advent 'zine #3 - dicembre 2006

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La prima e unica fanzine dedicata al gruppo svedese Opeth. Terzo numero, dedicato al secondo album del gruppo, "Morningrise". --- The first and only fanzine dedicated to the Swedish band Opeth (written in Italian language only). This is the third issue, focused on the band's second record "Morningrise".

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sommario

editoriale �news 2morningrise 7introduzione 9biografia �0session diary �6testi e traduzioni �8

intervisteanders nordin 22mikael åkerfeldt 32

live reportsclose-up festival 25gods of metal 2006 29

ghost reveriesdeluxe edition 35

edge of sanitythe crimson affair 39

atheistle ristampe 43

il libro100 dischi ideali per capire il rock hard&heavy 46

recensioni 47

E con questa fanno tre! La fanzine della vostra e nostra band preferita è tornata con altre 60 pagi-ne dense di Musica, un contenitore che sembrava quasi destinato ad essere parzialmente riempito - leggasi: riduzione del numero di pagine - ma che si è improvvisamente rivelato colmo di contenuti. Tanto che dovranno scusarci coloro che ci hanno omaggiato dei loro dischi: non ci siamo dimentica-ti, e cercheremo di ovviare alla loro assenza in que-sta sede pubblicando le recensioni sul nostro sito.

Ed a questo proposito, www.adventzine.it è stato recentemente rinnovato, anche per ospitare in una veste dignitosa le fotografie che per ovvi motivi non è possibile includere in queste pagine. Così come si è rinnovata la rivista che avete in mano, mutando progressivamente forma e raggio d’osservazione. Da una prima uscita completamente Opeth-dipen-dente, advent ‘zine ha ampliato il proprio raggio d’azione, perché in fondo non di soli Opeth si vive; ma non c’è nulla da temere, poiché l’analisi della di-scografia della band svedese prosegue senza soste, e l’album preso in analisi si chiama questa volta ‘Morningrise’.

Ma nel piano di diffusione della fanzine è stato in-serito anche l’indirizzo myspace.com/adventzine, ormai uno standard per chiunque voglia espandere i propri contatti attraverso Internet.

In definitiva, siamo cambiati senza rinunciare alle prerogative che ci eravamo posti oltre un anno fa, quando cominciarono ad affiorare le prime idee per la realizzazione di questo progetto.

Ora, non restano che pochi centimetri di spazio, sufficienti ad augurarvi, come di consueto, una buona lettura.

editorialenon c’e due senza tre

parole di Eugenio Crippa

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newsEra nell’aria, ed ora è ufficialmente confermato: Martin Lopez ha lasciato la band, sostituito da Martin Axenrot, dopo che quest’ultimo ha suonato con gli Opeth come “turnista a tempo pieno” per quasi un anno. In molti non hanno preso molto bene la sostituzione, che tuttavia si è rivelata ine-vitabile una volta che le condizioni di Lopez si sono irreparabilmente aggravate, ed il suo distacco dal resto del gruppo e del mondo è diventato presso-ché totale. Ecco la risposta di Mikael, direttamen-te dal Forum Ufficiale, rivolta a chi pensa che Axe sia un semplice rimpiazzo, per di più a portata di mano, trattandosi anche del batterista dei Blood-bath: “Capisco che siate abbastanza infastiditi da news del genere, ma lo sono anche io! Sono quasi dieci anni che suono con Lopez! Ma dovete capi-re che non vogliamo certo prendere un batterista qualsiasi per questa band. Ho suonato con Anders [Nordin], Lopez, [Gene] Hoglan ed ora Axe[nrot], insomma, credo di essere in grado di riconoscere un buon batterista. Avete provato a suonare con questi ragazzi? È forse per questo che le vostre opinioni sul valore di questi musicisti contano tanto? So benissimo che ciascuno è diverso dagli altri, e che possiede elementi positivi e negativi. Non nego assolutamente il fatto che Lopez fosse

un batterista strepitoso, ma sapete bene che sono stato coinvolto in prima persona nella creazione di ogni singolo drumbeat di ogni disco. Le parti di bat-teria sono il risultato di una collaborazione tra me e Lopez. Io avevo le mie idee, lui le sue, è così che ha sempre funzionato. Senza dimenticare che ho sempre realizzato da solo i demo delle mie canzoni, batteria inclusa. Io ed Axe vi faremo rimangiare i vostri aspri commenti, è solo questione di tempo” (1). Ed ancora:”Axe è diventato parte della band perché è un gran batterista, tutto qui! E’ stato in-gaggiato dopo aver citato tra le sue influenze ian Paice e Billy Cobham... poteva andarci peggio? Pri-ma di suonare con lui devo ammettere che pensavo fosse esclusivamente un semplice batterista Death Metal... e mi sbagliavo di grosso! Suonare con lui è fantastico! He knows his chops I tell ya!!” (2).

L’argomento è anche discusso in una serie di vi-deointerviste che il sito faceculture.nl mette a di-sposizione gratuitamente per i propri visitatori. Mikael fu intervistato lo scorso dicembre, e recen-temente entrambi i chitarristi degli Opeth sono stati ripresi dalle telecamere di FaceCulture (3). Tra gli argomenti, si è parlato della Deluxe Edition di ‘Ghost Reveries’, finalmente disponibile dopo

:: opeth 2006 :: martin mendez, martin axenrot, mikael åkerfeldt, peter lindgren, per wiberg

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una lunga serie di rinvii, ed a cui questo numero di advent ‘zine dedica ampio spazio nelle pagine seguenti.

Sempre in ambito di ristampe, i diritti sul materiale targato Music For Nations sono stati acquistati dal-la Sony/BMG, che da diversi mesi ha ripubblicato in tre album in questione ed il DVD ‘Lamentations’, a prezzo speciale; nessuna modifica all’artwork o

ai contenuti è stata fatta, l’unico piccolo dettaglio che distingue tale edizione da quella originale è il marchio dell’etichetta stampato sul retro della confezione.

Infine, la Koch Records, distributrice dei dischi degli Opeth oltreoceano, ha rilasciato un box-set di ben cinque dischi, contenente i soliti tre album pubblicati dalla MFN, più un doppio CD che corri-sponde alla versione audio dello show di ‘Lamen-tations’. Con tutta probabilità, quest’ultima uscita

opeth :: gods of metal 2006, 01/06/2006, idroscalo, milano ::

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sarà disponibile in Italia solo su importazione, e si tratta comunque di un prodotto per completisti o per chi voglia acquistare in blocco parte della di-scografia della band. Attenzione però, perché pare che sulla confezione siano riportati evidenti errori di battitura, quali ‘For Absent Minds’ anziché ‘For Absent Friends’ o ‘Collecter’s Edition Slipcase’. Insomma, l’ennesima operazione commerciale da parte di una vecchia etichetta, che sfrutta la po-polarità degli Opeth come a suo tempo la Candle-light fece attraverso ripetute ristampe dei primi tre dischi, seguita a ruota dalla Peaceville con ‘Still Life’.

È ben noto come la band di Steven Wilson abbia sempre molto da dire, all’insegna dell’ottima mu-sica.La prima grossa novità riguarda la firma di un nuovo contratto su Roadrunner Records, che vede quindi Porcupine Tree ed Opeth diventare compa-gni di etichetta.

Steven Wilson sul proprio myspace (4) aggiorna progressivamente i brani che è possibile ascolta-re in streaming; tra questi trovate la strumentale ‘Cut Ribbon’, una demo risalente al 2002 - che fu ai tempi considerata un outtake di ‘In Absentia’ - realizzato in vista di una futura collaborazione tra il leader dei Porcupine Tree e Mikael Åkerfeldt. Non credo si tratti del progetto Wilson/Åkerfeldt/Portnoy, di cui si accennò diverso tempo fa, e che ancora oggi non ha dato alcun frutto, a causa del continuo impegno dei singoli artisti nelle proprie band principali, attività che lasciano ben poco spa-zio ad eventuali side-project.

I Porcupine Tree hanno di recente suonato in Italia, accompagnati dagli svedesi Paatos, altra band dai solidi legami sia coi Porcospini che con gli Opeth. Le due ore di musica proposte hanno vi-sto un set diviso in due parti: la prima dedicata esclusivamente a materiale inedito, che farà par-te del prossimo album previsto per la primavera 2007; la seconda invece a base di alcune delle canzoni presenti sul primo (doppio) DVD ufficiale della band, ‘Arriving Somewhere’. Si tratta di un prodotto curato nei minimi dettagli, in cui Lasse Hoile (5), curatore dell’artwork a partire da ‘In

:: porcupine tree :: arriving somewhere...

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Absentia’, mette mano anche nel piatto forte del DVD, arricchendo coi propri effetti l’intero concer-to tenuto a Chicago lo scorso 12 ottobre 2005: la scaletta è quanto di più heavy la band abbia mai proposto, e spazia dalle arcinote ‘Halo’, ‘The Sound of Muzak’, ‘Even Less’, alle più rare ‘Mother and Child Divided’ e ‘So-Called Friend’. Ma la portata è quanto mai ricca di delicatezze, che sazieranno sia gli ultimi arrivati che i più puntigliosi e scettici; le chicche del secondo disco sono infatti il videoclip di ‘Lazarus’ e le animazioni dei concerti, ancora una volta firmate Mr. Hoile.

Per quanto riguarda il prossimo album, non aspet-tatevi un ritono al passato; lo stesso Steven Wilson ha affermato che “un artista dovrebbe sempre se-guire la propria strada e soddisfare in primo luogo sé stesso. E comunque non ho nessuna voglia di ripetermi [artisticamente]. Quindi, anche se la no-stra musica non sarà in futuro più heavy [rispetto a ‘Deadwing’], creeremo ancora qualcosa di diverso. Non torneremo mai indietro, per rifare un secondo ‘The Sky Moves Sideways’”(6). I brani presentati lo scorso 19 settembre a Milano non lasciano co-munque dubbi sul fatto che la vena creativa della band sia ancora assolutamente sostanziosa.

La lunga serie di ristampe del catalogo PT ha visto da ultimo la ripubblicazione di ‘Stupid Dream’, in versione cd audio remixato, più bonus disc conte-nente l’album in 5.1, due bonus tracks, photo galle-ry ed un nuovissimo artwork. Prossimamente toc-cherà a ‘Lightbulb Sun’, e non è detto che in futuro advent ‘zine non dedichi uno speciale che riassu-ma in dettaglio tutte le riedizioni della discografia dei Porcupine Tree, che sono letteralmente fioccate sul panorama musicale negli ultimi anni.

stupid dream :: the new artwork ::

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Buone nuove anche sul versante Blackfield: il se-condo disco del progetto Wilson/Aviv Geffen è sta-to infatti completato; si intitolerà semplicemente ‘Blackfield II’, ed è previsto per gennaio 2007.

Questa la tracklist, comprendente alcuni pezzi già editi o suonati in concerto: Once (4.03) / 1,000 People (3.54) / Miss U (4.13) / Christenings (4.37) / This Killer (4.06) / Epidemic (4.59) / My Gift of Silence (4.05) / Some Day (4.22) / Where is My Love? (2.59) / End of the World (5.13).

Un tour europeo è già stato confermato: i Black-field passeranno in italia per un’unica data, il 25 febbraio presso l’Alcatraz di Milano. Supporters saranno i Pure Reason Revolution, un nome forse abbastanza noto nel Regno Unito, ma praticamente sconosciuto da queste parti; su myspace.com/pu-rereasonrevolution potrete farvi un’idea di cosa vi aspetta a febbraio.

(1) www.ultimatemetal.com/forum/showthread.php?p=4883946#post4883946(2) www.ultimatemetal.com/forum/showthread.php?p=4883972#post4883972(3) www.faceculture.nl/opeth2006/index.htm(4) myspace.com/therealstevenwilson(5) www.lassehoile.com(6) carbon nation # 5 - www.carbon-nation.co.uk

:: blackfield in studio

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morningrisetracklist

Advent (13.46)The Night And The Silent Water (11.00)

Nectar (10.09)Black Rose Immortal (20.14)To bid you farewell (10.57)

Running time: 66:07

creditsMorningrise was recorded during the Month of March 1996 at Unisound Recordings.

Produced by Opeth under the watchful eye of Dan Swanö.Engineered by Dan Swanö.

Mastered at Cutting Room by Peter in de Beton and Opeth.Cover photos by Tuija Lindström, booklet photos by Lennart Kaltea.

Layout by Tom Martinsen and Opeth.Logo by Timo Ketola.

All music was written between 1991-1996 by Mikael and Peter.All lyrics by Mikael.

line upMikael Åkerfeldt - all vocals, electric and acoustic guitars

Peter Lindgren - electric and acoustic guitarsJohan DeFarfalla - bass guitars

Anders Nordin - drums and percussion

equipmentRhythm, lead and solo guitars: Jackson RR (USA), Jackson RR (JAP)

Clean electrics: Paul Chandler Custom, Jackson RR (both)Acoustics: Seagull Semi-Ac, Landola Semi-Ac (Classic), Applause Semi-Ac.

Basses: Yamaha 6str, Arvidson fretlessAmps: Marshall JCM800 Lead50W, Vintage 4/12 Cabinet, GK Bass Transistor/Line

Strings: Dadario 009, Thomastik 457 011, Savarez alliance, GHS Custom Bass, GHS 045Drums: Pearl Custom Z Maple, Sabian/Zildian symbals

Keyboards: Boss Heavy Metal, Turbo Overdrive/Distortion, Volume pedal, Ibanez Pan-delay, Blubber-wah

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Riassunto delle puntate precedenti. Gli Opeth na-scono nel 1990, quando Mikael Akerfeldt entra in pianta stabile nella band dell’amico David Isberg; a quest’ultimo si deve la scelta del nome della band, preso dal libro ‘L’uccello del Sole’ [The Sunbird] di Wilbur Smith, in cui Opet - senz’h - è una città sperduta nel cuore dell’Africa. Di lì a breve Isberg abbandona il gruppo, che nel periodo 1992-93 assu-me una line-up stabile che vede, oltre a Mikael alla voce ed alla chitarra, Peter Lindgren alla seconda chitarra, Anders Nordin alla batteria e Stefan Gu-teklimt al basso.

Prima di passare a parlare di ‘Morningrise’, colgo l’occasione per recuperare una vecchia intervista risalente proprio a quel periodo, che sempre grazie ad uno dei tanti forum sparsi per la Rete è tornata alla luce. Tratta dal numero 4 di ‘Mortician’, vec-chio magazine olandese, l’intervista vede la line-up di cui sopra in una foto inedita, il primissimo logo, della band, e Mikael rispondere alle domande del giornalista di turno in qualità di rappresentante di una band “che ancora non ha pubblicato nulla! Perciò devono esserci degli ottimi motivi per intro-durre ai nostri lettori una band ancora sconosciu-ta ai più. Il motivo principale si chiama qualità!! Gli

Opeth non suonano il ben noto “brutal Stockholm downtuned death metal”, piuttosto sono più nella vena di alcune delle ultime rivelazioni provenienti da Goteborg! Tonnellate di riff di chitarra avvol-genti ed intricati, un’ottimo drummer, molte parti acustiche ed un cantante che fa uso di scream e clean vocals!”. Così venivano presentati gli Opeth, immagino sulla base di qualche demotape che cir-colava nell’ambiente musicale, al pari di tanti altri nastri leggendari che sicuramente qualche vec-chio appassionato custodisce gelosamente nella propria stanza. Quando David Isberg abbandonò la nave, Mikael passò alla voce senza abbandona-re la chitarra:”[David] non aveva più intenzione di cantare in una band Death Metal... strano che poi abbia proseguito in un’altro gruppo dello stesso genere! Comunque, io ero il cantante/chitarrista degli Eruption, quindi non fu difficile scegliere chi l’avrebbe sostituito. In fondo un minimo di espe-rienza ce l’avevo, avendo iniziato a cantare nel 1987”. Gli Opeth allora esistono dal 1987 e fino al 1993 in sei anni non hanno registrato alcun demo? “Non gli Opeth, ma l’accoppiata Eruption/Opeth sì. Non abbiamo registrato nulla in tutti que-sti anni perché solo nel 1991 abbiamo trovato il nostro sound. Non pensavamo a registrare i brani

introduzionemortician # 4 :: 1993 ::

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finché non ne eravamo completamente soddisfatti, ci sono così tante canzoni che sono state scartate perché pensavamo non fossero abbastanza buone. Credo che registreremo qualcosa presto, ma... solo il tempo può dirlo!!!”.

Potremmo ora aprire infinite parentesi, col rischio di perdere le fila del racconto. Procediamo nel modo più ordinato possibile, partendo dall’inver-no 2001-2002: in quel periodo infatti, quando gli Opeth cominciarono ad acquistare visibilità gra-zie al supporto dell’inglese Music For Nations, la Rete partorì un sito da cui era possibile scaricare una quindicina di bootleg della band, sia audio che

video: molti risalivano ai nuovi tour, americano (quello della primavera 2001, in supporto a Never-more ed Amorphis) ed europeo (quello dell’autun-no 2001, quando suonarono a Pinarella di Cervia (RA) e Milano), ma c’era anche una vecchissima re-gistrazione di un concerto tenuto al Träff di Akalla nel 1992, praticamente nell’hinterland di Stoccol-ma. Anche se il materiale è quasi inascoltabile, in ‘Requiem of Lost Souls’ è possibile individuare un paio di riff che sarebbero poi andati a far parte di ‘Forest of October’. La seconda rarità è una cartel-la denominata ‘Rehearsal Tape 1993’, contenente ‘Eternal Soul Torture’ - bonustrack nella ristampa di ‘Morningrise’ -, un’interessante versione pri-mordiale di ‘Black Rose Immortal’, intitolata ‘Unk-nown’ e della durata di circa 15 minuti, e ‘Forest of October’, ripresa poi integralmente su ‘Orchid’. Nelle info dei brani - trattasi di mp3 - si legge “for Candlelight Records”, ma non è dato sapere quanto sia attendibile questa cosa, né quindi se si tratta effettivamente del materiale che l’allora boss del-la Candlelight Records, Lee Barrett, ha ascoltato prima di mettere gli Opeth sotto contratto. E qui ci ricolleghiamo al discorso precedente: proseguen-do nell’intervista, Mikael afferma che “sì, abbiamo ricevuto alcune offerte da etichette underground,

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ma non abbiamo deciso nulla. Per quanto riguarda la Candlelight... posso solo dire che Mr. Blackheim dei Katatonia mi ha detto che sono interessati a noi. Non ho scritto loro, quindi non so se sia vero o falso, non lo so proprio! Si tratta però di un’eti-chetta molto interessante, e non mi dispiacerebbe pubblicare un disco su Candlelight nelle giuste cir-costanze”.

