unione europea sul crinale - is.for.coop · 2007. 12. 14. · sul crinale riflessioni intorno alla...

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Ce.D.Ri.T.T. onlus Unione Europea Fondo sociale europeo Provincia di Savona Regione Liguria Sul crinale Riflessioni intorno alla mediazione interculturale a cura di Giovanni Daniele

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  • Ce.D.Ri.T.T.onlus

    ★★ ★ ★

    ★★★

    Unione EuropeaFondo sociale

    europeo

    Provinciadi Savona

    Regione Liguria

    Sul crinaleRiflessioni intorno

    alla mediazione interculturale

    a cura di

    Giovanni Daniele

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    Sul crinaleRiflessioni intorno alla mediazione interculturale

    a cura di Giovanni Daniele

    Dedicato aRossana Baquero

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    Questa pubblicazione è stata realizzata nell’ambito del

    CORSO DI QUALIFICA PER MEDIATORE INTERCULTURALE

    PROGETTO COFINANZIATO DALL’UNIONE EUROPEA - P.O.R. OB. 3 2000-2006

    AllieviFatma Benasla, Gentiana Bituni, Rosa Esilda Chuchuca Bustos, Andra Antoanela Farta-de, Soumia Frouni, Florica Ivanovici, Imane Kaabour, Rita Sandra Nuzzolo, Monica Pozzi, Freddy Salinas Saavedra, Claudia Rocio Sanchez Pinilla, Mara Elen Sarango Paredes, Fat-mira Tota, Merita Xhaferrllari, Rajeh Zayed.

    DocentiMarco Aime, Marco Berta, Anna Maria Camposeragna, Giuliano Carlini, Andrea Censi, Li-cia Cesarini, Giovanni Daniele, Graciela Del Pino, Davide Delbono, Mario Di Maio, Ilda Dizdari, Stefania Druetti, Mara Gisella Franca, Lorenzo Frixione, Giorgio Gandolfo, Ferdez Gaxha, Marisa Ghersi, Paolo Ghibaudo, Enrico Giribaldi, Amedeo Iennaco, Mauro Mazzi, Brunella Nari, Diego Panetta, Piero Pentenero, Agostino Petrillo, Eliana Pinotti, Husein Sa-lah, Antonio Scafuro, Luisa Sciallero, Mario Sottili, Giampiero Storti, Rosita Timossi, Anna Traverso, Giovanna Zaldini, Daniela Zucchiatti.

    Staff di progettoIsabella Bianchi, Luciano Cava.

    Ente Promotore

    via Peschiera 9/9 - 16122 Genovatel. +39 010 837301 - fax +39 010 8373029e-mail: [email protected]://www.isforcoop.itSede di Savona: via Molinero - 17100 Savonatel. +39 019 263097/98 - fax +39 019 862286 e-mail: [email protected]

    Pubblicazione realizzata da:

    Ce.D.Ri.T.T. onlusCentro di Documentazione e Ricerca sui Trasferimenti di TecnologiaVico S. Luca 4/32 - 16123 Genova tel. +39 010 25 34 168 - [email protected] - http://www.cedritt.it

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    Sul crinaleRiflessioni intorno alla mediazione interculturale

    INDICE

    Prefazione

    Assessore Provinciale T. Ferrando . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

    Assessore Regionale G. E. Vesco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

    Parte I - Maneggiare le culture: costruire convivenza . . . . . . . . . . . . . . 9

    1. Le differenze culturali tra melange globale e meticciato locale - di G. Carlini . . . 11

    2. Culture che si spostano - di M. Aime . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

    3. Città e migranti: l’integrazione difficile - di A. Petrillo . . . . . . . . . . . . . . 23

    Parte II - Mediazione interculturale in Italia e in Liguria . . . . . . . . . . . . 31

    4. La querelle italiana sulla figura del mediatore: una bussola tra le diverse prospettive regionali - di S. Morano . . . . . . . . . . . . . . . . 33

    5. Dieci anni di mediazione a Genova e in Liguria - di G. Daniele . . . . . . . . . 47

    Parte III - Documenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67

    6. Il corso di qualifica per mediatore interculturale di Savona (stage e project work) - a cura di L. Sciallero . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69

    7. Documento finale gruppo di lavoro del CNEL “Politiche per la mediazione culturale. Formazione ed impiego dei mediatori culturali” . . . 81

    8. Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86

    N.B. È autorizzata la riproduzione a scopi didattici citando la fonte.

  • paginabianca

    4

  • 5

    Facendo tesoro delle esperienze passate – pur non numerosissime sul territorio regiona-le – e adeguandosi per la prima volta in Liguria alle nuove disposizioni emanate nella se-conda metà del 2006 dalla Regione in materia di formazione e qualifica dei mediatori in-terculturali, la Provincia di Savona ha affidato a Isforcoop un corso di 600 ore complessi-ve, per preparare 15 nuovi mediatori provenienti da tre province liguri (Savona, Genova e Imperia) a conferma del fatto che si sentiva davvero il bisogno di una nuova iniziativa formativa in questo campo.I corsisti hanno svolto un percorso teorico (studiando diritto, sociologia, psicologia, antro-pologia oltre a esercitarsi sulle tecniche della mediazione e a rinforzare le loro competen-ze linguistiche e trasversali) e si sono impegnati poi in stage presso vari servizi del territo-rio provinciale e regionale che potenzialmente potrebbero impiegarli come tecnici qualifi-cati (scuole, centri socio-educativi, centri per l’impiego, ambulatori medici ecc.) nella me-diazione interculturale.Il presente volume prova a ripercorrere le tappe dell’evoluzione storica che si è realizza-ta in Liguria nella costruzione e nella utilizzazione dei mediatori prima di questa esperien-za formativa provando a lanciare delle suggestioni e delle proposte per il futuro di questa professione e – più in generale – della funzione di mediazione interculturale, traendo an-che spunto da esperienze significative già realizzate anche in altre regioni italiane.Questo excursus è preceduto da riflessioni sui diversi aspetti del cosiddetto incontro/scon-tro/confronto tra culture, ovvero tra persone che si sentono e/o sono visti come parte di gruppi omogenei per stile di vita e di relazione.Partendo dai paradigmi più diffusi e analizzando ciò che avviene nei diversi teatri della globalizzazione, si propone al lettore una serie di spunti, di strumenti concettuali, che lo aiutino a spostare il suo punto di vista abituale, a posare uno sguardo “straniero” sul suo, sul nostro quotidiano prima di entrare nel merito delle esperienze di mediazione concre-tamente operate. In fondo è proprio questa capacità di “spostarsi” il contributo che i mediatori possono e debbono dare alla società in cui vivono, questo non per generico omaggio ad un presun-to “relativismo culturale” ma per evitare che visioni cristallizzate di sé e degli altri produ-cano ingiustizie e inaridimenti delle relazioni sociali.Una definizione – se si vuole minimalista – di mediatore interculturale recita: “Nuova figu-ra professionale che ha il compito di facilitare l’inserimento dei cittadini stranieri nel con-testo sociale italiano, esercitando la funzione di tramite tra i bisogni dei migranti e le rispo-ste offerte dai servizi pubblici” (INVALSI, Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di istruzione e educazione), altre se ne potrebbero dare ma quel che importa sottolineare è che formare mediatori e poi operare nel campo della mediazione intercultu-

    Provinciadi Savona

  • 66

    rale è – prima di tutto – un gesto di speranza e, insieme, un atto di giustizia.Se è vero che molti “lavori” sono ormai resi possibili da presenze di varie etnie, occorre allora che soprattutto le Pubbliche Amministrazioni, pur nei limiti dei propri bilanci, indi-viduino in questi nuovi professionisti un valido supporto per valorizzare le diversità, favo-rendo lo scambio e la comunicazione tra culture diverse.Quella che ora ci appare una nuova spesa quasi insostenibile, in tempi brevi ci porte-rà ad un risparmio nei servizi che offriamo: nei centri per l’impiego noi lo abbiamo spe-rimentato.Un ringraziamento va ai mediatori culturali presenti nei nostri servizi ed un augurio di buon lavoro a quelli che hanno terminato il percorso formativo.

    Teresa FerrandoAssessore alle Politiche Attive del Lavoro

    e Sociali della Provincia di Savona

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    Leggendo questo libro sulla mediazione interculturale ed i validi contributi che lo hanno ar-ricchito ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte ad un panorama complesso ma estremamente stimolante, probabilmente in reazione alla ben documentata debolezza della politica e alla frammentarietà delle risposte date dagli amministratori al fenomeno dell’im-migrazione sin dal suo inizio.Il ruolo della mediazione nella gestione dei conflitti, questo suo essere “sul crinale”, secondo la felice definizione data, ne fa uno strumento chiave delle politiche di integrazione e quin-di delle politiche dell’immigrazione così come da me intese.In realtà questo testo conferma l’esistenza di conoscenze e competenze che sono andate maturando sul territorio, seppur in modo spontaneo e precario, anche grazie all’esperienza delle istituzioni liguri, esperienza di cui la Regione deve necessariamente dare conto attra-verso una sistematizzazione e un riconoscimento pieno della figura professionale del media-tore interculturale dal punto di vista normativo e mediante una progettualità politica estesa che tenga in considerazione una molteplicità di fattori.Stiamo lavorando da tempo in questa direzione e, dopo aver individuato i criteri su cui deve fondarsi la formazione professionale, ci accingiamo al riconoscimento dei crediti formativi dei corsi, come quello promosso dalla Provincia di Savona, che si sono nel frattempo tenuti sulla base delle direttive regionali. Il fine ultimo è quello di individuare un percorso chiara-mente definito che possa concludersi con l’istituzione di un elenco, come previsto dalla leg-ge regionale 7/2007, che serva a tutelare questa professione e chi di essa si avvale.Restano molti problemi da risolvere, come quello retributivo e del ruolo professionale, ov-vero degli ambiti di intervento e delle competenze dei mediatori all’interno delle istituzioni e degli enti per cui lavorano ma anche del trasferimento di parte, almeno, delle competen-ze interculturali agli operatori delle istituzioni italiane che forniscono i servizi di cui in misu-ra crescente i migranti usufruiscono.Per questo ritengo importante l’approvazione della legge regionale 7/2007 “Norme per l’ac-coglienza e l’integrazione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati” che met-te a nostra disposizione nuovi strumenti e sancisce la rilevanza strategica della mediazione interculturale in ogni settore di intervento.Credo inoltre che già nel prossimo anno la Regione sarà chiamata ad un nuovo impegno fi-nanziario sia per analizzare e discutere nello specifico le singole problematiche, sia per rea-lizzare azioni di sostegno all’impiego e alla formazione dei mediatori. Ritengo prioritario de-stinare fondi alla mediazione nelle scuole e nei servizi socio-sanitari e puntare su una ver-sione innovativa di mediazione, quella “informale” delle seconde generazioni che si può at-tuare valorizzando i giovani di origine straniera già presenti negli istituti scolastici e coinvol-gendoli nell’accoglienza dei nuovi arrivati.

