invece nella novella di “Mariotto e Giannoz-za” di Masuccio Salernitano, composta nel 1476 ma ambientata a Siena3. Successiva-mente, Luigi da Porto nella sua Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti, pubblicata nel 1530 circa, contribuì alla fama della storia così come conosciuta nella sua forma moderna. Innanzitutto, rinomina i giovani Romeus e Giulietta e trasporta l’azione da Siena a Verona, all’epoca di Bartolomeo della Scala, nel 1301-1304. Nella trama, poi, sono presenti elementi chiave come la rissa, la morte di un cugino dell’ama-ta perpetrata da Romeo, il bando dalla città di quest’ultimo e la tragica fine di entrambi. Ma la novella dei due sfortunati innamorati vanta anche una tradizione letteraria oltre-confine. La novella fu tradotta in francese da Pierre Boaistuau (1559), che a sua volta venne tradotto in inglese, sia in prosa (da William Painter nel suo Palace of Pleasure, 1567) che in versi: il poema narrativo Tragicall Historye of Romeus and Juliet, scritto nel 1562 da Arthur Brooke fu infine la fonte primaria del Romeo and Juliet shakespearia-no. Si tratta di un poema drammatico di poco più di tremila versi, scritto in rime baciate di esametri giambici alternate a eptametri. Il risultato è piuttosto monotono, spesso sin troppo moraleggiante come in Boaistuau e i personaggi sono privi della freschezza sha-kespeariana. Ma Shakespeare, pur cambiandone il tono in parecchie parti, ne segue molto fedelmente la trama. A Brooke dobbiamo tra l’altro la felice invenzione della balia così come appare in Shakespeare, un po’ sboccata ma generosa con tutti, sponta-nea, dall’ irresistibile umorismo popolaresco. Il dramma shakespeareano è stato scritto tra il 1594 e il 1596. La modifica sostanziale che Shakespeare introdusse nella vicenda, più che le azioni e i fatti, riguarda la moralità e il significato assegnato alla storia. Gli amanti «sfortunati e disonesti» descritti da Bro-oke diventarono personaggi archetipici dell’amore tragico, riflettendo allo stesso tempo la crisi del mondo culturale e sociale dell’ epoca, in cui il Principe e la Chiesa non rie-scono più ad imporre l’ordine (materiale e spirituale). Shakespeare arricchì e trasformò

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3. Sia il tono che la trama dell’opera mostrano delle notevoli differenze rispetto all’opera di Shakespeare: Masuccio insiste, almeno all'inizio, sull’aspetto erotico e spensierato della loro relazione, ben lontana dall’a-spetto di sacralità che acquisterà in seguito. Giannozza trangugia allegramente la pozione (la Giulietta di Shakespeare berrà il narcotico con terrore, e da quei suoi versi usciranno dei presagi sinistri della catastrofe che seguirà di lì a poco). L’ambientazione di Masuccio è molto più solare, mediterranea, priva dell'atmosfera gotica anglosassone, e la morte di Tebaldo, qui scaduto ad un ignoto “onorevole cittadino” è effetto di una bastonata assestatagli da Mariotto in seguito ad un’animata discussione. Annullati la scena del duello ed il personaggio di Mercuzio.

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stilisticamente la trama in modo più intenso con vivide caratterizzazioni dei personaggi minori, tra cui Benvolio, amico di Romeo e vicino al Principe, nelle funzioni di testi-mone della tragedia, la nutrice che rappresenta un momento di comica leggerezza, e infine Mercuzio, creatura shakespeariana di straordinaria potenzialità drammatica e figura emblematica, che incarna l’amore dionisiaco e vede la donna solo nel suo aspet-to più immediatamente materiale. Romeo rivela però una concezione più alta, che in-nalza Giulietta oltre la pura materialità dell'amore. In Shakespeare il tempo rappresen-tato si comprime al massimo, aumentando così l'effetto drammatico. La vicenda, origi-nariamente della durata di nove mesi, si svolge in pochi giorni, da una domenica matti-na di luglio alla successiva notte del giovedì. Il percorso drammaturgico si brucia in una sorta di rito sacrificale, con i due giovanissimi protagonisti travolti dagli avveni-menti, e dall’impossibilità di un passaggio all’età adulta, alla maturazione4. 1.2 Contesto storico.

La tragedia prende le sue mosse dal contesto storico dell’epoca. Nel periodo in cui il dramma è ambientato, l’Italia non esisteva ancora come stato unitario, e i suoi Comuni erano divisi, in guerra tra loro e con lo Stato Pontificio. Verona e Venezia in particolare furono nel Cinquecento una spina nel fianco della Chiesa cattolica. Nel Regno d’Inghil-terra, d’altro canto, nel periodo in cui il dramma venne composto regnava Elisabetta I che, come tutti i sovrani britannici successivi a Enrico VIII (padre di Elisabetta), era a capo della chiesa protestante anglicana. È quindi comprensibile che Romeo e Giulietta dipinga l’ambiente cattolico a tinte fosche, evocando sulla scena le paure diffusesi in Inghilterra in seguito al formale distacco della Regina Elisabetta dalla Chiesa di Roma (dopo i tentativi di restaurazione cattolica della sorellastra Maria, che la precedette sul trono) che provocò quindi l’uscita dalla coalizione di stati cattolici, e l’aperto sostegno a tutti i partiti protestanti europei. In questo periodo si consumarono le Guerre di Reli-gione (1572-1604) francesi, la cui violenza era culminata, venti anni prima della com-posizione della tragedia, nella sanguinosa Notte di San Bartolomeo.

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4. Nonostante la diversità di impostazione, nel Romeo e Giulietta shakespeariano è possibile ravvisare cita-zioni quasi letterali da Brooke, che sembrano dimostrare come prima della composizione il Bardo di Avon dovesse conoscere il poema quasi a memoria. Ma vi sono anche influenze dirette da altri autori, seppure in misura minore: oltre ad echi del già citato Palace of Pleasure vi sono anche quelli del Troilo e Criseide di Geoffrey Chaucer, che il Nostro doveva conoscere molto bene, derivati a loro volta dal Filostrato boccacce-sco che Shakespeare sembra però non avere mai letto. Al tempo in cui il Bardo di Avon iniziava la sua carriera drammaturgica, la storia dei due amanti infelici aveva ormai fatto il giro dell'Europa, riempiendo non solo le librerie ma anche gli arazzi delle case. Il Brooke stesso ci parlava già, trent'anni prima dell'esordio di Shakespeare, dell'esistenza di un famoso dramma sull'ar-gomento, non specificandone però l'autore. La popolarità di questo protodramma, anche se non ci sono per-venuti copioni né adattamenti, induce facilmente a pensare che molti autori minori avessero già messo in scena la storia un gran numero di volte prima che il Shakespeare si cimentasse con la propria versione.

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Elisabetta, dopo lo scisma consumato dal padre, fece adottare un catechismo diverso da quello cattolico (Book of Common Prayer), permettendo la traduzione in lingua inglese delle Sacre Scritture. Nel 1588 la regina, dopo avere rifiutato la corte insistente del cattolicissimo Filippo II di Spagna, sconfigge, complice l’instabile clima atlantico, l’ Invencible Armada inviata dal sovrano per conquistare l’isola. Se la vittoria sancì la superiorità marittima dell'Inghilterra aprendole la strada alle Americhe, scagliò però contro Elisabetta le ire di tutti i sovrani cattolici, diffondendo soprattutto a Londra un clima di paura, fomentato da intrighi di corte, spie, non certo alleviato dalla discreta presenza di una comunità di drammaturghi italiani. Il gotico inglese muove i suoi primi passi proprio dal teatro elisabettiano, il cui sfondo sono le guglie di chiese e castelli anglosassoni, arricchito di stereotipi mutuati dal mon-do cattolico, quali la cripta dei delitti e delle torture, le torbide vicende di amanti perse-guitati dentro le mura di conventi spagnoli o italiani. In questo clima, frate Lorenzo diventa lo strumento di una provvidenza che opera al rovescio. Benché motivato dalle migliori intenzioni, il suo piano, complice il fato avverso, porta al suicidio di Romeo e Giulietta. Le arti magiche del frate, creatore della pozione narcotica, gettano una luce sinistra e provocano nel pubblico lo stesso terrore che si impossessa di Giulietta un istante prima di bere la fiala. “Romeo e Giulietta” è ancora in gran parte un dramma medievale, ancorché di argo-mento profano. In generale nel medioevo i difetti personali e l’autodeterminazione non avevano alcun potere nelle vicende degli uomini, regolate solo da una provvidenza spesso crudele e imperscrutabile, controparte letteraria dei vari memento mori custoditi nelle dimore medievali, dai macabri ritratti della morte ricoperta da un manto nero con una falce in mano a varie statuette sullo stesso tema. Il Dio cristiano dei predicatori medievali è tanto imperscrutabile nel suo operato quanto terribile e severo. L’ indivi-duo quale noi intendiamo oggi è una creazione moderna: ogni persona era considerata non in sé ma in quanto parte della comunità da cui dipendeva e a cui tutto doveva. In confronto alle epoche successive, ben poche sono le opere firmate nel medioevo, che ignorava il diritto d'autore. La mancanza della centralità dell’individuo sia a livello terreno che escatologico è probabilmente responsabile dello scarso affidamento che fa la cultura medievale sulla possibilità della volontà umana di cambiare i destini del mondo. La caduta di questi personaggi era un monito alla vanità degli uomini che si occupano troppo dei beni terreni perdendo di vista Dio, unica fonte di salvezza. Shake-speare fa un passo avanti in questo senso, introducendo nei personaggi del dramma dei difetti personali (l’avventatezza degli amanti, la passione sanguinaria per il duello di Mercuzio e Tebaldo, ecc.) ma lasciando nell’ambiguità se essi incidano fatalmente sul-l’esito della storia. 1.3 Adattamenti.

Ci sono stati molti adattamenti di Romeo e Giulietta, in ogni forma artistica possibile.