L’attesa non sarebbe durata molto, perché nella primavera del 1994 gli Opeth avrebbero finalmente registrato il loro debutto ‘Orchid’, disco che racco-glie brani scritti ed elaborati praticamente sin dai primissimi esordi della band sotto il nome ‘Opeth’.

Dell’album si è parlato approfonditamente nel pre-cedente numero di advent ‘zine: dovette aspettare parecchio prima di essere pubblicato, l’anno suc-cessivo. Nel 1994 gli Opeth fecero però in tempo a suonare un solo concerto in patria, ad Eskilstu-na, insieme ai Dismember, dove ‘Orchid’ fu propo-sto per intero, fatta eccezione per le strumentali ‘Silhouette’ e ‘Requiem’. Nell’autunno 1995 Lee Barrett procurò tre sole date agli Opeth, esclusiva-mente nel Regno Unito, tra cui quella della notte di Halloween è documentata da un audio bootleg.

‘Morningrise’ fu registrato nel marzo 1996 presso gli Unisound Studios di Dan Swanö, scelto nuova-mente come produttore. Il fatto che un disco così complesso sia stato registrato in sole quattro set-timane non deve sorprendere più di tanto, poiché diversi brani erano già pronti o almeno abbozzati da lungo tempo - ‘Black Rose Immortal’ ad esempio avrebbe già dovuto comparire su ‘Orchid’, salvo poi essere scartata a causa del poco tempo disponibile in studio. Gli Opeth avevano quindi le idee chiare su quello che avrebbero dovuto fare una volta en-trati in studio di registrazione. Mikael restava il principale compositore, e pare proprio che la quasi totalità dei primi due dischi sia stata da lui compo-

psycho! # 1 :: gennaio 1997 ::

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sta su chitarra acustica. In occasione dell’uscita di ‘Still Life’, nell’autunno 1999, Mikael dirà in un’intervista sul mensile ‘Flash’ che “lavoravo in un piccolo negozio di strumenti musicali, il Guitar Village, un piccolo punto vendita con pochi clienti e tante chitarre acustiche... non avevo molto da fare; pensa che ho interamente composto ‘Morningrise’ in quel negozio! [...] Direi proprio che mi conside-ro il miglio chitarrista acustico che fa uso della chitarra elettrica!”. Ed un paio di anni più tardi, il suo compare Peter confermerà, per poi aggiungere sulle pagine di ‘Psycho!’:”Le idee base sono state, e sempre saranno, scritte con le chitarre acusti-che, per un motivo preciso: agli inizi componevamo utilizzando una iperdistorsione; poi, quando toglie-vamo tutti gli effetti, scoprivamo che quel riff che ci gasava in realtà non era un granché. Se invece riesci ad esprimere ciò che vuoi con un’acustica, puoi scommetterci le chiappe che con la distorsio-ne renderà 100 volte tanto!”. È quindi innegabile che stilisticamente ‘Morningrise’ ed ‘Orchid’ siano molto simili tra loro: persiste in essi l’intenzione di condurre l’ascoltatore lungo un percorso diffi-cile, fatto di tante linee guida, naturalmente legate l’una alla successiva, che mai vengono nuovamen-te attraversate nella stessa canzone. Lo stesso

Mikael ancora oggi si stupisce di come il pubblico possa sentirsi tanto legato a ‘Morningrise’, di cui ha sempre odiato la produzione. Eppure forse l’uni-co modo in cui è possibile spiegare tanta devozione verso questo secondo capitolo, è semplicemente il fatto che, né allora né oggi, nessuno sia mai sta-to in grado di proporre qualcosa di simile, sotto molteplici aspetti. Se con ‘Orchid’ gli Opeth hanno posto le basi, con ‘Morningrise’ sono passati alla definizione del genere. Che non verrà mai più ri-preso dai suoi fondatori, bensì da una folta schiera di seguaci che dalle atmosfere del disco trarranno più volte ispirazione.

Prima dell’uscita di ‘Morningrise’ nei negozi, gli Opeth nel giugno 1996 ebbero modo di condividere lo stage, oltre che con una serie di band minori in-glesi, con i Blood Divine dell’ex-Anathema Darren White e coi loro idoli Morbid Angel: sempre idoli ri-marranno, tuttavia la presunzione dei deathsters americani non fu mai dimenticata: Lee Barrett ri-corda infatti che al concerto di Birmingham del 18 giugno Opeth e Blood Divine non poterono suonare, poiché gli headliners avevano abusato del tempo a disposizione per il soundcheck e, dovendo oltre-tutto registrare la performance per un live album,

:: grind zone # 4 :: settembre/ottobre 1996

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rubarono spazio e l’uso delle attrezzature ai loro colleghi.Lo stesso mese, il giorno 24, fu prevista l’uscita sul mercato del disco. Questo almeno secondo quanto riportato su una cassetta promozionale, realizzata in 200 copie, che viene inviata alla stampa specia-lizzata (il cui frontespizio è stato utilizzato come sfondo alcune pagine fa). Curioso come su tale na-stro la tracklist veda invertite le posizioni delle ul-time due songs, ‘Black Rose Immortal’ e ‘To Bid You Farewell’. Le prime recensioni in italia risalgono al periodo settembre/ottobre, e si rivelano a dir poco entusiastiche! Anche se il 4/5 elargito da Metal Shock si divide tra complimenti e piccole obiezioni riguardo una “melodia relegata parecchie volte in secondo piano” ed una band che “si perde un po’ troppo nei breaks”, altri compagni del settore non risparmiano lodi per il quartetto di Stoccolma. Se non è un mistero che Grind Zone abbia riservato al combo, anche per motivi di conoscenze personali tra i redattori della rivista e gli Opeth stessi, un po-sto di riguardo, affibbiando puntualmente ad ogni release degli Opeth il massimo dei voti - nonché di-vertendosi sempre nel citare qualche vecchia glo-ria del progressive dei ‘70s, non è da meno Marco Ruggeri, che su Rumore del settembre ‘96 ritiene

“oltremodo ingiusto non tessere ancora una volta le lodi di una band assolutamente grandiosa che continua a comporre suite vibranti, unendo estre-mo a classico, cancellando le precedenti concezioni Death. ‘Advent’ e ‘The Night and the Silent Water’ sono quanto di meglio ci si possa aspettare da un gruppo evoluzionista; meno carattere epico, ombre di Prog europeo, interludi barocchi, Death Metal, ed una tecnica meravigliosa”.

Verso la fine dell’autunno 1996, gli Opeth si imbar-cano nel loro primissimo tour, girando per l’europa insieme ai Cradle of Filth. In Italia, le band suonano

opeth ::,05/12/1996, rainbow, milano ::

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al Frontiera di Roma il 4 dicembre ed il giorno suc-cessivo al Rainbow di Milano. “Son già passati 10 anni da allora, ma meglio tardi che mai... me lo ri-cordo ancora Mike che mentre mangiava la schiac-citina imbottita ragionava dei gruppi Prog anni ‘70 e delle vocals che aveva registrato per i Katatonia su ‘Brave Murder Day’ e ‘Sounds of Decay’. 45 mi-nuti di concerto che spazzarono lettaralmente via la caotica performance degli headliners Cradle of Filth, nonostante fosse la prima volta che li ascolta-vo”. Così li ricorda Mery Giustini, autrice della foto della pagina precedente, una gli Opeth può vantarsi di averli visti crescere e maturare. E c’era anche lo sconosciuto autore di oscure e lontane riprese, che immortalarono quasi tutto il concerto dei Nostri su VHS. Videocassetta che ho potuto visionare una volta sola: se non sbaglio i brani in scaletta furono ‘In Mist She Was Standing’, ‘The Apostle in Trium-ph’ e ‘Nectar’; ma ricordo molto bene l’improvvisa conclusione, un rapido “Thank you, goodnight!” prima di un repentino ritorno dietro le quinte.

Ben cinque anni ed altri tre dischi dovranno passa-re prima di un nuovo tour; il 21 novembre 2001 un Transilvania Live stracolmo attendeva anche me, per il mio primo Opeth-show. Col tempo - sono pas-

sati esattamente dieci anni dalla sua pubblicazione - ‘Morningrise’ verrà più volte ripreso, rivalutato, analizzato, e comunque sempre considerato tra gli album cardine dell’Heavy Metal di fine secolo.

Ma forse non tutti sanno che il luogo fotografato in copertina si trova nel parco di un college inglese presso la località di Bath, a qualche decina di chilo-metri da Londra. Si chiama Prior Park, e si dice che il ponte solitario che si può ammirare nella cover sia stato voluto da Mikael dopo averlo visto casual-mente su una cartolina.

Ed è forse ancor più avvolto nel mistero il fatto che ‘Morningrise’ sia stato appositamente limato per durare esattamente 66 minuti e 6 secondi. Così è riportato tra le news di un vecchio numero del magazine inglese ‘Terrorizer’, oltre al fatto che il disco si sarebbe dovuto intitolare ‘Nectar’. Ora, andate un po’ a controllare quanto dura la vostra copia di ‘Morningrise’...

:: rumore :: autunno 1996

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biografia

capitolo iii.iiMorningrise fu registrato nel marzo/aprile 1996, e quel disco ci procurò parecchi elogi. Prima della sua pubblicazione suonammo al-cuni concerti insieme a Morbid Angel e Blood Divine nel Regno Unito. Ovviamente non pote-vamo rifiutare un’occasione del genere e, an-che se i miei vecchi idoli si rivelarono un po’ troppo arroganti, furono bei giorni quelli tra-scorsi in loro compagnia. Alla pubblicazione di ‘Morningrise’ seguì anche il nostro primo tour europeo, 26 date insieme a quei vampiri dei Cradle of Filth. Fu dannatamente fanta-stico! A Roma ci fu un riscontro di pubblico clamoroso! Quella sera erano tutti impazziti, e naturalmente abbiamo gradito molto questo incredibile entusiasmo!

capitolo iv.iIl ritorno a casa fu davvero noioso, anche per-ché la stagione natalizia era ormai conclusa. Durante questo tour notammo che Johan non si sentiva più coinvolto nella band come in passato, e decidemmo di escluderlo dal gruppo. Intanto Anders [Nordin] se ne era andato in vacanza in Brasile, ed io ero pronto a comuni-cargli questa notizia, oltre al fatto che avevamo già prenotato i Fredman Studios per il terzo album. Ma lui aveva news molto più importan-ti: mi disse che sarebbe rimasto in Brasile, e che quindi avrebbe lasciato gli Opeth! Ero in lacrime mentre lo sentivo parlare... insieme a lui era cominciata questa avventura, ma ebbe inizio in quel momento un breve periodo in cui gli Opeth non esistevano più.

traduzioni di Eugenio Crippaparole di Mikael Åkerfeldt

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session diary

L’uscita sul mercato di ‘Orchid’ era stata riman-data a più riprese, ed una volta in commercio gran parte del secondo album era già stata scritta. De-cidemmo di registrare nuovamente presso gli Uni-sound Studios con Dan Swanö. Questa volta c’era più tempo a disposizione, in quanto avevamo pre-notato gli studi per l’intero mese di marzo [1996].

Eravamo tutti molto ansiosi di registrare questo disco, poiché il materiale che avevamo scritto era davvero nuovo ed unico, anche se alcune parti risalivano addirittura al 1991. Inoltre, stavamo per incidere il nostro pezzo più epico, ‘Black Rose Immortal’, sul quale avevamo lavorato a lungo. Mi pare di aver gettato le basi per quel brano nel lontano 1992, e sono davvero orgoglioso di averlo finalmente registrato!

Gli Unisound nel frattempo erano stati spostati in una città più grande, Örebro. questa volta fummo ospitati presso la residenza dei Lundahl, i genitori della ragazza di Peter. Devo ammettere che le re-gistrazioni erano a volte noiose, anzi, l’intero pro-cesso di registrazione non mi è piaciuto affatto! Fu fottutamente noioso! Si finiva per fumare tutto il tempo, ed organizzammo anche un torneo di scac-chi, vinto da Peter, per trascorrere le ore.

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Ma alla fine il tempo cominciò a scarseggiare, e do-vevamo mettere insieme il materiale perché fosse tutto pronto entro i tempi stabiliti. Io ed Anders avevamo anche scritto una traccia strumentale che sarebbe dovuta comparire sull’album, ma così non fu, seplicemente perché non c’era più tempo! E fu davvero un peccato, perché il pezzo era dav-vero ottimo! Lo ritrovai in seguito su una vecchia cassetta e, beh, magari lo registreremo un giorno o l’altro!Alla fine l’album risultò essere davvero grandioso, e gli scettici che pensavano che non saremmo riu-sciti a migliorarci non potevano negare che questo disco fosse almeno al pari col suo predecessore, se non addirittura meglio!

Uno dei brani, ‘To Bid You Farewell’, è il più dol-ce che abbiamo mai scritto, ed eravamo sicuri che schiere di metalheads l’avrebbero odiata! In realtà non ci interessava più di tanto la cosa, era impor-tante che piacesse a noi. La cosa strana è che si tratta invece del brano di ‘Morningrise’ che i no-

stri fan apprezzano di più! E questa cosa ci ha sor-presi molto!

Oltre a TBYF, le mie preferite sono ‘Advent’ e ‘Black Rose Immortal’. Grazie a questo album abbiamo anche cominciato a suonare dal vivo. Nella prima estate del 1996 abbiamo tenuto un paio di concerti insieme ai nostri vecchi idoli, i Morbid Angel, ed in novembre partimmo per il nostro primissimo tour europeo al seguito dei Cradle Of Filth, ottenendo ottimi consensi.

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testi e traduzioni

adventIt was all true

A parlour strode, and the night sets foreverI stray in the quiet cold

And you gird me when I dare to listen

Elastic meadow, endless arms of sorrowLips try to form “because”

Trying to adapt to the wildernessWhere even foes close their eyes and leave

We are inside the gladeEvery now and then I wipe the dust aside

To remember...

How I drape my face with my bare handsThe same that brought me here

But you were beyond all helpThe folded message that wept my name

Shadows skulk at my comingWe survey the slopes

In search for the words to write the missing pageThe tainted dogma

Time grows shortAs the piper plays his time

We are almost there

You are beyond all helpDancing into the void

We are almost there

Era tutto veroAttraverso una stanza, ed è per sempre notteVago senza meta nel gelo immobileE tu mi circondi quando oso prestare ascolto

Un’infinita e tentacolare distesa di anime disperateLe labbra cercano una giustificazioneCercando di adattarsi al mondo selvaggioDove anche i nemici chiudono gli occhi e fuggono via

Ci troviamo in mezzo alla raduraA volte schiarisco la mia memoriaPer ricordare...

Così copro il mio volto con le mie mani nudeLe stesse che mi hanno portato fin quiMa era ormai troppo tardi per poterti aiutareIl messaggio nascosto che pianse il mio nome

Le ombre si nascondono al mio arrivoContempliamo dall’alto il panoramaCercando le parole per scrivere la pagina mancanteIl dogma infetto

Il tempo scorre lentoAccompagnati dalla musica dello zampognaroCi avviciniamo

È troppo tardi per poterti aiutareDanzando nel vuotoAbbiamo quasi raggiunto la nostra meta

Quello di ‘Morningrise’ fu un periodo davvero cupo per me, ed i testi scaturirono di conseguenza. Mio nonno era morto, e ‘The Night and the Silent Water’ è dedicata a lui. ‘To Bid You Farewell’ fu scritta dopo che lasciai la mia ragazza in seguito ad una relazione durata tre anni. Si era scopa-ta un altro tizio - ”She fucked another guy...”, testuali parole - e questo fatto mi rese arrabbiato e triste, ma accese al tempo stesso la mia ispirazione. Il resto dei brani è una serie di riflessioni sull’aldilà, sempre che ce ne sia uno ad attenderci. Ho semplicemente scritto cosa penso possa accadere dopo la morte, questo è in linea di massima ciò di cui parla ‘Advent’. ‘Black Rose Im-mortal’ è una canzone le cui radici risalgono al 1991, e sono contento di averla finalmente regi-strata. È una breve storia costruita sulle stesse tematiche che ho poi ripreso approfonditamente con ‘My Arms, Your Hearse’. ‘Nectar’ is about nightmares, can you believe?

Mikael Åkerfeldt intervistato da Jim Raggi per ‘Lamentations of the Flame Princess’, marzo 1999

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the night and the silent water

nectar

And so you left usJaded and gaunt, some September

Wilted with the seasonsBut hidden inside the delusion

I saw you eyes, somewhere

Devoid of deathThe aura poises amidst (the storm)

In solid tears I lingerA parlour glade, moonlit sorrow

Lonely resting poolsRelics of the moon-dogged lake

Whisper: “All your words are misgiven”

Am I like them?Those who mourn and turn away

Those who would give anythingTo see you again

If only for another second

Your face was, like the photographPainted white

We did not speak very often about itWhat does it matter now?

