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Intrecci d’amore D. Macomber - S. Wiggs - S. Woods

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D. Macomber - S. Wiggs - S. Woods

Intrecci d’amore

Titoli originali delle edizioni in lingua inglese: The Shop on Blossom Street

The Ocean between us About that Man

Mira Books Mira Books Mira Books

© 2004 Debbie Macomber © 2004 Susan Wiggs

© 2001 Sherryl Woods

Traduzioni di Elisabetta Lavarello, Maria Cristina Castellucci e Margherita Ghezzi/Grandi & Associati

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto

di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con

Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

persone della vita reale è puramente casuale.

Harmony è un marchio registrato di proprietà Harlequin Mondadori S.p.A. All Rights Reserved.

© 2003 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

Prima edizione I Nuovi Bestsellers gennaio 2007 Prima edizione DCuore settembre 2005 Prima edizione I Chiaroscuri luglio 2003

Questa edizione Harmony Special Edition luglio 2010

HARMONY SPECIAL EDITION ISSN 1722 - 067X

Periodico trimestrale n. 77 del 24/7/2010 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi

Registrazione Tribunale di Milano n. 102 del 24/2/2003 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale

Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione

Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti

contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171

Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano

Il negozio in Blossom Street

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La lana forma i punti, lavorare ai ferri crea le amicizie, la tecnica unisce le generazioni. Karen Alfke, insegnante di lavori femminili LYDIA HOFFMAN La prima volta che vidi il negozio vuoto di Blossom Street pensai a mio padre. Mi ricordava il negozio di biciclette che lui aveva quando io ero bambina. Persino la grande vetrina, ombreggiata dal tendone a righe, era simile. Fuori dal negozio di papà c'erano cassette piene di fiori ricadenti. Erano il contributo di mia madre: gerani in prima-vera ed estate, crisantemi in autunno, agrifoglio a Natale. Anch'io metterò dei fiori. L'attività di papà ebbe successo e lui si trasferì in locali più gran-di, ma per me il primo fu sempre il più caro. Devo aver stupito l'agente immobiliare che mi stava mostrando la proprietà. Aveva appena aperto la porta quando annunciai: «Lo prendo». Si girò a guardarmi, l'espressione vacua come se non fosse sicuro di aver sentito bene. «Si rende conto che la locazione comprende un piccolo appartamento sopra il negozio?» «Sì, me lo ha accennato.» Era una soluzione ideale. Il mio gatto Whiskers e io avevamo bisogno di una casa. «Ma vuole vederlo prima di firmare il contratto, vero?» Io sorrisi e annuii. Ma non era necessario. Avevo capito subito che era il posto ideale per il mio negozio di filati. E per me. L'unico inconveniente era che in quel quartiere di Seattle erano in corso grandi opere di rinnovamento e, a causa dei lavori di ristrut-turazione, Blossom Street era chiusa a un'estremità, e solo il traffico locale vi era ammesso. Il palazzo di mattoni di fronte al negozio, un tempo una banca a tre piani, sarebbe stato convertito in un condo-minio di lusso, come pure altri edifici, tra cui un vecchio magazzi-