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Tra i più famosi quelli elencati qui sotto: Drammi: Carmelo Bene, Romeo e Giulietta (Storia di William Shakespeare) secondo Carmelo Bene (Prato, Teatro Metastasio, 17 dicembre 1976); Ann-Marie McDonald, Buonanotte Desdemona (buongiorno Giulietta) (Reading Theatre, 2005). Danza: molti adattamenti danzati della tragedia, il primo dei quali nel XVIII secolo. Il più conosciuto è il balletto in quattro atti Romeo e Giulietta musicato da Sergei Proko-fiev su libretto di Sergei Radlov, Adrian Piotrovsky, Leonid Lavrovsky e Prokofiev stesso. La prima del balletto, che si doveva tenere al Teatro Kirov di Leningrado, fu rimandata fino all’11 gennaio 1940. Per una serie di curiosi contrattempi la prima av-venne quindi non in Unione Sovietica, bensì a Brno (nell'attuale Repubblica Ceca) il 30 dicembre 1938 con la coreografia di Ivo Váňa-Psota. Da allora il balletto è stato messo in scena da tutti i maggiori coreografi. Musica strumentale: tra le opere strumentali ispirate alla tragedia ricordiamo Romeo e Giulietta, «ouverture-fantasia da Shakespeare» di Pëtr Il'ič Čajkovskij, e il (Roméo et Juliette), Sinfonia drammatica,(1839) di Hector Berlioz, quest'ultima prevalentemente composta da parti strumentali e vocali. Berlioz fu probabilmente ispirato da una rappre-sentazione della tragedia del 1827: ne era stato talmente impressionato da sposare Har-riet Smithson, l'attrice che impersonava Giulietta. Prokofiev scrisse inoltre tre suite per orchestra basate sulla musica del suo balletto, di cui trascrisse inoltre dieci pezzi per pianoforte. Musical: il musical West Side Story, diventato anche un film, è basato su Romeo e Giulietta ma la storia è ambientata a metà del XX secolo a New York City e le famiglie rivali sono rappresentate da due bande giovanili di diversa etnia. Roméo et Juliette, de la Haine à l'Amour, un musical di Gérard Presgurvic, debuttò il 19 gennaio 2001 al Palazzo dei Congressi di Parigi, in Francia. Ha già attirato (2005) sei milioni di persone. Giulietta e Romeo è infine il titolo di una commedia musicale del 2007 con musica di Riccardo Cocciante, su libretto di Pasquale Panella. Cinema: Esistono oltre quaranta versioni cinematografiche della storia di Romeo e Giulietta, di cui la prima nel 1900. La versione del 1936 fu una tra le più importanti tra i classici di Hollywood. Il film West Side Story, ispirato a Romeo e Giulietta con le musiche di Leonard Bernstein, vinse 10 Oscar. Nel 1968 Franco Zeffirelli diresse il film che vinse due Oscar. Abel Ferrara trasse dalla tragedia il suo film China Girl. Il film del 1996 Romeo + Giulietta, diretto da Baz Luhrmann, nonostante l'ambientazione contemporanea mantiene il testo nella sua forma integrale. Musica Leggera: L’album dei Dire Straits Making Movies del 1980 contiene la famo-sa canzone Romeo and Juliet, che tratta il tema dell'amore perduto o non corrisposto. Il gruppo The Indigo Girls ha realizzato una cover di questa canzone nell'album Rites of Passage. Nel 2007 anche il gruppo dei The Killers ha inciso una cover di questo brano. Nel 1983 Robin Gibb incise il brano Juliet, che fu anche sigla del Festivalbar di quell’-

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anno. La canzone Exit Music (For a Film) dei Radiohead, contenuta nell'album OK Computer fu scritta nel 1996 per la versione cinematografica di Luhrmann (vedi sopra) ed è un incitamento di un amante all'amata a fuggire dall'oppressione delle rispettive famiglie attraverso il suicidio.Nel 1999 gli His Infernal Majesty noti semplicemente come H.I.M. hanno composto la canzone "Join me (in death)" tratta dall'album Razor-blade Romance in cui due innamorati vogliono fuggire dalla realtà che li affligge, con il suicidio; prendendo spunto appunto dalla vicenda di Romeo e Giulietta. Opera: tra i numerosi adattamenti operistici si ricordano qui Romeo e Giulietta di Charles Gounod (1867) su libretto di Jules Barbier e Michel Carré, Giulietta e Romeo (1922) di Riccardo Zandonai su libretto di Arturo Rossato. Felice Romani fu autore di un libretto d'opera basato sulla Novella IX di Matteo Bandello. Musicato una prima volta da Nicola Vaccaj con il titolo Romeo e Giulietta (Milano, Teatro della Cannobia-na, 31 ottobre 1825), questo libretto fu messo in musica anche da Eugenio Torriani, con lo stesso titolo (Vicenza, Teatro Eretenio, 1828), e da Vincenzo Bellini con il titolo I Capuleti e i Montecchi (Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1830). La fortuna di que-st’ ultima partitura, come vedremo, contribuì a determinare l’uscita di repertorio dell’-opera di Vaccaj, anche se per qualche tempo l’opera di Bellini fu rappresentata col fi-nale, più tradizionale, di quella di Vaccaj. Cap. 2

2.0 “Giulietta e Romeo” secondo Nicola Vaccaj e Felice Romani.

Nell’anno 1823 la messa in scena della Semiramide di Gioacchino Rossini rappresenta anche l’addio del genio pesarese al mondo della lirica a chiusura di una stagione operi-stica quanto mai significativa per la carica di vitalità creativa espressa e per le novità stilistiche introdotte nel melodramma e nell’opera buffa. Il triennio successivo è carat-terizzato pertanto dalla ricerca di nuove strade che conducano ad una svolta il teatro d’opera italiano. Nel 1824 Mayerbeer compone Il Crociato in Egitto dove, nonostante gli ancora evidenti influssi rossiniani, s’intravedono i primi segnali di rinnovamento. Nel 1825 Giovanni Pacini ottiene il suo primo successo con L’ultimo giorno di Pompei, un melodramma dallo stile nobile e solenne, ma aperto ad una moderata esaltazione dei sentimenti. Nel 1826 un giovanissimo Vincenzo Bellini debutta al Teatro San Carlo di Napoli con Bianca e Fernando, in cui si possono leggere i segni di una talento melodi-co carico di poesia. Sempre nel 1826 ottiene un notevole successo a Venezia Caritea regina di Spagna, prima opera di Saverio Mercadante che, accanto alle influenze rossi-niane, introduce in essa i primi segnali di quel romanticismo melodico che troverà il suo primo, autorevole rappresentante in Gaetano Donizetti. In questo quadro storico si colloca la figura di Nicola Vaccaj . Il trionfo di Giulietta e Romeo ha garantito a Nicola Vaccaj per lungo tempo la fama di buon operista oltre che di maestro di canto, noto per un metodo che serve ancor oggi come utilissima base per la formazione al belcanto. Il compositore di Tolentino nutriva

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serie ambizioni anche in campo teatrale: si contano nove insuccessi contro un esito felicissimo, l’opera sullo stesso libretto che Felice Romani5 fornirà a Vincenzo Bellini per I Capuleti e i Montecchi (1830). Lontano quant’altri mai dalla tragedia di Shake-speare, il libretto di Romani sembra essere stato tratto piuttosto dall’adattamento shake-speariano operato da Luigi Scevola e pubblicato nel 1818, oltre che da un balletto sul tema di Romeo e Giulietta dal titolo Le tombe di Verona, rappresentato a Milano nel 1820. Un’opera sullo stesso soggetto era peraltro già presente nel repertorio teatrale; nel 1796 alla Scala si era infatti rappresentato Giulietta e Romeo di Nicola Zingarelli, su libretto di Giuseppe Maria Foppa, opera che rimase in auge fino a quando apparve l’omonimo titolo di Vaccaj, seguito dai belliniani Capuleti e Montecchi . Ma non è tanto a Zingarelli che guarda Vaccaj quando scrive Giulietta e Romeo, quanto al Tan-credi di Rossini, almeno per un aspetto: la distribuzione dei ruoli vocali. C’è una cop-pia di amanti soprano-contralto (Amenaide-Tancredi in Tancredi, Giulietta-Romeo nell’opera di Vaccaj), cui si oppone un padre tenore (Argirio in Tancredi, Capellio in Giulietta e Romeo ), il quale vuol dare la propria figlia in sposa a un basso (Orbazzano in Tancredi , Tebaldo in Giulietta e Romeo ): più che una coincidenza questa, se si os-

9.

5. Per il testo Vaccaj si rivolge a Felice Romani (1788-1865), uno dei librettisti che in quel momento gode di maggiore fama e prestigio. Classicista per vocazione e per cultura, ammiratore di Vincenzo Monti che lo incoraggia a dedicarsi all’attività letteraria, il Roma vive come autore in continua contraddizione con se stesso, diviso fra l’amore per il “divino” Metastasio da lui considerato un maestro e le tematiche emergenti del Romanticismo, guardato senza simpatia e con sospetto. Romani aveva iniziato la sua attività di librettista nel 1813 scrivendo La rosa bianca e la rosa rossa per il compositore Giovanni Simone Mayr. Da quel mo-mento egli svolge un intenso lavoro per il Teatro alla Scala, scrivendo nel periodo 1817-1822 ventuno libretti per autori importanti come Pacini, Morlacchi e Meyerbeer. Contemporaneamente scrive per Rossini Il Turco in Italia (1814) e Bianca e Faliero (1819). Nel 1822 Romani inizia una proficua collaborazione con Saverio Mercadante per il quale redige bel diciassette libretti fra cui Amleto (1822), che rappresenta il suo primo incontro con l’opera di Shakespeare. Sempre nel 1822 comincia a collaborare, scrivendo Chiara e Serafina, con Gaetano Donizetti, anche se non condivide il suo stile musicale dichiaratamente romantico. Nonostante questa divergenza artistica, Romani realizza per il compositore bergamasco gli ottimi libretti di Anna Bolena (1830) e Lucrezia Borgia (1833) e quel piccolo capolavoro rappresentato da L’elisir d’amore (1832). Nel 1825 e nel 1829 Romani scrive per Vaccaj i due libretti di Giulietta e Romeo e del Saul, mentre nel 1827 avviene l’incontro con Bellini per il quale scrive nel 1827 Il pirata, seguiti da Bianca e Fernando (1828), La straniera (1829) e Zaira (1829).Romani, oltre all’adattamento dei Capuleti e Montecchi del 1830, scrive ancora per Bellini i due libretti di Sonnambula (1831) e Norma (1831), che devono considerarsi nel loro genere dei veri e propri capolavori. Infine la loro collaborazione si conclude nel 1833 con la stesura del li-bretto di Beatrice di Tenda. Ormai il Romanticismo si sta pienamente affermando e Romani si sente tagliato fuori dal mondo del melodramma (anche se scrive nel 1840 Un giorno di regno per Giuseppe Verdi): Bellini è morto, Rossini ha abbandonato le scene, Donizetti è in una fase discendente, gli altri compositori un tempo in voga e con i quali era solito lavorare (Mayr, Vaccaj, Morlacchi) sono ormai fuori dal giro, Mercadante è ormai legato ad altri autori di dichiarata fede romantica. Romani, che non ammira i nuovi astri della letteratu-ra romantica (Byron e Hugo) e che si mostra critico persino nei confronti Manzoni, decide di trasferirsi nel 1834 da Milano a Torino, dove Carlo Alberto lo ha personalmente incaricato di dirigere la Gazzetta Ufficiale Piemontese. Egli continuerà a coltivare dentro di sé l’irrisolta contraddizione di essere un convinto classicista e nello stesso tempo il più rappresentativo e valido librettista del primo melodramma romantico italiano.

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serva che i primi interpreti dell’opera di Vaccaj cantarono tutti Tancredi . 2.1. La trama.