Cloak of autumn shroudI gaze, dim ricochet of stars

I reckon it is time for me to leave

You sleep in the lightYet the night and the silent water

Still so dark...

E così ci hai lasciatiSfiniti e desolati, in un qualche settembreMentre appassivamo con le stagioniE nascondevamo in noi le nostre false convinzioniHo visto i tuoi occhi, da qualche parte

Priva di morteL’aura è sospesa in mezzo (alla tempesta)Con lacrime sincere mi soffermoIn un’ampia stanza, in cui filtra la triste luce della lunaAngoli di solitario riposoLe reliquie di un lago per sempre illuminato dalla lunaSussurrano:”Tutte le tue parole evocano cattivi presagi”

Sono anch’io come Loro?Che piangono e si voltano indietroChe darebbero qualsiasi cosaPer rivederti ancoraAnche per un secondo solo

Il tuo volto era pallidoCome in fotografiaNon ne abbiamo parlato spessoMa ha forse importanza ora?

Il manto d’autunno ti avvolgeIo lo osservo, e dal bagliore smorzato delle stelleCapisco che è giunta l’ora di andarmene

Dormi avvolto dalla luceMentre la notte e l’acqua silenteSono ancora così scure...

I arose from the lullabyEnduring yet another tale

You tempt me againWith your embrace, so tainted

Within the night you beckonCursing me with every glance

Bring me throughCarry my empty shadow

And guide me inside your warped labyrinthTo the well of sin

I swear I will always love you

Mi sono svegliato durante la ninnanannaChe sarebbe proseguita almeno con un altro raccontoCerchi di indurmi nuovamente in tentazioneCol tuo abbraccio, così falsoNella notte mi fai cennoMaledicendomi con ogni sguardo

Guidami sino in fondoTrascina la mia ombra stancaE fammi strada attraverso il tuo tortuoso labirintoFino al pozzo dei peccatiGiuro che ti amerò per sempre

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black rose immortal

Leave me speechlessRelease my yearning

The soil I walk is clad with lightDrifting moons thrust me with their rays

And I fall insideI lament this heritage

Cannot bid farewellThe pale face...you went as far as you could

And from that momentI witnessed your beauty, felt your death

Mine is yours, mine is yours

In the wake of dawnThe mist of morning linger before it leaves

Invisible eyes, red reflectionIt is you

Smiling in the midst of the moor

Lasciami ammutolitoSoddisfa i miei desideriIl terreno su cui cammino è ammantato di luceLune vaganti mi trascinano coi loro raggiEd io mi arrendoReclamo questa ereditàNon posso dire addioIl volto pallido... ti sei spinta fin dove poteviE da quel momentoOsservai la tua bellezza, e percepii la tua morte

Ciò che è mio, è tuo

Nel risveglio dell’albaLa nebbia del mattino si sofferma, prima di scomparireOcchi invisibili dai riflessi rossiTi vedoSorridere in mezzo alla brughiera

In the name of desperationI call your name

A lamentation I sighAgain and again

Spiritual eclipseThe gateways are closed for me to seek

The night...A veil of stars, watching

My shadow is born from lightThe light of the eye, in darkness

Over troubled waters memories soarEndlessly, searching night and day

The moonlight caresses a lonely hillWith the calmness of a whisper

I wear a naked soulA blank face in the streaming water

It is cold in hereFrost scar my coat with dust

Eyes attach to your mute portraitWe spoke only through thoughts

Together we gazed, awaitedHours brought thirst and the rising sun

Sunbirds leave their dark recesses

Nel nome della disperazioneTi invocoSospiro un lamentoSenza mai fermarmi

Eclissi spiritualeI cancelli chiusi ostacolano alla mia ricerca

La notte...Un manto di stelle che osservanoLa mia ombra nasce dalla luceLa luce dell’occhio, nell’oscurità

I ricordi cavalcano acque tempestoseIn una ricerca senza fine, giorno e notteIl bagliore della Luna accarezza una collina solitariaCon la dolcezza di un sussurro

Indosso un’anima nudaUn volto inespressivo nell’acqua che scorreFa freddo qui dentroLa polvere gelida rovina le mie vesti

Gli occhi fissano il tuo muto ritrattoAbbiamo comunicato solo attraverso i nostri pensieriInsieme abbiamo atteso e fissato il nostro sguardoCol tempo venne la sete, ed il sorgere del sole

Gli uccelli del sole abbandonano i loro oscuri rifugi

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to bid you farewell

Shadows gild the archways

Do not turn your face towards meConfronting me with my loneliness

You are in a forest unknownThe secret orchard

And your voice is vast and achromaticBut still so precious

Lullaby of the crescent moon took youMesmerized, its kaleidoscopic face

Granted you a hollow stareAnother soul within the divine herd

I have kept itThe amaranth symbol

Hidden inside the golden shrineUntil we rejoice in the meadow of the end

When we both walk the shadowsIt will set ablaze and vanish

Black Rose Immortal

It is getting dark againDusk shuffle across the fields

The evening trees moan as if they knewAt night I always dream of you

I am awaiting the sunriseGazing modestly through the coldest morning

Once it came you liedEmbracing us over autumn’s proud treetops

I stand motionlessIn a parade of falling rain

You voice I cannot hearAs I am falling again

Devotion eludesAnd in sadness I lumber

In my own ashes I am standing without a soulShe wept and whispered: “I know...”

We walked into the nightAm I to bid you farewell?

Why can’t you see that I tryWhen every tear is shed

Is for you?

Sto aspettando l’albaFissando umilmente la più gelida delle mattineTu mentisti quando lei giunseAvvolgendoci sopra le alte cime degli alberi d’autunno

Resto in piedi, senza muovermiIn una sfilata di pioggia battenteNon riesco a sentire la tua voceMentre nuovamente mi dispero

Non c’è più devozioneEd io vago disperatoCalpesto senz’anima le mie stesse ceneriLei pianse e sospirò:”Lo so...”

Abbiamo camminato nella notteSto per dirti addio?Perché non riesci a capire che ci provoQuando ogni lacrima che piangoÈ per te?

Le ombre si stagliano sulle volte

Non voltarti verso di meMettendomi a confronto con la mia solitudineTi trovi in una foresta sconosciutaNel frutteto segretoLa tua voce è imponente ed inespressivaMa tanto preziosa per me

La cantilena della Luna crescente ti ha ipnotizzatoCol suo aspetto multiformeTi ha lanciato occhiate ingannevoliAssegnando la tua anima al gregge divino

L’ho conservatoIl simbolo amarantoNascosto all’interno del sacrario d’oroPer quando potremo gioire nel giardino dell’EdenQuando entrambi cammineremo sulle ombreLui splenderà, per poi svanireBlack Rose Immortal

Si fa di nuovo buioIl crepuscolo si diffonde attraverso le disteseE di sera le piante gemono, come se sapesseroChe ti sogno ogni notte

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In quegli anni eravate tutti molto giovani. Dove e come hai imparato a suonare la batteria ed il pia-noforte? Ho imparato da solo a suonare la batteria col drum kit che mi ero procurato dal mio insegnante di mu-sica, che era anche il mio insegnante di pianoforte, anche se praticamente sono autodidatta in entram-be le cose. Un altro amico d’infanzia di Sörskogen sapeva suonare il Boogie Woogie, ed è così che ho perfezionato la mia tecnica al pianoforte.

Tu hai conosciuto ovviamente anche Lee Barrett e Dan Swanö; impressioni ed aneddoti da raccontare su questi due loschi figuri?Eh eh, quei ragazzi sono davvero matti, due delle persone più divertenti che io abbia mai conosciuto in vita mia.Ho incontrato Lee la prima volta quando siamo stati invitati in Inghilterra per un paio di concer-ti [con tutta probabilità nell’autunno 1995, NdA].

Non capita tutti i giorni di riuscire a scambia-re due chiacchiere con il primissimo batterista degli Opeth. L’opportunità è arrivata grazie ad un suo intervento sul Forum Ufficiale della band; contattato tramite messaggio privato, il buon Anders si è subito mostrato disponibile e lieto di poter rispondere ad alcune domande via mail.

Innanzitutto, come hai conosciuto il resto della band? Sei brasiliano, quindi che ci facevi in Svezia in quel periodo (siamo ancora negli anni ‘80...)?I miei genitori sono svedesi, ma lavoravano in Brasile negli anni ‘70; mi adottarono, ed all’età di quattro anni fui portato in svezia. Ci stabilimmo a Sörskogen (conosci il side-project di Mikael?) che è il quartiere in cui sono cresciuto ed in cui ho conosciuto Mikael: siamo cresciuti insieme sin dall’infanzia.Mikael cominciò molto presto ad ascoltare Heavy Metal e fu lui a prestarmi quello che è stato il mio primo album Rock, un disco dei Deep Purple. Qual-che tempo dopo il mio insegnante di musica e pia-noforte mi disse che a scuola stavano per vendere un vecchio drum kit ormai obsoleto, e lo acquistai io. Quindi ci siamo ritrovati a suonare insieme nella cantina di casa mia, e credo intorno al 1987 (alla tenera età di 13 anni! NdA) formammo una Death Metal band chiamata Eruption.

Che mi dici dei demo che avete registrato? esiste veramente una cassetta con le vostre prime regi-strazioni che avete inviato alle etichette? Avete rehearsal tapes della vostra attività in studio? Sì, ci sono alcune cassette in giro ma non so esat-tamente dove si possano trovare ora. Utilizzavamo anche la radio che mia madre teneva in cucina per registrare, quindi puoi immaginare che suono pos-sano avere!

andersnordin

brazilian chronicles

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photo of unknown origin 1 ::

Non mi sono mai divertito tanto quanto quella vol-ta che siamo andati a casa sua. Ci ha mostrato un filmato di due comici inglesi... hai presente il loro tipico “English humour”? Eravamo letteralmente piegati dalle risate, we were litteraly on the floor laughing trying to get air!Di Dan ricordo con piacere quando abbiamo regi-strato i brani degli Steel; credevo sarei morto dal ridere quando l’ho visto cantare.

E questa fantomatica traccia per pianoforte e chi-tarra [acustica?] che hai registrato con Mikael? Hai una registrazione di quella canzone? A quan-to ne so, l’avete registrata, ma alla fine non ci fu tempo in studio per lavorarci sopra, e quindi è ri-masta da qualche parte senza che nessuno l’abbia più ascoltata.Avevamo intenzione di metterla su Morningrise, ma come hai detto tu il tempo a disposizione termi-nò, sia per Orchid che per Morningrise non ce ne fu molto a disposizione. A volte mi chiedo, ripensando a quei tempi, come abbiamo fatto a registrare i due album in quelle poche settimane.So che Mikael ha utilizzato parti di quel brano nel-le composizioni dei dischi successivi, ma non l’ab-biamo mai registrata su cassetta.

Quale fu il tuo contributo al songwriting?Ho scritto alcuni riff al pianoforte, che poi abbia-mo trasferito su chitarra, il secondo riff di ‘In Mist She Was Standing’ ad esempio è opera mia! Ma il contributo principale fu in generale dato dal fatto che suonavamo tantissimo, a volte anche 4-5 giorni a settimana. Mikael arrivava con dei riff già pronti, oppure semplicemente ci trovavamo a jammare in sala prove, fino a quando un nuovo riff spuntava fuori, e noi lo aggiungevamo immediatamente ai brani. È così che in pratica sono nati ‘Orchid’ e ‘Morningrise’

Ho visto quelle che sarebbero dovute diventare le foto promozionali per ‘Morningrise’, foto in cui correte nei campi o camminate sulle rocce, insieme ad altre immagini più oscure scattate nei boschi. Ricordi qualcosa di quei momenti, il luogo in cui furono scattate, il fotografo ingaggiato...Tutto quello che ricordo di quelle photo sessions è che abbiamo trascorso una giornata in una foresta poco distante da Stoccolma, per scattare appunto le foto per l’artwork di ‘Morningrise’... ed infatti una di quelle è proprio la cover del disco [ehm... non è proprio così NdA]! In pratica andavamo in giro senza seguire una particolare direzione, men-

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:: photo of unknown origin 2

tre il fotografo - non ricordo chi fosse - ci ripren-deva.Ricordo anche che non fu il massimo del diverti-mento per me, perché ero appena arrivato dal Bra-sile, e volevo soltanto tornarmene a casa.

Questa domanda non posso non farla: perché un giorno hai abbandonato la band, tornando in Brasi-le? So solo che la band ha mandato via il bassista (Johan DeFarfalla), tu sei andato di tua volontà, e che in quel momento gli Opeth erano ad un pas-so dalla fine dopo due soli album. Sei mai tornato in Svezia per incontrare nuovamente Mikael e la band? Cosa hai fatto in questi 10 anni e cosa stai facendo ora?Quando lasciai gli Opeth ero in un periodo partico-larmente difficile della mia vita: avevamo lavorato duro per portare la band a quei livelli, avevamo due album all’attivo ma non vedevo alcun ritorno per i miei contributi. Così partii per due mesi di vacanza in Brasile, ed una volta là decisi che avrei voluto restarci. Chiamai Mikael, e ci rimasi davvero male quando mi disse di Johan!In realtà ci ho messo quasi tutti questi anni a tra-sferirmi, perché dovevo tornare in Svezia per l’uni-versità, e quindi rincasare.

Dal 2004 vivo in Brasile, e sto ora cercando di en-trare nella squadra nazionale di ciclismo, e sto stu-diando ancora, insomma, cerco di far carriera!

Cosa pensi degli Opeth adesso? Pensi a volte di es-sere dispiaciuto per averli abbandonati, visto che ancora oggi scrivono ottima musica e vanno in tour ovunque?Non ho parole per descrivere quanto io sia felice per il successo che hanno gli Opeth oggi, credo che si meritino ciò che hanno, senza contare che effet-tivamente la loro musica è davvero ottima!Tuttavia, non ho nessun rimpianto per aver lascia-to la band.

Ti sei mai accorto che ‘Morningrise’ è considerato da molti uno dei migliori metal album di sempre?Haha, mentre registravamo sentivo che si trattava di qualcosa di diverso da qualsiasi altra, ma quan-do leggo o sento le opinioni della gente non avrei mai creduto che sarebbe arrivato ad avere tanta considerazione!Ma è bello sapere di averci suonato, è sempre qual-cosa in più che avrò da raccontare ai miei nipoti!

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Altro festival nordeuropeo, altra avventura! Il pe-riodo pasquale si era rivelato straordinariamente denso di concerti, ed inizialmente i miei diabolici piani prevedevano, oltre al Close-up Festival, anche i The Gathering, che avrebbero suonato ad Ambur-go il 19 aprile, ed il Roadburn Festival olandese, evento di New Heavy Psychedelia. Abbandonata l’idea di uno sconfinamento nella terra dei tulipa-ni, ed annullato il concerto di Anneke & soci, non restò altro che godere di due intense giornate di musica, in una capitale svedese finalmente abbrac-ciata dai colori della primavera.

Il festival prende nome da una rivista di settore, come se dalle nostre parti esistesse un Metal Ham-mer od un Rockerilla Festival, e quest’anno gli hea-dliner erano proprio loro, gli Opeth, che hanno chiu-so salutato i presenti con uno show di due ore.Non mi dilungherò sul tedioso ed inutile confron-to tra le organizzazioni estera e quella nostrana; due erano i luoghi principali in cui si sono tenuti i concerti – più una terza location per le band mi-nori - separati da mezzo chilometro di strada che costeggia il fiume e che offre una veduta panora-mica della città a dir poco eccezionale. A comple-tare il quadro, il ‘Rocks’, un locale distante poche

centinaia di metri, meta di appassionati di sonori-tà Heavy e degli stessi musicisti svedesi… tanto per fare un paragone: come se a Roma Novembre, Klimt 1918, En Declin ed altri si ritrovassero pun-tualmente nei weekend davanti al solito bancone per una birra tra amici di vecchia data.

Solo qualche individuo vestito di nero mi indica la strada verso il Münchenbryggeriet, l’edificio che ospita il main stage, ma nel tardo pomeriggio la zona avrebbe cominciato ad affollarsi considere-volmente.

Spetta ai Cult of Luna aprire le danze, compito non facile. Il pubblico nordico è già freddo di suo, e l’at-mosfera si scalda solo dopo parecchi minuti. I per-sonaggi sul palco del resto non si impegnano nella ricerca di un contatto con l’audience: nessuna presentazione, nessun cenno, le uniche attenzioni sono rivolte ai propri strumenti, messi a tacere con disarmante puntualità rispetto alla tabella di marcia. Peccato, perché il concerto aveva giusto cominciato a decollare, con una lunga ed ipnotica progressione Sludge-Core finale. Glaciali, quanto è vero che provengono da Umeå, città svedese al di sopra del circolo polare artico.

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Seguono gli Evergrey. Mi aspettavo composizioni lunghe ed articolate, ed invece loro rispondono con dei brani brevi e d’impatto, una sorta di via di mezzo fra Thrash e Power, senza dubbio frutto del-la svolta stilistica impartita dal recente ‘Monday Morning Apocalypse’. I suoni ancora non rendono giustizia alla musica, ma questa sarà una pecca del festival intero, che penalizzerà in particolare Ka-tatonia e Satyricon. Evergrey, dicevamo: una band sorridente, felice di ammiccare ai propri fans, rico-nosciuti tra la folla delle primissime file.

Durante lo show dei Krux qualcosa non va: il bas-sista mi ricorda un certo Leif Edling… una rapida ricerca in rete conferma che effettivamente si trat-ta proprio della stessa persona! Non è un caso allo-ra che il Doom Metal del quintetto ricalchi talvolta in modo impressionante la musica dei Candlemass. La voce del cantante riccioluto Mats Levén non raggiunge certo l’espressività di Messiah Marco-lin, ma l’esibizione è comunque ottima, meno dram-matica e carica di tensione, ma pregna di energia.

