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i t a l i a n aNarratori Giunti

1. Ermanno Rea, La comunista

2. Rosa Matteucci, Le donne perdonano tutto tranne il silenzio

3. Simona Baldelli, Evelina e le fate

4. Marco Archetti, Sette diavoli

5. Valerio Evangelisti, Day Hospital

6. Laura Pariani, Il piatto dell’angelo

7. Flavio Pagano, Perdutamente

8. Massimiliano Governi, Come vivevano i felici

9. Diego Agostini, La fabbrica dei cattivi

10. Marco Magini, Come fossi solo

11. Simona Baldelli, Il tempo bambino

12. Simonetta Agnello Hornby, La mia Londra

13. Walter Fontana, Splendido visto da qui

14. Domitilla Melloni, Forte e sottile è il mio canto. Storia di

una donna obesa

15. Grazia Verasani, Mare d’inverno

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Simonetta Agnello Hornby

Il pranzo di Mosè Con le ricette di Chiara Agnello

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Il pranzo di Mosèdi Simonetta Agnello Hornby«Italiana» Giunti

http://narrativa.giunti.it

© 2014 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia

Immagini:per le fotografie alle pp. 27, 32, 39, 55, 60, 90, 101, 109 si ringrazia la famiglia Agnello, per la fotografia a p. 81 © Fausto Giaccone, per le fotografie alle pp. 193 (in basso), 198-199, 208 si ringrazia Aurora Di Girolamo, per le fotografie alle pp. 202-203, 205 (in alto), 206-207 © Roberto Collovà, per tutte le altre fotografie © 2014 Discovery Communications, LLC, Real Time and related logos are trademarks of Discovery Communications, LLC used under license. All rights reserved.

Prima edizione: novembre 2014

Ristampa Anno

5 4 3 2 1 0 2018 2017 2016 2015 2014

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Ringraziamenti

Un triplice ringraziamento è dovuto a mia sorella Chiara,

schiva di natura e che non ama di essere truccata, per avere

accettato la sfida di partecipare a Il pranzo di Mosè, per avere

avuto fiducia in me e in quello che le proponevo, e per essere

stata generosa con le sue ricette.

Mio figlio Giorgio ha aiutato Chiara e me nella scelta

dei menù, e lo ringrazio per i suggerimenti offerti durante

la stesura del testo, per i commenti sulla bozza finale e per

la scelta delle fotografie. Le sue ricerche storiche sono state

di grande aiuto. A lui devo inoltre la levità e il buon umore

che hanno accompagnato questo libro dall’inizio alla fine, e

che spero siano riflessi nel testo.

Ringrazio Vincenzo Vella per le sue storie e per l’affetto

che ci lega. Ringrazio Totu Vella, a cui dobbiamo le squisite

quagliata, tuma e ricotta; Concetta, sua moglie, che ci ha in-

segnato a preparare i biscotti ricci, e i loro figli. Luigi si pren-

de cura di Mosè come faceva un tempo suo zio Vincenzo, e

Linda, abile assistente in cucina, è sempre pronta al sorriso.

Ringrazio Roberto Collovà, Aurora Di Girolamo e Fausto

Giaccone per le loro fotografie.

Ringrazio Giuseppe Barbera al cui libro Tuttifrutti ho at-

tinto per descrivere alcuni degli ingredienti da me preferiti,

e ringrazio Massimo Montanari ai cui testi sono indebitata

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per le informazioni storiche e culinarie. Ovviamente sono

la sola responsabile di qualsiasi errore o inaccuratezza su

quanto riportato dalle loro opere.

Ringrazio Chiara Mancini per le traduzioni dall’inglese

in italiano, per aver scritto e corretto quanto da me dettato,

e per il supporto offerto nei momenti di bisogno.

Ringrazio Beatrice Fini, direttore editoriale di Giunti, per

il costante supporto e Silvia Valmori, che ha seguito con

attenzione e maestria questo libro.

Un ringraziamento particolare a Valentina Alferj, vali-

dissima amica, che mi è stata vicina nella genesi del testo

e mi ha aiutata generosamente nei momenti di incertezza.