    RegioneLiguria

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    Ho notato infine con piacere che in uno dei contributi del libro si individua un elemento di positività nelle azioni intraprese dal mio Assessorato e in particolar modo nell’istituzione della Consulta per l’integrazione dei cittadini stranieri immigrati, con la quale abbiamo cer-cato di estendere la partecipazione dei migranti ai processi decisionali. Rimango infatti con-vinto che questo processo sia assolutamente fondamentale per il dispiegarsi di quelle prati-che di contaminazione e di incontro tra culture di cui abbiamo un grande bisogno in que-sta fase di profonde trasformazioni sociali.

    Giovanni Enrico VescoAssessore alle Politiche Attive del Lavoro e dell’Occupazione,

    Politiche dell’Immigrazione Regione Liguria

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    Parte IManeggiare le culture:

    costruire convivenza

  • paginabianca

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    Le differenze culturalitra melange globalee meticciato locale

    di Giuliano Carlini

    L’approdo, nelle aree culturali che ci riguardano, di crescenti flussi migratori ha aperto da tempo una riflessione sui confronti di culture, non solo nei contesti politico sociali ma an-che, e soprattutto, nelle analisi condotte da parte degli studiosi del problema.Lasciando da parte i diversi nodi intorno ai quali si addensano le analisi sul fenomeno mi-gratorio, in generale, si vuole qui proporre alcune riflessioni sullo specifico delle differen-ze culturali il cui rilievo investe le condotte concrete di gruppi e delle istituzioni che si oc-cupano del problema.L’accresciuta mobilità delle persone, specifica della fase di globalizzazione che caratterizza il mondo in questa epoca, vede lo svilupparsi di tre fenomeni che possono apparire ana-liticamente distinti ma che, nel loro svilupparsi, si intrecciano creando il contesto di riferi-mento del problema delle differenze culturali.Il primo fenomeno è naturalmente quello che si concretizza nello spostamento nelle diver-se aree del pianeta di centinaia di milioni di persone; è un fenomeno complesso del qua-le l’aspetto che si riferisce più propriamente alle migrazioni in quanto tali incide in misura consistente (nelle stime più recenti si parla di circa centottanta milioni di migranti in sen-so proprio) ma che non può non tener conto dell’accresciuta mobilità complessiva delle persone per cui, accanto ai migranti, si devono considerare altri milioni di persone che si spostano in modo meno permanente ma tuttavia significativo a livello mondiale.Il secondo fenomeno riguarda la diffusione della comunicazione per effetto della crescita, in estensione e in capacità tecniche, dei canali comunicativi che produce come effetto cul-turalmente rilevante la costruzione di un immaginario condiviso e nello stesso tempo di-versificato sempre a livello globale e sul quale avremo occasione di ritornare.Terzo fenomeno, che si sviluppa in contemporanea e in collegamento con i primi due, è la crescente urbanizzazione a livello mondiale: la crescita esponenziale di insediamenti urbani che costituiscono sempre più spesso l’area di arrivo e/o di transito dei grandi flus-si migratori.I tre fenomeni si influenzano vicendevolmente in molti modi e hanno un’importanza de-terminante sulla identificazione e sull’interpretazione delle così dette differenze culturali, la più importante delle quali riguarda proprio la costruzione delle specificità e delle diver-sità di lettura che si attribuiscono agli attori sociali coinvolti negli spostamenti.Vale intanto quello che sostiene Appadurai (2001, p.17): “Le migrazioni di massa (volonta-rie o forzose) non sono certo un fatto nuovo nella storia dell’umanità, ma quando si affian-cano al rapido fluire delle immagini mass mediatiche, alle sceneggiature e alle sensazioni, siamo di fronte a un nuovo ordine di instabilità nella produzione delle soggettività moder-ne. Quando i lavoratori turchi emigrati in Germania guardano film turchi nei loro apparta-menti tedeschi, quando coreani a Philadelphia guardano le Olimpiadi di Seul grazie ai col-legamenti via satellite dalla Corea e quando i tassisti pakistani a Chicago ascoltano le cas-sette di prediche registrate in Pakistan o in Iran, siamo di fronte a immagini in movimen-to che incrociano spettatori deterritorializzati. Tutto ciò crea sfere pubbliche diasporiche, fenomeni che mettono in crisi quelle teorie che continuano a basarsi sulla rilevanza dello

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    Stato nazionale come fattore chiave dei più rilevanti mutamenti sociali”.D’altro canto i migranti, permanenti od occasionali, si muovono essenzialmente, anche se non esclusivamente, sempre più da aree urbane verso altre aree urbane i cui abitanti so-no caratterizzati da atteggiamenti culturali e quindi da pratiche d’azione fortemente con-dizionate dai processi di omologazione indotti dai modelli di consumo (e dai loro propri luoghi) globalizzati.Questa condizione influenza la scomposizione e composizione, sotto nuove forme, degli imprinting culturali originari dando origine a elementi di differenziazione che appaiono tuttavia fortemente legati alle condizioni e alle pratiche di vita contingenti.Harrison sintetizza bene i termini della questione “…i barbari odierni, non vengono dal-la selve, né la loro cultura è quella selvaggia. Al contrario hanno sperimentato prima del-l’incontro con la nostra città, l’esperienza e la socializzazione con le sterminate megalopo-li del Terzo Mondo, e qui da noi incontrano e sperimentano una città “a misura d’uomo” e da questa prospettiva ripetono con il barbaro di Eco e di Borges il loro rinnovato “voglio essere romano!”. E noi? Noi abbiamo la possibilità di sperimentare la loro esperienza ur-bana che ha gli stessi pregi e difetti della nostra, ma anche difetti e pregi differenti. E im-parando a scambiarci queste somiglianze e queste differenze – noi e loro insieme – nello spazio dell’interculturalità, la città educativa che sarà educativa proprio perché capace di inquadrare i diritti umani, ma contemporaneamente anche i doveri sociali, in un modello di multiculturalità nuova che consenta una migliore condizione di vita fondata su un con-cetto e un concerto di memorie e di relazioni diverse” (Harrison, 2003, p. 66).Naturalmente, come abbiamo sostenuto in altra sede (Carlini, 2007), noi siamo molto più cauti nel condividere l’ottimismo delle osservazioni finali di Harrison ma ci sembra che l’esordio della sua citazione fotografi efficacemente gli esiti di percorsi di ricerca ormai as-sodati.Quindi il problema delle differenze culturali non può che essere affrontato tenendo conto degli scenari che sono stati fin qui sommariamente evocati e ci sembra assolutamente fuori luogo immaginare gli attori dei processi migratori come portatori di atteggiamenti culturali definiti una volta per tutte e quindi tali da confrontarsi in termini di rigidità assoluta.Tuttavia la riflessione sulla differenza culturale oggi fa i conti con almeno tre modi di in-tenderla che nelle valutazioni delle strategie d’azione e dei comportamenti concreti si in-fluenzano, o più spesso convivono, creando possibilità di prese di posizione assolutamen-te contraddittorie.Una prima deriva, che spesso viene considerata frettolosamente obsoleta, è quella che si riferisce alla dimensione del differenzialismo e che si fonda sull’idea che sia possibile iso-lare “culture pure” caratterizzate da riferimenti territoriali precisi, quindi da confini, che si alimenta su differenze inconciliabili relative alla modalità di comunicazione principe, la lingua, sulla compattezza dei riferimenti ideologico religiosi e sull’almeno tendenziale ge-rarchia di importanza fra le diverse culture/civiltà.Sono le argomentazioni che si nutrono del differenzialismo romantico, della dottrina del-la razza e delle sue riedizioni aggiornate e nella cultura politica dello sciovinismo e porta-no nelle condotte pratiche a immaginare un mosaico di culture non comunicanti, quindi a civiltà “immutabilmente diverse” destinate a inevitabili scontri, in oggi e nel futuro, gio-cati sia a livello macro che a livello micro.Accanto a questa impostazione, differenziata ma nelle pratiche spesso confusa, vi è quel-la che pone al centro l’idea di una progressiva convergenza di tutte le differenze cultura-li verso una sorta di omogeneizzazione fondata sul prevalere delle pratiche di comporta-mento indotte dai processi strutturali di globalizzazione (consumismo piuttosto che il pre-valere di condotte individualistiche).

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    Dal punto di vista dei riferimenti lontani tale approccio si riferisce agli universalismi tanto imperialistici che religiosi e in maniera più specifica all’universalismo razionalista, coniu-ga l’evoluzionismo con la modernizzazione e prevede esiti di omogeneità culturale glo-bale condizionata in ogni caso condizionata dai modi e dalle pratiche prevalenti dei “rap-porti capitalistici avanzati”.Entrambe queste impostazioni trovano difficili e contraddittorie conferme quando dall’af-fermazione perentoria di assunti si passa alla verifica concreta delle pratiche di comporta-mento delle persone nelle diverse situazioni dell’oggi. Sarebbe tuttavia una grave ingenuità sottovalutarne l’importanza dal momento che l’imma-ginario, veicolato attraverso i media e ripreso in termini anche molto più grossolani nella comunicazione politica, si alimenta di un coacervo di riferimenti confusi che hanno come riferimento comune proprio le teorie del differenzialismo e della convergenza che sem-brano riflettere inverificabili esperienze di senso comune.Molte scelte e decisioni operative, non solo dei decisori politici ma anche di operatori cul-turali, sembrano tener conto delle suggestioni ispirate da questi approcci.Per esempio si potrebbe ragionare delle pratiche di difesa delle specificità delle culture originarie messe in opera da una molteplicità di soggetti che operano nel campo dei con-fronti interculturali, ispirate tutte al lodevole intento della difesa ad oltranza di caratteristi-che culturali originarie, peraltro difficilmente presenti in soggetti concreti ma facilmente evocabili al livello dell’immaginario spesso per alimentare strategie di affermazione di in-teressi specifici o sogni di un riproposto etnosviluppo.I nostri spunti di riflessione, pur non cessando di confrontarsi con i contenuti degli atteg-giamenti culturali appena ricordati, si orientano ad una interpretazione della differenza culturale condizionata sul piano metodologico da un approccio costruttivistico.Naturalmente si condivide la consapevolezza di un mondo che sta diventando più “pic-colo” e che, in questo stesso mondo, i processi di modernizzazione hanno in vaste aree cancellato diversità culturali e biologiche accentuando i processi di razionalizzazione e di standardizzazione e di controllo finalizzato al vantaggio dei pochi su molti e alla diffusio-ne di un’idea unica su quello che è giusto e quello che è sbagliato, utile e disutile, cultu-ralmente rilevante o irrilevante per tutti.Il prezzo pagato da parte delle persone nelle aree più coinvolte da questi processi è stato comunque una crescita dell’alienazione, della disillusione e del senso di non appartenen-za a un luogo che ha dato origine al riemergere di fantasmi che costruiscono nuove iden-tità, nuove culture, nuove etnie in dimensioni di aree territoriali ridotte e al servizio di in-teressi non sempre così facilmente specificabili come “territoriali” e “di gruppo”.E tuttavia ci sembra che più facilmente sia dimostrabile a livello empirico che quello che è in atto, nelle dimensioni concrete di interrelazione, sia piuttosto un processo di mesco-lamento culturale che spazia attraverso luoghi e identità.La concretezza del mescolamento dura da sempre in quanto processo ma come immagi-ne appare come un approccio nuovo e diverso che nasce forse da aree “proibite” dei pa-radigmi che sono stati appena esposti e che fa piuttosto riferimento a sensibilità attuali le-gate alla pratica del collage, della trasgressione, e al limite della sovversione.La modernità stessa si esprime attraverso un costume che si riferisce a un’idea di ordine e di confini, nata com’è nel tempo dell’affermazione delle “specificità nazionali” forzosa-mente costruite ma non per questo, da un certo momento in poi non condivise. L’idea che si riferisce al mélange si alimenta al contrario del riconoscimento di altre forme di differenza quali quelle di genere, di identità, coniugandole tuttavia attraverso pratiche legate a percorsi individuali e di gruppo fortemente ibridi e quindi caratterizzati contem-poraneamente dal globale e dal locale.