Si avvicina la sera, e commetto forse l’errore più grosso di questa mia partecipazione al festival; resto in attesa dello Katatonia, saltando il concer-

to dei Khoma, previsto in un’altra location quasi in contemporanea. Un vero peccato, perché come avrei scoperto solo qualche giorno più tardi, il loro ‘The Second Coming’ è nientemeno che un must per gli amanti delle sonorità a-là Dredg, condite in questo caso con quel feeling nordico che solo gli scandinavi DOC sanno infondere nella propria mu-sica.

Tanto vale allora godersi i Katatonia, nel loro primissimo concerto in supporto all’ultimo ‘The Great Cold Distance’. Una prestazione che, a cau-sa di un’equalizzazione scandalosa ed in ogni caso di una prestazione sotto le righe, delude non poco, data la caratura della band in questione. Molto, molto meglio avrebbero fatto l’8 maggio scorso, presso il Rainbow di Milano, in compagnia dei No-vembre.

Ecco quindi spuntare dal fumo diffuso dal palco i Deathstars, e so già che ci sarà da divertirsi parec-chio. L’atmosfera è già carica poco prima dell’ini-zio, ma esplode letteralmente con le primissime note. In un mix tra i Rammstein più elettronici e gli HIM – anche per quanto riguarda l’atteggiamento del cantante-frontman – i Deathstars non hanno

:: deathstars

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nessuna pretesa di rivoluzionare alcuna scena mu-sicale, ma semplicemente di intrattenere un folla indiavolata, sottoscritto incluso, nel miglior modo possibile: missione compiuta.

Finalmente mi sposto dall’area principale verso il palco più piccolo del Kolinsborg, e nel mio bre-ve tragitto ammiro la città illuminata su cui sono ormai calate le tenebre. Uno scenario del tutto contrastante con il Metalcore selvaggio dei Raging Speedhorn, protagonisti dell’ultimo bel concer-to della giornata, poiché i Satyricon si sarebbero dimostrati ampiamente evitabili. Un gruppo che ormai si ritrova anacronisticamente sospeso nel limbo del Black Metal, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Tra una ‘Mother North’ total-mente incomprensibile ed i retaggi Rock’n’Roll portati a galla con l’ultimo ‘Now, Diabolical’, Satyr e soci tengono fede alla loro cosiddetta attitudine misantropica, fuggendo frettolosamente dietro le quinte dopo un’ora scarsa. Il pubblico ringrazia comunque, mentre io preferisco pensare a cosa mi attende il secondo giorno.

Un secondo giorno che si apre con i Burst in gran spolvero. Non sembra vero di trovarsi di fronte alla

stessa band che ha supportato gli Opeth a Milano lo scorso dicembre, in quel frangente con scarsi risultati. Di certo risentirono della freddezza di un’audience che non aspettava altro che gli headli-ners. Il fatto di trovarsi a suonare in casa cambia decisamente le carte in tavola, e ci consegna uno show energico e carico di pathos.

Gli Amon Amarth hanno l’effetto di una colata lavi-ca travolgente, che per una lunga interminabile ora non pone alcun freno alla propria irruenza. Viking Metal, epico e devastante, senza cedimento alcuno. Curioso il corno che il panciuto singer innalza al cielo più volte, tra un inno e l’altro. Anche Thor e Odino oggi hanno avuto la loro parte.

È quindi il momento della vera rivelazione perso-nale di questa edizione del Close-Up. I Capricorns non sapevo chi fossero né che genere di musica proponessero, ma il nome dei Pelican che fa ca-polino nella scheda della band basta a spingermi nuovamente verso il Kolingsborg, e rivedere nuo-vamente l’oscurità abbracciare la metropoli. Inte-ramente strumentali, i Capricorns sono a dir poco eccezionali: musica che alterna momenti onirici ad altri più trascinanti, letteralmente da headban-

capricorns ::

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ging, in un discorso musicale ineccepibile. Il loro debutto ‘Ruder Forms Survive’ è stato pubblicato dalla Rise Above, etichetta del famigerato Lee Dor-rian. A buon intenditor…

È tempo di tornare sotto il main stage, e lo show dei Bolt Thrower, diretto e senza fronzoli, è solo una parentesi di attesa degli headliner. Durante il cambio di palco, non mi sembra vero che Per Wiberg, Peter Lindgren ed il nuovo entrato Martin Axenrot siano praticamente ignorati dai presenti, come se non li avessero mai visti nemmeno in foto. Segno con tutta probabilità del fatto che i die-hard fans hanno abbandonato gli Opeth da tempo, rinun-ciando a seguire i propri beniamini in un percorso ormai lontano dalle sonorità di ‘Orchid’ e ‘Mornin-grise’. E questa sensazione si avverte ancor più durante le ormai datate ‘The Amen Corner’ e ‘Un-der the Weeping Moon’.

Mikael Åkerfeldt ed i suoi compari sono ormai una macchina oliata, che funziona alla perfezione. Eccezion fatta per la perdita di Martin Lopez die-tro le pelli, che subiscono ora la carica taurina di Axenrot: un’energia che parecchia critica ha già additato come assolutamente dannosa, in sede live

ed in vista di un’ipotetico studio-album. Sarebbe però un peccato offuscare con queste chiacchiere l’atmosfera meravigliosa e festosa che ha concluso una manifestazione eccezionale, che ha goduto di un’organizzazione ineccepibile. Chi ha ammirato gli Opeth in Italia, sappia che ben poco è cambiato in questi cinque mesi: Mikael continua ad alterna-re le canzoni della sua band con le proprie battute da presentatore televisivo, questa volta condite da un quiz musicale in cui gli spettatori sono stati in-vitati ad indovinare alcuni brani – tra i classici di Black Sabbath, Deep Purple e Guns n’Roses – a par-tire dai loro riff portanti. E prosegue anche quella capacità incredibile di tenere il palco, di suonare brani di dieci minuti con la stessa disinvoltura con cui si beve un bicchier d’acqua, quel continuo sor-ridere e trasmettere la propria felicità ai fans in estasi.

In definitiva, un piccolo grande evento. Che dimo-stra ancora una volta la superiorità nordica ri-spetto a certe manifestazioni nostrane. Fateci un pensierino, all’avvicinarsi delle prossime vacanze di Pasqua: a volte non accontentarsi è un bene!

:: opeth

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Ha voluto fare le cose in grande la Liveinitaly, che per festeggiare i 10 anni del Gods of Metal ha de-ciso di organizzare un’intensa 4-giorni in cui ogni appassionato ha avuto la sua parte di divertimento e di polvere. Già, poiché era inevitabile nelle prime file era praticamente inevitabile respirare un’aria decisamente pesante, di vere e proprie tempeste di sabbia sollevate dalla foga dei metalheads! A “Pain Necessary to Know”, quello sofferto dagli spettato-ri, sottoscritto compreso, che non hanno neppure potuto godere delle vicine rive del lago dell’Idrosca-lo milanese.Ma passiamo alla musica. I festival portano con sé pregi e difetti; il pregio, ad esempio, di offrire una vasta gamma di performance nell’arco di una sola giornata, ed il difetto di far suonare per un tempo limitato e sotto il sole cocente gruppi che meriterebbero spazi ed atmosfere ben diverse. Per questo motivo, nel primo giorno del Gods, non ho rimpianto il non aver assistito alla performance mattutina degli Amorphis, e dopo aver ignorato brutalmente Satyricon e Sodom mi avvicino al pal-co per i Nevermore. La band americana si ritrova senza Steve Smyth, ricoverato per insufficienza re-nale, e durante gli assoli di Warrel Dane l’assenza di una chitarra ritmica si fa sentire. Non conten-

ta, la sfortuna regala al cantante Warrel Dane un microfono che funziona a singhiozzo, ma i quattro sul palco ce la mettono comunque tutta per offirire uno show degno del proprio nome, un marchio che da diversi album a questa parte non sbaglia un col-po. Curiosa l’introduzione di Warrel alla title-track dell’ultimo ‘This Godless Endeavour’, che cita due grandi tormentoni made in USA:”We’re going to play the longest track on that album, it’s called ‘Freebird’, ‘In-A-Gadda-Da-Vida’”!E’ quindi il turno dei Testament che, tornati da diversi mesi nella formazione originale, decidono di impostare la scaletta esclusivamente sui primi quattro dischi. Quando li vidi allo Sweden Rock nel 2004 mi stregarono letteralmente coi brani di ‘The Gathering’, ma vista la classe sciorinata non è dav-vero il caso di lamentarsi. ‘Into The Pit’, ‘Disciples Of The Watch’, ‘Burnt Offerings’, ‘Over The Wall’ e ‘Souls of Black’ sono tra le bordate inflitte dal quin-tetto all’audience. Il redivivo Alex Skolnick è lette-ralmente scatenato, e col senno di poi si potrebbe quasi affermare che non stesse aspettando altro che questa reunion per tornare in pista.I Down devono solo ringraziare la presenza di Phil Anselmo, a garantire un terzultimo posto nel bill della prima giornata. Autori di due soli album di

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Hard Rock sudista imbastardito dal sound dei Pan-tera che furono e dall’inconfondibile voce di Ansel-mo, guardano quasi esclusivamente al loro esordio, con ‘Losing All’, ‘Hail The Leaf’, ‘Underneath Eve-rything’, ‘Eyes Of The South’, ‘Bury Me In Smoke’. Un buon concerto, ma Anselmo perde troppo tempo a chiacchierare piuttosto che a cantare, innervo-sendo più volte i presenti.Ai nostri Opeth spetta il compito di sostituire i Dimmu Borgir, prima dell’avvento degli headliner Venom. La signing-session, tenuta nel primo pome-riggio, è un esempio lampante di disorganizzazione cronica, quella che distingue gli eventi nostrani da quelli esteri: decine di persone ammassate contro gli stand di Metal Hammer e Rock Hard, nel tena-tivo di rubare un autografo e qualche foto. Per non parlare di chi si è lamentato dei suoni, troppo sca-denti per una band come gli Opeth. Chi partecipa ad un festival dovrebbe pensare soltanto a diver-tirsi! ‘The Grand Conjuration’, ‘White Cluster’, ‘Clo-sure’, ‘The Leper Affinity’, ‘Deliverance’ e ‘Demon of the Fall’, questi brani offerti; chi li conosce lo sa, le prestazioni migliori gli Opeth le offrono da hea-dliner, nell’intimità di un locale, ma è anche vero che difficilmente si rinuncia ad un’occasione in più per poterli rivedere.

Il secondo giorno coincide con la Festa della Repub-blica, ed è perciò prevista una carrellata di artisti tutti italiani, e tra i gruppi saliti sul palco quel gior-no, meritano menzione particolare gli ultimi due.I primi si chiamano Fire Trails, e sono capitanati da Pino Scotto, un personaggio schietto, irritante e presuntuoso, ma che ha vissuto sulla propria pel-le il bistrattamento che ancor oggi l’Hard&Heavy subisce in Italia. Così infatti introduce ‘Streets Of Danger’:”Ho scritto i testi di questa canzone vent’anni fa, sapendo che in questo paese di mer-da non ci sarebbe mai stata alcuna possibilità per questa musica… oggi posso dire che effettivamen-te non è cambiato un cazzo!”. Lo show, che si con-clude con la cover di ‘Long Live Rock’n’Roll’ dei Rainbow, è solido e grintoso, e pesca dal cappello delle nuove composizioni, così come da quello delle canzoni storiche.Ed ancor più avvolto nella leggenda è il caso Strana Officina. Della band che circa venti anni fa diede alle stampe un omonimo ep cantato in italiano (!!!), un secondo mini intitolato ‘Ritual’ e l’unico full-length ‘Rock’n’Roll Prisoners’ sono sopravvissuti il bassista Enzo Mascolo ed il cantante Daniele “Bud” Ancillotti, al fianco dei discendenti dei fra-telli Cappanera, alla chitarra ed alla batteria, che

:: strana officina

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persero la vita in un incidente stradale nel lontano 1993. Grandissimo concerto, da parte di una band talmente affiatata da non sembrare vero, ed anche gli spettatori in estasi si accorgono ben presto di assistere a qualcosa di più unico che raro.Un evento che dovrebbe anche far riflettere, per-ché Fire Trails, Strana Officina, uniti ad esempio alla recente reunion dei leggendari Dark Quarterer, sono forse il segnale di un business che preferisce comunque puntare sulle vecchie glorie, piuttosto che sui nomi nuovi della scena italiana.

Perso per strada il terzo giorno di Gods of Metal, non resta che avviarci verso il conclusivo 4 giu-gno; l’ampio spazio a disposizione viene riempito a dismisura, e vista la popolarità dei nomi coinvolti c’era da aspettarselo eccome!Partiamo coi redivivi Alice in Chains, sul cui ritor-no si potrebbe discutere per secoli senza giunge-re ad un’effettiva conclusione; ciò che veramente importa è che la band convince non poco: Jerry Cantrell suona con una seplicità disarmante ‘Them Bones’, ‘Dam That River’ ed altri brani che resero ‘Dirt’ un disco immortale. William DuVall, il nuovo cantante, si rifà ovviamente al compianto Layne Staley, ed il risultato è decisamente sorprendente.

Il derby Nu-Metal tra Deftones e Korn vede i se-condi netti vincitori; Chino Moreno si agita man-co fosse posseduto, ma nel complesso lui ed i suoi colleghi non riescono a coinvolgere come Jonathan Davis e soci, che si presentano on stage con una scenografia da urlo, maschere da animali, e con un’energia impressionante: le hit di ciascun disco vengono passate in rassegna, ed i brividi scorrono a fiumi!All’appello manca solo lui, Axl Rose. La preparazio-ne del palco è talmente lunga da far credere che si tratti di uno scherzo, ma ogni dubbio viene fugato quando la band compare finalmente dalle quinte, sulle note di ‘Welcome to the Jungle’. Vale per cer-ti versi lo stesso discorso degli Alice in Chains: il marchio di fabbrica conta più dei musicisti, e quel-lo che conta oggi per migliaia di persone è poter spezzare un’attesa durata lunghi, interminabili anni. La discografia dei Guns non è certo stermina-ta, ed è quindi ‘Appetite for Destruction’ l’obiettivo principale, affiancato dalle canzoni del fantomati-co ‘Chinese Democracy’ e da inutili presentazioni dei musicisti a suon di sterili solismi. Nel bene e nel male, una chiusura di festival più che dignito-sa, valsa sicuramente le fatiche e le interminabili attese dei fan più accaniti.

guns n’roses ::

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L’ho inseguita a lungo questa intervista, che sareb-be dovuta comparire sulle pagine di Metal Hammer. Trascorsero invece i mesi, senza alcuna novità, da quel 1° giugno 2006 in cui il mio socio Filippo fu incaricato di rintracciare Mikael Åkerfeldt nel backstage del festival, e di sottoporlo ad una rapi-da carrellata di domande. Ed il resoconto di quella breve chiacchierata torna guarda caso indietro nel tempo, nel 1996, anno cruciale nella storia degli Opeth.

Martin Lopez, il vostro batterista, lo vedo sempre più lontano dalla band.Infatti ha lasciato gli Opeth.

Per quale motivo?È rimasto inattivo per parecchio tempo, non ha suo-nato con noi durante gli ultimi 5 o 6 tour; è stato molto male a lungo, e credo che durante tutti quei mesi abbia cominciato a chiedersi se per lui fosse

ancora possibile proseguire con noi. Gli Opeth la-vorano ormai a tempo pieno. Credo sia giunto alla conclusione di potercela fare, e che preferisca ora dedicarsi al suo progetto personale, di cui però non so dirti nulla, non so di che si tratti. Penso che ora sia tornato a casa, in Uruguay.

Ma sappiamo bene che Lopez è stato preceduto da Anders Nordin. Cosa puoi dirmi di lui oggi?Sai, Anders ha abbandonato gli opeth in un periodo in cui per noi suonare non era ancora un lavoro vero e proprio, e capisci che con Lopez la situazio-ne era ben diversa. Anders se n’è andato per prose-guire gli studi, e trovare un lavoro adeguato.

Dovrebbe trovarsi in Brasile, ora, se non sbaglio.Può essere, sono anni che non lo sento; di certo il suo trasferimento in Brasile è stato uno dei motivi per cui ci ha lasciati.

Quindi non avrai nemmeno idea di cosa stia facen-do ora...In effetti, è così. Io lo considero ancora un amico, ma non abbiamo più nessun tipo di contatto.

Vi ho visti svariate volte in concerto, e parlando

the gods of metal interview

Intervista raccolta da Filippo Paganie sbobinata da Eugenio Crippa

:: mikael intervista filippo :: 17/02/2003, transilvania live, milano

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con più persone che apprezzano la vostra musica, non ho potuto che riscontrare un generale attacca-mento alle sonorità dei vostri esordi, ed anche ad un altro elemento chiave del vostro sound, Johan DeFarfalla.Siamo stati noi a cacciare Johan dalla band, sta-volta. Decisamente non eravamo sulla stessa lun-ghezza d’onda, e non lo definirei proprio un vero appassionato di Death Metal. Prima di entrare ne-gli Opeth suonava in un gruppo Glam Rock.

Non uccidermi se ti dico che alcuni suoi passaggi mi suonano un po’ Funky...Certo, probabilmente all’epoca il suo background musicale era qualcosa di veramente unico, e noi avevamo un bassista che... sapeva suonare il suo strumento! Non ho mai messo in discussione le sue abilità, ed era anche un buon ragazzo; purtrop-po avevamo idee musicalmente opposte. Quando cominciammo a ragionare sul nostro terzo disco, mentre io lo avrei voluto ancor più heavy dei pre-cedenti, lui puntava a qualcosa di molto più soft. Ma nel frattempo erano nati anche dei contrasti a livello personale, perciò abbiamo deciso di mandar-lo via perché sentivamo che le cose cominciavano a volgere per il verso sbagliato. Tutti si innervosi-vano in sua presenza. Era comunque un buon bas-sista, ma non ho idea di cosa stia facendo adesso, non l’ho più incontrato da allora.