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no. La cosa più bella era che l'architetto era riuscito a preservare il fascino originale della strada. I lavori si sarebbero protratti per mesi, ma questo significava che l'affitto era ragionevole, almeno per il momento. Sapevo che i primi sei mesi sarebbero stati difficili. Lo sono per qualunque piccola attività. Le opere di ristrutturazione avrebbero potuto creare ulteriori ostacoli. Ciononostante, quel posto mi piace-va. Era proprio quello che desideravo. Il venerdì mattina, una settimana dopo aver visto la proprietà, firmai il mio nome, Lydia Hoffman, su un contratto di due anni. Mi consegnarono le chiavi. Mi trasferii nella mia nuova casa quel pome-riggio stesso, eccitata come non ricordo di essere mai stata. Era co-me se la mia vita fosse iniziata quel giorno e, in un certo senso, era proprio così. Aprii L'intreccio l'ultimo martedì di aprile. Circondata da tutti quei colori, provai un moto di orgoglio e di entusiasmo. Non osavo immaginare che cosa avrebbe detto mia sorella. Non avevo chiesto il suo parere riguardo a quel progetto perché sapevo già quale sa-rebbe stato. Non si può dire che Margaret sia un tipo incoraggiante. Avevo trovato un falegname che mi aveva costruito degli scaffali a nicchie su tre livelli, verniciandoli di un bianco immacolato. La maggior parte dei filati era arrivata il venerdì prima e io avevo passa-to il fine settimana a smistarli per grossezza e colore e a infilarli nel-le nicchie. Avevo comprato un registratore di cassa di seconda ma-no, organizzato il bancone e riempito rastrelliere di ferri da maglia. Ero pronta per aprire. Avrebbe dovuto essere un momento felice e invece mi ritrovai a trattenere le lacrime. Papà sarebbe stato tanto fiero di me. Era stato il mio sostegno, la mia forza e la mia luce guida. Non avevo ancora superato il trauma della sua morte. Vedete, avevo sempre pensato che sarei morta prima di lui. Per tante persone è sconvolgente parlare della morte, ma io ho vissuto sotto questa minaccia così a lungo che non mi fa nessun effetto. La possibilità di morire è stata la mia realtà quotidiana in questi ultimi quattordici anni, e sono in grado di discuterne tranquil-lamente come se stessi parlando del tempo. Il mio primo incontro con il cancro avvenne l'estate dei miei se-dici anni. Era un mattino di agosto ed ero andata a ritirare la paten-te. Avevo superato brillantemente sia i test di teoria sia l'esame di guida. Mia madre mi lasciò guidare dall'ufficio della motorizzazione fino allo studio dell'oculista. Doveva essere un semplice controllo. Avevo un bel programma per la giornata. Appena finita la visita, Becky e io saremmo andate alla spiaggia. Sarebbe stata la prima vol-ta che prendevo la macchina da sola, e non vedevo l'ora di guidare

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senza avere accanto uno dei miei genitori o mia sorella. Ricordo che ero irritata perché mia madre aveva preso l'appun-tamento con l'oculista proprio quel giorno. Avevo avuto problemi di emicranie e capogiri, e papà pensava che avessi bisogno di occhiali da lettura. La prospettiva di presentarmi alla Lincoln High School con gli occhiali mi infastidiva. Parecchio. Speravo che mamma e papà mi avrebbero lasciato mettere le lenti a contatto. Per come si misero le cose, la vista era l'ultimo dei miei problemi. L'oculista, un amico dei miei genitori, passò un esagerato perio-do di tempo a esaminare l'angolo del mio occhio con una luce ab-bagliante. Mi fece un sacco di domande sulle mie emicranie. Sono passati quasi quindici anni, ma credo che non dimenticherò mai l'espressione della sua faccia quando si mise a parlare con la mam-ma. Era serio, quasi cupo... Molto preoccupato. «Ritengo sia il caso di prendere un appuntamento per Lydia alla clinica universitaria dello stato di Washington. Immediatamente.» Mia madre e io eravamo sbalordite. «Va bene» rispose la mam-ma, passando lo sguardo da me al dottor Reid. «C'è qualche pro-blema?» Lui annuì. «Quello che vedo non mi piace. Vorrei il parere del dottor Wilson.» Ebbene, il dottor Wilson non si limitò a dare il suo parere. Mi trapanò il cranio e mi tolse un tumore maligno dal cervello. Lo dico con leggerezza adesso, ma non fu un intervento semplice. Compor-tò settimane di ospedale e accecanti, debilitanti emicranie. Dopo la degenza, feci la chemioterapia seguita da un ciclo di radiazioni. Ci furono giorni in cui anche la luce più fioca era causa di tali dolori che dovevo stringere i denti per non urlare. Giorni in cui misuravo ogni respiro, aggrappandomi con tutte le forze alla vita che sentivo scivolare via. Ma ci furono anche mattine in cui mi svegliavo e desi-deravo morire, perché non sopportavo un'altra ora di quel tormento. Senza mio padre, sono convinta che non ce l'avrei fatta. Mi avevano rasato la testa e, appena i capelli cominciarono a cre-scere, caddero di nuovo. Persi l'anno scolastico e quando alla fine fui in grado di tornare al liceo, tutto era cambiato. I compagni mi guardavano in modo diverso. Non partecipai alla festa di diploma perché nessuno mi invitò. Alcune amiche mi proposero di andare insieme a loro e ai loro cavalieri, ma per un malsano orgoglio rifiutai. Ripensandoci adesso, non ha più molto significato. Rimpiango di non essere andata. La parte più triste della storia è che, proprio quando mi ero illusa di poter riprendere una vita normale, proprio quando avevo comin-ciato a credere che tutte quelle medicine, tutte le sofferenze fossero servite a qualcosa, il tumore si riformò.