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    Da questo punto di vista la globalizzazione appare piuttosto un processo di ibridazione che dà origine non a una omogeneizzazione ma piuttosto ad un mélange locale.Sulla base di queste considerazioni la problematica della differenza assume connotazio-ni meno rigide dal momento che si tratta di modularla sulla creazione costante di nuove esperienze di vita ispirate certo dai condizionamenti imposti dalla necessità della soprav-vivenza e dell’adattamento, ma che tendono ad articolare gli elementi provenienti dalle esperienze culturali precedentemente vissute dai soggetti e a scambiarle, attraverso pro-cessi di continua mediazione, in direzione della costruzione di percorsi culturali fortemen-te meticciati e quindi proprio per questo infinitamente più ricchi di chances.I modi della sopravvivenza nelle “aree illegali” (gli slums) prodotte incessantemente dal-l’espansione delle megalopoli nascono naturalmente anche dai modi di vedere “originari” degli attori ma non possono appiattirsi solo su modelli di sopravvivenza per agire i qua-li non esistono più le condizioni materiali, si reinventano quindi nuove pratiche e nuove appartenenze sempre meno legate ad orizzonti culturali prefissati, sempre più propense a creare incessantemente nuovi percorsi che rispondano a concrete esigenze di vita e a co-struzioni di situazioni di felicità possibili.Quello che si verifica quando si percorrono vie di conoscenza sul modo d’essere delle persone oggi, è proprio il coesistere di immagini interpretative, indotte capaci di alimen-tare essenzialmente instabilità e conflitti, con gli sforzi costanti di costruire situazioni con-crete di superamento delle condizioni di disagio, continuamente proposte, mediate e poi riproposte.In termini conclusivi ci sembra di poter condividere nella sostanza le osservazioni propo-ste da Claudio Baraldi quando sostiene che il dibattito generale sui temi che abbiamo cer-cato di affrontare corre “il rischio di ipostatizzare un significato della diversità che appa-re predefinito, come se fosse cristallizzato, in qualche luogo metafisico o in qualche strut-tura latente della società…” (2005, p. 17), mentre “Diversità culturale e ibridazione, co-me fenomeni empirici osservabili, devono evidentemente essere collocati nel quadro di una teoria delle relazioni tra culture: una prospettiva interessante, a tale proposito, è quel-la di considerarle come costruzioni sociali che si producono nella comunicazione” (2005, p.16), nella comunicazione complessiva, aggiungiamo noi, quella che consente i rapporti interrelati in situazioni concrete di attori sociali verso obiettivi concreti da parte di altret-tanto concreti protagonisti.

    Riferimenti bibliografici

    Appadurai A., Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001.Baraldi G., Ibridismo e diversità culturale, in Pieterse J.N., Mélange globale, Carocci, Ro-

    ma, 2005.Carlini G., Cultura, cultura del quotidiano, cultura delle origini, in Longoni L. (a cura di),

    Multiculturale a chi? Le aspettative culturali degli immigrati, Fratelli Frilli, Genova, 2007 (in pubblicazione).

    Harrison G., I fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi, Roma, 2002.Laplantine F., Nouss A., Il pensiero meticcio, Elèuthera, Milano, 1997.Pieterse J.N., Mélange globale, Carocci, Roma, 2005.

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    Culture che si spostano

    di Marco Aime

    Il turismo è sempre e inevitabilmente un’attività mediata: tra il turista e il locale c’e sem-pre una guida, un accompagnatore. Il mediatore locale oltre a ricoprire l’importante ruolo di interprete linguistico, mette in atto un’opera di ammortizzamento dell’incontro, smussa e lima le diversità tra le due parti. O meglio, smussa la diversità dei suoi compaesani a fa-vore dei turisti, non viceversa. Svolge un ruolo di facilitatore in quanto, quasi sempre, è un individuo che ha già un piede nella cultura occidentale, quella che produce turisti. Proprio per questo può raccontare la cultura del posto ai visitatori. Nel farlo, però, spesso finisce per “creare” una cultura, per visualizzarla e in qualche modo fissarla.Questo processo di creazione e di visualizzazione della diversità culturale ricorda, per cer-ti versi, quanto accade a casa nostra con i mediatori culturali, i quali, in perfetta buona fe-de e per fini certamente apprezzabili, finiscono inevitabilmente per “creare l’altro”. Il me-diatore dovrebbe attenuare la distanza, ma come? Lui che, per esempio, è un po’ meno se-negalese, nel senso che è in grado di dialogare con le nostre istituzioni, finisce speso per dare l’impressione che dall’altra parte ci siano dei senegalesi tutti uguali, che ragionano da senegalesi e che solo un mediatore può comprenderli. Ecco inventato un nuovo, solido, coerente gruppo. Il mediatore reifica la cultura, la rende visibile e finisce per diventarne una sorta di rappresentante ufficiale istituzionalizzato, sottraendola alla sua natura aper-ta e fluida e impedendo così agli individui di esercitare altre opzioni disponibili. Nel ca-so del turismo, i mediatori impediscono spesso ai visitatori di poter osservare con altri oc-chi la realtà che hanno di fronte. La filtrano attraverso maglie create dai turisti stessi. Poi-ché la spinta che anima questi ultimi e che li porta a intraprendere viaggi in luoghi lonta-ni è proprio la ricerca del diverso, dello stupefacente, è naturale che si vada alla ricerca e si apprezzi quanto è più lontano, diverso, stupefacente.1. Da alcuni decenni si stanno affermando nuove forme di turismo, che si pongono in al-ternativa ai modelli di massa, e che stanno tentando, per voce di associazioni, ONG e or-ganizzazioni varie, di proporre un tipo diverso di incontro con l’altro. Il cosiddetto turi-smo responsabile, etico, sostenibile ha dato vita a nuovi immaginari, a “esotismi” diversi, che spostano il turismo dalla sua tradizionale dimensione di svago a quella dell’esperien-za. Come scrive Jean Michaud, “da circa una ventina d’anni la domanda per il cosiddetto turismo d’avventura sia costantemente in aumento, soprattutto da quando, come avviene da alcuni anni, si è unito al discorso promozionale un sapiente dosaggio di valori umani-tari alla moda (...) Si sono ora aggiunti dei concetti vedette, quali la scoperta delle cultu-re altre (a maggior ragione se in via d’estinzione), la conoscenza dell’umanità, l’esperien-za primordiale, emotiva e, paradossalmente, la fuga dai luoghi di quell’altro turismo, quel-la volgarità che è il turismo di massa”.1

    Il turismo esotico in genere è caratterizzato da tre paradossi: l’impossibile ricerca dell’au-tenticità; un certo fondo di paura; lo spazio vuoto dell’incontro, la cosiddetta “bolla am-bientale”.2 Bolla che è il prodotto di tutti gli sforzi messi in atto dai molti mediatori che ac-compagnano il turista (dal tour operator alla guida locale) per attenuare lo shock dell’in-

    1 Citato in F. Ferraris, Ecoturismo, turismo etnico: un accostamento ambiguo, in ‘Afriche e Orienti’, III, 3-4, 2001, p. 31.2 M-F. Lanfant, International tourism, internationalization and the challenge to identity, in M-F. Lanfant, J. B. All-cock, E.M. Bruner (a cura di), International Tourism: Identity and Change, Sage, London, 1995.

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    contro: incontrare l’Africa, l’Asia o l’Australia senza mai provarle pienamente.3 La costru-zione dell’immaginario turistico, sia esso fondato sull’esotismo sia sull’attenzione alle que-stioni sociali, come nel caso del turismo alternativo, dà sempre vita a chiavi di lettura che ci accompagnano fin dalla partenza e che spesso finiscono per aprire una sola porta d’ac-cesso ai mondi visitati: quella per gli stranieri. Non ci sono dubbi che esistano modi di viaggiare più sensibili, ma il rischio è di creare una nuova retorica che propone queste nuove formule come una panacea. Nonostante tutte le attenzioni prestate dai turisti responsabili nei confronti dei contesti visitati, si trat-ta di iniziative su scala micro. La loro efficacia sul locale può essere più o meno rilevan-te, ma non può far perdere di vista il contesto globale in cui si muove ogni tipo di turista. Responsabile o meno per visitare i luoghi scelti, un turista spesso prende un volo aereo e le compagnie aeree lavorano al 90% per i turisti e proprio gli spostamenti aerei dedicati al turismo sono la causa del 7% delle emissioni che causano l’effetto serra.4 Inoltre l’incre-mento del traffico aereo provoca un inquinamento acustico e induce una forte produzione di velivoli, contribuendo così all’inquinamento industriale. Nemmeno il cosiddetto ecotu-rismo, un turismo apparentemente in armonia con la natura, come potrebbe essere quello di campeggiatori che attraversano il deserto del Kalahari, è immune da problemi. La ne-cessità di alimentare fuochi da campo, in un ecosistema così fragile, finisce per causare la distruzione di piante fondamentali per la sussistenza utilizzate dai khoisan.5 Ci si può allora domandare, per quanto riguarda i viaggi nei paesi del Sud del mondo: può il turismo essere davvero etico? Molte volte, nel corso dei miei soggiorni in Africa, mi so-no sentito chiedere: “Quanto ti è costato il biglietto aereo per venire fin qui?”. Nel caso di molti paesi del Sahel, quel biglietto vale quanto il reddito annuale di tre-quattro famiglie locali. Così come una cena in un ristorante per yovò6 a Cotonou costa quanto un salario medio mensile di un beninois. E ancora, a Lalibela, in Etiopia, il biglietto di ingresso al si-to dove si trovano le celebri chiese intagliate nella roccia, vale quanto il doppio del sala-rio medio annuo di un abitante del luogo.7