Come siete entrati in contatto con Martin Axen-rot?Quando Lopez non era più in grado di suona-re con noi, Patrick Jensen dei The Haunted ci disse:”Dovreste provare questo ragazzo, è davvero bravo, ci ho suonato insieme nei Witchery”, e così è stato. Abbiamo suonato anche con Gene Hoglan, ma lui è membro fisso degli Strapping Young Lad, e non abbiamo mai pensato di inserirlo stabilmente nella nostra line-up. Ci serviva qualcuno che potesse de-dicare tutto il proprio tempo agli Opeth. Axenrot ha suonato con noi negli ultimi cinque tour, è andata molto bene con lui, ed ora è parte della band.

Ricordo bene il vostro concerto dello scorso dicem-bre al Rolling Stone di Milano, mi sembra che il ra-

gazzo abbia fatto un buon lavoro, e che non abbia particolari problemi di apprendimento.In effetti impara abbastanza in fretta. Al momento suona musica scritta da altri, e credo che abbia im-parato l’intera nostra scaletta da concerto in soli cinque giorni; alla fine si è solo trattato di perfezio-nare il tutto perché suonasse al meglio. Credo che prima avesse idea di chi fossero gli Opeth, ma che non conoscesse in modo approfondito la nostra musica. Negli Opeth non si tratta di suonare il più velocemente possibile, ma di dare sempre il meglio di sé. Entrambi i batteristi precedenti possedevano un proprio stile, e credo che ad Axenrot interessi proseguire un discorso del genere.

Cambiamo argomento ora: qualche giorno fa mi ha contattato il tuo amico Stefan Dimle, bassista dei Paatos, per un’intervista. Non sapevo che lavoras-se al ‘Mellotronen’.Non solo, è anche il proprietario di quel posto. Al-l’inizio era un Rock club, poi è stato trasformato in un negozio di dischi ed un’etichetta discografica.

Tu lavori ancora al ‘Mellotronen’?Well, non sono mai stato ufficialmente assunto, ci lavoravo solo nel tempo libero. Ma negli ultimi due anni gli Opeth sono sempre stati in giro per concer-ti, ed il mio tempo libero è ormai ridotto a zero.

Non hai mai pensato di realizzare un nuovo pro-getto con lui?Ti confesserò che Stefan fu contattato anni fa dagli Opeth per sostituire Johan DeFarfalla. Ma lui dieci anni fa aveva già una famiglia con due figli a cui ba-dare; quindi non gli fu possibile trovare del tempo anche per noi, soprattutto dopo che gli fu detto che avremmo suonato parecchio dal vivo. Devo dire che è un ottimo compositore, e personalmente adoro il modo in cui suona il basso.Tornando ai progetti paralleli, in molti continuano a chiedermi se e quando mai riuscirò ad avviare un qualche side-project; in realtà solo ad uno vor-rei dedicare le mie future attenzioni: tale attività prevede la collaborazione di Steven Wilson, ma proprio non ho idea di quando si potrà veramente realizzare.

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Si può dire che probabilmente Stefan Dimle non avrebbe potuto conciliare la sua passione per il Progressive scandinavo con l’Heavy Metal degli Opeth?Non ne sarei tanto certo, perché suonare il basso negli Opeth significa semplicemente conoscere molto bene il proprio strumento, non solo ascolta-re un certo genere di musica. Martin Mendez, ad esempio, he lifts the music, you know! E credo che valga lo stesso per Stefan. C’è un legame profondo tra basso e batteria negli Opeth, qualcosa che in molti sembrano oggi dimenticare o trascurare.

Avete scritto del nuovo materiale dopo la pubblica-zione di ‘Ghost Reveries’?Io ho scritto giusto un paio di riff, ma non ho deci-samente tempo in questo periodo. Presto trasloche-rò, pensa che solo ieri ho firmato un contratto per

la mia nuova casa. Al momento io e la mia famiglia abbiamo solo un misero trilocale, ed il mio studio è ormai troppo piccolo per me. Perciò non ci sono at-tualmente a casa mia le condizioni giuste per lavo-rare come si deve; ma non appena traslocato potrò concentrarmi sulle nuove composizioni, credo che potremmo registrare un nuovo album intorno alla fine dell’estate del prossimo anno.

Ciò non farebbe che confermare la vostra attuale media di un disco ogni 2 anni circa.Sì, e lo devo anche alla pressione delle etichette discografiche; altrimenti sono sicuro che la mia pi-grizia mi porterebbe a dilatare i tempi a dismisura. Senz’altro ho intenzione di scrivere un nuovo al-bum, ma non chiedermi in che direzione ci muove-remo stavolta, non saprei proprio dirtelo. Staremo a vedere!

:: opeth :: gods of metal, 01/06/2006, idroscalo, milano

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Mentre sedevamo nel furgone che ci portava ai Fa-scination Street Studios di Örebro sentivo effetti-vamente dentro di me che avremmo realizzato un grande album! Non prendetemi per presuntuoso, piuttosto, concedetemi un minimo di confidenza nelle mie potenzialità, e considerate il fatto che a me piace scherzare molto. Ad alcuni probabilmen-te sembrerò uno stronzo a cui piace tirarsela, ma si tratta di gente che non mi conosce veramente, e che probabilmente non sa la più grande forma di divertimento sulla faccia della terra si chiama ironia.

Tornando a noi, Peter, Per, Mendez e Lopez erano anche loro abbastanza sicuri di sé, credo addirit-tura a proprio agio, in quella situazione. Durante gli ultimi tour abbiamo discusso molto, riguardo il futuro della band, le etichette, gli errori che abbia-mo fatto e così via. Un grosso problema era il fatto che per gli ultimi tre o quattro dischi non eravamo assolutamente pronti ad entrare in studio. Di tutte le 16 canzoni che sono state effettivamente regi-strate per ‘Deliverance’ e ‘Damnation’ (di cui solo 14 sono state poi incise) nessuna di esse era stata scritta, ed una volta soltanto abbiamo provato un singolo riff! Ad essere sincero, credo che alcuni dei

nostri dischi abbiano beneficiato di una certa spon-taneità in fase di scrittura durante le registrazio-ni, e lo stesso vale per D&D, anche se in effetti sono due dischi per i quali è stato necessario lavorare il doppio! Fu troppo per me come songwriter così come lo fu per il resto della band, ed ho giurato di non ripetere mai più una cosa simile in futuro. Lo stress di quei giorni ci ha quasi ucciso!

Per ‘Ghost Reveries’ abbiamo suonato insieme per quasi quattro settimane, e solo due canzoni non erano ancora state completate nel momento in cui abbiamo varcato la soglia dello studio di registra-zione, il 18 marzo 2005. Volevo che lavorassimo almeno una volta come una band professionale, non come dei tizi qualsiasi che sperano nel meglio. E sono contento che sia andata così. Registrare ‘Ghost Reveries’ è stato anche piacevole e... diver-tente! Dovevamo solo dare il meglio di noi e regi-strarlo su nastro... ehm, su computer, tutto qui!

C’erano diverse novità in casa Opeth. Innanzitutto l’entrata di un nuovo musicista: Per Wiberg. Pro-prio in quel periodo stavamo per firmare un nuovo contratto mondiale con la Roadrunner Records: nuovo studio, nuovo ingegnere del suono. Ricor-

ghost reveriesdeluxe edition

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do come molti dei nostri fan fossero preoccupati di possibili cambiamenti nella nostra musica una volta firmato per la Roadrunner. Ebbene, ora sa-pete che nulla è cambiato. Non siamo interessati agli aspetti commerciali ed in definitiva l’intero lato affaristico delle cose non ci riguarda. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di concentrarci sulla musica, solo sulla musica. Non abbiamo fir-mato il contratto prima che l’album fosse pronto, quindi non c’è stata nessun tipo di pressione da parte della Roadrunner. Ma non credo che fossero preoccupati per questo. Mike Gitter (a cui abbia-mo consegnato il contratto) è venuto a trovarci e ad ascoltare il disco. Ricordo mentre si gongolava come un ragazzino non appena ‘Ghost of Perdition’ tuonò fuori dalle casse. Penso che fosse abbastan-za contento del suo nuovo acquisto.

Solitamente preferiamo allontanarci da Stoccolma quando si tratta di registrare un album, poiché vogliamo estraniarci dalle fatiche quotidiane della vita normale. Voglio che in quel periodo di tempo tutte le nostre forze siano convogliate nelle regi-strazioni, e che la vita di famiglia sia letteralmente sospesa fino al termine dei lavori. I Fascination Street si dimostrarono un’ottima scelta. Abba-

stanza vicini a casa, ma lontani a sufficienza per offrire tranquillità ed ispirazione. Inoltre, in quel posto non avevamo altro da fare che lavorare. Jens Bogren (l’ingegnere del suono) si rivelò un’ottima persona ed uno dei produttori più professionali (e pignoli) con cui avessimo mai lavorato. La gente crede che siamo dei perfezionisti; ripensateci, per-ché Jens è la madre (sì, la madre) dei perfezioni-sti! Ci ha fatto lavorare più duramente di quanto abbiamo mai fatto prima... spingendoci veramente al limite delle nostre possibilità. A volte ho richiato di incazzarmi seriamente con lui, ma dannazione, alla fine ne è valsa la pena! A rendere il nostro soggiorno migliore avevamo il nostro chef perso-nale a disposizione... insomma, più o meno. Fredrik Odefjärd, che ha filmato il documentario incluso in questa edizione, è anche un cuoco in erba. Ci ha nu-triti con cibarie di qualsiasi genere, e sono sorpre-so di non essere ingrassato in quei mesi. Vivevamo quasi come una vera famiglia. Io avevo il compito di lavare i piatti... adoro queste cose!!!

Per quanto riguarda i testi, avevo intenzione di scrivere un concept maturo e pretenzioso basato su una storia romanzata e dalle forti radici occul-te. Ho studiato la raccolta di libri sull’occulto di

:: travis smith :: the new artwork

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mia moglie, e ne ho tirato fuori un breve soggetto. L’idea era quella di associare ad ogni canzone una diversa fase della possessione demoniaca. Niente che abbia a che fare con Linda Blair, piuttosto con la falsa credenza del personaggio principale di es-sere posseduto, e di come tutto e tutti si rivoltino contro di lui. Tutto è proceduto alla perfezione, fino a quando non ho scritto i testi di ‘Isolation Years’, del tutto estranei al concept iniziale. Ma ero tal-mente soddisfatto di quelle liriche da decidere ad-dirittura di abbandonare l’idea iniziale. La sequen-za finale dei brani ha comunque dato un senso al racconto, ed inoltre ho notato che ogni singola can-zone ha una propria consistenza, indipendente dal concept di base. Perciò, magari la prossima volta...

Come bonus, abbiamo incluso un documentario di 40 minuti incentrato sulle registrazioni di ‘Ghost Reveries’ e su una panoramica generale sulla vita degli Opeth e dei suoi componenti. Non solo, trove-rete anche il “Director’s Cut“ del videoclip di ‘The Grand Conjuration’ ed una cover dei Deep Purple che abbiamo alla fine registrato. ‘Soldier of Fortu-ne’ è la ballad definitiva, ed anche se penso che la versione originale sia dieci volte meglio, amo trop-po quella canzone ed avevamo semplicemente il

dovere di registrarla.

Ad un anno di distanza, non sono in grado di spie-garvi a parole quanto sia contento di questo disco. Ogni tanto lo ascolto ancora, e credo che si ritagli il suo spazio a fianco delle nostre release preceden-ti, un prodotto più che degno del marchio Opeth. Credo contenga alcune tra le nostre migliori per-formance e canzoni, nonché la miglior produzione che abbiamo mai avuto. Sono solo preoccupato del fatto che il nostro prossimo disco possa sfigurare al confronto.

Con queste parole, il leader degli Opeth introduce la Deluxe Edition di ‘Ghost Reveries’, pluri-rimandata ed ora finalmente nei negozi. Ricordo bene i giorni trascorsi sotto la pioggia al Wacken Open Air 2005, quando la redazione di advent ‘zine - che all’epoca non era ancora nata - incontrò Mikael in persona nel backstage del festival, presente in veste di can-tante dei Bloodbath. E lo sanno bene anche i no-stri lettori, poiché nel primo numero è contenuta l’intervista realizzata in quell’occasione. Ricordo in particolare gli appunti di duefotografi belgi:”Ti

mikael åkerfeldt ::

Mikael Åkerfeldt6 maggio 2006

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ha già parlato dell’edizione speciale del disco? C’è da aspettarselo, da un’etichetta come la Roadrun-ner!”. Era il 4 agosto: ‘Ghost Reveries’ sarebbe uscito a fine mese, ma si trovava ovviamente su Internet già da tempo.

Ora che questa edizione speciale è nelle mie mani, posso solo dire che chi ha voluto aspettare, sapendo che prima o poi qualcosa del genere sarebbe stato pubblicato, non resterà deluso; chi invece possiede già l’album, forse difficilmente resisterà a questo secondo assaggio. La versione di ‘Soldier of For-tune’ qui presente non è la stessa registrata mesi or sono negli studi londinesi della BBC insieme a ‘When’ e ‘The Grand Conjuration’, poiché quel set di brani è rimasto inedito a causa di problemi di copyright. L’amore degli Opeth per quella canzone non per nulla nascosto, visto che ‘Soldier of Fortu-ne’ fu suonata in ciascuno dei concerti in supporto a ‘Damnation’, nel 2003.

Ciò a cui non accenna Mikael nelle note introdutti-ve sono le nuove illustrazioni di Travis Smith, come sempre eccellenti, presenti nel booklet. Mentre per quanto riguarda il documentario... si tratta ovvia-mente della parte più interessante. I più nostalgici

tratterranno a fatica qualche lacrimuccia nel vede-re Martin Lopez in azione sul palco, dietro le quin-te ed in studio di registrazione, e mentre il resto della band spieghi quanto sia difficile gestire una condizione in cui non si desidera assolutamente allontanare Lopez dagli Opeth ma ci sia bisogno al tempo stesso di un sostituto per poter suonare in giro per il mondo.

Le riprese iniziali della band in concerto e quelle a metà documentario risalgono allo Sweden Rock 2004, ed io ricordo ancora... era l’11 giugno, ed io ero là in prima fila, insieme al mio compagno d’av-ventura Filippo, altro opethfan di vecchia data - per inciso, l’autore dell’intervista a Mikael presente in questo numero. Quei filmati sono opera di Anders Nyström, chitarrista dei Katatonia, che riconobbi immediatamente non appena comparve alle spalle dei ragazzi della security. Il giorno dopo lo incon-trai insieme ai coniugi Åkerfeldt, dopo l’esibizione delle Heart. Fu la prima ed unica volta che ascoltai ‘The Moor’ dal vivo, e si trattava dell’ultimo con-certo della stagione, a precedere una lunga pausa: a settembre sarebbe infatti nata Melinda, e gli Opeth sarebbero tornati sul palco solo nel giugno 2005, a ‘Ghost Reveries’ ultimato.

:: martin lopez

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L’insuperato capolavoro degli Edge Of Sanity, ‘Crimson’, fu pubblicato nel 1996, lo stesso anno di ‘Morningrise’, e chi ha letto le note biografiche di ‘Orchid’ sa già che Mikael degli Opeth comparve come special guest. Ma l’occasione è quella giusta anche per riscoprire come l’Heavy Metal stesse muovendo dieci anni fa i primi passi nella neonata Internet.

Risale infatti al 12 agosto 1995 la pubblicazione del primissimo numero di ‘Chronicles of Chaos’, senza dubbio una delle primissime webzine, o me-glio, e-zine, dedicate al Metallo, creata da un giova-ne studente canadese. Nulla a che fare ovviamente con quanto proposto oggi in centinaia di salse di-verse: si trattava di un semplice file di testo, con-tenente interviste, recensioni e live report, come ogni rivista musicale che si rispetti, ricevuta tra-mite e-mail dagli iscritti. Tali reperti archeologici sono stati così riesumati, e faranno da guida nei prossimi paragrafi.Oggi contenuti vecchi - comprese le interviste da cui ho tratto spunto - e nuovi sono comodamente accessibili su www.chroniclesofchaos.com, ma i redattori non hanno perso il vizio di redigere mensilmente proprio quel txt-file, destinato come

sempre ai propri lettori virtuali, e che trovate ne-gli archivi del sito. Leggere quei documenti storici non è forse come sfogliare antichi volumi ottocen-teschi, eppure ha il suo fascino e rivela non poche sorprese. Ad esempio, non ricordavo affatto come nel biennio 1995-96 furono pubblicati quei dischi che ancora oggi in molti considerano i veri capola-vori di gruppi quali Anathema, Katatonia, Emperor, Therion, Paradise Lost, The Gathering, Dissection, Death, Amorphis, At the Gates, In Flames, Dark Tranquillity, Entombed, Type O Negative, Sepultu-ra, e la lista potrebbe proseguire a lungo. E non era decisamente la stessa cosa acquistare quei dischi freschi freschi di pubblicazione dopo averli attesi spasmodicamente, piuttosto che scaricarsi disco-grafie intere dal Web, come accade inevitabilmente oggi.