Al fine di poter comparare le differenze rispetto all’opera di Shakespeare ed alle versio-ni d’opera successive, occorre analizzare anche le differenze presenti nella trama delle versioni qui analizzate. Innanzitutto, rispetto al dramma shakespeareano che vanta ben cinque atti, l’opera di Vaccaj, su libretto di Felice Romani, è suddiviso in due lunghi atti; nelle edizioni successive, però, esso subisce una ulteriore suddivisione in tre atti. La vicenda è ambientata nel XII secolo, a Verona. Dopo un breve ma intenso preludio, dove si colgono i presagi dell’incombente tragedia, il primo atto si apre con un coro dialogato di Guelfi che temono una vittoria dei Ghibellini sulla fazione dei Cappelletti (“Aggiorna appena... ed eccoci”). Quindi Capellio annuncia a Tebaldo la sua volontà di concedergli in sposa la propria figlia Giulietta anche se la moglie Adele e il medico di famiglia Lorenzo manifestano le loro perplessità sulla disponibilità della giovane di acconsentire alle nozze. Tebaldo si offre come condottiero dei Guelfi e Capellio ricorda l’odio nutrito nei confronti di Romeo ritenuto responsabile della morte di suo figlio. Si attende l’arrivo della delegazione dei Ghibellini che deve trattare la pace e si scopre che essa è guidata dallo stesso Romeo, il quale propone “pace e amistà” da consolidare attraverso le sue nozze con Giulietta. La proposta viene però respinta da Capellio che ricorda come fra loro esista una “barriera eterna” di sangue anche se Romeo gli ricor-da che la morte del figlio non è un assassinio, perché è avvenuta in battaglia: Se Romeo ti uccise un figlio In battaglia a lui diè morte: Incolpar ne dei la sorte; Ei ne pianse e piange ancor. Deh! Ti placa, e un altro figlio Troverai nel mio Signor. Capellio rifiuta l’offerta di pace e il matrimonio proposti da Romeo, annunciando di aver concesso la mano di Giulietta a Tebaldo, per cui l’incontro si conclude con una dichiarazione di guerra da parte di Romeo: La guerra bramata, - insani, fia presta. Atroce, funesta, - tremenda sarà. Verona prostrata – nel sangue, nel pianto Voi, crudi, soltanto – odiare dovrà. L’azione si sposta nelle stanze di Giulietta che piange disperata fra le braccia di Loren-zo, ma ecco sopraggiungere Romeo e fra i due giovani ha luogo il celebre duetto d’a-

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more “Sei pur tu che ancor rivedo”. Allontanatosi Romeo, entra in scena, accompa-gnato da Tebaldo, il padre di Giulietta che comunica alla giovane la proposta matrimo-niale di Romeo, il suo rifiuto e la sua decisione di maritarla a Tebaldo (terzetto “Cara, deh! Fa che splendere”). Hanno inizio i preparativi per i festeggiamenti nuziali (coro “Festeggiam con danze e canti”) e Romeo penetra nel palazzo con una divisa da guel-fo per rapire Giulietta. Nel frattempo si prepara anche lo scontro fra Guelfi e Ghibellini e Romeo si dichiara pronto alla battaglia (“Io già corro a vendicarmi”), mentre Giuliet-ta manifesta tutto il suo dolore (“Tace il fragor…silenzio!”). Romeo invita la giovane a seguirlo, ma sopraggiungono Capellio e Tebaldo, per cui l’atto si chiude con i due gio-vani che si scambiano minacce di morte. Il secondo atto ha inizio con un coro di donne che dialogano con Adele contro la guerra (“La mischia orribile”), ma Capellio porta la notizia della morte di Tebaldo per mano di Romeo, quindi egli comunica alla figlia la sua decisione di rinchiuderla in convento. Lorenzo e Giulietta studiano un piano che contempla l’uso di un filtro che dà una morte apparente e che prevede, dopo la tumulazione della fanciulla, l’invio di un servo nel castello di Romeo per informarlo dello stratagemma che consentirà ai due giovani di unirsi in matrimonio. Capellio manifesta ancora la sua ira contro la figlia, quando arri-va la notizia della morte di Giulietta e della disperazione di suo padre (“Cessa…mi lascia”). Dopo un “a solo” di Lorenzo (“Voi lo seguite”), ha inizio la celebre “scena dei sepolcri” che ha sempre rappresentato l’elemento fondamentale del successo dell’o-pera. La scena si apre con il coro “Addio per sempre, o vergine” a cui fa seguito la gran scena di Romeo che comprende la bellissima aria “Ah! Se tu dormi, svegliati” e la cabaletta “Stagnate, o lagrime”; a quindi luogo il duetto “O tu che morte chiedi” che precede la morte di Romeo. Il finale si apre con l’aria di Giulietta “Prendimi, teco, e involami” alla presenza di Lorenzo e di Capellio, al quale la giovane chiede di essere trafitta dalla sua spada. Di fronte al diniego del padre, Giulietta si getta sul cadavere di Romeo ed invoca il sopraggiungere della morte (“A Romeo mi uccida appresso”) ed a Lorenzo tocca il compito di costatarne la fine. 2.2 Tra tradizione ed innovazione.

Romani, pur avendo come modello la tragedia classica alla francese, sembra subire l’influsso romantico del romanzo Lucia di Lammermoor di Walter Scott. Infatti il li-brettista pone un particolare impegno nell’evidenziare il ruolo di Giulietta vittima di un padre che vuole sacrificarla per seguire dei calcoli politici e per l’odio nutrito nei con-fronti di Romeo (nel romanzo il ruolo di Capellio è riservato al fratello di Lucia, il qua-le prova un odio profondo per Edgardo innamorato della giovane). A sua volta Romeo assume il ruolo dell’eroe – guerriero che si sta affermando in quel periodo pre – risorgi-mentale, anche se Vaccaj, per un eccessivo attaccamento alla tradizione, compone que-sta parte per un mezzosoprano a scapito della virile energia del personaggio. Giulietta e Romeo godette nel corso dell’Ottocento di una fortuna propria e di una, di-

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remmo, di riporto, in quanto il grande mezzosoprano Maria Malibran decise di sostitui-re al finale dei Capuleti e Montecchi di Bellini la scena finale di Romeo dell’opera di Vaccaj. La Malibran fu applaudita interprete del ruolo di Romeo in alcune riprese dell’-opera; fra queste particolarmente significative le rappresentazioni avvenute alla Scala nell’autunno 1835, per le quali Vaccaj operò modifiche sostanziali alla partitura: modi-ficò tutti i recitativi secchi in recitativi accompagnati, portò la struttura da due a tre atti - il terzo atto inizia in corrispondenza del coro "Addio per sempre, o vergine" - e, in conseguenza di ciò, dovette pensare a una chiusa per l’atto secondo, che fece terminare con un grande duetto tra Romeo e Tebaldo ("Deserto è il loco"). Interessante per lo studio della prassi della variazione è la notazione sull’autografo di molte varianti ri-chieste dalla Malibran, che ci danno l’idea delle straordinarie capacità vocali - estensio-ne, intonazione, legato - di questa cantante. Schiacciata dal confronto con “I Capuleti e i Montecchi” , “Giulietta e Romeo” dopo la sua felice stagione ottocentesca è scom-parsa dalle scene teatrali, fino a un suo recente recupero (Jesi 1996) che ne mette in luce le indibbie qualità musicali. Le linee vocali delineano i personaggi con pertinenza, in una scrittura di grande raffinatezza ed equilibrio tra cantabilità e piglio virtuosistico; equilibrio che si verifica anche nell’orchestrazione che, per quanto nutrita, tiene sempre presente il rapporto con le voci. La melodia di Vaccaj è sempre ricca e ben costruita, come si rileva nella cavatina "Se Romeo t’uccise un figlio", o ancora nell’aria e duetto al termine del secondo atto; la tessitura vocale è impreziosita in taluni casi dall’adozio-ne di andamenti a canone tra le voci, come nel finale primo. Per quanto riguarda il libretto di Nicola Romani, è apportuno evidenziare alcuni aspetti. Quando nel 1825 si prepara a scrivere il libretto per la Giulietta e Romeo di Vaccaj, Romani si basa inizialmente sul libretto scritto da Giuseppe Maria Foppa per l’opera di Zingarelli, ma in un secondo tempo, quando scopre si tratta di un lavoro scenicamente poco efficace, lo abbandona per preferirgli la tragedia Giulietta e Romeo (1818) di Lui-gi Scevola. Al Romani, che non apprezza il linguaggio ampolloso della tragedia, inte-ressa soprattutto la sua struttura drammaturgica, la sequenza degli episodi, il carattere dei personaggi. Dall’opera teatrale egli trasferisce nel libretto l’ampio spazio lasciato alle lotte fra Guelfi e Ghibellini, una precisa collocazione storica della vicenda a diffe-renza del Da Porto e del Bandello che si limitavano a fare riferimento alla signoria di Bartolomeo della Scala quindi all’inizio del XIV secolo. Romani colloca la storia dei due innamorati nel “dodicesimo secolo” con un evidente errore di datazione, perché poi nel testo, seguendo in questo lo Scevola, cita come signore di Verona Ezzelino III da Romano (1194-1259) che esercita il suo dominio sulla città fino al 1259, anno in cui ha inizio la signoria di Bartolomeo della Scala. Siamo pertanto nel tredicesimo secolo e la scelta fatta da Scevola può essere stata determinata dalla maggiore fama che godeva presso gli spettatori Ezzelino da Romano rispetto a Bartolomeo della Scala. Romani tiene d’occhio anche i testi di Da Porto e Bandello e quindi mantiene nel libretto la figura del padre di Giulietta a cui dà il nome di Capellio Cappelletti, mentre non speci-

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fica l’età di Giulietta che per Da Porto ha 18 anni, per Bandello 20/21 e secondo Shake-speare addirittura 14. A sua volta Romeo, che in Da Porto-Bandello-Foppa è soltanto un giovane innamorato coinvolto suo malgrado nelle lotte intestine che dividono le due famiglie, nel libretto del Romani diventa il “Capo” dei Montecchi come è indicato nella tragedia dello Scevola. Scompare poi la figura del padre di Romeo che viene indicato come l’uccisore di un figlio di Capellio. Secondo Romani, lo stesso Romeo, proprio perché esponente di una famiglia nemica dei Cappelletti, è costretto a sopportare lunghi anni di esilio (“Ignoto a tutti/Poiché fanciul partia, visse Romeo/Per tutta Italia, e in Verona istessa/Più volte ignoro penetrare ardio”), prima di poter ritornare nella sua città come capo - fazione dei Ghibellin: “Duce ne viene/Dei miei nemici il più abborri-to e reo/Il più fiero…” affermerà nel vederlo il suo avversario Capellio. Romani, prendendo come modello il Foppa, riduce drasticamente a sei il numero dei personaggi: Capellio capo della famiglia dei Cappelleti, Giulietta, Adele madre di Giu-lietta (assente in Foppa), Romeo capo dei Montecchi, Lorenzo un medico familiare di Capellio, Tebaldo partigiano dei Cappelletti e promesso sposo di Giulietta. Scompare il personaggio di Mercuzio, l’amico di Romeo presente nella novella del Bandello con il nome di Marcuccio Guertio; è assente anche il personaggio della Nutrice, presente in-vece sia in Bandello, sia in Foppa con il nome di Matilde confidente di Giulietta. Va segnalato il fatto che il personaggio di Lorenzo, come si era verificato nel testo di Fop-pa, perde lo stato di frate (per evitare i colpi della censura) per diventare il medico di famiglia. Una significativa trasformazione subisce anche Tebaldo che da primo cugino di Giulietta e violento antagonista di Romeo diventa il capo della fazione dei Cappellet-ti che pronuncia parole guerresche al pari di Romeo: “Sì, voi costante e saldo/Difensor sarà Tebaldo/Correrà la vostra sorte,/O sia duce, o sia guerrier”. Inoltre Tebaldo, nei libretti di Foppa e di Romani, è destinato ad assumere il ruolo di pretendente alla mano di Giulietta, che in Da Porto appartiene al conte di Londrone, in Bandello al conte Paris di Londrone, il quale diventa Shakespeare semplicemente il conte Paride. Romani sop-prime inoltre scene fondamentali come la festa in casa Cappelletti occasione del fatale incontro fra Romeo e Giulietta; al pari viene eliminata la celebre scena del balcone momento che suggella l’amore fra i giovani. La morte di Tebaldo, che elimina il pro-messo sposo di Giulietta, non consente a suo padre Capellio di costringere la figlia a nuove nozze, per cui Romani deve far dire al padre dolente e adirato: “Non ho più figli. Al dì nuovo fia tratta/Lunge da queste soglie a chiostro oscuro/A pianger fin che vive i suoi falli”. E’ quindi la paura di essere rinchiusa in convento che spinge Giulietta, con la complicità del medico Lorenzo, a bere il filtro che dà la morte apparente. Particolar-mente ambigua appare la fine di Giulietta, che non si pugnale con l’arma di Romeo, ma cade riversa sul cadavere del suo amante senza che emerga alcuna causa della sua mor-te. Romani, pur avendo come modello la tragedia classica alla francese, sembra subire l’influsso romantico del romanzo Lucia di Lammermoor di Walter Scott. Infatti il li-