    È difficile, in questi casi, pensare che l’incontro turista-nativo possa basarsi su un rappor-to etico. A meno di non voler far finta di niente, di non voler considerare questa profon-da asimmetria che ha fatto sì che io possa andare in Africa (per diletto), mentre quel ra-gazzo che mi chiede quanto è costato il biglietto non può nemmeno andare dal suo vil-laggio alla capitale con una corriera. Tutta la buona fede e i migliori intenti che possono accompagnare i turisti responsabili non possono evitare l’ostentazione, seppur involonta-ria, di una ricchezza relativa non indifferente, che rimanda a un modello di vita occiden-tale e alimenta desiderio e frustrazione tra quelli che Serge Latouche chiama “i naufraghi dello sviluppo”.8

    2. Il turista, con sulle spalle il suo “fardello di uomo bianco” fatto di beni e denaro, rap-presenta uno dei fattori che condizionano l’immaginario di molti abitanti del Sud del mon-do, dove, peraltro, i media trasmettono programmi e film occidentali, mostrando un te-nore di vita sconosciuto ai telespettatori di quei paesi. Analizzando l’impatto del turismo

    3 W.E.A. van Beek, African Tourist Encounters: Effects of Tourism on Two West African Societies, ‘Africa’, 2003, 73, 2, p. 254.4 Dati forniti dall’associazione Tourism Concern, www.tourismconcern.com.5 E. Chambers, Native Tours. The Anthropology of Travel and Tourism, Waweland Press, Prospect Heights, Illi-nois, 2000, p. 70.6 Termine con cui vengono chiamati i bianchi in Benin e in Togo.7 F. Michel, Altrove, il settimo senso. Antropologia del viaggio, MC, Milano, 2000, p. 207.8 S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.

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    nel Ladakh, Paul G. Goering constata come: “Osservando i turisti in vacanza i ladakhi – in particolare i giovani – arrivano facilmente a concludere che tutti gli occidentali sono ric-chi, che lavorano poco e che l’Occidente è un paradiso di consumatori. I giovani iniziano ad allontanarsi dal modo di pensare dei loro genitori e corrono ad abbracciare ogni cosa vista come moderna”.9 Anche la semplice osservazione dei turisti induce a cambiamenti di attitudini e valori. Come sottolinea Abdelwahab Bouhdiba: Il turismo inietta il comportamento di una società del superfluo all’interno di una società del bisogno. Ciò che il turista medio consuma in Tunisia in una settimana, in quantità di carne, burro, prodotti caseari, frutta e dolciumi è equivalente a ciò che due tunisini su tre mangiano in un anno intero. Il divario tra società ricche e povere, a questo punto, non è più una questione accademica, ma una realtà quotidiana.10

    Il lato morale di questo aspetto viene spesso camuffato nella pubblicistica del turismo eti-co-responsabile. Qui le definizioni sembrano più basarsi sulla negazione dei luoghi co-muni che su una proposta vera e propria. Si mettono in evidenza le differenze tra le mete proposte rispetto ai luoghi di massa e il diverso approccio, ma anche in questo caso si co-struisce una retorica del sociale. Se da un lato viene messa in evidenza la necessità di viag-giare in modo diverso proprio per cercare di capire meglio i problemi del Sud del mon-do, dall’altro non si pone mai l’accento sull’impatto che il nostro semplice arrivo può ave-re sugli altri. L’incontro con le comunità locali è spesso descritto come un’opportunità ri-servata a pochi e con toni un po’ “parrocchiali”, che portano a immaginare la riunione di un circolo di amici, dove si discute dei problemi degli uni o degli altri in piena convivia-lità e reciproco entusiasmo. In realtà, nella maggior parte dei casi il ruolo del turista è ca-ratterizzato dalla contemplazione piuttosto che da un vero coinvolgimento: si osserva, ci si stupisce, si fotografa e spesso si discute su ciò che si è visto tra turisti stessi.3. Per fare davvero conoscenza occorre tempo, molto, ma difficilmente se ne ha a disposi-zione abbastanza per rimanere in quel luogo a lungo. Senza contare che l’avvio di un rap-porto interpersonale è solitamente un fatto individuale e spesso, invece, sono due grup-pi a trovarsi uno di fronte all’altro. Le dichiarazioni e le promesse relative all’incontro con le popolazioni o le comunità finiscono per essere condizionate dalla brevità e dall’istitu-zionalizzazione di questo incontro, peraltro sempre mediato e collettivizzato. La promes-sa di “incontri” con le popolazioni locali risulta quindi falsata. Al massimo si tratterà di un soggiorno di uno o due giorni in un villaggio dove non si sarà “amici”, come forse si de-siderava essere, ma sempre stranieri. Pertanto le relazioni tra lui e i nativi si fanno sem-pre più impersonali e per entrambi gli individui diventano “tipi”. Nasce allora la tenden-za allo stereotipo e alla categorizzazione: locali e stranieri finiscono per trattarsi l’un l’al-tro sempre più come oggetti.11

    Spesso i turisti, quelli responsabili inclusi, non si accorgono di portarsi inevitabilmente ap-presso la loro immagine, il loro status. La maggior parte si percepisce come un individuo medio, non come un ricco, non come un rappresentante tipico della sua società. Il fatto di essere venuto in un paese del Sud del mondo implica, nella loro ottica, una differenza fondamentale, direi ideologica rispetto alla massa che si dirige verso le spiagge assolate e le località più alla moda. All’opposto di quello che Erik Cohen definisce turista ricreazio-nale, che non vive alcuna alienazione nei confronti della propria società di appartenen-za, sente invece la necessità di allontanarsi dalla propria esperienza quotidiana per viver-ne una nuova. Per i nativi, però, i turisti non solo appaiono come ricchi, un po’ tirchi, ma

    9 P.G. Goering, The response to Tourism in Ladakh, ‘Cultural Survival Quarterly’, 1990, 14, 1, p. 21.10 Citato in C. C. Lanzano, Antropologia e turismo, cit. p. 84.11 D. Nash, Tourism as a Form of Imperialism, in V. Smith, 1989, cit., pp. 44-45.

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    possiedono più di quanto mostrano e potrebbero spendere di più. I turisti sono soprattut-to dei portafogli ambulanti, ma spesso chiusi. Se ne rende conto con una certa malinco-nia Gianni Celati, che con la lievità che caratterizza i suoi scritti ben descrive questa pre-sa di coscienza: Ma più di tutto ci prende alla sprovvista il fatto di essere bianchi. Perché siamo qui a rap-presentare non quel che siamo o crediamo di essere, ma quello che dovremmo essere in quanto bianchi (ricchi, potenti, moderni, compratori di tutto). (...) Ma io sono prima di tutto un fantasma di pelle bianca, sperduto turista, c’è poco da dire. Troppo comodo fa-re gli scrittori che vanno in paesi esotici con idee molto avanzate, dimenticandosi di es-sere bianchi e turisti.12

    In realtà il viaggio non è solo un’esperienza di incontro con l’altro: è fondamentale il qua-dro in cui questo incontro deve avvenire e tale quadro deve essere altrove, lontano da noi e dalle nostre abitudini quotidiane. Come dice Marc Augé: “Se fossimo animati soltan-to dal desiderio di incontrare gli altri, potremmo farlo facilmente, senza uscire dai nostri confini, nelle nostre città e nelle nostre periferie”.13 Molto più brutale la fumettista e scrit-trice Claire Bretécher: “Questa idea di andare nel terzo mondo, quando il quarto è a set-te stazioni di metrò”.14

    La scusa dell’incontro è pertanto solo parziale: ciò che ci interessa è il nostro essere là. 4. Ciò che distingue il turista responsabile di oggi da quei “turisti del vuoto, viaggiatori di nessuno che non sia io o me”15, è un minor grado di fascinazione da esotico e una più spiccata sensibilità verso i problemi sociali, accompagnata da un interesse verso le realtà locali, ma anche questo nuovo sguardo rischia di occultare quel dislivello che segna ine-vitabilmente il rapporto con l’altro.L’attenzione per le problematiche che caratterizzano le regioni visitate porta a una maggio-re presa di coscienza e induce a una riflessione, spesso condivisa dal gruppo di viaggiato-ri, ma l’essere là, in quel momento esprime di per sé una contraddizione di fondo. Io sono qui, in questo villaggio a discutere e riflettere sui problemi di questa gente, magari penso anche a cosa posso fare per loro, grazie a un sistema che, nella maggior parte dei casi, è la causa principale di quei problemi. Questo è uno dei paradossi del turismo. Perché esista il turismo, sostiene Valene Smith, occorrono tre elementi essenziali: tempo libero; entrate discrezionali (cioè non necessariamente utilizzate per soddisfare i bisogni primari); approvazione sociale16, tre elementi che solo la società occidentale o meglio so-lo alcune fasce di tale società, sono in grado di esprimere tutti assieme. Questo vale an-che per il turismo responsabile che, seppur in espansione, per ora è una nicchia di mer-cato ancora limitata, ma occorre fare attenzione perché, come avverte saggiamente Dome-nico Quirico: “L’ortodossia della responsabilità presenta un rischio: essere arruolata dalle astute strategie del consumismo”.17 Il turismo responsabile non è fuori del mercato, è una sua componente che tenta di moralizzarlo, ma senza uscirne veramente.Se analizziamo la questione su un piano economico, possiamo forse affermare che il turi-smo non è mai etico se a questa parola attribuiamo il significato di “morale”, che attiene a una fondamentale correttezza nei rapporti umani. Il tema della responsabilità, così come viene posto dagli operatori del settore, passa attra-

    12 G. Celati, Avventure in Africa, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 52.13 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 51.14 Citata in D. Urbain, L’idiota in viaggio. Storia e difesa del turista, Aporie, Roma, 2003, p. 257.15 Citazione dalla canzone Van Loon di Francesco Guccini.16 V. Smith, (a cura di), Hosts and Guests. The Anthropology of Tourism, The University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1989, p. 1.17 D. Quirico, Quando le vacanze sono l’arma segreta dei dittatori, in ‘La Stampa’, 24 agosto 2001.