Il nostro viaggio nella preistoria delle webzine co-mincia con il numero 4 di ‘Chronicles of Chaos’ [no-vembre ‘95], dove un Dan Swanö particolarmente ciarliero mostra di avere le idee chiare sull’allora successore di ‘Purgatory Afterglow’. L’intervista-tore descrive la sua band, gli Edge of Sanity, come “tra le prime in ambito Death Metal ad avere un approccio più melodico ed armonioso a questa for-

the crimson affair

edge of sanity :: dread, dan swanö, sami nerberg, benny larsson, anders lindberg ::

edge of sanity

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ma d’arte”(1). Aggiunge Swanö:“Credo che siamo stati in grado di portare nuova linfa al genere so-prattutto grazie al mio background musicale, com-pletamente diverso da quello tipico. In molti hanno cominciato ascoltando Iron Maiden, passando poi a Metallica, Anthrax e Slayer, infine al Death metal. Ma io allora ascoltavo Genesis, Yes, Pink Floyd e roba simile. Quindi all’improvviso, all’incirca quan-do gli Slayer pubblicarono ‘South of Heaven’, per la prima volta percepii che questo genere di musica non doveva poi essere così brutto come pensavo. Poiché sono prima di tutto un batterista, ero affa-scinato dalla tecnica di Dave Lombardo, e da come potesse suonare tanto veloce. Quindi entrai in una band che suonava appunto musica a-là Slayer, cer-cando di migliorare progressivamente il mio ap-proccio alla batteria”(2).

Ma aggiungiamo qualche altro dettaglio, per inqua-drare un personaggio che non sarebbe sbagliato definire vero e proprio énfant prodige della sce-na estrema e non solo: difficile, se non letteral-mente impossibile, elencare tutte le presenze di Mr. Swanö in qualità di musicista e produttore in ambito musicale. I nomi da recuperare e da tener d’occhio assolutamente sono essenzialmente Uni-

corn, Nightingale, Bloodbath, ed Edge Of Sanity ov-viamente! Il polistrumentista svedese illustra così la sua giornata-tipo:”Quando mi sveglio la mattina ascolto musica alla radio mentre faccio colazione. Poi qualche secondo di silenzio mi accompagna mentre mi dirigo al lavoro. Quindi è di nuovo mu-sica. Torno a casa per pranzo, and it’s radio again. Quando lavo i piatti ascolto musica alla televisio-ne. Ed anche quando scrivo lettere o altro, c’è una piccola radio di fianco alla macchina da scrivere. L’unico momento in cui non ascolto nulla è men-tre dormo, in quel caso SOGNO la musica. It’s all around the clock!”(3).

Veniamo quindi a ‘Crimson’, che nell’autunno 1995 era un’idea che aspettava solo di essere finalmente concretizzata. “Quando gli Edge of Sanity si met-tono all’opera non ce n’è per nessuno, capita che scriviamo più materiale noi in due settimane di al-tre band in un anno intero. Dalla pubblicazione di ‘Purgatory Afterglow’ non è successo praticamente nulla. All’inizio di novembre ci chiuderemo nel mio studio per cinque giorni, per dar vita a quella che sarà la canzone Death Metal più lunga mai scritta, durerà 45 minuti o qualcosa del genere. L’intero disco sarà composto da quest’unica traccia, è una

:: dan swanö

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gran bella sfida. Vogliamo creare qualcosa di diver-so, ed avere un nuovo approccio alla scrittura del-l’album. Avremo cinque giorni per scrivere questa canzone, ci prenderemo poi un mese di pausa, e registreremo il tutto nel periodo natalizio”(4).

Ed ora viene il bello: parlando della possibile pre-senza di ospiti su ‘Crimson’, il buon Dan rivela, senza riportare nome e cognome, che in effetti “avremo un guest singer sul prossimo disco, ma non avrà una voce intensa come la mia. Canterà quelle parti che io sarei stato in grado di fare nel ‘91, mentre io canterò a modo mio, come so fare oggi. Suona in una band di cui ho prodotto un disco - ovvero, ‘Orchid’ NdA. la prima volta che lo sentii cantare, mi innamorai all’istante della sua voce. Non so come faccia, dev’essere programmabile. Può cantare qualsiasi tipo di Death vocals tu voglia. [...] Questo ragazzo ha la tecnica giusta, potrebbe pas-sare da un’imitazione di Sinatra al Death e vice-versa senza problemi, la cosa non gli reca alcun danno alla gola. Quindi, così come certa gente ha James Murphy come ospite su disco, noi avremo questo ragazzo che ci darà una mano”(5).

‘Crimson’ vede finalmente la luce nell’aprile 1996; solo il mese precedente gli Opeth l’avevano trascor-so proprio negli Unisound Studios di Dan Swanö, registrando ‘Morningrise’. I responsi di critica e

pubblico sono letteralmente entusiastici, e non a torto: è forse questo uno dei pochi casi in cui ha veramente senso parlare di capolavoro, di disco multiforme ed unico nel suo genere. ‘Crimson’ è un continuo alternarsi di parti tiratissime, ai confini col Grind e col Black Metal, e di momenti acustici ed atmosferici, uniti tra loro da bridge melodici in cui è più che mai evidente l’influenza progressiva di Swanö. Ospiti a parte, la line-up è quella ‘classica’ degli Edge of Sanity, che oltre ad un Dan tuttofare - chitarra, tastiere e voce, ma anche registrazione, produzione e missaggio - vede Andreas Axelsson e Sami Nerberg alle chitarre, Anders Lindberg al bas-so e Benny Larsson alla batteria. ‘Crimson’ è un concept album, a cui nel maggio ‘96 Axelsson forni-sce questa breve introduzione:”È una sorta di rac-conto futuristico. Quando io e Dan ci siamo seduti intorno ad un tavolo per discutere del mondo che avevamo intenzione di creare, lo ‘localizzammo’ in un futuro remoto, immaginando che la Terra fos-se morta migliaia di volte. Le donne non sono più in grado di partorire, e l’intera razza umana deve confrontarsi col pericolo di una rapida estinzione. Ma ad un certo punto arriva una giovane ragazza e...”(6) si tratta con tutta probabilità della stessa persona raffigurata sulla cover del disco, dove al centro un corpo femminile è imprigionato in un liquido cremisi.‘Crimson’, l’album più solido ed ambizioso realizza-

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(1,2,3,4,5) Chronicles of Chaos #4 08 nov 95 // (6) CoC#10 10 mag 96 // (7) CoC#19 09 apr 97 // (8) CoC#19 09 apr 97 // (9) http://www.ultimatemetal.com/forum/showthread.php?t=97854

to dagli Edge Of Sanity segna il punto di massimo splendore di una band che di lì a poco comincerà a sgretolarsi, a partire dalla perdita del pezzo più importante, l’instancabile e per molti versi inso-stituibile Dan Swano, che nel frattempo chiude gli Unisound, ed apre i Sanctuary Studios, destinati ad uso puramente personale. ‘Infernal’ esce dopo meno di un anno dal suo predecessore: si distin-guono immediatamente le composizioni più ariose di Dan da quelle ben più dirette degli (ex-)compa-gni di squadra; nonostante mostri una band ormai non più affiatata come un tempo, ‘Infernal’ resta comunque un ottimo platter, che gode dei contribu-ti di Mikael [Opeth] e Jonas Renkse [Katatonia] ai testi rispettivamente di ‘Forever Together Forever’ e ‘Losing Myself’; Dan spiega che “non avevo tempo né ispirazione a sufficienza per completarli io stes-so”, una condizione ben illustrata nella conclusiva ‘The Last Song’:”Volevo mostrare cosa provo nel profondo del mio animo. È la canzone più intima che io abbia mai scritto, ed ho voluto che l’album terminasse in modo tranquillo ed improvvisamen-te caotico, perché è così che mi sento quando com-pongo”(7). ‘Infernal’, registrato presso gli Abyss Studios di Peter Tagtgren [Hypocrisy], è l’ultimo album che vede la formazione storica degli Edge of Sanity all’opera. Nei crediti la band dedica “questo album al nostro vecchio amico e membro degli EoS Sami Nerberg, che non ha potuto suonare in questo

disco a causa di problemi personali”; A tal proposi-to Dan rivelerà che [Sami] “ha avuto seri proble-mi con le droghe, è stato in carcere sotto apposito trattamento alcuni mesi prima delle registrazioni; ora è uscito, spero stia meglio anche se in questi casi è facile subire delle ricadute, spero sia abba-stanza forte da non ripetere lo stesso errore”(8).

Nell’ottobre 1997 - a circa sei mesi da ‘Infernal’ gli EoS, orfani di Swano e delle sue abilità compo-sitive, pubblicano frettolosamente ‘Cryptic’, disco mediocre che fa rimpiangere parecchio l’originali-tà delle precedenti releases. Axelsson e soci danno così l’addio alle scene e, mentre l’etichetta Black Mark cercherà nel 2000 di rinfrescare la memoria degli ascoltatori con la doppia raccolta ‘Evolution’, il defezionario mastermind degli Edge of Sanity prepara in sordina il capitolo definitivo, ‘Crimson II’.

Annunciata più volte ai propri fans dallo stesso Swanö attraverso le pagine del proprio Internet Fo-rum, la seconda parte del concept esce nei negozi nel settembre 2003, e si tratta fondalmentalmente di un album solista, ma i cui testi sono opera di Clive Nolan, tastierista degli Arena. Possibili dubbi sul fatto che Swanö abbia voluto approfittare del fatto che gli Edge of Sanity ancora occupano un posto d’onore nel cuore di molti deathsters, sono prontamente fugati dall’indubbia qualità dei 45 mi-nuti di ‘Crimson II’, ancora una volta sotto forma di mega-suite, che più volte riprende e rielabora al-cuni riff di ‘Crimson’. La fine - momentanea? Chi può dirlo... - degli Edge of Sanity, non ha ovviamen-te segnato il capolinea dell’attività musicale di Dan Swanö, le cui priorità si chiamano oggi Nightingale, band in cui suona insieme al fratello.

Ci siamo capiti, allora: per i novizi, si tratta ora di ripercorrere a ritroso le gesta degli Edge of Sanity e del loro mastermind, attraverso una lunga serie di scoperte nel segno della qualità musicale.

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Non è mai troppo tardi. Ad un anno di distanza dal-la pubblicazione delle ristampe dei tre album degli americani Atheist, anche advent ‘zine tributa le giuste lodi ad una band mai troppo osannata. Ri-stampe grazie alle quali il nome Atheist è tornato sulla bocca delle nuove generazioni di metalheads, e sulle pagine di innumerevoli riviste e webzines. L’occasione è allora quanto mai appropriata per ripercorrere la carriera di una vera e propria leg-genda del Death Metal.

Gli ATHEIST nacquero in realtà sotto lo pseudo-nimo RAVAGE nel lontano 1985, poi mutato nella sigla R.A.V.A.G.E., a significare “Raging Atheist Vowing A Gory End”, di cui sopravvisse definiti-vamente il solo monicker ‘Atheist’. Diversi cambi di formazione ed altrettanti demotape portarono nel 1988 al consolidamento di una formazione che vede i membri originari Kelly Schaefer [chitarra e voce] e Steve Flynn [batteria] affiancati dagli ulti-mi arrivati Rand Burkey [chitarra] e Roger patter-son [basso]; lo stesso anno fu registrato il demo ‘Beyond’, una vera rivoluzione e rivelazione musi-cale per l’epoca, che circolò ampiamente nel circui-to underground, spinto da recensioni incensanti di riviste e fanzine, fino a procurare alla band il

primo contratto discografico su Mean Machine. ‘Piece of Time’ fu registrato nel novembre 1988 presso i Morrisound Studios (!), con un certo Scott Burns (!!!) in veste di produttore. Ma a causa del fallimento dell’etichetta, solo nel 1990, grazie ad un deal con la britannica Active Records, ‘Piece of Time’ debutta in Europa ancor prima che in terra madre, dove i fan dovranno attendere fino alla fine dell’anno.

Così Kelly Schaefer in persona descrive le iniziali intenzioni del gruppo, le direttive che gli Atheist intendevano seguire nel processo di composizione dei brani:”Abbiamo trascorso diverse ore nel caldo asfissiante di un magazzino nel sud della Florida, cercando di combinare al meglio le finezze e la tecnica dei Rush con la ferocia degli Slayer e gli arrangiamenti dei Mercyful Fate”. ‘Piece of Time’ è al tempo stesso apripista acerbo per quello che sancirà la completa maturità ertistica del grup-po, ‘Unquestionable Presence’, nonché un ottimo esordio, un biglietto da visita che ancora oggi in molti pagherebbero oro! L’album contiene anche ‘On They Slay’, la primissima canzone composta dagli Atheist, con evidenti rimandi ai Carcass nei frangenti più estremi, e ‘No Truth’, manifesto del-

atheistle ristampe

atheist :: 05/08/2006, wacken open air ::

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la filosofia degli Atheist. Il resto dei brani sposa tematiche sull’ipocrisia di una società che - allora come oggi - nasconde le proprie atrocità dietro le maschere della democrazia e della religione ad una tecnica fuori dal comune, seppur non ancora com-pletamente matura.

La promozione dell’album non conosce altra via che quella dell’incessante attività concertistica, at-tività che subisce uno stop improvviso la mattina del 12 febbraio 1991, quando la cattiva sorte torna a colpire gli Atheist in modo del tutto indesidera-to. Quel giorno infatti, analogamente a quanto ac-cadde al compianto Cliff Burton, il bassista Roger Patterson perse la vita in seguito ad un incidente stradale, scaraventato fuori dal finestrino del fur-gone che la band utilizzava per andare in tour.Il tragico evento, anziché sancire la fine prematu-ra del gruppo, in un momento in cui diversi nuovi brani erano già stati scritti, rafforzò le convinzio-ni del resto della band, più che mai decisi a pubbli-care almeno quelle canzoni che l’ex-bassista aveva contribuito a realizzare. Reclutato allora in extre-mis Tony Choy dai Cynic - che all’epoca non ave-vano ancora pubblicato il loro unico disco, ‘Focus’; l’avrebbero fatto solo nel 1993, con Sean Malone al basso - gli Atheist registrarono quello stesso anno ‘Unquestionable Presence’, sempre ai Morrisound, sempre con Scott Burns dietro la console.

Cosa rappresenti l’album è presto detto, un concen-trato esplosivo che in meno di 35 minuti mostra incredibili progressi rispetto al precedente ‘Piece of Time’, in otto imprevedibili brani che a fatica sembrano contenere la tecnica strabordante dei quattro americani. Nientemeno che un classico del cosiddetto Ultra-Technical Death Metal! Non vi ba-steranno certo pochi ascolti per analizzare a fondo la struttura delle composizioni di ‘Unquestionable Presence’, indelebilmente consegnate alla Storia.

Dopo la consueta attività concertistica in supporto al nuovo disco, gli Atheist si trovarono ad un passo dallo scioglimento: il batterista Steve Flynn annun-ciò la sua dipartita in favore dei propri studi colle-giali, ed il cantante Schaefer prese di conseguenza a suonare in un nuovo progetto chiamato Neuroti-ca. Ma ciò che determinò un repentino ritorno alle attività fu la pressione dei discografici che, come da contratto, chiesero l’immediata realizzazione di un terzo lavoro.Schaefer richiamò allora immediatamente Tony Choy e recuperò il chitarrista Frank Emmi, cono-sciuto ad un concerto, ed il batterista Josh Green-baum. Il risultato di poco più di tre settimane di intenso lavoro in studio fu ‘Elements’, disco in cui la tecnica non è più al servizio del solo Death Me-tal, ma di nuove influenze Latin-Jazz, importate dai nuovi innesti, riscontrabili sia nei classici bra-

:: atheist :: steve flynn, roger patterson,kelly schaefer, rand burkey

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ni che nei quattro brevi interludi strumentali, ed in modo particolare nei 2 minuti di ‘Samba Briza’, un invito al ballo piuttosto che all’headbanging! Le canzoni, che tracciano un concept, più che intuibi-le dal titolo, sui quattro elementi della Natura e su come essa sia inesorabilmente maltrattata e sfrut-tata dagli esseri umani, sono sempre di chiara matrice Atheist, sulla scia di ‘Unquestionable Pre-sence’ ma di più ampio respiro. Schaefer ricorda come “sembra strano, ma non fu una cattiva cosa lavorare sotto pressione. Dovevamo darci dentro, e le canzoni alla fine risultarono comunque articola-te e diverse dalle precedenti. In quei 40 giorni era-vamo così pieni di adrenalina che non credo sarei in grado di sopportare qualcosa del genere per una seconda volta”.

Con ‘Elements’ terminò - oggi possiamo dirlo, solo momentaneamente - l’attività degli Atheist, ed iniziò un periodo di silenzio di quasi 15 anni, in-terrotto soltanto pochi mesi fa dalla Relapse Re-cords e dalle sue riedizioni dei tre succitati album. Entrando nei dettagli, su ‘Piece of Time’ troverete come bonus tracks diversi brani dei primissimi demotape della band, incluso il three-piece ‘On They Slay’ firmato R.A.V.A.G.E.; ‘Unquestionable Presence’ è senz’altro il più interessante, poiché contiene le versioni demo di diversi brani del di-sco, con la presenza di Roger Patterson, insieme

alle rhythmic tracks di ‘Mother Man’ e ‘And the Psychic Saw’; ‘Elements’ infine fa sfoggio della registrazione di una trasmissione radiofonica del ‘92, ben sei canzioni che testimoniano la violenza chirurgica della band dal vivo. Uno spettacolo che dei redivivi Atheist hanno di recente offerto anche in Italia in occasione dell’Evolution Festival 2006. Completano l’opera di riedizione dei booklet conte-nenti, oltre ai testi, anche delle note biografiche fir-mate Ula Gehret [attualmente al servizio di metal-maniacs.com], John Gnesin [digitalmetal.com] e di Kelly Schaefer in persona, che ha l’indubbio merito di non scadere in antipatiche autocelebrazioni.

Tali ristampe hanno quindi avuto anche il grandis-simo merito di riportare la line-up di ‘Unquestio-nable Presence’, con l’aggiunta di Chris Baker alla chitarra, sui palchi d’Europa e d’America. Ed an-che se, come hanno dichiarato più volte gli Atheist, non lavoreranno mai ad un nuovo album, saremo comunque grati alla Relapse Records per queste doverose ripubblicazioni, ed alla band per quanto è già stato fatto oltre dieci anni fa.