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Indice

Parte prima

1. Un medico di Favara 15

2. Il vecchio uliveto 23

3. L’ ospitalità a Mosè 28

4. A Mosè eravamo tutti cuochi 43

5. Mentre lavoro in cucina 49

Parte seconda

6. Dalla tavola di nonna Maria alla nostra 59

7. Gli ospiti 68

Una nota prima dei menù

Dove andremo a finire? 74

Parte terza

8. Un compleanno in famiglia 79

9. Un pranzo in piedi 89

10. Les beaux restes di Mamma 100

11. Un pranzo di dolci 108

12. Le caponate 121

13. Otto mani in cucina 130

Epilogo 145

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Le ricette dei menù di Chiara

Menù del compleanno in famiglia 153

Menù del pranzo in piedi 161

Menù dei beaux restes 167

Menù del pranzo di dolci 171

Menù di caponate 179

Menù a otto mani 183

Appendice 193

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Il pranzo di Mosè

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parte prima

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15

1

Un medico di Favara

Ho trascorso tutte le estati, dall’età di tre anni, nella casa di

Mosè, la nostra campagna a pochi chilometri da Agrigento.

Ma il mio ricordo più bello di Mosè, non è a Mosè. È legato

ai tempi in cui avevo non più di cinque anni e abitavamo ad

Agrigento. Talvolta, nel primo pomeriggio, Papà apriva la

porta della stanza dove io e mia sorella Chiara, piccina, tra-

scorrevamo le giornate con Giuliana, la nostra bambinaia, e

annunciava dalla soglia: “Vado a Mosè. Mi porto Simonetta”.

Erano gite meravigliose.

Papà stava poco in casa, e ancor meno con noi figlie.

Era presidente dell’Ente del Turismo di Agrigento e voleva

migliorare e valorizzare la Valle dei Templi. In più badava

alle proprie campagne e andava dall’una all’altra sulla sua

bella Lancia coupé color amaranto, che guidava con mae-

stria. Sprofondata nel sedile accanto a lui, mi guardavo in-

torno soddisfatta e godevo del panorama della Valle. Uomo

di poche parole, quando era al volante mio padre diventava

quasi loquace: si lasciava andare a un commentario che in

realtà era un soliloquio. “Questa strada unisce Agrigento

alla statale 115; secondo me segue il tracciato di quella dei

greci, perché raggiunge la costa passando attraverso Porta

Aurea.” Guidava cauto tra le alte facciate lisce e gialle che

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formavano le pareti del passaggio a gomito, un tempo porta

tra le mura greche, e spiegava che gli archeologi l’avevano

chiamata la Quarta porta della enorme cinta di Akragas: era

stata scavata nel costone di tufo; la grande muraglia aveva

protetto la città dagli invasori d’oltremare. “Ma non riuscì a

fermare i Cartaginesi: quelli misero Akragas a ferro e fuoco

e ne incendiarono i templi”.

Imboccato il rettilineo sotto il costone della zona sacra,

Papà rallentava; orgoglioso della nostra terra, ripeteva i no-

mi dei templi sul crinale indicandoli con ampi gesti, le mani

sollevate dal volante. “Le colonne del tempio di Ercole sono

le più antiche: sembrano davvero dei tronchi d’albero.” Poi,

tutto a un tratto rabbioso, esclamava: “Queste colonne furo-

no sollevate da un inglese, e a spese sue! Quando avremmo

dovuto farlo noi siciliani!”. Eravamo sotto il tempio della

Concordia, giallo come la pietra su cui poggiava, con il co-

lonnato e il naos intatti. Pensieroso, borbottava tra sé e sé:

“Questo s’è salvato dallo scempio soltanto perché era stato

trasformato in chiesa”.

Guardava la singola fila di colonne semidiroccate del

tempio di Giunone e, con un sospiro: “La gente di qui non

capiva che i cilindri scanalati e le pietre scolpite appartene-

vano ai templi greci; si portavano via pezzi di colonna per

farsi la casa. O forse fingevano di essere ignoranti…” un altro

sospiro, e “vandali erano anche i governanti: quelli sapeva-

no! E fecero buttare in acqua le pietre dei nostri templi per

costruire il molo di Porto Empedocle!”.