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    verso una conoscenza più approfondita delle realtà incontrate e una presa di coscienza dei problemi che eventualmente ne condizionano l’esistenza. Questo atteggiamento può essere certamente favorito dal modello di viaggio che viene proposto al turista, ma anche in questo caso entra in gioco soprattutto la sua capacità di riflessione, là e qui, a casa, sul-le cose viste e incontrate. Questo può tradursi in un nuovo atteggiamento nella sua vita quotidiana, in un lavoro di sensibilizzazione o magari nell’impegno in attività solidali. Co-sì come il commercio equo, al di là della sua reale portata economica, assume un ruolo importante nel proporre un diverso modello di rapporti nord-sud, una formula di viaggio che porti a conoscere da vicino le realtà locali, che offra la possibilità di un contatto me-no frettoloso, aiuta sicuramente a sensibilizzare il viaggiatore, a spostare il viaggio dalla dimensione puramente ludica a quella esperienziale, ma si tratta ancora una volta di una nostra esperienza, che non sempre è condivisa dagli altri, dai locali. Capire una crisi, can-tava amaramente Giorgio Gaber, non vuole dire che la crisi è risolta. Infatti, tutto questo si limita alla sfera della coscienza, la nostra, ma in che misura incide concretamente sulle persone che abbiamo visitato nei nostri viaggi?5. Se per incontro intendiamo un momento in cui due o più persone condividono lo stes-so spazio contemporaneamente, interessandosi l’uno dell’altro, allora il turismo rappresen-ta una delle occasioni più frequenti d’incontro tra stranieri. Anche se gli slogan del settore propongono, un po’ enfaticamente, “incontri con la natura”, con la storia o con la tradizio-ne, a gestire quella natura, quella storia, quella tradizione sono individui, persone.L’incontro turistico avviene sempre tra visitatori e visitati, stranieri e nativi, ospiti e ospi-tanti. Il fatto che questi attori condividano spazi e tempi comuni, non significa affatto che le relazioni che si generano tra di loro siano simili. In alcuni casi sorgono persino dubbi sull’utilizzo del termine “incontro”, se a questa parola attribuiamo anche la capacità di da-re vita a un contesto conviviale. Incontro non sempre coincide con scambio. In ogni ca-so, fuori da casa sua, il turista ha bisogno di qualcuno che in qualche modo risponda al-le sue esigenze e, se si eccettuano alcuni pacchetti tipo villaggio-vacanza tutto compreso, quel qualcuno è un locale.Ogni incontro è una scoperta, è portatore di novità, carico di aspettative, tanto più se l’al-tro è diverso, lontano da noi, esotico. Diffidenza, curiosità, sorpresa, timore si intrecciano, si sovrappongono, si susseguono in questi incontri, prevalendo, a turno, uno sugli altri. Come spesso avviene nella vita di tutti noi il tempo trasforma gli incontri in amicizia oppu-re in semplice conoscenza formale o ancora fa sì che si interrompa ogni tipo di rapporto con le persone incontrate. Il tempo può chiarire le perplessità e le ambiguità iniziali, ap-pianare le differenze o solo accantonarle, spostando il rapporto su altri binari. In ogni ca-so, solo il tempo può rivelarci se da un incontro può nascere una relazione.Questo tempo non è concesso ai turisti né ai locali che li accolgono. Il turista, quello più attento, conosce, come il protagonista dell’Educazione sentimentale di Flaubert “l’amarez-za delle simpatie interrotte” che segna ogni viaggio. L’incontro rimane sospeso e, spesso, invece che relazioni, le quali prevedono un’interazione, un confronto, un mettersi in di-scussione, ne scaturisce una sorta di gioco di specchi in cui uno proietta sull’altro ciò che pensava di lui prima di incontrarlo. 6. In questa malinconica scenetta Antonio Tabucchi mette a nudo quel gioco che spesso si determina tra il turista nei paesi esotici e gli indigeni che lo accolgono:

    “È meglio non bere l’acqua di Bombay. Lo si può fare solo al Taj Mahal, che possiede i suoi depuratori e che va orgoglioso della sua acqua. Perché il Taj non è un albergo: con le sue ottocento camere è una città dentro la città. Quando entrai in questa città fui ricevu-to da un portiere travestito da principe indiano, con fusciacca e turbante rossi, che mi gui-

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    dò fino alla portineria tutta ottoni dove c’erano impiegati anch’essi mascherati da maha-raja. Probabilmente pensarono che anche io ero mascherato, ma al contrario, che ero un riccone travestito da povero, e si dettero un gran daffare per trovarmi una stanza nell’ala nobile”.18

    Immagini e immaginari si intrecciano in questo incontro tra locali e visitatori, che costitui-sce una realtà sempre più presente e diffusa. Tra i molti panorami, globalizzati e globaliz-zanti, c’è anche quello turistico. Tutti noi, in quanto turisti, viviamo la nostra esperienza, fin dal momento in cui la ipotiz-ziamo, all’interno di un immaginario globalizzato che ci fornisce, in grande abbondanza dati, informazioni e immagini sulla futura meta. Scegliamo di andare in un posto perché sappiamo com’è, lo abbiamo visto alla televisione, sulle riviste specializzate, sui cataloghi turistici, nelle proiezioni degli amici. Il viaggio da scoperta diventa sempre più una veri-fica di ciò che conosciamo già. Sono pochi i turisti di oggi che potrebbero condividere le parole di André Gide che, in Voyage au Kongo, a chi gli chiedeva cosa andava a cercare laggiù, rispondeva: “Aspetto di essere lì per saperlo”.Il bagaglio del turista contiene spesso una buona dose di informazioni più o meno since-re e realistiche accumulate prima di partire. Il turista sa cosa vuole vedere e fa di tutto per trovarlo, talvolta anche a dispetto dell’evidenza. Questo è particolarmente evidente nel ca-so del turismo “esotico”, che concede più spazio all’immaginazione perché percorre spazi solitamente lasciati vuoti dai nostri pensieri quotidiani. Ecco allora che l’altro, il nativo, fi-nisce per apparire, ai nostri occhi, sempre più simile a quello descritto e fotografato sulla guida, sulla rivista, sul catalogo, anche quando questo è diverso. Come recita un prover-bio africano: “l’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce”.Anche l’immagine del turista, come nella scena di Tabucchi, però subisce una trasforma-zione perché, come scriveva Henry Michaux: “Un europeo interrogato al suo ritorno dal-le Indie, non esita e risponde: “ho visto Madras, ho visto questo, ho visto quello!” E inve-ce no, è stato visto molto di più di quanto non abbia visto”.19. Quando il flusso di turisti diventa costante, l’identità individuale del visitatore scompare, agli occhi dei locali diven-ta un turista e basta. Spesso finisce per essere vittima degli stereotipi sulla sua nazionali-tà. In altri casi la nazionalità del turista perde addirittura importanza, perché la sola socie-tà capace di generare un turismo esotico è quella occidentale i cui membri finiscono per apparire culturalmente omogenei. In quanto ospite, il turista diventa oggetto di deumaniz-zazione, spesso tollerato solo perché porta denaro.20

    7. Tutto questo non creerebbe troppi problemi se pensassimo al turismo come a una tran-sazione commerciale simile a tante altre: io pago, tu mi dai un bene o un servizio e il no-stro rapporto si conclude qui. È il caso del turismo tipo villaggio-vacanze, dove gli ospi-ti vivono letteralmente isolati e decontestualizzati dalla realtà esterna. Qui i turisti cercano solo divertimento unito al richiamo della moda che induce a frequentare questa o quella località. In questo caso la loro interazione economica coinvolge solo l’agente di viaggio contattato e quella sociale gli altri turisti del villaggio.Sono però sempre più numerosi i turisti che non viaggiano semplicemente per soddisfare un bisogno immediato tramite pagamento, ma per vivere un’esperienza durevole, che si imprima nella loro memoria o almeno così vorrebbero. Questo tipo di turismo non è quin-di percepito da chi lo pratica come un semplice acquisto di un pacchetto di beni o di ser-

    18 A. Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio, Palermo, 1995, p. 34.19 H. Michaux, Un barbare en Asie, Gallimard, Paris, 1967, p. 121.20 V. Smith (a cura di), Hosts and Guests, cit., p. 10.

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    vizi, ma come un’occasione di vivere diversamente per un breve periodo. L’incontro pertanto si carica di attese, debitamente alimentate da un nuovo immaginario turistico, fatto di visite ai villaggi, incontri con le popolazioni, vita in comune con i nativi. Questo risulta particolarmente evidente nel caso del cosiddetto turismo responsabile nel-l’ambito del quale al piacere dello svago e del riposo della vacanza classica, si sostituisco-no impegno e conoscenza. Infatti, uno studio dell’Organizzazione Mondiale del Turismo intitolato Tourism: 2020 vision arriva a concludere che il turismo culturale sarà una delle tendenze principali del nuovo secolo.21

    Tutto questo avviene però dalla nostra parte, perché in larga maggioranza a fare i turisti siamo noi, gli occidentali, ma si può dire altrettanto dei tanti nativi che ci ospitano in va-ri angoli di mondo? Il nostro coinvolgimento emotivo e culturale trova un equivalente nei loro pensieri? O forse veniamo accolti, accuditi e accompagnati in giro solo per denaro?8. In realtà la nuova etica impone che il viaggio diventi non solo scambio di denaro per servizi, ma anche di emozioni ed esperienze. Il pagare per vedere o per fare non è più sufficiente, perché il nuovo esotismo non si basa più sulla ricerca dello stupore di fronte al diverso, ma sul tentativo di comprendere, conoscere, approfondire e soprattutto vive-re diversamente le relazioni, per esempio al di fuori di scambi mercantili. “Si tratta di pas-sare dal turismo come prodotto di consumo al turismo come pratica, con valenza esisten-ziale. Dall’avere all’essere” afferma in un intervista il professor Sangalli.22 Se riferita al tu-rismo in paesi del Sud del mondo l’ultima parte della frase lascerebbe intendere che que-sti luoghi dovrebbero diventare, come l’Oriente anni Settanta, una sorta di approdo psi-coanalitico per occidentali scontenti della propria civiltà, animati da un bisogno terapeu-tico di capire e aiutare gli altri. Senza contare che continuando a pensare il turismo come esperienza (nostra) si rischia di rendere per scontata l’idea che i locali esistano principal-mente per uso e consumo dei turisti.Si pensa che il rischio di incomprensione o di conflitto venga azzerato dalla volontà di-chiarata di instaurare con l’estraneo una relazione autentica e genuina, rifiutando un ap-proccio consumistico e superficiale, rifiutando cioè le regole della società occidentale, che rende strumentale la maggior parte dei contatti sociali. Si suppone insomma che i residen-ti siano mossi dallo stesso istinto conoscitivo dei turisti. Accade però che gli altri vedano le cose diversamente. Gli aborigeni australiani preferiscono i turisti di massa, perché ar-rivano tutti assieme, in un solo momento, scendono dai loro bus, acquistano un sacco di cose e ripartono lasciandoli in pace. Per gli aborigeni sono molto più fastidiosi quei turisti che vogliono vedere più da vicino la loro società, che fanno un sacco di domande e, ma-gari, vogliono vivere con loro per un po’.Ecco allora che, se a questo nostro slancio non corrisponde un altrettanto intenso coinvol-gimento dei locali, l’incontro si blocca, si interrompe alla fase delle presentazioni e del-le foto e – lo dico per esperienza diretta – può risolversi in due modi: con un senso di rammarico per non essere riusciti ad andare oltre ai saluti, non essere entrati a far parte del mondo intimo dell’altro oppure con la convinzione di avere davvero fatto comunque un’esperienza diversa dagli altri. Nel primo caso le aspettative sono state tradite, qualcosa non ha funzionato nella comu-nicazione o nella gestione dell’incontro. Come sostiene Edward Bruner: “L’esperienza tu-ristica è comperata, ma sono in pochi a ricordarsi di questo nei tour organizzati. Anche i turisti che viaggiano per proprio conto credono nel mito che loro non pagano per le loro avventure turistiche e che diventano “amici” dei locali. Molti turisti credono a questo mi-