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brettista pone un particolare impegno nell’evidenziare il ruolo di Giulietta vittima di un padre che vuole sacrificarla per seguire dei calcoli politici e per l’odio nutrito nei con-fronti di Romeo (nel romanzo il ruolo di Capellio è riservato al fratello di Lucia, il qua-le prova un odio profondo per Edgardo innamorato della giovane). A sua volta Romeo assume il ruolo dell’eroe – guerriero che si sta affermando in quel periodo pre – risorgi-mentale, anche se Vaccaj, per un eccessivo attaccamento alla tradizione, compone que-sta parte per un mezzosoprano a scapito della virile energia del personaggio. Giulietta e Romeo debuttò il 31 ottobre 1825 al Teatro Canobbio di Milano per poi essere riproposta con grande successo nel 1826 per 18 serate al Teatro alla Scala. In questa opera si avverte la necessità di Vaccaj di liberarsi da alcuni modelli rossiniani per puntare su di una struttura drammaturgica più serrata e pregnante, su melodie mag-giormente segnate dall’esaltazione dei sentimenti. Vaccaj esprime al meglio le sue qua-lità creative con una serie di brani musicali e parti cantate che resteranno nel repertorio di grandi cantanti per tutto l’Ottocento. Non solo Bellini deve ritenersi debitore del Vaccaj per alcuni spunti della sua opera Capuleti e Montecchi, ma lo stesso Donizetti deve aver ascoltato con attenzione questa musica soprattutto nel comporre il celebre duetto “Verranno a te sull’aure” della sua Lucia di Lammermoor. Il figlio Giulio, nel suo volume Vita di Nicola Vaccaj (Bologna, 1882), riferisce il giu-dizio espresso su questa opera dalla Gazzetta di Milano del 3 novembre 1825: “Preceduto da alcune opere applauditissime in altri cospicui teatri, il maestro Vaccaj è venuto fra noi a confermare l’opinione di chi non dispera che la musica italiana non abbia altra via da percorrere che quella delle imitazioni. Dopo una specie di breve pre-ludio, che tien luogo di sinfonia. Si alza il sipario. Incomincia l’introduzione con un coro di assai bella fattura e vi hanno parte il tenore e due bassi. Il pubblico poté fin d’allora valutare la nobiltà dello stile e gli artifici della composizione per cui il maestro ottenne il primo plauso. La cavatina di Romeo succede alla introduzione, la melodia ne è dolce e piena d’effetto; il maestro e la cantante furono ugualmente applauditi. Alla cavatina tiene dietro un duetto, poscia un terzetto che termina a quattro voci e che repu-tiamo una delle più belle ispirazioni dell’opera. Dopo il finale il maestro fu chiamato a ricevere nuove testimonianze della pubblica soddisfazione come pure al termine dell’-atto II: lo stesso onore ebbero i primari cantanti. Nell’atto secondo sul coro d’introdu-zione, sulla scena ed aria del tenore, e sulla gran scena finale non ci ha che un grido di laude”. E’ la conferma che l’opera del Vaccaj contiene brani di ottima fattura e di alta ispira-zione che toccano il vertice in quel finale che molti hanno giudicato un “capolavoro immortale” e che lo stesso Rossini riteneva che avrebbe assicurato all’autore “un posto fra i compositori di miglior rinomanza”. Con molto acume critico il figlio Giulio espri-me a sua volta questo giudizio quello che si può considerare un capolavoro del melo-dramma italiano del primo Ottocento: “Quest’ultima parte certamente s’innalza sulle altre: così voleva il dramma, così voleva

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quel sentimento di economia artistica che presiede alla distribuzione dei colori e degli effetti: ma non è vero per questo che le precedenti ne siano indegne come è invalsa l’opinione in coloro che non le hanno mai sentite né lette. Ogni qual volta la Giulietta e Romeo fu cantata nella sua integrità, la cavatina, il terzetto e le altre scene…ottennero sempre uguali applausi che confermarono il giudizio da prima datone; e se circostanze speciali…hanno fatto sì che quelle prime parti fossero poi dimenticate, non per questo hanno perduto i pregi artistici di cui sono vestite e, richiamandole in scena, si rendereb-be piena giustizia al compositore”. Cap. 3

3.0 I Capuleti e i Montecchi, l’opera di Bellini.

L’opera “I Capuleti e i Montecchi” è un tragedia lirica in due atti con musica di Vin-cenzo Bellini su libretto di Felice Romani, rappresentata in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo 1830. Il libretto rappresenta un’evoluzione del preceden-te già utilizzato per la musica di Nicola Vaccaj ed analizzato nel capitolo precedente di questo studio. Esso si basa, come visto, su un’ ampia tradizione letteraria italiana (tra cui la novella IX di Matteo Bandello - 1554) dedicata alla celebre coppia di innamorati veronesi, e non, come talvolta si legge, sulla tragedia Romeo e Giulietta di William Shakespeare, all’epoca pressoché sconosciuta in Italia. Nell’arco della parabola creativa belliniana I Capuleti e i Montecchi segna il punto di massima canonizzazione delle macrostrutture e microstrutture operistiche. La succes-sione dei numeri musicali, la loro articolazione interna, così come la struttura del perio-do musicale concedono poco all’imprevisto, ma al tempo stesso mostrano un equilibrio maggiore che nelle precedenti partiture. Certo si tratta di una soluzione dettata, come avremo modo di vedere, anche dalla fretta, ma resta è indubbio che con quest’opera Bellini getta le fondamenta su cui si svilupperà la ricerca formale dei capolavori suc-cessivi. Negli ultimi anni I Capuleti e i Montecchi è stata spesso allestita nei teatri italiani, an-che in virtù di una scrittura vocale e di una drammaturgia semplici ma efficaci, e ad una trama di sicura presa. In precedenza, tuttavia, essa dovette soffrire di ogni genere di stravolgimenti. Per tutto il corso dell’Ottocento, seguendo l’esempio dato da Maria Malibran, il tenero e commovente duetto finale composto da Bellini - libero da vincoli formali ma reo di non concedere abbastanza all'esibizione vocale - venne sistematica-mente sostituito dal convenzionale finale dell’opera di Vaccaj. Mentre nel XX secolo la parte di Romeo fu a lungo affidata alla voce di tenore, come nell’incisione diretta da Claudio Abbado nel 1966, nella quale il celebre direttore d’or-chestra alterò anche la strumentazione e l’armonia. Più in stile, oltre che più fedele, appare l’incisione discografica diretta da Riccardo Muti nel 1985, con Edita Gruberova nella parte di Giulietta.

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I Capuleti e i Montecchi rientrano nel novero delle opere più rappresentate, nel corso dell’Ottocento, nei teatri italiani ed europei. All’opera belliniana legarono il proprio nome tutti i principali cantanti dell’epoca, fra i quali Maria Malibran, Giuditta Pasta, Fanny Tacchinardi Persiani, Giovanni Battista Rubini, Domenico Donzelli; interpretan-do Romeo sulle scene tedesche, negli anni Trenta, Wilhelmine Schröder-Devrient im-pressionò vivamente il giovane Wagner. Nel Novecento I Capuleti e i Montecchi sono stati ripresi dapprima a Catania nel 1935, in occasione del centenario della morte di Bellini, poi in vari teatri a partire dagli anni Cinquanta (alla Scala di Milano nel 1966, in un discusso allestimento diretto da Abbado, la parte di Romeo venne affidata al teno-re Giacomo Aragall); oggi l’opera occupa nuovamente un posto stabile nel repertorio dei teatri lirici. In tempi recenti al ruolo di Giulietta hanno legato il loro nome Mariella Devia, Katia Ricciarelli e Cecilia Gasdia; a quello di Romeo, Agnes Baltsa, Martine Dupuy e Diana Montague. 3.1 La trama.

Il primo atto si apre a Verona nel XIII secolo. La città è dilaniata dalla lotta che oppo-ne la famiglia dei Capuleti, guelfi, a quella dei Montecchi, ghibellini. Capellio, princi-pale esponente dei Capuleti, ha chiamato i suoi a raccolta per esortarli alla lotta contro la fazione avversaria: informa gli astanti che i Montecchi, sostenuti dall’amicizia di Ezzelino, hanno per capo Romeo, l’odiato uccisore di suo figlio, e che questi sta per inviare un ambasciatore con proposte di pace. Lorenzo, contro il parere generale, consi-glia di ricevere e ascoltare il messaggero. Capo della fazione guelfa è Tebaldo, che promette di vendicare col sangue di Romeo (“È serbata a questo acciaro”) l’uccisione del figlio di Capellio. Quest’ultimo gli offre in sposa la figlia Giulietta: le nozze si cele-breranno la sera stessa. Lorenzo, che conosce il segreto legame della fanciulla con Ro-meo Montecchi, sconsiglia il matrimonio accampando il pretesto della malattia di Giu-lietta. Tebaldo si dichiara pronto a rinunciare alle nozze, se dovessero costare una sola lacrima alla fanciulla; ma Capellio lo rassicura che Giulietta sarà eternamente devota a chi vendicherà il fratello ucciso. Giunge, intanto, l’ambasciatore dei Montecchi con proposte di pace: questi non è altri che Romeo, rientrato in Verona sotto mentite spo-glie. Propone che la pace sia suggellata dalle nozze tra Romeo e Giulietta (“Se Romeo t’uccise un figlio”); ma Capellio e i suoi rifiutano sdegnati, rinnovando anzi i loro pro-positi bellicosi. Intanto Giulietta, sola nei suoi appartamenti, ha appreso la decisione paterna: compiange la sua sorte e invoca l’amato Romeo, che crede lontano (“Oh, quante volte, oh, quante”). Lorenzo le rivela che il giovane è tornato in città, in inco-gnito, e lo introduce per un uscio segreto nella stanza di Giulietta. Romeo si getta nelle braccia dell’amata; alla sua proposta di fuggire con lui (“Sì, fuggire: a noi non resta”), la giovane rifiuta in nome del dovere e dell’obbedienza filiale. Romeo cerca inutilmen-te di persuaderla; poi, al risuonare della musica nuziale, si fa convincere ad allontanarsi