Chi fino ad oggi, per un motivo o per l’altro, non ha mai considerato seriamente l’opzione Atheist, sa ora cosa deve fare. Non è mai troppo tardi.

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A cura di Francesco EandiEditori Riuniti, 416 pagine, 19 €

Per semplici ed evidenti motivazioni vogliamo pre-sentare su questo numero di advent ‘zine un libro non propriamente fresco di stampa, al momento pubblicato in un’unica edizione nel maggio 2003. La prima ragione è, banalmente, il fatto che ‘Mor-ningrise’ sia stato inserito nella top 100 stilata dagli autori; la seconda è che il libro conserva la propria utilità ancora oggi, nel suo tentativo di illustrare ai neofiti, ma anche ai modestoni che credono di saperla più lunga degli altri, un mondo assolutamente vario ed in continuo mutamento.Classificare un disco per un critico musicale è un po’ come per un fisico andare alla ricerca della formula che esprima numericamente i fenomeni naturali: l’obiettivo è comunque quello di formaliz-zare ciò che è soltanto approssimabile. Nel caso in questione si può tranquillamente affermare che gli autori - Stefano Biondi, Giuliano D’Amico, Gianni Della Cioppa, Maurizio de Paola, Michele Dicuonzo, Francesco Eandi, Andrea Ian Galli, Angelo Mora, Marco Pugliese, ciascuno a suo modo attivo nel giornalismo di settore - sono stati in grado di trac-ciare, con ottima approssimazione, le linee guida

il libro1oo dischi ideali per capire il rock hard&heavydel genere preso in esame; il tutto con l’ottima pre-messa di non voler realizzare l’enciclopedia defini-tiva dell’Heavy Metal, e la consapevolezza che mai sarebbe stato possibile soddisfare le preferenze di tutti.Due brevi capitoli introduttivi spiegano in primo luogo come il lungo lavoro di selezione sia stato guidato, oltre che dall’effettivo valore artistico dei dischi, anche dall’impatto in termini di vendi-te - sfatando la convinzione tipicamente metallara secondo cui solo la spazzatura si vende in termini di cifre a sei zeri - e dalla reperibilità dell’opera; quindi, come l’Hard’n’Heavy sia nato, si sia evoluto e frammentato in infinite sottocategorie nel corso dei decenni.Superato il breve scoglio iniziale, è subito possibile addentrarsi alla scoperta degli album, riportati in ordine cronologico e perciò al di fuori da qualsiasi, inutile classifica. Il valore aggiunto del libro sta nella struttura delle schede, che vanno ben oltre la semplice recensione, illustrando la storia delle band ed il contesto in cui i dischi furono pubblicati. I Grossi Nomi ci sono tutti, mentre tra i meno ob-bligati e scontati troviamo ad esempio Blue Cheer, Nazareth, Boston, Montrose, Blue Öyster Cult, ZZ Top, Ted Nugent, Heart, Black Widow, Cheap Trick, proseguendo verso i giorni nostri con Living Co-lour, Kyuss, Prong, Paradise Lost e Tool. Ciliegina sulla torta, ad ogni scheda sono allegate brevi note di commento a “tre dischi nella medesima vena artistica”; e con questo fanno non cento, ma quat-trocento album, da tenere a mente la prossima vol-ta che vi recherete presso il vostro negoziante di fiducia. Certo, nulla vi vieta di portarvi appresso questa piccolo bigino!

Nota a margine: il libro fa parte di una serie in continua espansione, che sino ad oggi ha rivolto at-tenzioni anche nei confronti di Blues, Jazz, Rock, Punk, Reggae, World Music e Nuova Canzone Ita-liana.

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recensioniconsigli per gli acquisti

Secondo lavoro per il terzetto in-glese, capitanato dal turco Sel Ba-lamir, cantante, chitarrista ed au-tore di musiche e testi. Dopo aver dato alle stampe un album omoni-mo nel 2004 ed aver mantenuto alta l’attenzione del pubblico l’an-no successivo con un interlocuto-rio EP di ispirazione kubrickiana, ‘The Astronaut Dismantles Hal’, gli Amplifier rispondono alla chia-mata del 2006 con ‘Insider’.

È bene informare subito chi si aspettava una raccolta di brani sulla stessa scia del debutto che resterà deluso almeno in parte, ma è questo uno dei casi in cui solo sulla base di più ascolti, effet-tuati in quelle che potremmo inge-gneristicamente definire “condi-zioni ideali”, è possibile valutare l’opera al meglio. I ponti col passa-to in ogni caso non mancano, e ri-siedono nei brani finali del disco, oltre che nella centrale ‘Strange Seas of Thoughts’, che presenta un chorus involontariamente ru-bato ai Pink Floyd. Non c’è in ogni caso da spaventarsi, gli Amplifier picchiano comunque duro su ‘In-sider’, ma sono nel frattempo ma-turati in esperienza, tecnica, e nei curatissimi arrangiamenti. Spraz-zi di sperimentalismo elettronico fanno breve ed unica comparsa nell’accoppiata ‘Oort’/’What Is Music’, ma è la chitarra lo stru-mento che in assoluto domina la

scena, ancor più che in preceden-za, quando un ruolo di primo pia-no era giocato anche dal basso ul-tra-distorto di Neil Mahony. Anche se proprio lui è il geniale autore dell’incipit di ‘Procedures’, in cui i tasti di una macchina da scrive-re vengono digitati al ritmo della musica! Sarà banale a dirsi, ma in molti pagherebbero oro i fraseggi della sei corde di Balamir, che in abiti sempre diversi accompagna-no la sua inconfondibile voce in ‘O Fortuna’, e che nella precedente ‘Gustav’s Arrival’, opener dell’al-bum, alternano riff trascinanti a melodie orientali‘Insider’ riconferma quindi a gran voce l’ottimo stato di salute del trio di Manchester, ed una volta tanto val la pena sfruttare appie-no la potenza del proprio ampli-ficatore casalingo, e perforare i timpani del vicino di turno a suon di rock del terzo millennio. E chi li ha visti recentemente in concerto

amplifierinsider

amplifier ::

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può affermare che, sì, gli Amplifier sono anche un’ottimo live-act. Si può forse chiedere di più al Rock, al giorno d’oggi?

Dopo il dibattuto ‘Salvation’, che ottenne giudizi contrastanti tra gli addetti ai lavori - per alcuni un capolavoro assoluto, per altri un disco debole a causa della prolis-sità di alcuni passaggi - tornano

i Cult Of Luna con ‘Somewhere Along The Highway’, quarto album della band svedese.Va premesso che chi scrive fu tra gli adoratori di ‘Salvation’, album riuscito perfettamente nell’inten-to di amalgamare massiccie dosi di espansa psichedelia al Post-Core più angosciante. In questo furono superiori agli Isis, prima-ria influenza dei Cult Of Luna degli esordi, dai quali riuscirono brillantemente a separarsi e a superare quel ‘Panopticon’ che, all’ascolto, sembrava essersi pre-fissato il medesimo scopo.Il corretto equilibrio tra pachi-dermiche esplosioni e dilatazioni strumentali è qui presente: forti di alcune critiche ricevute in oc-casione di ‘Salvation’, dove alcu-ni lamentarono la presenza di sezioni che rasentavano la noia, i Cult Of Luna hanno lavorato da fini cesellatori; e nulla può ora essere giudicato fuori posto o ec-

cessivo, dal sampler al passaggio vocale, dall’arpeggio di chitarra alla detonazione corale. Probabil-mente chi preferisce le precedenti produzioni e non ha gradito prati-colarmente ‘Salvation’ volterà de-finitivamente le spalle al gruppo; per gli altri i Cult Of Luna entre-ranno, se già non lo avevano fatto in passato, nel novero delle band da amare senza riserbo, tanto è elevato il talento e la creatività del “collettivo”.È un lungo viaggio senza una meta prefissata quello partito alcuni anni fa dall’isolata Umeå. Il croce-via fu già antecedentemente pas-sato; ora con ‘Somewhere Along The Highway’ i Cult Of Luna, at-traverso la loro musica, ci narra-no l’emancipazione e l’esperienza maturata durante questo percor-so di vita. L’acqua urta il fuoco, la remissività è tuttora contrastata da lampi di rabbia (ora come non mai controllata), una generica

cult of lunasomewhere along the highway

:: cult of luna

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rassegnazione gestita dai princípi dello stile di vita vegan, cibo per l’anima di questi giovani musici-sti, non dimentichiamolo, fonda-mentalmente ragazzi. [Serati S.]

Luccicano le armature dei Cava-lieri dell’Apocalisse, che osserva-no dall’alto il burrascoso mercato musicale e, infischiandosene di tutto e di tutti, proseguono nella

loro proposta musicale senza al-cun compromesso.I Reitermaniacs sono oggi più in forma che mai, come lo stesso ti-tolo ‘Riders On The Storm’ testi-monia a gran voce. Così come lo ha testimoniato anche l’immensa folla indiavolata, che ha accolto gli Apokaliptischen Reiter in occasio-ne dell’ultima edizione del Wacken Open Air con un entusiasmo più unico che raro.È allora arrivato il momento di cimentarsi con la lingua tedesca, e di esplorare il vasto panorama musicale e lirico della band; chi ha sempre pensato che i Reiters fossero una band con la testa fra le nuvole dovrà prontamente ri-credersi, poiché i testi poggiano saldamente i piedi per terra, ed illustrano un mondo stanco ed apatico, senza sogni, che continua a rimpiangere il passato anziché volgere lo sguardo verso il futu-ro. Musicalmente parlando, forse

mai come ora il gruppo ha trova-to il modo a dir poco perfetto per amalgamare con una continuità impressionante i molteplici con-tributi di ciascun membro: Rock, Speed, Thrash, Folk, amplificati e corretti nel segno di un’epicità trascinante che è elemento essen-ziale del Reiter-style. Contribuiscono poi tastiere clas-sicheggianti e sinfoniche, chitarre acustiche, gli ottoni della title-track, le voci bianche di ‘Himmel-skind’, gli archi di ‘Seemann’, la multiforme ed imprevedibile ‘Re-volution’, ed altre innumerevoli e geniali intuizioni sparse ovunque nelle dodici tracce di ‘Riders on the Storm’, alla realizzazione di un prodotto che rifugge banalità e noia.Grandissimo ritorno, che conver-tirà anche i più scettici al sacro verbo degli Apokalyptischen Rei-ter!

die apokalyptischen reiterriders on the storm

die apokalyptischen reiter ::

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I Disillusion ci hanno fregati per bene, tutti quanti. O almeno, tutti coloro che si erano appunto illusi di aver a che fare con l’ennesima band influenzata dallo Swedish Death; ed infatti l’esordio ‘Back to Times of Splendor’ (2004) pecca-va in originalità, coniugando una capacità tecnica e di songwriting assolutamente fuori dal comune con elementi stilistici fin troppo abusati da illustri predecessori.

Il trio di Lipsia si è allora rim-boccato le maniche, e sapendo di aver colpito comunque nel segno col precedente disco, ha diretto il proprio ritorno sulle scene con la sapienza di un abile regista. Una similitudine scelta non a caso questa, poiché l’antipasto a base di succosi trailer aveva lasciato intendere come i Disillusion voles-sero legare musica ed immagini, realizzando una sorta di colonna sonora oscura e decadente.E se ‘Back to Times of Splendor’, con la complicità dei paesaggi immaginari dell’artwork, con-duceva l’ascoltatore attraverso mondi fantastici, ‘Gloria’ apre gli occhi su una realtà terribilmente concreta. Dovessi associare una parola all’album, questa sarebbe “purificazione”: i Disillusion sem-brano infatti aver ripulito il loro sound da ogni possibile immediato dejà-vu, e senza dubbio succederà la stessa cosa anche tra i soste-

nitori del terzetto, che dovranno scegliere tra un facile abbandono ed il legarsi indissolubilmente alla musica della band.Per quanto mi riguarda, trovo as-solutamente coraggiosa e degna di lode la violenta mutazione che i Disillusion si sono autoimposti. Niente più cavalcate di 10-15 minuti: ‘Gloria’ racchiude undici brani che non sarebbe per nulla sbagliato associare al termine “ecelttismo”, cioè alla “fusione ar-monica degli elementi migliori di fonti diverse”, come insegna un di-zionario ben più autorevole di tan-te recensioni che fanno uso di ter-mini a sproposito. Le fonti diverse sono fondamentalmente l’Heavy Metal e l’Elettronica, qui utiliz-zata in modo minimale al pari di alcuni inserti classicheggianti. Vi sono poi voci filtrate e corali, chi-tarre ultra-sature ed una sezione ritmica creativa a riempire la cor-nice. La fusione armonica è infine

disillusiongloria

disillusion ::

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quell’operazione che amalgama tra loro gli ingredienti, a formare le Canzoni. basti citare, a titolo di esempio, ‘The Hole We Are In’, che in meno di 6 minuti racchiude in sé una progressione inesorabile, che Isis o chi per essi avrebbero dilatato sino alla nausea, parti vo-cali che rievocano inveitabilmente i System of a Down, ed una serie di variazioni sul tema in cui domi-na la componente elettronica.Ma non vorrei essere frainteso: i Disillusion non sono i nuovi Ozric Tentacles, hanno semplicemente voluto espandere i propri orizzon-ti musicali, scrivendo della musi-ca che potesse essere associata esclusivamente al loro nome. Riu-scendoci alla grande.

Proviene dai dintorni di Losanna

un esordio che, attraverso i 68 minuti delle sue 6 composizioni, potrebbe, con smisurata facilità, spazzare via gran parte dei lavori (e sono parecchi...) usciti in ambi-to Post-Rock strumentale.

All’interno di un packaging carto-nato curatissimo, con artwork ad opera di Fabian Sbarro, troviamo della musica che prende per mano e accompagna in un viaggio side-rale dal quale non si vorrebbe mai tornare. ‘Golevka’ è la colonna sonora ideale di un ipotetico trip

attraverso il silenzio cosmico del-l’universo. Ed il nome non è affat-to casuale: Golevka è infatti del nome dell’asteroide scoperto nel 1991 da Eleanor F. Helin.La peculiarità di questo album ri-siede nella costante armonia nelle composizioni: esse, come d’abitu-dine in questi lidi, partono in sor-dina, crescono lentamente sino al-l’esplosione strumentale, per poi chiudersi in maniera speculare.E qui va in scena uno dei tratti ca-ratteristici della band: a differen-za dei Godspeed You! Black Empe-ror, citati dai musicisti stessi tra le principali fonti d’ispirazione, i The Evpatoria Report mantengo-no ben evidente la linea melodica per tutta la durata del brano, sia essa tracciata da una chitarra, dalle tastiere, da una base elettro-nica o da un violino. E quest’ulti-mo elemento mi ha fatto per un at-timo pensare a che sarebbe stato dei My Dying Bride, se un giorno

the evpatoria reportgolevka

the evpatoria report ::

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avessero deciso di suonare meno Doom e più Post-Rock.Gli episodi che si distinguono in un lotto di livello qualitativamen-te elevato sono l’iniziale ‘Prognoz’, dotata di un incredibile crescendo melodico che culmina in una stu-penda esplosione di potenza, la successiva ‘Taijin Kyofusho’, con una chitarra che intreccia i propri arpeggi a stralci di comunicazioni di astronauti statunitensi, la con-clusiva ‘Dipole Experiment’, in cui la collaborazione con un’orche-stra ed una corale mettono lette-ralmente i brividi.Scoprire come anche lo stesso nome della band ed i titoli delle canzoni siano legati all’astro-nomia, sarà solo una piacevole sorpresa; mentre l’acquisto di ‘Golevka’, dopo aver saccheggia-to quanto disponibile in formato mp3 su the-evpatoria-report.net, sarà solo una formalità conclusi-va. [Serati S.]

Avevamo lasciato gli olandesi Go-refest al loro ultimo disco, che se-gnò lo scorso anno un come-back inatteso sulle scene, dopo ben sette anni di silenzio. ‘La Muerte’ si rivelò anche un deciso ritorno alle radici del gore-sound, quello che con ‘Soul Survivor’ e ‘Chapter 13’, i due album che precedettero il momentaneo scioglimento del gruppo, andò quasi del tutto per-duto.

Se con i precedenti ‘False’ ed ‘Era-se’ i Gorefest si erano imposti tra i maggiori esponenti del Death Me-tal internazionale, nei primi mesi del 1996 ‘Soul Survivor’ cambia completamente le carte in tavo-la. Si parlò di influenze di Prog settantiano, anche se si tratta di considerazioni de ridimensionare opportunamente. È vero, in alcuni brani del disco vengono utilizza-ti strumenti tipici degli anni ‘70 quali Hammond e Mellotron, ma nel caso di ‘Soul Survivor’ si può affermare che i Gorefest volesse-ro realizzare un disco che fosse il piu’ Rock’n’Roll possibile, ma che non snaturasse il loro marchio fino a renderlo irriconoscibile.L’unico legame col passato resta in questo senso l’inconfondibile voce di Ian Chris, che vomita nel microfono la propria rabbia senza concedere spazio alcuno a qualco-sa di minimamente riconducibile all’armonia o alla melodia. La chi-

gorefestsoul survivor / chapter 13

gorefest anno 1996 ::

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tarra di Boudewijn - compositore di quasi tutta la musica - d’altro canto attende solo il suo turno, per liberarsi in assoli di rara bellezza, che spingono il sound dei “nuovi” Gorefest sempre più lontano dalle coordinate degli esordi. ‘Soul Sur-vivor’ non è certo un capolavoro, ma in definitiva un ottimo album, che in qualche modo mostra come sia paradossalmente possibile es-sere innovativi pur guardando al passato. In fondo a decine, forse a centinaia stanno facendo la stes-sa cosa oggi, rimpolpando di Clas-sic Rock le loro uscite. Tuttavia non va trascurato come la band si sia mossa in territori nuovi, an-che con un certo anticipo rispetto a molti altri colleghi, con un risul-tato discontinuo ma del tutto ap-prezzabile.