    21 F. Michel, Altrove, il settimo senso, cit., p. 184.22 S. Pochettino, Turismo, chi sei?, cit., p. 9.

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    to, incoraggiati dai tour operator: si considerano ospiti e i locali i loro ospitanti”.23 Quando poi si trovano di fronte a continue richieste di denaro da parte dei locali, la loro illusione crolla e subentra una certa amarezza nel constatare di essere dei semplici visitatori a paga-mento e che la natura di quell’incontro è quasi esclusivamente commerciale.Nel secondo caso, invece, l’immagine precostruita coincide con quella osservata. Claudio Baraldi e Monica Teodorani fanno notare come da molti racconti di viaggiatori di Avven-ture nel Mondo emerga sempre un’ampia disponibilità al rapporto da parte dei locali. Una disponibilità che viene considerata un dato naturale, un aspetto dell’autenticità, che nasce da una serenità d’animo diffusa. Questo anche in situazioni ambigue come quella di un villaggio pakistano nel quale l’attività fondamentale è la fabbricazione di armi che ripro-ducono fedelmente quelle di marche famose nel mondo.24 9. Ricordo il senso di delusione provato da alcuni componenti del gruppo che accompa-gnavo i quali, dopo aver dormito per terra in una baita freddissima a Quilatoa (Ecuador) e aver esaltato il senso di ospitalità del montanaro che ci aveva ospitato, vennero a sape-re che ci aveva fatto pagare molto di più di un hotel della capitale. In fondo siamo anco-ra vittime di un evoluzionismo strisciante. Infatti, più o meno inconsciamente, misuriamo le culture umane sulla base del loro presunto grado di distanza dalla natura. Tale concet-to viene sfruttato e alimentato dalla pubblicistica turistica (guide, riviste, cataloghi) dove certe popolazioni vengono descritte come più vicine alla natura, e tale idea viene raffor-zata graficamente, giustapponendo immagini di individui a quelle di fauna e flora loca-li.25 Spesso si accostano l’ecoturismo, a vocazione naturalistica e il turismo etnico. Emer-ge così il rischio che si arrivi a una zoologizzazione delle alterità culturali con cui il turista viene in contatto.26 Ma gli individui, descritti come tradizionali dalla pubblicistica turistica, non si considerano per forza tali. Scriveva Walter Benjamin: “Non c’è mai stata un’epo-ca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, “moderna”27. Al termine “epo-ca” potremmo sostituire quello di cultura o di società e il risultato sarebbe lo stesso. Nes-suno si pensa come primitivo, siamo noi a pensarlo. James Clifford a proposito del Paci-fico (ma le sue considerazioni possono essere estese a molte altre aree del Sud del mon-do) sostiene che possiede una caratteristica: i suoi luoghi sono stati fermamente mantenu-ti in un curvatura del tempo e dello spazio primitivistico – “laggiù” e “la fuori” – non so-no mai stati percepiti come moderni28.Ciò che pertanto, caratterizza sia il senso di delusione sia il piacere della conferma è che spesso sono sensazioni attraversate da un malinteso, che nel primo caso induce all’incom-prensione, nell’altro a una presunta comprensione che in molti casi è invece parziale.

    23 E.M. Bruner, Tourism in Ghana. The Representation of Slavery and the Return of the Black Diaspora, in ‘Amer-ican Anthropologist’, 1996, 98, 2, pp. 299-300.24 C. Baraldi, M. Teodorani, Avventure interculturali, cit., p. 55.25 Un ottimo esempio di questa ‘naturalizzazione’ degli africani è descritto da Cristiano Lanzano, Antropologia e turismo, cit.26 F. Ferraris, Ecoturismo, turismo etnico: un accostamento ambiguo, in ‘Afriche e Orienti’, III, 3-4, 2001, p. 31.27 W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino, 1986, p. 701.28 J. Clifford, Ai margini dell’antropologia. Interviste, Meltemi, Roma, 2004, p. 81.

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    Città e migranti:l’integrazione difficile.

    di Agostino Petrillo

    Un problema europeo

    Per quanto da almeno due decenni la questione dell’inserimento dei migranti nelle realtà urbane europee rappresenti uno dei problemi prioritari cui si trovano confrontati gli am-ministratori locali e i governanti, la questione appare nel complesso ancora disattesa.Un po’ in tutta Europa, nonostante le differenze che le varie realtà presentano, dovute non solo ai vari contesti nazionali, ma anche a scelte ed orientamenti diversi, legati alla storia culturale, politica e sociale dei diversi paesi, emergono importanti nodi irrisolti. Non si in-travedono che risposte parziali alla questione, mentre la condizione dei migranti diviene via via più difficile. In effetti il futuro dei migranti e la loro collocazione nelle città euro-pee appare in gran parte ancora da definire. In questo ambito l’ultimo decennio pare ave-re fatto addirittura segnare una stagnazione di iniziative se non un arretramento.Altro aspetto che va certo rilevato è che i migranti giunti negli ultimi anni hanno scontato tutte le difficoltà di un contesto d’arrivo segnato dalle specifiche condizioni della moder-nità avanzata: tramonto della società del lavoro, crescente individualizzazione, rescissione dei legami familiari, insomma quei tratti della contemporaneità ben messi in evidenza dal-le sociologie del rischio, che hanno portato ad uno sconvolgimento dei mondi urbani tra-dizionali29 e che hanno reso oggettivamente più complesso tracciare dei percorsi di inseri-mento rispetto a quanto avveniva in passato. Come pure ha influito negativamente su que-sti processi una congiuntura internazionale segnata dalla guerra e dalle paure legate allo “scontro di civiltà”, che ha contribuito a creare un clima di chiusura nell’opinione pubbli-ca30. Così tra risposte inadeguate, attendismo o semplicemente rimozione del problema la situazione si è andata progressivamente incancrenendo, fino a far emergere preoccupanti tendenze alla segregazione, alla ghettizzazione e alla stigmatizzazione dei migranti. Proprio per questo pare necessario, se non addirittura urgente, cominciare a dare delle ri-sposte, come hanno mostrato molto bene gli eventi francesi del 2005-6, ma come segna-lano con forza anche le inquietudini che attraversano altri paesi, quali Germania e Regno Unito.I vari progetti messi in campo per individuare delle soluzioni o quantomeno per definire delle logiche operative sembrano però scontare difficoltà che sono in buona parte da ri-condurre ai limiti delle mentalità che hanno finora guidato gli interventi. Anche le grandi vicende degli ultimi anni hanno condizionato politiche e scelte, contribuendo non poco alla crisi di un generico “multiculturalismo europeo”31 pure nelle diverse declinazioni che

    29 Due riferimenti puramente indicativi di una letteratura ormai ampia, Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino Bologna 1999; U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci Roma 2000; per una rilettura di queste tematiche calate nel contesto urbano, rimando a un mio lavoro: cfr. A. Petrillo, La città perdu-ta. L’eclissi della dimensione urbana nel mondo contemporaneo, Dedalo Bari 2000.30 Su questi aspetti è molto efficace l’analisi di E. Balibar, L’Europe, L’Amerique, La Guerre, La Découverte, Pa-ris 2003.31 Sulle difficoltà concettuali e applicative connesse alla ricezione in Europa delle categorie del multiculturalismo rinvio al numero speciale della rivista “aut-aut”, n.312, novembre-dicembre 2002, curato da D. Zoletto e G. Le-ghissa, tutto dedicato agli Equivoci del multiculturalismo.

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    lo avevano finora caratterizzato32. Ha infatti finito per prevalere una concezione del mul-ticulturalismo che lo leggeva un po’ riduttivamente nei termini di una compresenza (stati-ca) di culture immigrate e cultura locale, vagheggiando il raggiungimento attraverso “po-litiche del riconoscimento”, di una convivenza tra diversi accettata in base a scelte di tipo emozionale, personale o politico (sulla scia di suggestioni filosofico-sociologiche america-ne, profondamente radicate in quella tradizione culturale)33. Anzi a volte un eccesso di re-torica multiculturalista ha impedito di cogliere come fosse la condizione stessa di migran-te a creare dei problemi, permettendo un approccio basato su solidarietà ideologiche e fa-cilone, ma scarsamente concrete34. Va però rilevato, e questo è un fatto positivo, che l’ul-timo decennio ha fatto anche segnare il definitivo tramonto del sogno identitario di un ri-torno ad una Europa “tradizionale”, depurata della presenza dei migranti. La speranza, uti-lizzata politicamente da forze di orientamento nazionalista o localista, di un “rientro degli immigrati”35, che ha trovato una brutale sintesi nello slogan “mandiamoli a casa”, ha dovu-to fare i conti con la realtà di una presenza indispensabile sul piano economico e demo-grafico e di un apporto tanto più utile nell’epoca della competizione planetaria generaliz-zata e della ridefinizione dei grandi equilibri mondiali. Il “demone delle origini” risveglia-tosi tra anni Ottanta e Novanta, pare in buona parte sopito, anche se continua a dormic-chiare sotto le ceneri, come mostra il fatto che le campagne xenofobe continuino ad esse-re elettoralmente paganti in gran parte dell’Europa36.La situazione è perciò quella di una impasse se non addirittura di completo blocco, che non giova certo all’Europa stessa. Gli immigrati servono, ma non si trova ancora una via soddisfacente per il loro inserimento, le ricette consolidate non bastano più, le proposte nuove scarseggiano. Etienne Balibar, riflettendo sul vero senso della rivolta delle Banlieues, ha recentemente sostenuto che uno dei fattori decisivi della crisi risiede nella difficoltà di dare risposte in chiave di stati nazionali ad un problema che è ormai evidentemente europeo, e che coin-volge profondamente le mentalità e le istituzioni37. In realtà però anche a livello di Unione Europea sono venute finora solo delle indicazioni piuttosto timide (anche per la ben nota e tormentata vicenda della costituzione europea), che hanno insistito principalmente sulla possibilità di risolvere alcuni aspetti della presenza dei migranti ricorrendo all’istituzione di una sorta di “metacittadinanza” europea in grado di superare le difficoltà nazionali. Al di là delle complesse questioni giuridiche che la questione della cittadinanza dei migranti pone tanto a livello nazionale che a livello europeo, esiste però comunque uno specifico problema spaziale, territoriale di inserimento e di modalità dell’integrazione effettiva che l’Unione ha finora solo sfiorato con dichiarazioni di principio. Una politica dell’inserimen-