Papà ripeteva quelle parole ogni volta che passava da lì; le

sapevo a memoria e mi distraevo guardando i templi. Con-

tavo i turisti che vedevo aggirarsi a due a due, o in fila come

formiche, tra le colonne e sul crinale. Superato il tempio di

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Giunone, ci avvicinavamo al ponte sul fiume Ypsas. Lì era

soltanto campagna, con qualche mandorlo. Nulla sfuggiva

all’occhio scrutatore di mio padre: la potatura di un uliveto,

un albero sofferente, un orto ben accudito. Lui riconosceva

a distanza le varietà di grano seminato e dalla fioritura degli

ulivi azzardava una stima approssimata del futuro raccolto.

Poi, rivolto a me: “Guarda, il fiume s’è scavato il suo corso nel

costone”, e rallentava sul ponte. Nel letto dell’Ypsas, ormai

rigagnolo, non vedevo traccia di acqua: vi cresceva, rigo-

glioso, un verde canneto. “Ai tempi dei greci era navigabile

fino all’interno dell’isola” commentava lui, con rammarico.

Cambiava marcia e accelerava. Con un boato la Lancia

saliva veloce sui due tornanti sulla collina: Papà dava uno

sguardo a sinistra, le mani sul volante. “Da quel pizzo inizia

la Contrada Mosè” e puntava il dito all’estremità della valle,

dove una torretta si alzava dirimpetto al tempio di Giunone.

Ero tutta un palpito: mi sentivo parte della storia del mon-

do. Sapevo che, dopo la salita, saremmo entrati nella piana

coltivata a grano e a un certo punto sarebbe apparsa la “no-

stra” guardiola di tufo giallo come i templi, corredata di merli

e terrazza, con finestre rettangolari sui due piani superiori.

“Simonetta, eccola, la guardiola di Mosè!” Ma io l’avevo

già avvistata, e il cuore mi batteva forte. Sapevo che dietro

la guardiola, il terreno si piegava in colline coperte di ulivi

e più giù, a metà collina, nascosta agli occhi degli automo-

bilisti, c’era la nostra casa. Non vedevo l’ora di raggiungerla.

Quello era Mosè.

Un posto “nostro”.

Agli inizi dell’Ottocento, Gerlando Giudice, un ricco medi-

co di Favara e trisnonno di Mamma, acquistò da un’Opera

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Pia un centinaio di ettari di terreno nella Contrada Mosè,

che un tempo faceva parte della riserva di caccia di Fede-

rico di Svevia, re di Sicilia: un vasto bosco che copriva le

dolci colline tra Agrigento e Favara. Di questa era rimasta

soltanto un’imponente torre medioevale con cisterna fun-

zionante, circondata da grandi ulivi. Nel 1843 il bisnonno

di Mamma, Giuseppe Giudice, costruì il frantoio e, anni

dopo, una casa di villeggiatura per la famiglia, che inglo-

bava la torre antica; ricostruì anche la guardiola e nel 1870

concluse i lavori con l’aggiunta della chiesetta. La casa era

completa.

Attorno al fabbricato erano già stati piantati mandorli, pi-

stacchi, carrubi, un minuscolo giardino di agrumi, una vigna

e un orto, insomma, tutto quello che serviva per cucinare e

mangiare bene. Il mio bisnonno vi passò felicemente parte

dell’estate, con figli e nipoti, fino alla morte nel 1882, a ottan-

tasette anni. Da allora i Giudice – nostra madre, Elena, è stata

l’ultima proprietaria a portare il nome della famiglia – hanno

sempre trascorso le vacanze estive a Mosè. Con una peno-

sa eccezione: durante la Seconda guerra mondiale l’esercito

dell’Asse requisì la tenuta. I soldati occuparono casa e fattoria

e Mosè divenne un accampamento militare. Nell’uliveto fu-

rono costruite postazioni in cemento armato per le mitraglia-

trici e, lungo il crinale che guarda il mare d’Africa, bunker e

posti di vedetta. Nel luglio del 1943 Mosè fu il centro di una

battaglia sanguinosa, la prima resistenza all’avanzata degli

Alleati in Sicilia. Una bomba cadde nella sala da pranzo e

distrusse la scala d’ingresso principale, altre devastarono la

cantina. Gli Alleati vittoriosi vi si insediarono per un perio-

do. Quando ebbero conquistato Agrigento, abbandonarono

Mosè lasciando casa e fattoria aperte ai vandali.