‘Chapter 13’, pubblicato non più dalla Nuclear Blast ma dalla SPV, è il sigillo che decreta la momen-

tanea fine dei Gorefest; ciò non fu dovuto solo ad un nuovo muta-mento stilistico, ma anche ai con-trasti maturati in seno alla band: ”Avevamo completamente perso il rispetto reciproco che fino a quel momento era una delle caratteri-stiche che ci teneva uniti! Non riu-scivamo più nemmeno a parlare tra noi e tantomeno ne sentivamo il bisogno” (Jan Chris).

Stavolta i Gorefest guardano al futuro, ed eliminati quei pochi elementi vintage del precedente

disco, puntano ad una produzione assolutamente moderna all’epoca (1998), soprattutto per un grup-po Metal. Si potrebbe considerare ‘Chapter 13’ come una versione avanzata di ‘Soul Survivor’, che completa la metamorfosi origina-ta dal suo predecessore; non man-cano i brani tirati, ma più volte i Gorefest tirano il freno e puntano sull’atmosfera; le voci pulite e filtrate presenti in più brani oggi non stupiscono più di tanto, ma quando ‘Chapter 13’ fu pubblicato esse rappresentavano forse un compromesso a cui pochi sarebbe-ro scesi.Manco a dirlo, il lavoro di Bou-dewijn sulla sei corde è come sem-pre eccelso, seppur meno arioso e più cupo che in ‘Soul Survivor’. Così come il mood generale si mantiene oscuro e claustrofobico.Un altro prodotto controverso, che mostra però i lati nascosti di una formazione che forse avrebbe

gorefest anno 1998 ::

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potuto evolversi ulteriormente in maniera inaspettata.

Accidenti! Da una copertina anonima come quella di ‘World Asylum’ mai avrei immaginato di trovarmi al cospetto di un grande album di puro Heavy Metal, come non ne ascoltavo – ed apprezzavo – da diversi anni. I Leatherwolf toppano decisamente quanto ad

artwork, ma sicuramente non sbagliano un colpo nei dieci deva-stanti episodi di questo inatteso ritorno. Si tratta infatti del primo album in studio – se escludiamo il live ‘ Wide Open’ del 1999, firmato da una reunion-lampo – a ben 17 anni dal precedente ‘Street Rea-dy’, classe 1989. Della formazio-ne storica sono sopravvissuti il chitarrista Geoff Gayer ed il bat-terista Dean Roberts, affiancati da Pete Perez (Riot, al basso), Eric Halpern (Helstar/Destiny’s End, chitarra) e Wade Black (Crim-son Glory/Seven Witches, voce): seppur in minoranza, sono però coloro che più di tutti hanno nel sangue quelle sonorità heavy che goderono di massimo splendore oltre vent’anni fa e che, come si suol dire, a volte ritornano.Disco per soli nostalgici? Asso-lutamente no, ‘World Asylum’ va oltre il becero copia e incolla, pur attingendo a piene mani da un pas-

sato sempre meno recente, e farà gola anche a chi semplicemente è in cerca di Rock solido ed emozio-nante. Perizia tecnica da manuale si unisce all’incredibile voce del nuovo acquisto Wade Black, che non sbaglia un sol colpo. Sforzo inutile è cercare episodi migliori all’interno di un lotto di brani di elevato spessore, infarciti di asso-li di chitarra tanto da far invidia ad un hamburger del signor Mac-co Donaldo.Immaginate uno scienziato paz-zo che sia in grado di mescolare i momenti migliori di Testament, Anthrax, ma anche Skid Row e tanta NWOBHM, per poi versare il miscuglio attraverso il filtro di una produzione più che perfetta. Questo in sintesi ‘World Asylum’: così bello da lasciare letteralmen-te a bocca aperta!

leatherwolfwold asylum

:: leatherwolf

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I Mars Volta sono tornati, con i loro indecifrabili titoli, con il loro inconfondibile stile, con la loro creatività senza pari. Su questo disco suona anche John Fruscian-te dei Red Hot Chili Peppers in qualità di comprimario alle sei corde, lo dico solo una volta per non ripeterlo più; perché ‘Ampute-chture’ non è “il disco in cui suo-na Frusciante”, ma è una grande, grandissima lezione su ciò che il

Rock nel terzo millennio dovrebbe essere!Non si spiega tuttavia come un album che avrebbe benissimo po-tuto intitolarsi ‘Ooops... We Did It Again’ l’abbiano poi chiamato ‘Amputechture’, né come abbiano scelto una copertina che non ri-sponde esattamente a quanto di più edonistico sia mai stato con-segnato alla storia della musica.Ma ci vuole coraggio anche solo per avvicinarsi alle otto, ma(r)stodontiche tracce del disco, e non è affatto detto che chiunque riuscirà ad uscirne indenne: i più sensibili alla Grande Musica non potranno che trarre immenso gio-vamento da ‘Amputechture’.Se ‘Frances The Mute’, nella sua monumentalità, presentava pure diversi momenti che potremmo tranquillamente definire insop-portabili, se non soporiferi, ‘Am-putechture’ evita il ripetersi di certi errori, e consegnare ai no-

stri timpani 76 minuti densi di un Rock tanto variegato da fare invi-dia alla più assortita gelateria che abbiate mai visitato.Più incisività e meno dispersione sembra essere la nuova parola d’ordine. Perché, se si escludono le due parentesi iniziali e finali, le restanti sei tracce sono vera-mente dense di Musica, come una spugna appena immersa in acqua. E chissenefrega se i brani durano un quarto d’ora o solo 4 minuti, qui si gode letteralmente perché la chitarra Latin-Prog di Rodriguez-Lopez, i vocalizzi inarrivabili di Bixler, ritmiche e percussioni da urlo, ed una sezione fiati a cui è spesso affidato il compito di pro-tagonista, sono sempre lì pronti a sorprendere. E lo faranno anche in seguito all’ennesimo ascolto, per-ché è ben noto come certi dischi richiedano attenzioni particolari che saranno, alla fine, ampiamen-te e piacevolmente ripagate.

the mars voltaamputechture

the mars volta ::

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‘Showbiz’ e ‘Origin Of Symmetry’ ridefinirono le geometrie del Rock moderno, e la band inglese si rive-lò da subito autentica musa, mai seguace, per decine di gruppi a venire. ‘Absolution’ contribuì a perfezionare ed a consolidare uno stile ormai unico, e dovremo for-se attendere del tempo per poter comprendere appieno quest’ulti-mo ‘Black Holes And Revelations’.Mr. Bellamy e soci hanno infatti

cambiato nuovamente pelle: nelle prime canzoni, infarcite di beat danzerecci e campionamenti, la chitarra elettrica è quasi irrico-noscibile, se non completamente assente, e l’unico elemento subito riconoscibile è la voce istrionica del cantante, che come sempre si aggira su tonalità medio-alte con una versatilità invidiabile. La terza traccia ‘Supermassive Black Hole’, completamente diver-sa da quanto i Muse abbiano mai suonato in passato, è stata scelta come primo singolo di ‘Black Ho-les…’, evidente manifesto di un nuovo corso. La seguente, ‘Map Of The Problematique’, potrebbe benissimo essere un’inedito dei Depeche Mode, mentre la succes-siva ‘Soldier’s Poem’, breve bal-lata costruita su lenti arpeggi di chitarra acustica, sembra quasi separare il nuovo corso dei Muse, quello appena presentato, con una serie di brani in cui il gruppo ripe-

sca ancora dal proprio passato.Di lì in poi non ci sarà più scampo, poiché i vari episodi si succede-ranno senza dare all’ascoltatore possibilità di riprendersi come se, non appena recuperato l’equili-brio, qualcuno ci spingesse all’im-provviso cercando di farci nuova-mente cadere. ‘Invincible’ tiene a freno il proprio impeto fino a no-vanta secondi dalla fine, quando un basso forsennato introduce e poi sostiene melodie sbilenche in tipico Muse-style. ‘Assassin’ tor-na a graffiare quando ci eravamo ormai rassegnati, mentre è diffi-cile sfuggire alle melodie sinuose di ‘Exo-Politics’ ed alle atmosfere cinematografiche intrise in bian-co e nero in ‘Hoodoo’.Inaspettato giunge infine l’attac-co Psychobilly della conclusiva ‘Knights of Cydonia’, che nei mi-nuti finali ci restituisce le vibra-zioni trascinanti di un tempo. Menzione a parte merita la multi-

museblack holes and revelations

:: muse

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forme ‘City Of Delusion’, in cui c’è veramente di tutto: ritmiche lati-neggianti, breve inserto di archi, break, orchestrazioni dal sapore hollywoodiano ad accompagnare la voce straziata di Bellamy; in questi cinque minuti scarsi c’è anche tempo per un breve pas-saggio attraverso il set di un film western, poco prima di terminare il viaggio sui binari iniziali.Questo è ‘Black Holes And Revela-tions’, un mix sorprendente che solo i Muse avrebbero potuto fir-mare, tra i pochissimi a coniugare il successo con una ricerca musi-cale tutt’altro che scontata.

C’era una volta un’Italia diversa da quella di oggi, in cui la crimi-nalità non aveva alcuno scrupolo nel mostrarsi terribilmente vio-

lenta e sanguinaria, spavalda ed altezzosa. A circa trent’anni di di-stanza, il nostro Paese non è sta-to ahimé risanato in alcun modo, e la differenza più grande è forse il semplice fatto che i fuorilegge preferiscono nascondersi dietro la maschera della democrazia e delle leggi - considerazioni queste che non portano il vessillo di al-cuno schieramento politico - ulte-riormente protetti da una filosofia del tutto made in Italy, che ritiene più che giusto tentare di fregare il prossimo non appena si presenta l’occasione.Trent’anni fa il quadro dipinto dal cosiddetto genere “poliziottesco” - vero e proprio oggetto di culto, che lo spazio qui a disposizione mai potrebbe descrivere appieno - illustrava una Nazione letteral-mente presa d’assedio da una malavita tanto forte da decretare più volte l’impotenza delle forze dell’ordine di fronte al dilagare

della criminalità organizzata. Il risultato è una burocrazia che si sforza di non scendere al livello dei delinquenti, una giustizia in cui i commissari di polizia non si riconoscono più, e si trasformano in vendicatori solitari dei torti su-biti dagli innocenti.

La colonna sonora di ‘Milano Ca-libro 9’ (1972) è firmata dal ce-lebre gruppo Progressive italiano Osanna, che con gli album ‘L’uo-mo’ e ‘Palepoli’ ha scritto pagine indelebili della storia del genere.

osanna / pulsar music ltd.milano calibro 9/milano violenta

milano calibro 9 :: titoli di testa ::

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In mezzo sta questo disco, dal ti-tolo originario ‘Preludio Tema Va-riazioni Canzona’, e che porterà il nome del film in copertina solo nella ristampa del 1980. Il prodot-to non sempre eccelle, soprattutto nelle ultime brevi variazioni - al-cune dai titoli alquanto improba-bili, come ‘Variazione IV (Spunti Dallo Spartito n.14723/AY2 Del Prof. Imolo Meninge)’ - che sem-brano composizioni incompiute ed inserite al solo scopo di riem-pire le due facciate del 33 giri. La colonna sonora sfoggia però an-che alcune perle, tra cui l’iniziale ‘Preludio’, canzone bellissima in cui gli archi rendono quasi palpa-bile una sensazione di amarezza e drammaticità inevitabili. Que-sta, come la seguente ‘Tema’ e l’ultima ‘Canzona’ furono scritte dal compositore classico Luis Ba-calov, e l’album risulta quindi un tentativo, riuscito solo a metà, di coniugare Rock e Musica Classica,

sulla scia di quanto già fatto dai New Trolls. Ma la colonna sonora, seppur scricchiolante a tratti, ben si amalgama col le immagini plum-bee e notturne del film, che resta tra i più amati del genere, nonché da un mostro sacro come Quentin Tarantino... e scusate se è poco!

Di tutt’altra pasta la soundtrack di ‘Milano Violenta’ (1976), firma-ta Pulsar Music LTD., pseudonimo sotto cui si celano i compositori Enrico Pieranunzi e Silvano Chi-menti, autori - come riportato sul

retrocopertina dell’edizione DVD del film - di “una tra le colonne so-nore più amate dagli appassiona-ti”. Proprio di Jazz e Funky sono impregnate le tredici canzoni del disco, che si presenta con una copertina spaziale che nulla ha a che fare con il contenuto musi-cale e visuale dell’opera. ‘Milano Violenta’ tende più verso il genere giallo/noir piuttosto che sul poli-ziesco; la colonna sonora inoltre, è letteralmente incalzante, os-sessiva, forse fin troppo abusata dal regista Mario Caiano. Eppure bellissima, accompagna alla per-fezione i frangenti carichi di ten-sione così come le atmosfere più rilassate.I dischi ed i relativi film presenta-ti non sono ovviamente altro che una piccolissima fetta di una enor-me torta, che per i neofiti potreb-be avere il sapore di quei dolci che una volta provati non si scordano più, e si acquistano regolarmente

:: milano violenta

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dal pasticcere di fiducia. Quindi, se come il sottoscritto subirete il fascino di un modo di fare cinema e musica ormai del tutto perduto, scoprirete che aspetto avevano le nostre metropoli solo alcuni anni fa, gli esordi di alcuni nomi illustri del cinema italiano, la sensualità inarrivabile delle protagoniste, ir-resistibile anche per il peggior cri-minale sulla piazza e, soprattutto, il vero significato dell’espressione “cult”!

Si è soliti dire che il terzo disco rappresenta un traguardo impor-tante per una band: dopo un esor-dio ancora grezzo ma alimentato dalla vera passione per la musica ed una scossa di assestamento, il terzo capitolo dovrebbe finalmen-te palesare l’identità di un gruppo, quegli elementi che lo distinguono

dagli altri in maniera inequivoca-bile.

Possono considerarsi gli svedesi Paatos una piccola eccezione alla regola? Sì e no, potremmo rispon-dere: dopo un ‘Timeloss’ (2002) ancora legato al Progressive ca-salingo, già con ‘Kallocain’ Stefan Dimle - bassista, ex-membro dei progsters Landberk e proprieta-rio del Mellotronen, negozio ed etichetta specializzata di Stoccol-ma - e soci hanno creato qualcosa di veramente unico, lontano anni

luce dai tipici prodotti delle cosid-dette “band con voce femminile”.Se ‘Kallocain’ era una carezza in volto, ‘Silence of Another Kind’ ha l’intensità di un palpeggiamento, più sensuale che erotico, sia chia-ro; meno fronzoli dunque, e meno dispersione, aiutano l’ascoltatore ad orientarsi meglio, senza rinun-ciare al fascino della musica pro-posta.Progressive, Rock e Jazz, sono solo etichette, dei mezzi che aiutano a comprendere; ma è il risultato finale che conta, come quando si gusta con piacere un nuovo piatto senza voler sapere a tutti i costi come sia stato preparato.Il recente tour in supporto ai Por-cupine Tree, che ha attraversato l’Italia a settembre, ha confermato che i Paatos non scherzano nem-meno quando salgono sul palco, e che la voce di Petronella Netter-malm è quanto di più ammaliante si possa desiderare in musica.

paatossilence of another kind

paatos ::

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I norvegesi WE hanno capito tutto: alla fine dei conti, la musica che fa muovere il culo, che resta in testa per tutta la vita e che, soprattutto, conquista le donne, è quel Rock da classifica, diretto, magistralmente suonato e senza fronzoli; quello, tanto per intenderci, di AC/DC e Led Zeppelin.Oggi, a fianco di Living Things, Wolfmother, Sahg, Hellacopters ed altri illustri esponenti del New-

Old Rock, i norvegesi WE, di cui ‘Smugglers è solo l’ultima parte di una discografia alquanto nu-trita, occuperebbero senz’altro un posto di rilievo, se solo fossero un po’ meno sconosciuti; a livello internazionale s’intende, poiché pare che in patria il successo non manchi affatto.In tutte le undici canzoni del di-sco, che si presenta tra l’altro con un artwork bellissimo ispirato ai viaggi intercontinentali ed una traccia multimediale contenen-te tre videoclip promozionali, il quartetto mostra di saperci fare alla grande, esplorando genere Rock con inedita sapienza. I soli titoli danno un’idea del conte-nuto musicale dei brani, a meno che non sappiate proprio deci-frare espressioni quali ‘Cosmic Biker Rock’n’Roll’, ‘Sulhpur Roast Stomp’, ‘Vroom’, ‘Catch Electri-que’. Quasi tutte le tracce non su-perano i quattro minuti di durata,

perciò sorprende l’abilità con cui momenti di pura adrenalina ed atmosfere psichedeliche e Space Rock vengono condensate nel bre-ve spazio concesso dal songwri-ting straripante degli WE. Fanno eccezione alla regola la conclusiva ‘On the Verge to Go’, che trascina letteralmente l’ascoltatore verso la fine del disco, prima cullandolo gentilmente, poi a calci in culo, e la title-track, una mini-suite che vi trasporterà nel mondo degli spac-ciatori, in una dimensione fatta di lusso sfrenato, di soldi ma anche di grossi rischi.‘Smugglers’ non vuole spazzar via i vostri ascolti, semmai aggiunger-si ad essi, e raggiungere un posto d’onore in classifica. Io il mio do-vere di avvisarvi l’ho fatto; e che gli WE non siano, completamente o in parte, distribuiti da queste parti, con Internet a portata di mouse non è più una valida scusa per non cercarli!

wesmugglers

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