    32 Per l’evoluzione della questone in Germania rinvio ai numerosi lavori di H. Häussermann sul tema; per il qua-dro attuale in particolare il rimando è a un recente collettaneo: cfr., H. Häussermann, W. Siebel, M. Kronauer (Hrsg.), Stadt am Rand: Armut und Ausgrenzung, Suhrkamp, Frankfurt 2004.33 Esemplarmente intriso di un utopianism tutto americano appare sotto questo profilo il testo di L. Sanderkock, Verso Cosmopolis, Dedalo, Bari 2002, ma cfr. anche le riflessioni autocritiche della stessa autrice, in Id., Cosmo-polis 2: Mongrel Cities of the 21st Century, Continnum, New York 2003, in part. cap. IV. Un approccio più pro-blematico nel veccho lavoro di C. Taylor, Multiculturalismo, Anabasi, Bologna 1992. La crisi di questa prospet-tiva e la necessità di un discorso nuovo sulle forme dell’integrazione urbana è tratteggiata chiaramente in W.-D. Bukow, C. Nikodem, E. Schulze, E. Yildiz (Hrsg.), Die multikulturelle Stadt: von der Selbstverständlichkeit im städtischen Alltag, Leske + Budrich, Opladen 2001.34 Lo aveva intravisto molto lucidamente A. Sayad, cfr. p. es. Id., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Cortina Milano 2002.35 Su queste mitologie ha scritto pagine efficaci M. Augé, La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction, Eleutera Milano 1998.36 Cfr. A. Petrillo, Identità urbane in trasformazione, (con un saggio di G. Carlini), Coedit Genova 2005.37 Cfr. E. Balibar, Uprising in the Banlieues, in “Lignes”, n. 21, Novembre 2006; ma un’analoga prospettiva “tran-snazionale” è quella che ispira un mio lavoro cui rinvio, cfr. A. Petrillo, Città in rivolta. Los Angeles, Buenos Ai-res, Genova, Ombrecorte Verona 2004.

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    to urbano di respiro europeo ancora manca, o se ne intravedono solo i primi segni, prin-cipalmente a livello istituzionale38.

    Il caso italiano

    Nel nostro paese, se pur ciclicamente riproponentesi con forza da almeno quindici anni, la questione dell’inserimento urbano dei migranti ha tardato ad essere compresa in tutta la sua importanza. Per un insieme di motivi, da ricondursi sostanzialmente ad una peculia-re congiuntura storico-politica ed economica che l’Italia ha attraversato a partire dai primi anni Novanta, la questione dell’immigrazione è stata nel complesso elusa nella program-mazione politica a livello nazionale e le soluzioni sono state a lungo demandate alle socie-tà locali. La speranza che il problema “si risolvesse da sé” è stata però di breve durata: le prime avvisaglie delle possibili ricadute conflittuali dell’assenza di governo del problema si sono manifestate già all’inizio degli anni Novanta, con l’esplodere di tensioni nelle città italiane: Firenze prima (1991) poi Torino e Genova (1993), sono state teatro di disordini e di manifestazioni antiimmigrati. L’insorgere di una conflittualità nuova, a volte sbrigativa-mente etichettata come “etnica”39, che ha visto contrapporsi “autoctoni” e migranti è da ri-condursi sia ad una crisi più generale della società civile, che ha attraversato un periodo di smarrimento dovuto alla crisi tra prima e seconda repubblica, sia al declino dei partiti e delle forme della politica che si erano andate consolidando nel dopoguerra. La mancanza di intervento diretto da parte dello stato e le forme di frammentazione che ne sono conseguite, portando ad una situazione di differenze anche rilevanti fra le varie realtà locali è stata diversamente valutata dalla letteratura sociologico-politologica. C’è che vi ha voluto vedere non solo una manchevolezza, un segno di arretratezza del nostro pae-se, ma anche una diversa chance che il destino gli offriva. La “via italiana all’immigrazio-ne” avrebbe presentato una sorta di vantaggio relativo, ancorché nato da una lacuna : una maggiore elasticità e flessibilità di manovra rispetto ad altri paesi che si obbligavano pro-grammaticamente ad una coerenza d’intenti che rischiava col tempo di divenire una ca-micia di forza. Diversamente da quanto avveniva a chi si ostinava a riproporre soluzioni elaborate in altre epoche e forse ancora a torto ritenute valide (è il caso soprattutto del-la Francia), l’Italia avrebbe avuto l’opportunità di innovare e sperimentare localmente vie diverse, in attesa di definire degli orientamenti di massima. Altri interpreti hanno invece sottolineato il vuoto che è conseguito da questo tipo di non-scelte governative, il rarefar-si delle indicazioni da parte delle strutture centrali dei partiti alle loro strutture locali, il li-mitarsi delle indicazioni dei governi ad alcune linee generali, ed il conseguente ripiega-mento su di un pragmatismo che rendeva minime le differenze di orientamento tra i di-versi schieramenti politici40.L’appiattimento su di un pragmatismo di massima dettato da contingenze locali e/o elet-torali ha condotto a politiche del “minimo ragionevole” condizionate pesantemente dal “panico elettorale”, alla necessità di rassicurare una società civile impaurita e preoccupata, priva di riferimenti utili per confrontarsi con un’epoca nuova. La situazione sarebbe stata ancora più difficile se non ci fosse stata la presenza dall’associazionismo e dalle realtà del terzo settore, che hanno svolto un ruolo importante soprattutto sotto il profilo dell’acco-glienza. Le diversità di composizione e di peso quantitativo di queste realtà, le loro speci-

    38 Cfr. P. Le Galés, Le città europee Società urbane, globalizzazione, governo locale, Il Mulino Bologna 2006.39 Cfr. V. Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici, Laterza Roma-Bari 1999.40 Una trattazione approfondita di questi aspetti in: T. Caponio, Città e immigrazione. Discorso pubblico e poli-tiche, Il Mulino Bologna 2006.

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    ficità di diffusione e di radicamento territoriale hanno reso sensibili e contribuito ad am-plificare le differenze che si andavano creando tra le varie realtà metropolitane: così che a Napoli, Bologna e Milano la presenza dei migranti ha assunto aspetti diversi ed è stata caratterizzata da modalità di insediamento estremamente eterogenee. In questo senso di volta in volta la questione dell’inserimento dei migranti si è giocata su di un tavolo in cui erano presenti almeno tre attori: amministratori, esperti e rappresentanti del terzo setto-re. Da questa combinazione di voci e di intenti sono scaturiti buona parte degli interventi concreti. Ne sono in ogni caso risultate politiche minime, politiche povere, legate all’esi-genza di dare “risposte semplici”, dettate dall’immediatezza se non addirittura da situazio-ni di vera e propria emergenza. Ma in assenza di politiche nazionali l’integrazione non po-teva certo farsi unicamente sul piano locale, pure importantissimo.Tutto fa pensare che fosse necessario adottare una prospettiva più ampia: anche perché la natura profonda delle migrazioni contemporanee continuava a sottrarsi a provvedimenti di corto respiro: se la retorica mediatica insisteva nel sottolineare la monodirezionalità dei flussi, sempre più evidente appariva invece agli studiosi l’importanza di fattori quali la cir-colazione, l’appartenenza multinazionale e transnazionale, la mobilità e la componente di scelta che caratterizzano le migrazioni contemporanee41.Insomma si è da un lato sopravvalutata la dimensione quantitativa dei flussi, dall’altro sot-tovalutata la componente soggettiva, il dinamismo del migrante che lo porta sia ad operare scelte di fissazione, sia a rivederle e ad operarne delle altre, ove si diano condizioni loca-li non favorevoli. Detto in altri termini: uno dei pericoli che l’assenza di scelte lungimiran-ti comporta è che l’Italia finisca per avere l’immigrazione che si merita, nel senso che co-loro che hanno competenze spirito imprenditoriale e specializzazioni lavorative finiranno per scegliere destinazioni meno problematiche, ove le condizioni dell’inserimento nel no-stro paese rimangano quelle attuali. Se non si metteranno in atto politiche adeguate, vol-te a valorizzare le capacità dei migranti e a favorirne la stanzializzazione, da noi finiranno per restare solo coloro che altrove sarebbero poco valutati, il rischio è quello di procede-re anche involontariamente ad una sorta di “selezione dei peggiori”. In assenza di forme di integrazione effettiva il destino dei paesi di accoglienza è di non riuscire a valorizzare il contributo che i migranti possono dare. Per non parlare poi dei costi sociali ed umani del-la crescita di gruppi di migranti strutturalmente subordinati e svantaggiati.

    Xenofobia, politiche e diritti di cittadinanza.

    Negli ultimi anni si è andata rafforzando una tendenza per altro già emersa nei decenni precedenti in Europa che è stata studiata in vari paesi nei termini di una progressiva chiu-sura e crescente timore di fronte ai mutamenti introdotti dai processi di Globalizzazione che rischiano di sottrarle alcune delle sue prerogative storiche e addirittura di marginaliz-zarla sotto il profilo economico. Ma come si accennava nel caso italiano queste tendenze xenofobe largamente diffuse hanno assunto sfumature particolarmente acute. Sono stati ampiamente sottovalutati sia i risultati di campagne mediatiche tendenti a sfruttare in chia-ve elettoralistica la questione immigrazione, sia il formarsi di un senso comune che tende a vedere nei migranti delle presenze estranee e una potenziale minaccia.Il risultato di questo percorso peculiare in Europa che ha visto la vicenda della immigra-

    41 Cfr. N. Papastergiadis, The Turbulence of Migrations. Globalization, Deterritorialization and Hybridity, Poli-ty Press, Cambridge 2000; ma per il caso italiano illuminante sulla condizione dei senegalesi nel nostro paese e sulla loro circolazione tra realtà urbane tra loro estremamente dissimili quali Dakar e Zingonia il riferimento è al-la tesi di dottorato, ora in corso di pubblicazione di G. Sinatti, Space, Place and Belonging. Senegalese Migrants between Translocal Practices and Diasporic Identities, URBEUR XVIII ciclo, Febbraio 2006.

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    zione intrecciarsi strettamente alla crisi economica, politica e culturale del nostro pae-se, è che oggi i migranti vi si trovano ad affrontare situazioni di difficoltà e di isolamento che hanno pochi eguali in altri paesi. Tramontata per sempre la retorica del “buon italia-no” alieno da pregiudizi42, forme sempre più gravi di differenzialismo culturalista appaio-no largamente interiorizzate dall’opinione pubblica, anche come conseguenza di provve-dimenti discutibili quali la legge Bossi-Fini, i cui guasti non sono ancora stati valutati nel-la loro interezza. Mettendo l’accento sulla presenza dei migranti unicamente a fini stru-mentali (accettata solo la migrazione da lavoro), e mirando ad instaurare una politica del-lo sfruttamento dei migranti più che della loro integrazione, la Bossi-Fini ha fatto prevale-re l’ottica del controllo su quella dell’inserimento, in modo non solo da gettare le basi per giustificare una permanente discrimazione dei migranti sotto il profilo giuridico, ma an-che da restringere le possibilità di un accesso al welfare e ai diritti di cittadinanza. L’ere-dità più negativa che questa legge ha lasciato è comunque quella di avere creato nell’opi-nione pubblica del paese la coscienza di una distanza incolmabile tra la propria umani-tà e quella dei migranti, di avere ratificato le tendenze già operanti in direzione di una lo-ro stigmatizzazione, fino a permettere di considerarli dei “sottouomini”. Inutile allora di-scettare astrattamente sulle forme possibili della cittadinanza quando la società civile ri-mane nel complesso chiusa e arroccata su posizioni di difesa del privilegio degli “autocto-ni”43. Come ha notato giustamente un filosofo americano, Richard Rorty, dei diritti devono farsi carico i popoli prima dei governi44. Se questo non avviene, se non giungono richie-ste e pressioni in questo senso è ovvio come si inneschino dinamiche di ghettizzazione, che prendono la forma di una discriminazione esplicita nell’accesso ad alcuni diritti fon-damentali quali casa e lavoro.