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La tenuta fu ereditata da Mamma nel 1946. Le piaceva rac-

contare a Chiara e a me le ragioni di questa attribuzione.

Nella divisione delle proprietà del padre, i �gli maschi,

zio Giovanni e zio Peppino, ebbero le terre di pianura, le

migliori, mentre Mosè e Narbone, terre di collina, furono

destinate alle femmine, zia Teresa, la sorella maggiore, e

Mamma. Fecero a sorte: a Mamma era toccato Narbone,

un feudo di montagna. Nella primavera di quell’anno erano

andati tutti insieme in gita a Mosè. La fattoria attigua alla

casa, corredata di due bagli, piccionaia, mandria e piccola

torre di vedetta, era di nuovo funzionante: i Vella, un nu-

cleo di contadini originari di Favara e mezzadri di Mosè,

che avevano dovuto lasciare la fattoria e gli animali all’eser-

cito dell’Asse per rifugiarsi in paese, vi erano ritornati dopo

l’armistizio.

La fattoria era scampata ai bombardamenti e, lavorando

sodo, loro erano riusciti a rimetterla in sesto e a riprende-

re il lavoro. La casa padronale era in condizioni disastrose.

Oltre ai danni causati dalla bomba, era stata saccheggiata:

scuri rotti, �nestre senza vetri, tubature e pavimenti divelti,

mobili bruciati, mura a�umicate, carta da parati strappata.

Era vuota, tranne la cucina, dove tutta la mobilia era rimasta

intatta: forse perché i mobili erano troppo pesanti per essere

trasportati o forse, come mi piace pensare, perché anche in

guerra si rispetta il posto in cui si prepara il cibo.

Nell’aia spizzuliavano galline e pulcini; le corna a torci-

glione delle capre girgintane spuntavano alte dallo steccato

della mandria. Mamma raccontava che Rosalia, la moglie

di Luigi, il campiere, a cui lei e zia Teresa volevano molto

bene, aveva offerto loro ’u caffè du parrinu e del pane ancora

tiepido, cotto nel forno a legna. Quando erano fuggiti dalla

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fattoria con i bambini, Rosalia s’era portata la livatina, la pa-

gnottella di pasta lievitata che si conserva ad ogni impastata

di pane, per farla inacidire e trasformarsi nel lievito per le

successive panificazioni. La livatina di Mosè proveniva da

una pasta madre mantenuta in vita dalle femmine della sua

famiglia sin dal 1870. Scappando, Rosalia se l’era messa ad-

dosso, sotto le vesti, a diretto contatto con il proprio corpo

per proteggerla e mantenerla calda. Ma la livatina era morta.

Era stata rimpiazzata da un’altra che veniva da una pasta ma-

dre regalo di un pastore di Castrofilippo: “Il pane riesce bene

ed è buono, ma non è la stessa cosa” aveva concluso Rosalia.

Nel frattempo gli uomini erano andati in giro a cavallo

nell’uliveto assieme a Luigi. “Era una bellissima giornata di

primavera,” ricordava Mamma “il sole caldo era temperato

da un venticello rinfrescante; le chiome degli ulivi frusciava-

no allegre, e la campagna era nel suo splendore, tutta fiorita.

Quella passeggiata fece innamorare Papà di Mosè: lo voleva.

Me ne parlò quella sera stessa e io chiesi a mia sorella se

potevamo scambiarci le campagne.”

Zia Teresa volle accontentarla e fu lieta di prendersi in

cambio Narbone.