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e a mettersi in salvo. Nel palazzo di Capellio dame e cavalieri festeggiano le imminenti nozze di Giulietta con Tebaldo. Romeo, introdottosi tra i convitati in abiti guelfi, confi-da a Lorenzo che nel frattempo mille ghibellini armati sono penetrati in Verona, pronti a cogliere di sorpresa gli avversari. Lorenzo cerca invano di convincerlo ad allontanarsi da Verona e a rinunciare ai suoi propositi. S’ode un tumulto: un gruppo di Capuleti è assalito da alcuni Montecchi in armi; i convitati fuggono, Romeo corre ad unirsi ai suoi. Mentre si spegne il clamore, giunge Giulietta in abito da sposa, in ansia per l’esito dello scontro. Romeo la raggiunge e cerca nuovamente di convincerla a seguirlo; ma irrompono Tebaldo e Capellio, alla testa dei guelfi armati. Romeo, riconosciuto, riesce a sottrarsi all’ira dei nemici solo grazie all’intervento dei suoi. Il secondo atto si apre negli appartamenti di Giulietta, dove la giovane è sola: la batta-glia è ripresa e la fanciulla attende, in ansia, che Lorenzo le comunichi l’esito dello scontro. Apprende che Romeo è salvo, ma che una minaccia incombe su di lei: l’indo-mani sarà condotta al castello di Tebaldo e costretta alle nozze. Lorenzo le consiglia allora uno stratagemma: le consegna un filtro in grado di simulare la morte, che la fan-ciulla beve dopo qualche esitazione (“Morte io non temo, il sai”). Giunge Capellio, che impone alla figlia di ritirarsi e di prepararsi alle nozze. Giulietta scongiura il padre di abbracciarla; questi è turbato, ma mette a tacere i propri rimorsi. Manda a cercare Te-baldo e gli ordina di sorvegliare Lorenzo, di cui comincia a diffidare. In una via di Ve-rona, intanto, Romeo – allarmato dalla mancanza di notizie – è in cerca di Lorenzo. S’imbatte in Tebaldo, che lo sfida a duello (“Stolto, a un sol mio grido”); ma sul punto di battersi, i due rivali sono trattenuti da una musica funebre: è il corteo che accompa-gna alla tomba Giulietta, creduta morta da tutti. Romeo e Tebaldo si abbandonano alla disperazione. Nel luogo in cui è sepolta Giulietta giunge Romeo, con seguito di Mon-tecchi; fa aprire la tomba e parla, in delirio, all’amata. Ordina ai suoi di allontanarsi, invoca nuovamente la salma di Giulietta (“Deh, tu, bell’anima”) e si avvelena. Giuliet-ta si risveglia, pronunciando il nome di Romeo: scorge il giovane ai piedi del sepolcro e pensa l’abbia raggiunta perché avvertito da Lorenzo. Appresa la terribile verità, i due amanti si stringono in un ultimo abbraccio; Romeo muore e Giulietta cade riversa sul suo corpo. Giungono i seguaci di Romeo, inseguiti da Capellio e dai suoi: di fronte alla tragica scena, Capellio sente ricadere su di sé tutte le conseguenze dell’odio tra le due fazioni nemiche. 3.2 Analisi dell’opera e del libretto.

Negli ultimi giorni del 1829 Bellini si trovava a Venezia per curare l’allestimento del Pirata, che sarebbe andato in scena alla Fenice – con gli opportuni adattamenti – ai primi del gennaio 1830. Come terza opera della stagione, il teatro veneziano aveva programmato un nuovo lavoro di Pacini. Ma non appena fu chiaro che quest’ultimo, oberato di lavoro, non avrebbe tenuto fede all’impegno, la presidenza del teatro, l’im-presario e l’intera città si diedero a pregare Bellini perché scrivesse lui un’opera al po-

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sto del collega inadempiente. Il compositore fu dapprima riluttante, non amando lavo-rare assillato dalla fretta e nutrendo forti timori che il poco tempo a disposizione avreb-be portato a un insuccesso; ma finì per cedere alle pressioni. Convocò a Venezia Felice Romani. Il libretto si prestava perfettamente alla compagnia di canto scritturata dalla Fenice per quella stagione: compagnia nella quale primeggiava il mezzosoprano Giu-ditta Grisi, cui Bellini affidò la parte di Romeo. Assegnando il ruolo del giovane amo-roso a una donna in abiti maschili, il compositore si inseriva in una tradizione di lunga data, che in quegli anni non era ancora avvertita come antiquata, nonostante fosse or-mai prossima a cadere in disuso. Per parte sua, anche Bellini intendeva rielaborare ma-teriale già pronto: I Capuleti e i Montecchi, infatti, riprendono in gran parte – riadattan-dole o utilizzandole tali e quali – le melodie di Zaira che, dopo lo sfortunato esordio al Teatro Ducale di Parma nel 1829, era stata ritirata dalle scene. La nuova opera fu porta-ta a termine nel giro di un mese e mezzo, un tempo insolitamente breve per Bellini, che accusò lo sforzo con tensioni nervose e problemi di salute. I Capuleti e i Montecchi andarono in scena l’11 marzo; nei ruoli principali, oltre alla Grisi, si produssero il so-prano Rosalbina Carradori Allan (Giulietta), il tenore Lorenzo Bonfigli (Tebaldo) e il basso Gaetano Antoldi (Capellio). Il pubblico veneziano accolse la nuova opera col più grande entusiasmo. Alla fine di quell’anno, il 26 dicembre, I Capuleti e i Montecchia-prirono la stagione di carnevale al Teatro alla Scala di Milano. Per l’occasione, Bellini rimaneggiò ampie porzioni della partitura: abbassò, in particolare, la parte di Giulietta per renderla adatta alla tessitura del mezzosoprano Amalia Schütz Oldosi. Della nuova versione, tuttavia, il compositore non rimase interamente soddisfatto. Dopo aver sperimentato, con La straniera, una declamazione asciutta e un canto poco espansivo, nei Capuleti Bellini torna al lirismo canoro, all’effusione di melodie morbi-de, elegiache, accattivanti, che al soggetto posto in musica – la tragica storia degli a-manti veronesi – si confanno perfettamente; alla dolcezza melodica, I Capuleti e i Mon-tecchi uniscono l’espressività del canto, l’attenzione per l’intonazione del testo poetico, l’equilibrio della strumentazione. Nella stretta del primo finale v’è un luogo che attira l’attenzione generale (suscitò, tra l’altro, l’entusiasmo di Berlioz): nel tumulto colletti-vo, i due giovani protagonisti intonano la loro melodia all’unisono (“Se ogni speme è a noi rapita”), esprimendo comunione perfetta d’affetti e d’intenti. Anche il finale dell’-opera è assolutamente degno di nota: tutto in stile declamato, in un’alternanza continua tra recitativo accompagnato e arioso, presta la massima attenzione ai trapassi psicologi-ci dei personaggi in scena e raggiunge vette d’alto patetismo. Per la sua novità, il finale sconcertò una parte del pubblico ed ebbe un’accoglienza controversa. Se a tutto ciò si unisce il fatto che esso poco si presta ad assecondare le velleità esibizionistiche di una primadonna, si comprende perché ben presto (a partire dalle rappresentazioni di Firenze nel 1831) si affermasse la consuetudine di eseguire l’opera belliniana sostituendone il finale con quello, più tradizionale, dell’opera scritta da Vaccaj sullo stesso soggetto.

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Vincenzo Bellini (1801-1835) è considerato il primo compositore italiano che si avvici-na al movimento romantico, anche se il suo romanticismo non ha sicuramente una va-lenza di tipo “politico” ma piuttosto di tipo sentimentale. Infatti l’elemento più vitale della sua produzione operistica è rappresentato dalla languida malinconia delle sue melodie. Egli tuttavia non può essere classificato come un “innovatore” sotto il profilo dello stile e della scelta dei soggetti, ma come un “precursore” il cui lavoro ha lasciato dei frutti che saranno poi raccolti da Donizetti e soltanto in minima parte da Verdi, cioè quei compositori a cui si deve la fioritura del romanticismo melodico in Italia. La vena lirica di Bellini ha origini settecentesche, dato che, al pari del Vaccaj, egli è legato alla scuola napoletana che per tutto il Settecento e i primi anni dell’Ottocento ha rappresen-tato la ricerca e l’innovazione nel campo dell’opera lirica italiana prima di conoscere un inevitabile condizione di declino. Bellini si forma alla scuola dello Zingarelli , di cui si è già parlato a proposito della sua Giulietta e Romeo. Il giovane compositore finisce per ereditare in parte la tradizione conservatrice dell’anziano maestro, dimostrando una particolare affinità con Paisiello ed un legame che si avverte soprattutto con Nina, ossia La pazza per amore, che Bellini usa come modello per la sua prima opera e unica opera semiseria Adelson e Savini (1825). Nel 1830 Bellini, come visto, si rivolge a Felice Romani che aveva già scritto per i li-bretti delle opere Il pirata (1827), Bianca e Fernando (1828), La straniera (18129) e Zaira (1829) ed aveva soddisfatto le esigenze del compositore che in un libretto ricer-cava non tanto forti conflitti tra i personaggi, una coerenza narrativa della trama, ma piuttosto la creazione di “situazioni laceranti” capaci di trasmettere al pubblico forti emozioni. Romani, che non ha pronto nessun lavoro, propone un adattamento del li-bretto di Giulietta e Romeo scritto per Vaccaj, adottanto il nuovo titolo I Capuleti e i Montecchi. Bellini accoglie la proposta e compone in quaranta giorni la musica, per cui l’opera va in scena l’11 marzo 1830, accolta con grande favore del pubblico ed entro breve tempo ha inizio quel successo travolgente che scalzerà dalle scene l’opera di Vaccaj. Nel 1830 Romani ha rotto i rapporti con Vaccaj perché l’impresario del compositore non ha eseguito il pagamento del libretto del Saul. Egli lavora con impegno e forse un certo astio alla modificazione del libretto di Giulietta e Romeo ed indica nella “Prefazione” dei Capuleti e Montecchi le motivazioni delle sue scelte e dei cambia-menti apportati al testo: “Sono note le ragioni per cui ho dovuto ridurre un antico mio melodramma, intitolato Giulietta e Romeo, non so se sia più bene o più male, nella forma in cui viene adesso rappresentato. Una sola io ne dirò, forse da pochi avvertita, e si è quella: ch’io dovea tor di mezzo tutto ciò che avrebbe potuto dar luogo a confronti fra la vecchia e la recen-te musica; confronto a cui certamente avrebbe ripugnato la modestia del giovane Com-positore. Chi sa quanto costi camminare su traccie già segnate, e sostituire nuovi con-cetti ai già scritti, che pur sempre ricorrono al pensiere, scuserà di leggieri difetti di cui