    Una chiave dell’integrazione possibile: le politiche della casa.

    Snodo decisivo e strumento privilegiato dell’integrazione possibile rimangono le politiche della casa, proprio nella prospettiva di modelli di integrazione nuovi cui si accennava pri-ma. Ma uno degli aspetti più drammatici della condizione dei migranti nell’Europa attua-le è proprio rappresentato dal problema della casa. I migranti giunti negli ultimi due de-cenni si sono trovati ad affrontare una situazione in cui volgeva al termine la stagione del-la casa popolare sovvenzionata. L’edilizia pubblica ha fatto segnare il passo già dalla me-tà degli anni Ottanta, vuoi per scelte di tipo macroeconomico e per la riduzione progres-siva del peso del welfare vuoi per una serie di trasformazioni sociali e delle famiglie che rendeva in parte obsolete le strategie costruttive consuete45. Questa paralisi delle politiche della casa è proseguita anche quando c’è stato da fare i conti con nuovi arrivati che ave-vano un’esigenza immediata di alloggio. In Italia in una prima fase si è affrontata la que-stione con la strategia delle sistemazioni di prima accoglienza, ma sono finora mancate fa-si successive degne di nota e politiche di respiro nazionale. Il problema della casa è sta-to lasciato risolvere “autonomamente” ai migranti, si è giocato su reti di solidarietà privata “etnica” o parentale, su ospitalità e condivisione, e sulla solidarietà pubblica, sul volonta-riato. Una ricerca di qualche anno fa sull’abitazione in Lombardia rilevava: “La bassa qua-lità, la sproporzione tra qualità e costo, l’insicurezza sono tratti ricorrenti per le sistemazio-

    42 Cfr. D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il saggiatore Milano 1994.43 Cfr. per questi ultimi aspetti L. Zanfrini, Sociologia della convivenza interetnica, Laterza, Roma-Bari 2004, in part. pp. 138-139.44 Cfr. R. Rorty, Per la politica la filosofia è diventata inutile, in E. Ambrosi ( a cura di), Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo, Marsilio, Venezia 2005.45 Cfr. M. Harloe, The People’s Home? Social Rented Housing in Europe and America, Blackwell, London 1995.

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    ni abitative degli immigrati…le tensioni esistenti sul mercato fanno si che le soluzioni ef-fettive siano caratterizzate da forti elementi di disagio: la precarietà per quanto riguarda il rapporto, canoni sproporzionati, condizioni abitative degradate, sovraffollamento”46.La questione abitativa rappresenta uno dei principali ostacoli al dispiegarsi di dinamiche “virtuose “ sul territorio dell’urbano, di pratiche di contaminazione e di incontro tra cultu-re. La situazione a livello nazionale è estremamente varia e frammentata, anche per quan-to riguarda nazionalità di origine simili: una cosa è la situazione abitativa dei senegalesi a Roma, altra è la loro situazione a Bergamo. Comune a tutto il territorio nazionale è inve-ce la nascita di un secondo mercato dell’abitazione riservato principalmente ai migranti e in cui viene proposto un patrimonio obsoleto, di abitazioni scadenti e in alcuni casi addi-rittura fuori mercato ad un prezzo che oscilla tra il 25% e il 30% in più di quelli del mer-cato dell’affitto per “autoctoni”. Come ha notato Antonio Tosi, “si può parlare di una spe-cie di ‘canone speciale’ per immigrati”47.È questo probabilmente il segno più eclatante delle pratiche discriminatorie in corso, al di là delle forme di xenofobia e di razzismo più clamorose. Va rilevato che tutto questo può avvenire anche perché l’offerta pubblica, che si dispiega principalmente a livello locale, rimane ristretta ad una esigua minoranza di migranti. Anche la via dell’accesso alla casa in proprietà non rappresenta di per se stessa una soluzione, dato che è forzatamente riser-vata ad un numero ristretto di migranti sia per le modalità di accesso (mutui onerosi), sia per le spese di cui comunque la proprietà è gravata. In questo senso per i migranti la casa in proprietà se risponde ad una esigenza molto forte, che cresce nel caso di ricongiungi-menti familiari, non mette al riparo da condizioni di precarietà e di povertà. Questi i moti-vi per cui politiche della casa di ampio respiro, che prendano finalmente in considerazio-ne la presenza dei migranti nelle nostre città sono non solo auspicabili, ma necessarie.

    Conclusione: al di là del multiculturalismo:la città, luogo dell’incontro.

    I classici del pensiero sociologico convergono nell’individuare nell’urbano il luogo prin-cipe in cui si può realizzare l’integrazione tra le diversità. Già agli inizi del Novecento per Georg Simmel la grande città è il luogo ideale per l’integrazione e la dimensione metro-politana permette di incontrarsi “come stranieri” proprio in virtù della relativa indifferenza che ne rappresenta una delle precipue caratteristiche spirituali. L’atteggiamento blasé con cui l’intelletto metropolitano misura il diverso è orientato in senso valutativo-quantitativo, l’incontro con l’altro è un momento in cui viene rapidamente soppesata la diversità di cui questi è portatore e ne vengono colti solo gli elementi di qualche valore materiale.Il cittadino della metropoli non ti chiede “chi sei?” ma “quanto puoi servirmi?”. Proprio in questo processo di semplificazione risiede la chiave delle nuove libertà metropolitane, che non dipendono dalla “buona volontà”, dalla disposizione, dalla tolleranza o dalla genero-sità dei cittadini, ma sono consustanziali invece a un modo di cogliere il mondo, a delle strutture mentali generalizzate che formano l’ossatura del funzionamento della metropo-li48. Non è solo filosofia, è un pezzo di storia dell’Europa, che la distingue profondamente da quanto è avvenuto per esempio negli Stati Uniti, in cui le città fin dall’inizio dal loro

    46 Cfr. A. Tosi, La domanda abitativa degli immigrati stranieri, in A. Tosi, ( a cura di) Verso l’edilizia sociale. Le politiche abitative in Lombardia tra nuovi bisogni e ridefinizione dell’azione pubblica, Guerini e Associati, Mila-no 2003, pp. 51-66, in part. pp. 55-56 47 A. Tosi, Case, Quartieri Abitanti, Politiche, CLUP Milano 2004, p.167.48 Cfr. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, a cura di P. Jedlowski, Armando. Roma 1995.

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    nascere si frammentano in communities e la segregazione etnica, di classe e persino per età ne diviene quasi un fatto naturale. La tradizione europea è una tradizione di apertura e i quartieri etnici in Europa rappresentano ancora per ora un fatto eccezionale, per que-sto è difficile utilizzare il concetto di ghetto se lo si considera in senso stretto, come con-finamento di un determinato gruppo in un luogo fisicamente circoscritto. Certo oggi assi-stiamo allo sviluppo di tensioni nuove e i rischi di vedere tramontare questa tradizione di apertura si moltiplicano. In particolare nel nostro paese il pericolo maggiore sembra pro-venire da una sorta di prolungamento ad oltranza delle condizioni iniziali. In effetti l’in-terminabile emergenza che sembra contrassegnare la questione immigrazione in Italia ri-schia di perpetuare ad infinitum le condizioni di arrivo dei migranti. In assenza di poli-tiche pubbliche che abbiano una progettualità e non si limitino ad intervenire sull’emer-genza il rischio è quello di creare popolazioni perennemente caratterizzate da subalternità con accesso solo alle fasce basse del mercato del lavoro o definitivamente schiacciate ver-so le economie informali/irregolari. Se questo dovesse diventare anche lo scenario futuro allora andrebbero perdendo di senso le distinzioni ancora in voga tra segregazione fun-zionale e segregazione strutturale, come perderebbero di significato quegli orientamen-ti teorici che ancora insistono sui fattori di autosegregazione come protezione, come scel-ta dei migranti. Si verrebbe invece sempre più nettamente evidenziando un tendenza alla discriminazione e all’esclusione. Nonostante quanto si è affermato in precedenza, già da più parti si segnalano, anche nel resto dell’Europa, le prime avvisaglie dell’emergere di si-tuazioni di tipo “americano”, con il consolidarsi di forme di segregazione destinate a per-manere nel tempo e ad interessare più generazioni. Si profilano forse anche da noi quel-le “comunità” di esclusi, quelle caste di poveri in cui le catene vengono trasmesse di pa-dre in figlio, così bene descritte dalla sociologia americana. In particolare, cambiate tut-te le cose da cambiare potrebbero consolidarsi quelle accoppiate di discriminazione lavo-rativa e abitativa che formano un cocktail micidiale, esplorato meglio di tutti dai lavori di William Julius Wilson49. È vero come ha rilevato più volte Loic Wacquant, raffrontando le situazioni dei quartiers sensibles francesi con i quartieri in cui vive la underclass statuni-tense, che le vicende della segregazione urbana in Europa finora hanno seguito altre, di-verse linee di sviluppo, ma è anche innegabile che forme inedite di marginalizzazione e di povertà urbana si stanno radicando anche in tessuti urbani e civili dove sarebbero sta-te un tempo impensabili50. Per impedirlo occorre valorizzare le controtendenze, richiama-re gli amministratori ai loro compiti, sostenere quegli aspetti dell’associazionismo e quel-le realtà del terzo settore che già nei difficili anni passati hanno mostrato con la loro vi-talità e con la loro concreta capacità di promuovere solidarietà e integrazione il volto mi-gliore di questo paese. Le nostre città possono salvaguardare la loro preziosa eredità solo se il multiculturalismo non si limita a rappresentare posizioni di principio, ad essere foto-grafia di assetti culturali cristallizzati o dati per tali, ma diventa un fattore di sincretismo, di potente di produzione di nuove forme sociali e culturali e di un diverso modo di inten-dere e vivere gli spazi urbani.

    49 Cfr. W.J. Wilson, The Truly Disadvantaged: The Inner City, the Underclass, and Public Policy, University of Chi-cago Press, Chicago 1987.50 Cfr. L. Wacquant, Parias Urbains.Ghetto, Banlieues, Etat, La Découverte, Paris 2006.

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  • Parte IIMediazione interculturale

    in Italia e in Liguria

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