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Non dimenticherò mai il giorno in cui il dottor Wilson ci disse che il cancro era tornato. Ma non è l'espressione del suo viso che ricordo. È il dolore che lessi negli occhi di mio padre. Lui, più di chiunque altro, capiva quello che avevo sopportato la prima volta. Mia madre non ha mai avuto un buon rapporto con le malattie ed era stato papà a sostenermi moralmente. Lui sapeva che non c'era nulla che potesse fare, nulla che potesse dire, per alleviarmi questa seconda prova. Avevo ventiquattro anni, all'epoca, e frequentavo ancora l'università. Non mi laureai mai. Sono sopravvissuta a due tumori, e non sono più la ragazza spensierata di un tempo. Faccio tesoro di ogni singolo giorno perché so quanto sia preziosa la vita. Molti mi dicono che sembro più gio-vane dei miei trent'anni, eppure mi trovano più seria delle altre donne della mia età. Non do nulla per scontato, tantomeno la vita. Ma ho imparato che ci sono compensazioni per la sofferenza. Sarei una persona completamente diversa se non fosse stato per la malat-tia. Mio padre diceva che ho raggiunto una certa pacata saggezza, e suppongo che sia così. Eppure sotto tanti aspetti sono ingenua, so-prattutto per quanto riguarda gli uomini. Fra tutte le compensazioni, quella di cui sono più felice è che, mentre ero sottoposta ai trattamenti, ho imparato a lavorare a ma-glia. Ho vinto il cancro due volte, ma purtroppo mio padre non ci è riuscito. Il mio secondo tumore lo ha ucciso. Mia sorella Margaret ne è convinta. Non lo ha mai detto, ma so che lo pensa. La verità è che forse ha ragione. Fu un infarto, ma era rimasto talmente provato dalla mia seconda diagnosi che la sua salute ne fu fatalmente mina-ta. Sapevo che, se avesse potuto prendere il mio posto, lo avrebbe fatto con gioia. Rimase accanto al mio letto il più possibile. È questo, in partico-lare, che Margaret non riesce a perdonare: il tempo e la devozione che papà mi dedicò. Anche la mamma, per quanto ne era emotiva-mente capace. Margaret era già sposata e madre di due figlie quando mi fu dia-gnosticato il secondo tumore. Tuttavia, sembra convinta di essere stata privata di qualcosa per colpa del mio cancro. Ancora oggi, si comporta come se ammalarmi fosse stata una scelta mia, un'alter-nativa che avevo preferito a quella di una vita normale. Inutile dire che tra mia sorella e me i rapporti sono tesi. Per il be-ne della mamma, soprattutto ora che papà non c'è più, cerco di an-dare d'accordo con Margaret. Lei non mi rende le cose facili. Non riesce a nascondere il risentimento, anche dopo tutti questi anni. Margaret era contraria all'idea che aprissi un negozio, ma dubito che mi avrebbe incoraggiato in qualunque iniziativa. Eppure, giuro

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che i suoi occhi si sono illuminati alla prospettiva di vedermi fallire. Secondo le statistiche, la maggior parte delle nuove attività com-merciali chiude, di solito entro un anno, ma io sentivo che dovevo fare un tentativo. Avevo il capitale necessario. Era un lascito ricevuto dalla mia nonna materna, morta quando avevo dodici anni. Mio padre lo ave-va investito saggiamente, trasformandolo in una discreta sommetta. Con tutta probabilità avrei dovuto tenerlo per quelli che la mamma chiama i giorni di pioggia, ma per me piove da quando ho compiuto i sedici anni. So che papà approverebbe la mia decisione. Come ho già detto, ho imparato a lavorare a maglia mentre face-vo la chemioterapia. Nel corso degli anni, mi sono perfezionata. Pa-pà mi prendeva in giro dicendo che avevo tante lane che avrei potu-to aprire un negozio. Recentemente, ho deciso che era una buona idea. Mi piace sferruzzare. Mi dà un conforto che non riesco a spiega-re. La ripetizione del gesto di gettare il filo sul ferro per formare un punto è uno scopo, una realizzazione, un progresso. Quando tutto il tuo mondo si ingarbuglia, agogni l'ordine, e io lo trovai nel lavoro a maglia. Una volta lessi che fare la maglia abbassa il livello dello stress ancor più della meditazione. E immagino che per me fosse un approccio migliore, perché il risultato è qualcosa di tangibile. Lavo-rare a maglia mi dava l'impressione di fare qualcosa. Non sapevo che cosa mi riservasse il domani, ma, con un paio di ferri in mano e un gomitolo in grembo, mi sentivo in grado di affrontare il futuro. Ogni punto era un piccolo traguardo. Certi giorni non riuscivo a completare più di un ferro, ma anche questo era un risultato. Era importante per me. Molto importante. Nel corso degli anni ho insegnato a lavorare a maglia a diverse persone. I miei primi studenti furono altri ammalati di cancro sotto-posti a chemioterapia. Ci trovavamo al Seattle Oncology Center, e in breve tempo tutti, uomini compresi, sferruzzavano presine. Dopo le presine, i miei allievi passarono a realizzare piccoli plaid. Ho avuto alcuni fallimenti, ma sicuramente molti più successi. La mia pazien-za era ricompensata quando altri trovavano la mia stessa serenità nella maglia. E ora ho il mio negozio e credo che il modo migliore di attirare i clienti sia offrire lezioni. Non riuscirei a vendere abbastanza lana da arrivare alla fine del mese se insegnassi a fare presine, perciò per ini-ziare ho scelto una semplice copertina da neonato. Il modello è di una delle mie designer preferite, Ann Norling, e usa i punti di base, il diritto e il rovescio. Non so che cosa aspettarmi da questa mia nuova attività, ma sono speranzosa. Per una persona che è ammalata di cancro, o che