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per certo abbonderà il mio lavoro. Costretti dall’angustia del tempo, tanto io che il Ma-estro, ad un’estrema brevità, e persuasi ad omettere parecchie scene di recitativi che avrebbero giustificato l’andamento del Dramma, abbiam diviso l’Azione in quattro parti, perché negli intervalli che passano fra le une e le altre, la mente dello spettatore supplisce a quello che non appare: nulla di meno le due prime parti si fanno di seguito per servire all’usanza d’oggi dì, e alla terza soltanto si cala il Sipario per agevolare la decorazione. Mi sia perdonato codesto arbitrio, se non per altro, perché non prolunga lo spettacolo”. Per una lettura critica comparata dei due libretti si rinvia all’esemplare lavoro di Eduar-do Rescigno6 in cui si dimostra che a proposito del secondo libretto del Romani è inop-portuno parlare di semplice “adattamento”, ma di vero e proprio “rifacimento”, come dimostra lo stesso Rescigno che arriva ad una analisi statistica delle modifiche e dei tagli effettuati dall’autore: “Il libretto di Romani – Vaccaj comprende 894 versi (I atto 511; II atto 383), quello di Romani – Bellini solo 579 (I parte 235; II parte 133; III parte 124; IV parte 87): circa il 35% in meno. I versi assolutamente identici sono 229, cioè soltanto il 40% dell’intero libretto; i versi nuovi, ma per situazioni analoghe, sono 187, cioè il 32,5%; i versi nuovi sia per il testo che per la situazione sono 163, ossia il 27,5% dell’intero libretto, Come si vede, non si può affatto parlare di un libretto “quasi uguale”, perché addirittura il 60% dei versi è totalmente o parzialmente rinnovato”. Il secondo libretto di Romani appare ben strutturato e serrato nell’azione, poiché si rifà all’impianto generale del primo. Malgrado i cambiamenti l’autore si mantiene lontano dalla tragedia di Shakespeare, preferendo prendere a modello, come visto, le novelle di Da Porto e Bandello con una particolare attenzione riservata al libretto scritto da Foppa e alla tragedia di Luigi Scevola. I cambiamenti più appariscenti sono costituiti dalla soppressione del personaggio della madre di Giulietta (Adele) con la riduzione della trama a cinque personaggi e dalla totale riscrittura del finale che risulta completamente diversi rispetto alla precedente stesura. Sono proprio questi “rimaneggiamenti” a costi-tuire forse il punto debole del nuovo libretto, perché non sarebbe stata la priva volta nella storia del melodramma che compositori diversi lavorassero sullo “stesso” libretto. Se Romani avesse lasciato il libretto così com’era, avrebbe probabilmente stimolato Bellini a superare se stesso in un proficuo confronto sul piano musicale con Vaccaj; se l’autore avesse completamente riscritto il suo lavoro, avrebbe dovuto probabilmente affrontare e superare una sfida con se stesso per cercare di superarsi nell’affrontare lo stesso argomento. Purtroppo Romani non sceglie né l’una, né l’altra soluzione e prefe-risce imboccare una via di mezzo che sarà fonte di numerose polemiche. La vicenda del secondo libretto ha inizio con un coro dei Capuleti identico al preceden-

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6. E. Rescigno, I Capulieti e i Montecchi, Teatro alla Scala, 1986.

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te con la sola modifica che, al posto della primitiva dizione di “Cappelletti”, Romani preferisce adottate quella shakespeariana di “Capuleti”. Viene poi soppresso il recitati-vo di Capellio dove viene annunciato il prossimo matrimonio di Giulietta con Tebaldo. E’ questi a proclamare la guerra imminente con i Montecchi capeggiati da Romeo che conserva il ruolo di capo dell’opposta fazione e di uccisore di un figlio di Capellio. Quasi del tutto nuova appare invece la cavatina di Tebaldo “E’ serbata a questo accia-ro”, seguita dall’aria sempre di Tebaldo “L’amo, ah! L’amo, e mi è più cara”. La scena, in cui Romeo si presenta come ambasciatore dei Ghibellini, ha un nuovo ini-zio (“Lieto del dolce incarico”), per ritornare poi al vecchio testo fino alla cavatina “Se Romeo t’uccise il figlio”, per chiudere questa parte con una nuova cavatina di Romeo “La tremenda ultrice spada”. Sono soppressi due recitativi per introdurre un “ a solo” di Giulietta (“Eccomi in lieta vesta”), il quale conclude con una celebre aria che da sola rappresenta dal punto di vista musicale un “evento” tale da giustificare l’ascolto dell’intera opera: Oh! Quante volte, oh! Quante Ti chiedo al cielo piangendo! Con quale ardor t’attendo, E inganno il mio desir! Raggio del tuo sembiante Parmi il brillar del giorno: L’aura che spira intorno Mi sembra un tuo respir. L’arrivo di Romeo, preannunciato da Lorenzo, segna l’inizio del duetto fra i due inna-morati con un testo completamente rinnovato. L’atto si conclude con Giulietta che im-plora Romeo, mentre vengono soppressi il loro incontro con Lorenzo, la scena con Ca-pellio, Giulietta e Tebaldo con la dichiarazione d’amore di quest’ultimo e il Terzetto (Giulietta, Capellio e Tebaldo) che aveva grande rilevanza in Vaccaj. Il secondo atto si apre con l’identico coro dei Capuleti che inneggiano alle imminenti nozze tra Giulietta e Tebaldo e tutto procede come nel precedente libretto, compresa l’aria di Giulietta “Tace il fragor” fino al finale dell’atto, quando Romeo e Tebaldo non si sfidano a duello perché amano la stessa donna, ma pronunciano parole di guerra (“Sangue, o barbari, bramate”), così che i due innamorati vedono svanire le loro speranze (“Se ogni speme è a noi rapita”). Il terzo atto ha inizio con l’aria di Giulietta “Né alcun ritorna” ed è soppresso il suo incontro con i genitori che le annunciano la morte di Tebaldo e la decisione del padre di chiuderla in convento. Nel libretto destinato a Belli-ni tutto è affidato al racconto di Lorenzo, il quale comunica a Giulietta che Romeo è salvo ma che lei sarà condotta nel castello di Tebaldo per diventare sua sposa. A questo punto il medico propone alla fanciulla ‘assunzione di un sonnifero capace di provocare

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una morte apparente. Giulietta beve la pozione e, fingendosi in punto di morte, chiede il perdono del padre, che esprime il suo dolore in modo più contenuto rispetto alla pri-ma versione tanto che sono state soppresse le arie “Ah! con quel nome, misera” e “All’afflitta pietosi correte”. l’atto si conclude in modo del tutto nuovo con il soprag-giungere di Romeo che è alla ricerca di Giulietta, s’imbatte in Tebaldo ed inizia a bat-tersi in duello con lui, quando avanza un corteo funebre che conduce alla sepoltura il cadavere della fanciulla. Il quarto atto, dopo la soppressione del coro “Addio per sem-pre, o vergine”, inizia direttamente con l’ingresso di Romeo nel cimitero insieme ai suoi seguaci, che forzano la tomba di Giulietta. Romeo ordina ai suoi di lasciarlo solo, ma ecco arrivare Tebaldo e il giovane gli chiede di ucciderlo per porre termine al suo dolore. Il rivale non solo si rifiuta di sopprimerlo, ma lo accusa della morte di Giulietta, quindi si allontana sconvolto dal rimorso e dal dolore. Romeo esprime la sua dispera-zione nell’aria “Tu sola, o mia Giulietta” con un testo che si avvicina all’addio alla vita pronunciato da Edgardo nella Lucia di Lammermoor. Romeo si avvelena e subito dopo Giulietta si risveglia ed ha inizio il duetto finale, meno i cinque versi iniziali, i-dentico a quello scritto nel libretto per Vaccaj. La scena conclusiva, che nella preceden-te versione è più ampia e articolata con l’arrivo di Lorenzo, di Capellio e del coro dei Capuleti e con una Giulietta ancora in vita, nel rifacimento vede Giulietta già spirata sopra il corpo dell’amante, per cui coloro che sopraggiungono possono soltanto costa-tare la morte dei due innamorati ed accusare Capellio della loro tragica fine. In questa opera Bellini compie un ulteriore passo avanti verso una piena adesione al romanticismo e verso una maturazione del suo stile compositivo. Il lavoro risente della fretta con cui è stato realizzato e si presenta come un prodotto di alto artigianato musi-cale, fatta eccezione per la straordinaria aria di Giulietta “Oh, quante volte". Un ultimo legame alla tradizione è la scelta di affidare la parte di Romeo ad una voce femminile ed è questo uno degli elementi negativi che fa indignare Berlioz, che esprime sull’opera un giudizio severo dopo averla ascoltata nel 1831 al Teatro della Pergola di Firenze soprattutto perché è stata tradita la grande tragedia di Shakespeare: Le polemiche e i giudizi non favorevoli verso questa opera di Bellini fin dal dicembre 1830 dopo la rappresentazione al Teatro alla Scala, tanto che lo stesso autore si lamenta dell’esecuzione: “Non potevano eseguire più malamente la mia povera opera e sebbene facesse qualche effetto ed il pubblico voleami sul palcoscenico, io ero talmente arrabbiato che non volli sortire. Nelle sere in seguito l’effetto crebbe in ragione diretta della migliore esecuzio-ne…però Pezzi e Previdali vogliono che la mia opera ceda di gran lunga di quella di Vaccaj; pure non so se il pubblico non sia stufo di ascoltare una composizione sì debole e scevra d’intrinseco”. Infatti sono proprio i due critici musicali citati da Bellini ad giudicare in modo severo la sua opera. Pezzi scrive sulla Gazzetta Privilegiata di Milano: “Tre opere abbiamo sulla catastrofe degli infelici amanti di Verona. Quella di Zingarel-