I lavori di ristrutturazione furono lunghi e costosi. C’erano

impalcature dappertutto, impastatrici di cemento, operai e

muratori. Un magazzino era stato trasformato in falegna-

meria per Michele, l’anziano falegname di Agrigento che

aveva lavorato per i Giudice quasi tutta la vita: lui fece tutte

le persiane della casa da solo, a mano. La cucina fu rifatta e

i vecchi mobili abbandonati, freschi di una mano di pittura

blu e celeste, accolsero tra loro una moderna cucina econo-

mica alimentata dal legno della pota degli ulivi.

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Il 19 agosto del 1949 celebrammo a Mosè il primo com-

pleanno di Chiara; eravamo accampati al primo piano, in-

sieme alle famiglie di zio Giovanni e zia Teresa. L’illumi-

nazione era data da candele e lampade ad acetilene. Poco

alla volta la casa di Mosè rinasceva e si abbelliva, grazie a

Mamma e a Melina, la sarta, che cucivano tende, fodere,

copriletto, tovaglie, tovaglioli, e alla generosità di parenti e

amici che ci mandavano quello che a loro non serviva più,

come servizi di piatti e di bicchieri incompleti, o mobili

di cui volevano sbarazzarsi: divani e poltrone ingombranti,

armadi vecchi, l’intera sala da pranzo liberty e la camera da

letto ottocentesca dei nonni Giudice. Malandati e poi tirati

a nuovo, questi mobili furono e rimangono molto amati

da noi, e continuano ad accogliere nelle stanze ombrose di

casa nostra la famiglia allargata, amici e ospiti di passaggio;

ci ricordano la solidarietà all’interno delle famiglie e l’a�et-

to di amici generosi. I miei �gli, nati a Oxford, sono stati

portati a Mosè da neonati, e ci ritornano ogni anno, più di

una volta, con i loro bambini e con amici, come facevamo

Chiara ed io.

Alla morte di Papà, nel 1985, in fattoria vivevano soltanto

Rosalia e i �gli maggiori, Lillo e Vincenzo, con le rispetti-

ve mogli: ambedue non avevano �gli. Lillo era emigrato in

Francia per anni; poi era tornato e curava il gregge. Vin-

cenzo, il primo dei Vella a guidare il trattore, era il fattore

di Mosè: i tempi erano cambiati e la �gura del campiere era

diventata desueta.

La posizione di campiere si tramandava tra i Vella di pa-

dre in figlio, ed era passata a Luigi, padre di Vincenzo e

l’ultimo a ricoprire questo ruolo a Mosè. Il campiere era un

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uomo di fiducia che andava a cavallo terre terre per control-

lare i possedimenti del padrone; aveva ancora una funzione

importante nella Sicilia del dopoguerra – era suo compito

controllare ogni giorno, per conto della famiglia, che non

ci fossero scanusciuti, animali altrui, o cani randagi nelle

nostre terre, che gli abbeveratoi fossero puliti e in ordine.

Inoltre, il campiere, sempre all’erta su quello che succedeva

nel territorio, bloccava i tentativi di furti, di incendi e di

abigeati.

Vincenzo oggi ha quasi ottant’anni; vedovo, continua a

vivere a Mosè e vede come suo erede Luigi, �glio di Totu, il

fratello più giovane, che, da pensionato, si è trasferito a Mosè

per badare alla ménagerie degli animali del �glio – galline,

oche, cavalli e un piccolo gregge di pecore e capre – e per

aiutarlo nella preparazione dei formaggi e della ricotta.

Chiara, di professione architetto, volle occuparsi della te-

nuta, che convertì all’agricoltura biologica; ricavò dalle case

vuote dei contadini e dalle stalle disusate sei appartamen-

ti che aprono su un baglio trasformato in giardino: fanno

parte dell’agriturismo Fattoria Mosè che accoglie ospiti da

tutto il mondo. Ora, noi e i nostri amici condividiamo con

i turisti il pranzo alla nostra tavola.

Ascoltando la conversazione, sembra che nulla sia cam-

biato a Mosè.

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