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lo è stata, la speranza è più potente di qualunque medicina. Tiene in vita. Stavo preparando un cartello per pubblicizzare le mie lezioni per principianti, quando il campanellino fissato alla porta tintinnò. Era il mio primo cliente e mi voltai con il sorriso sulle labbra. Il moto di eccitazione si spense non appena vidi Margaret. «Ciao» la salutai, facendo del mio meglio per sembrare contenta di vederla. Non mi faceva piacere che mia sorella si fosse presentata lì il primo mattino a minare la mia sicurezza. «La mamma mi ha detto che hai deciso di andare avanti con questa tua idea.» Io non feci commenti. Margaret si accigliò. «Ero da queste parti e ho pensato di passare a vedere il negozio.» Io feci un gesto con il braccio e mi detestai per quello che stavo per chiederle. «Che cosa ne pensi?» Trascurai di accennare al fatto che Blossom Street era dalla parte opposta della città. «Come mai lo hai chiamato L'intreccio?» Avevo preso in considerazione decine di nomi, dai più semplici ai più fantasiosi. Mi piace l'idea che la parola intreccio indichi anche una sequenza, il corso di una storia. Condividere aneddoti con le persone, ascoltare le loro esperienze è importante per me. Un'altra eredità dell'ospedale, immagino. L'intreccio mi sembra un nome ricco di significato e di buon auspicio. Ma non spiegai tutto questo a Margaret. «È solo un gioco di parole.» Margaret si strinse nelle spalle, come se avesse visto dozzine di negozi di filati con nomi più azzeccati del mio. «Allora» insistetti, malgrado la mia determinazione a non chiede-re. «Che ne pensi?» Margaret si guardò intorno una seconda volta, anche se nulla era cambiato dalla sua prima ispezione. «Meglio di quanto mi aspettas-si.» Lo considerai un grande complimento. «Non ho ancora un in-ventario ampio, ma spero di farmelo poco alla volta. Ovviamente, non tutti i filati che ho ordinato sono arrivati. E ce ne sono altri che intendo acquistare, delle splendide lane importate dall'Irlanda e dal-l'Australia. Ma ci vuole tempo e denaro.» Nell'entusiasmo, avevo detto più di quanto intendessi. «Ti aspetti un aiuto finanziario dalla mamma?» Il tono era stato tagliente. Scossi la testa. «Non preoccuparti. Me la caverò da sola.» Dun-que era questo il motivo di quella visita non annunciata. Margaret temeva che mi sarei approfittata di nostra madre. La cosa mi offese, ma non replicai.