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li, quella di Vaccaj e quella di Bellini. Queste composizioni stanno in ordine di data per merito; in quanto all’effetto, se si giudichi dal fatto, stanno in ordine inverso. Senza parlare della più vecchia diremo che quella di Vaccaj cede a quella di Bellini nei pregi del dettaglio, ma che nell’insieme la vince. In quanto all’ultima scena non regge la mi-nima idea di paragone: Vaccaj fece spiccare tutto il drammatico della sciagura, con melodie che rapiscono, Bellini deve darsi per vinto”. A sua volta il Previdali, direttore del Censore Universale dei Teatri, afferma che Vac-caj nella sua Giulietta e Romeo aveva composto “una musica tutta bella…di grand’ef-fetto…(per cui) inconsiderato doveva stimarsi per lo meno il divisamento di mettere una nuova musica in confronto con quella che, con tanto suo merito e con tanta altrui soddisfazione, vive tuttora sulle nostre scene”. Quindi Previdali procede ad una vera e propria “stroncatura” dell’opera belliniana: Naturalmente Bellini sa di aver composto un’opera migliore di quanto valuti la stampa del tempo e che l’insuccesso milanese debba essere attribuito molto probabilmente alla mediocre esecuzione degli interpreti e dell’orchestra, dato che egli si chiede perché l’opera abbia fatto a Milano “mettà (sic) effetto di quello che ne sentiva a Venezia”. Soltanto L’Eco fa un’annotazione critica intelligente, avendo l’intuizione che questa opera di Bellini rappresenta un laboratorio musicale e drammaturgico e costituisce per-tanto un punto di partenza verso nuovi melodrammi destinati ad essere dei veri capola-vori: “Opera applauditissima a Venezia, ella incontrò pure la piena approvazione di un pub-blico severo ne’ suoi giudizi come è il nostro milanese: Questa musica prova che Belli-ni fermamente ed a passi da gigante procede sulla via che è l’unica vera, ch’ei tratta drammaticamente i soggetti drammatici, che sa non solo dilettare le orecchie ma anche agire sul cuore”. Le disavventure che uniscono le due opere di Vaccaj e Bellini non hanno termine con il debutto milanese dei Capuleti e Montecchi, poiché la grande cantante Maria Malibran, nella messa in scena bolognese dell’opera di Bellini nel 1832, pretende e ottiene che il finale belliniano sia sostituito con quello di Vaccaj, volendo interpretare l’aria di Ro-meo “Ah, se tu dormi”. Lo stesso il pubblico assecondo e quindi rafforza la volontà della cantante, perché sembra apprezzare questa scelta per noi inconcepibile che, del resto, viene accolta con favore dalla stessa critica: “Il lavoro di Vaccaj nella cavatina (di Romeo) ci sembra di maggiore effetto di quella di Bellini, (pertanto) avvedutezza ben calcolata ebbe la Malibran nello scegliere la mu-sica di Vaccaj per l’ultima scena della tomba7” Nel 1833 l’opera di Bellini va in scena a Parigi con l’adozione del finale di Vaccaj in sostituzione di quello originale; anche nella ripresa italiana del 1834 la Malibran pre-

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7. Teatri - Arti – Letteratura, Bologna 29 settembre 1832.

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tende di eseguire l’ultima scena del Vaccaj. La stessa sostituzione è voluta da Ernestina Grisi nella rappresentazione del 1836 nel Teatro Regio di Torino, suscitando l’adirata reazione del Romani in un articolo apparso sulla Gazzetta Piemontese. A partire da questo momento l’aria e il duetto finale del Vaccaj sopravvivono a lungo all’intera Giu-lietta e Romeo, legando la loro fortuna all’opera di Bellini. Il costume di sostituire il finale belliniano con quello del Vaccaj diventa una prassi consolidata, tanto che l’edito-re Ricordi aggiunge, in appendice allo spartito dei Capuleti e Montecchi, il coro, l’aria e il duetto finale dell’opera di Vaccaj. Sembra addirittura che questa operazione abbia avuto addirittura l’avallo dello stesso Rossini secondo la testimonianza contenuta in una lettera indirizzata il 22 gennaio 1880 dal sig. Fayet di Parigi al cav. Massone di Napoli: “Io mi trovava precisamente in Bologna quando andò in scena l’opera Giulietta e Romeo (Capuleti e Montecchi) colla Malibran che aveva conosciuto personalmente in Roma e in Napoli…mi rammento perfettamente ancora quanta riuscita ebbe il terzo atto del maestro Vaccaj, sostituito al secondo di Bellini dietro consiglio di Rossini”. La pratica di questa sostituzione continua per tutto l’Ottocento e la si ritrova persino nella traduzione francese dell’opera di Bellini per la rappresentazione alla Grande Opé-ra del 29 agosto 1859; anzi essa è considerata talmente logica ed usuale da non dare più notizia al pubblico della sostituzione del finale di Bellini con quello di Vaccaj, come scrive nel 1880 Felix Clémente nel suo volume Les musiciens célebres nella parte dedi-cata a Nicola Vaccaj: “Je ne vous rappellerai pas le succes de son acte des tombeaux qui a fait le succès de l’Opéra de Bellini (comme s’il n’aurait pas suffi au maître sicilien d’être l’heureux auter de la Sonnambula et de la Norma) rien qu’à cause de cette ingjustice dont le pu-blique n’est pas responsable, puisque le nom de Vaccaj était presque toujours omis sur l’affiche (da G. Vaccaj, Vita di Nicola Vaccaj, op, cit. p. 145)”. Cap. 4

4.0 Roméo et Juliette di Gounod.

Roméo et Juliette (Romeo e Giulietta) è un’opera in cinque atti di Charles Gounod su libretto in francese di Jules Barbier e Michel Carré, tratto da Romeo e Giulietta di Wil-liam Shakespeare. Sin nel 1841, durante il suo viaggio in Italia, Gounod si era cimentato a scrivere un’o-pera sulla storia di Giulietta e Romeo utilizzando il famoso libretto di Felice Romani (già musicato, come visto, da Bellini e Vaccaj). Il progetto venne però abbandonato, e fu ripreso nel 1865 su libretto di Barbier e Carré (i librettisti del Faust), e in pochi mesi l’opera fu completata. Tuttavia la prima si ebbe solo due anni dopo, al Théâtre-Lyrique Impérial du Châtelet di Parigi il 27 aprile 1867, con alcune aggiunte alla partitura. Il successo fu immediato, e tuttora è una delle opere più rappresentate di Gounod. L’autore rimaneggiò più volte l’opera, a partire dal progetto giovanile fino al 1888, l’ultima versione per l’Opéra Garnier (che, odiernamente, è la più rappresentata):

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− Italia, 1841: semplicemente degli abbozzi musicali scritti per il libretto italiano di Romani.;

− versione del 1865: rimaneggiamento degli abbozzi giovanili. Si trattava di una ver-sione operistica basata sull’alternanza di numeri musicali e dialoghi parlati (come la Carmen di Bizet) ma di questi dialoghi parlati non è rimasta traccia;

− versione del 1867: è la versione della prima rappresentazione, con l’aggiunta di alcuni brani (la scena del matrimonio tra Giulietta e Paride) e l’ eliminazione di altri (un’aria per frate Lorenzo, un coro di monaci che accompagnava il matrimo-nio dei due giovani e la scena tra i due frati all’ inizio dell’atto V);

− versioni del 1873: ben due versioni circolano della rappresentazione all’Opéra-Comique (curate de Bizet). La prima prevedeva la soppressione di un coro nel fina-le terzo. La seconda eliminava il verdetto del Duca di Verona;

− versione del 1888: Gounod ripristina il verdetto del Duca e aggiunge il balletto del corteo nuziale e l’epitalamio nella scena del matrimonio.

4.1. L’Opera.

Come nell’opera teatrale di Shakespeare, il coro entra in scena ed espone la materia dell’opera: l’infelice amore dei due amanti veronesi, ostacolato dagli odii delle loro famiglie. Il primo atto si apre perciò nel palazzo dei Capuleti ove ferve la festa indetta dal padre di Giulietta per celebrare il contratto matrimoniale stipulato con il conte Pari-de. Alla festa sono presenti anche alcuni Montecchi, tra cui il giovane Romeo, stuzzica-to dall’ amico Mercuzio che lo prende in giro per la sua infelice storia d’amore con l’ingrata Rosalina. Durante la festa, però, Romeo vede e viene conquistato da Giulietta, a cui, timidamente, dichiara il suo amore, che lei ricambia, pur non sapendo il nome del suo misterioso corteggiatore. La presenza di Romeo e dei Montecchi, però, manda su tutte le furie il rissoso Tebaldo, cugino di Giulietta, che rivela il suo nome alla cugina, turbandola. Il vecchio Capuleti interviene e riesce a sedare la rissa che stava per scop-piare, e invita tutti quanti a riprendere il ballo. Nel secondo atto, mentre Mercuzio e i Montecchi cercano Romeo, il giovane si arram-pica fino al giardino di Giulietta, e riesce a vederla affacciata al balcone, mentre riflette sul suo amore. Il giovane si rivela, ma deve nascondersi per sfuggire alla ronda dei servitori di Capuleti, che vengono scacciati da Gertrude, nutrice di Giulietta. Uscita la ronda, Romeo richiama Giulietta e le dichiara ancora il suo amore, e i due giovani si promettono di incontrarsi il giorno dopo. Il terzo atto vede Romeo far visita a frate Lorenzo, il suo padre confessore, per raccon-targli del suo amore per Giulietta. Il frate acconsente a sposarli, sperando che la loro unione possa porre rimedio alla faida delle due famiglie, e benedice il loro matrimonio, assieme alla fida Gertrude. Intanto, Stefano, un paggio di Romeo, mentre cercava il suo padrone, attacca briga con alcuni servitori di casa Capuleti, causando una rissa che degenera in un vero e proprio

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duello: Romeo cerca di sedarlo, ma Tebaldo, ferito nell'onore, vuole avere vendetta. Mercuzio lo dileggia e lo sfida a duello, ma, a causa dell’ intervento di Romeo, viene ferito mortalmente e spira. Romeo, infuriato, impugna la spada e uccide a sua volta Tebaldo. Il rumore attira i cittadini di Verona, e con essi il Duca: dopo aver udito le diverse testimonianze, bandisce Romeo dalla città. L’atto si conclude con il dolore uni-versale, e Romeo medita di vedere per l’ ultima volta Giulietta. Nel quarto atto, i due amanti passano la loro prima e ultima notte d’amore: Giulietta perdona a Romeo l’uccisione di Tebaldo, e i due si separano all’alba (Romeo partirà per Mantova). Capuleti entra con Gertrude e frate Lorenzo, e comunica a Giulietta che il matrimonio con Paride si svolgerà il domani stesso. Giulietta è sconvolta, e, rimasta sola con frate Lorenzo, chiede aiuto: il padre spirituale la consola, e le consegna una boccetta contenente un filtro che, una volta bevuto, maschera la morte. Creduta morta, verrà messa nella cripta dei Capuleti, dove verrà vegliata dal frate, che nel frattempo avrà inviato Stefano a Mantova per avvisare Romeo. Giulietta, prima titubante e tor-mentata dal fantasma di Tebaldo, beve per amore di Romeo. Di fronte alla chiesa, un corteo nuziale festeggia l’unione di Paride e Giulietta, mentre la giovane, Gertrude e frate Lorenzo, esprimono i loro timori. Il padre esorta Giulietta ad entrare in chiesa, ma la ragazza avverte i sintomi del filtro: cade a terra e viene cre-duta morta, con grande dolore di tutti. Nel quinto ed ultimo atto, Stefano, ferito durante la rissa, non è giunto a Mantova, e Romeo non è al corrente del piano messo in atto da Frate Lorenzo e Giulietta. Il giova-ne arriva alla tomba dei Capuleti, e, desiderando di stare sempre accanto a Giulietta, beve un veleno. Ma, pochissimo tempo dopo, Romeo vede con meraviglia Giulietta che si risveglia. I due amanti sono finalmente riuniti, ma la loro gioia non è duratura: Ro-meo mostra la fiala del veleno, e inizia a delirare nell’agonia. Giulietta allora si uccide con un pugnale che aveva nascosto nelle vesti da sposa, per morire assieme all’amato. I due sventurati amanti implorano il perdono divino, e muoiono serenamente, abbracciati e per sempre insieme. Come nel caso di Faust, anche l’origine di Roméo et Juliette è legata all’Italia: risale infatti al 1841, quando Gounod, residente a Villa Medici dopo aver vinto il Prix de Rome nel 1839, inizia a musicare un Giulietta e Romeo su libretto italiano. Passano gli anni, quattordici per l’esattezza, ed ecco giunto il momento di poter riprendere il pro-getto giovanile a lui tanto caro. Fugge da Parigi, perché gli sembra impossibile lavorare dove non esiste il silenzio dello spirito, e si rifugia a Saint-Raphaël. Qui ritrova sugge-stioni ‘italiane’ e scrive alla moglie delle emozioni donategli dalla campagna di Fréjus che, con i suoi resti di antichi acquedotti, tanto ricorda la campagna romana. È l’aprile 1865, la fuga pare quella per Mireille in Provenza; anche in questo caso isolamento e frenesia creativa. Quella frenesia che lo divora quando lavora a un soggetto di cui è innamorato, portandolo spesso alle soglie di terribili crisi di nevrastenia, tormento co-stante della sua esistenza. Il furor creativo dura quattro mesi: il 10 luglio 1865 Roméo è