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Mia sorella mi guardò come se non fosse sicura che stessi dicen-do la verità. «Ho venduto le azioni della Microsoft» spiegai. Gli occhi scuri di Margaret, così simili ai miei, si dilatarono inor-riditi. «No!» Che cosa credeva? Che tenessi il contante in fondo a un casset-to? «Ho dovuto farlo.» Data la mia anamnesi, nessuna banca mi a-vrebbe concesso un prestito. Anche se sono in buona salute da quattro anni, ormai, vengo considerata una persona a rischio. «Sono affari tuoi, immagino.» Da come lo aveva detto, era chiaro che pensava che avessi preso la decisione sbagliata. «Ma dubito che papà avrebbe approvato.» «Sarebbe stato il primo a incoraggiarmi.» Avrei dovuto tenere la bocca chiusa, ma non ce l'avevo fatta. «Probabilmente hai ragione» commentò Margaret, caustica. «Pa-pà non ha mai saputo negarti nulla.» Mia sorella cominciò a gironzolare per il negozio con aria critica. Dato il suo atteggiamento, non so perché il nostro rapporto sia così importante per me, ma lo è. La mamma non si è ancora abituata a vivere senza papà. Non gode di buona salute. Un giorno, temo, re-steremo solo Margaret e io. Il pensiero di non avere una famiglia mi terrorizza. È un sollievo non sapere che cosa riservi il futuro. Una volta chiesi a mio padre perché Dio non ci permettesse di conoscere il nostro destino. Lui mi rispose che in realtà era un dono, perché al-trimenti non ci assumeremmo la responsabilità della nostra vita. Come su molte altre cose, papà aveva ragione. «Che progetti hai per il negozio?» chiese Margaret. «Io... Cominciare per gradi, direi.» «E per attirare i clienti?» «Ho messo un annuncio sulle Pagine Gialle.» Non accennai al fatto che i nuovi elenchi non sarebbero usciti prima di due mesi. Avevo distribuito volantini nel quartiere, ma non sapevo quanto po-tessero servire. Mia sorella sospirò. Ho sempre detestato quel suono sprezzante e strinsi i denti per nascondere il fastidio. «Stavo preparando un cartello per pubblicizzare il mio primo cor-so di maglia.» «Davvero sei convinta che un cartello scritto a mano e appiccica-to alla vetrina possa servire? Parcheggiare è un incubo da queste par-ti e anche quando riapriranno la strada non puoi aspettarti che ci sia molto passaggio.» «No, ma...» «Ti auguro che vada tutto bene, però...»

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«Davvero?» la interruppi. Mi tremavano le mani quando mi avvi-cinai alla vetrina per attaccare il cartello. «Che cosa vuoi insinuare?» Mi girai ad affrontare mia sorella che, con il suo metro e settanta, era mezza testa più alta di me. Era anche più pesante di dieci chili. Mi chiedo se qualcuno, guardandoci adesso, capirebbe che siamo sorelle. Eppure ci assomigliavamo parecchio, da piccole. «Credo che tu voglia vedermi fallire» replicai in tutta onestà. «Non è vero! Sono venuta qui questa mattina perché... Perché mi interessa quello che fai.» Alzò il mento, sfidandomi a smentirla. «Quanti anni hai? Ventinove, trenta?» «Trenta.» «Non è ora che tagli il cordone ombelicale?» Era un'accusa ingiusta. «È proprio quello che sto facendo. Ho lasciato la casa della mamma e mi sono trasferita nell'appartamento qui sopra. Sto anche avviando una mia attività e apprezzerei il tuo appoggio.» Lei allargò le mani. «Vuoi che ti compri della lana? È questo che vuoi? Sai che non lavoro ai ferri, né desidero imparare. Piuttosto pre-ferisco l'uncinetto. Ma...» «Solo per questa volta» sbottai, interrompendola di nuovo. «Non ce la fai proprio a dire una cosa carina?» Aspettai, implorandola in silenzio di cercare nella sua testa una parola di incoraggiamento. Parve che la mia richiesta fosse un'impresa insormontabile per Margaret. Esitò alcuni secondi. «Hai buon occhio per i colori» disse finalmente, indicando la lana che avevo disposto su un tavolo ac-canto alla porta. «Grazie.» Non accennai al fatto che avevo copiato la ruota di co-lori di un campionario. Le era stato così difficile farmi quel compli-mento che non intendevo darle motivo di ritirarlo. Se fossimo state più in confidenza, le avrei detto il vero motivo della mia decisione di aprire un negozio di filati. Questo negozio era un'affermazione di vita. Ero pronta a investire tutto quello che ave-vo per farne un successo. Come quel conquistatore vichingo che sbarcando aveva bruciato le proprie navi, avevo preso una strada dalla quale non sarei tornata indietro. Riuscire, oppure fallire. Come avrebbe detto mio padre, mi stavo assumendo la respon-sabilità di un futuro che non potevo prevedere. Il campanello sopra la porta tintinnò di nuovo. Avevo una clien-te! La mia prima cliente vera.

Questo volume è stato stampato nel giugno 2010 da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (Pd)