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terminato. Gounod vi tornerà sopra l’anno successivo, per comporre il secondo quadro del quarto atto, il matrimonio di Giulietta con Paride, aggiunta spettacolare voluta con ogni probabilità dal direttore del Théâtre Lyrique, Léon Carvalho; scena assente in Sha-kespeare, è una delle poche infedeltà del libretto. Equilibrato ed essenziale, il testo di Barbier e Carré è senza dubbio tra i loro migliori, e coniuga efficacemente le esigenze strutturali del melodramma a un dignitoso rispetto del dramma shakespeariano. Unica tra le opere di Gounod divenute celebri a conoscere un immediato successo di pubblico e critica, Roméo et Juliette non sfuggì però al destino di successivi riadatta-menti che caratterizza buona parte della produzione operistica del compositore parigi-no. A parte cambiamenti marginali, che sono testimoniati dalle numerose edizioni a stampa che seguirono la “prima” del 1867, fu la ripresa del 1873 all'Opéra-Comique a richiede-re più sostanziose modifiche. Se ne occupò Bizet, direttore d’orchestra per l’occasione, che provvide tagli e “accomodi” vigilato da Londra dall’amico Gounod, di volta in volta combattivo od accondiscendente. Una nuova versione venne quindi preparata per l’ approdo trionfale all’ Opéra (1888). Per l’occasione l’ autore musicò tutte le sezioni parlate, compose l’irrinunciabile ballet-to, ripristinò l’ingresso del duca di Verona nel finale del terzo e il Cortège nuptial et épythalame nel finale del quarto atto assenti nel 1873. Più fastosamente decorativa, quest’ultima versione andava per certi aspetti in direzione differente rispetto alle intenzioni originarie di Gounod. Portato per istinto e per gusto alla scorrevolezza dell’ articolazione drammaturgica, Gounod mal sopportava le diva-gazioni cerimoniali imposte dall’Opéra. Per Roméo poi aveva fin dall'inizio un’idea di struttura ben definita, che prevedeva alla fine del quarto atto l’assunzione da parte di Giulietta di un narcotico. “Sono affascinato - scrive il compositore alla moglie nel 1865 - dal fatto che il mio quarto atto finisca con effetto drammatico per Giulietta. Il primo atto termina con brio, il secondo tenero e sognante; il terzo animato ed ampio, con i duelli e la condanna all’ esilio di Romeo; il quarto drammatico e il quinto tragico. È uno sviluppo interessante”. Eguale chiarezza di idee Gounod mostra per gli aspetti formali: in una lettera a Bizet (29 ottobre 1872), così replica ad una richiesta di taglio nel duetto "O notte divina" del secondo atto (taglio malauguratamente entrato nella tradizione): “Chiedo si dica due volte l’ensemble "De cet adieu". Senza ciò l’espressione di quest’ultima frase nel duet-to non ha più energia né il brano forma. Fino a quando si ignorerà che a forza di voler andare più veloci si resta nel più oscuro, e che il sapore e la chiarezza di una frase mu-sicale stanno il più delle volte nel giusto apprezzamento del tempo”. Tanta esemplare consapevolezza testimonia il compositore giunto all’apice della matu-rità, e tale risulta essere Gounod nel Roméo et Juliette: ricchezza d’invenzione, mestie-re magistrale, senso della misura si compongono qui in una sintesi qualitativamente prestigiosa. A convincere è l’espressività globale, mantenuta elevata con sorprendente

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continuità al di là degli esiti spesso assoluti dei singoli momenti; esiti che richiedono almeno una rapida segnalazione. Nel primo atto, percorso per intero da brillanti ritmi di danza, in evidenza la briosa, aerea "ballade de la reine Mab” di Mercuzio, notevole esempio di stile “parlante” alla francese, debitore del brano analogo del Roméo di Berlioz. Di rilievo il celebre "Je veux vivre" di Giulietta, valse tra il vituosistico e il malinconi-co. Prezioso infine il madrigal "Ange adorable", breve duetto dei due protagonisti: un altro valzer, lento questa volta. Il secondo atto si apre con la cavatina di Romeo ("Ah lève-toi soleil"), elegante, persua-sivo esempio delle attitudini elegiache di Gounod.Più oltre, incastrato tra le grottesche schermaglie di servi e nutrice, brilla il duetto "O nuit divine” melodicamente irresistibi-le. Il terzo atto, dopo la sobrietà del quadro del matrimonio segreto, propone una verti-cale progressione di toni. Si va dalla beffarda chanson di Stefano ("Que fais-tu"), sorta di reminiscenza della serenata di Mefistofele nel Faust, al drammaticissimo duello suc-cessivo, sino alla maestosità del concertato ("O jour de deuil"), che termina con l'esilio di Romeo. Nel quarto atto, altro duetto di Romeo e Giulietta ("Nuit d'hyménée") che, accanto alla consueta felicità melodica, propone un declamato flessibile e sfumato, che sembra indi-care la strada ai futuri sviluppi della vocalità dell’opera francese. A chiusura di questo breve percorso ancora un duetto "C'est-là", ultima scena dell’ atto quinto. Vertice e-spressivo dell’opera, questo brano chiama a raccolta i temi dei precedenti incontri dei due protagonisti in un epilogo toccante d’amore e morte. Rimasta costantemente in repertorio e prediletta da molti “mostri sacri” della vocalità (qualche nome: Patti, Melba, Thill, Gigli, Corelli), dopo un periodo di relativo appan-namento sembra oggi godere di un ritrovato favore. Di questo si deve ringraziare l’arte superiore di Alfredo Kraus, che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, ottenendo successi memorabili.

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INDICE

ROMEO E GIULIETTA:

L’OPERA DI UN AMORE IMPOSSIBILE.

Cap. 1

1.0 Introduzione 1.1 Origini 1.2 Contesto storico 1.3 Adattamenti Cap. 2

2.0 “Giulietta e Romeo” secondo Nicola Vaccaj e Felice Romani 2.1 La trama 2.2 Tra tradizione ed innovazione Cap. 3

3.0 “ I Capuleti e i Montecchi”, l’opera di Bellini 3.1 La trama 3.2 Analisi dell’opera e del libretto Cap. 4

4.0 “Romèo et Juliette” di Gounod 4.1 L’Opera Indice Bibliografia

Pag. 2 Pag. 2 Pag. 3 Pag. 5 Pag. 6 Pag. 8 Pag. 8 Pag. 10 Pag. 11 Pag. 15 Pag. 15 Pag. 16 Pag. 17 Pag. 24 Pag. 24 Pag. 25 Pag. 29 Pag. 30

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BIBLIOGRAFIA.

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Albino Comelli e Francesca Tesei, Giulietta e Romeo: l’origine friulana del mito, L’-Autore Libri, Firenze 2006. F.Pesci, La Verona di Giulietta e Romeo. I luoghi della leggenda shakesperiana, Mila-no, Electa Mondadori, 1999 - ISBN 8843568582. M.C.Zoppis, La casa di Giulietta. Verona. Ist. Poligrafico dello Stato, 2004 - ISBN 8824011039. N.Vaccaj, Metodo Pratico di Canto. Versione ampliata sui versi poetici di P.Metastasio con aggiunti i recitativi ed i testi integrali delle arie,a cura di Mario G.Genesi,3 voll., Piacenza, P.L.A. Ed., 2003. M. Carrara. Gli Scaligeri. Verona, 1964. pp. 136-137 G. Solinas. Storia di Verona. Verona, Centro Rinascita, 1981. pp.256-292 Albino Comelli e Francesca Tesei, Giulietta e Romeo: l’origine friulana del mito, L’-Autore Libri, Firenze 2006. Gabriele Baldini in "Romeo e Giulietta", Rizzoli Brunacci F., De Graaf L., Romeo e Giulietta, (Salani 2000 ISBN 8877823488) Romeo ama Giulietta, di Wolfram Hanel, ambienta la storia in un mondo di cani e gat-ti. Traduzione di Luciana Gandolfi-Rihl, illustrazioni di Christa Unzner, Nord-Sud 199-8 - ISBN 8882030881 Steve Barlow e Steve Skidmore, Se io sono Giulietta e tu Romeo che cosa aspetti a baciarmi? Mondadori 2000 - ISBN 8804475730) Nicola Cinquetti e Octavia Monaco, Giulietta e Romeo, Arka 2002 - ISBN 888072126-7 Roberto Piumini, Giulietta e Romeo, Guanda 2002 - ISBN 8879263870 Maurizio Giannini, Nickname romeo. Nickname giulietta ISBN 8887292817 Romeo Amedeo, Rubino Maurizia Il manoscritto nel pollaio. La molto lacrimevole storia di Giulietta e Romeo, Esseffedizioni 2005 - ISBN 8878550388 Massimo Bruni Romeo y Julieta. Romanzo d'amore a ritmo di salsa Sperling & Kupfer 1999 - ISBN 9788820028824 Carmen Gueye, Black Romeo, 2005, edizioni Traccediverse - ISBN 8889000937 Romeo e Giulietta a Baghdad. Quando l'amore sfida la guerra. Ehda'a Blackwell (Mondadori 2006 - Teatri - Arti – Letteratura, Bologna 29 settembre 1832 E. Rescigno, I Capulieti e i Montecchi, Teatro alla Scala, 1986

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Indice della collana, pubblicata con la rivista ASSODOLAB del 20

dicembre 2013. 1. Giuseppe Verdi: L’uomo, l’artista e le sue Opere. 2. Il trittico di Puccini: Fonti e Librettisti 3. Il superamento dell’opera: L’Otello di Giuseppe Verdi. 4. La Cenerentola di Gioacchino Rossini. 5. Le folli donne di Gaetano Donizetti. 6. L’Orientalismo di Giacomo Puccini. 7. Pietro Mascagni e i suoi librettisti. 8. Romeo e Giulietta: L’opera di un amore impossibile. 9. Voce e registri nell’Opera Lirica. 10. Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart.

Volume n. 8

Allegato alla rivista ASSODOLAB - Anno XIV n. 3 del 20.12.2013.

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08 VOLUME