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L’evoluzione della safety nel mondoaeronautico
From the acts of God to Reason
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Fin dal primo volo dei fratelli Wright, avvenuto il 17 novembre 1903, E' stata
accettata una sfida che avrebbe potuto compromettere la riuscita di quella
grande conquista. L’uomo fin dalla prima volta accettò un rischio, anche se
inconsapevolmente o forse incoscientemente, più grande delle sue possibilità
di riuscita. Wilbur e Orville Wright la mattina del fatidico giorno, scrutato
lungamente il cielo, nonostante le condizioni meteorologiche proibitive per il
loro velivolo, il Flyer, decisero di accettare la sfida.
La logica, in quel momento, suggeriva di arrendersi e rimanere a terra, ma i
Wright “dovevano” tentare, accettare la sfida lanciata dalla meteorologia alle
loro abilità di piloti e al nuovo aereo.
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In sintesi, fecero quello che un pilota non dovrebbe mai fare: “Sfidare la sorte”.
Furono fortunati: migliaia di piloti, dopo di loro, non lo furono altrettanto. Il
primo volo, alla fine di quella giornata, si concluse con un incidente di volo a
terra. Ma dall’analisi di questa pietra miliare del volo, possiamo realmente asserire
che l’incidente sia stato causato da un “ACTS OF GOD” oppure è stato causato da
una decisione errata dei piloti? Si, inizialmente gli incidenti venivano spesso
attribuiti ad un atto di Dio.
In seguito il termine è stato utilizzato per indicare che l’incidente fosse da
imputare, non ad un atto di Dio in senso biblico, ma ad un evento ma straordinario,
imprevedibile ed inevitabile dovuto a “cause naturali”.
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Fino alla Seconda Guerra Mondiale la sicurezza veniva realizzata cercando
di controllare i pericoli evidenti in sede di progetto iniziale e correggendo
altri problemi quando si manifestavano durante l’attività o, nella migliore
delle ipotesi, in fase di collaudo. Questo tipo di approccio si basava sul
cosiddetto tentativo ed errore (TRIAL AND ERROR) o, come venne definito in
aviazione, FLY-FIX-FLY (vola-aggiusta-vola).
Certamente oggi non sarebbe accettabile, considerato il livello tecnologico
raggiunto, che in caso di incidente si venga a generare un evento dai risvolti
catastrofici.
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Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Convenzione di Chicago del 1944
istituisce l’ ICAO che successivamente diventerà parte dell’Organizzazione
delle Nazioni Unite.
In questo contesto, per la prima volta vengono “approcciati” in modo
totalmente diverso gli incidenti di volo. Si registra, infatti, un notevole
progresso nella sicurezza dell’aviazione civile, dove il crescente progresso
tecnologico appare quale fattore inizialmente più determinante. In realtà la
diminuzione del tasso degli incidenti di volo era da attribuire ad un percorso
culturale che portò ad un crescente accostamento scientifico.
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All’ analisi degli incidenti ed al processo investigativo condotto sulla base dei criteri
e protocolli posti in essere dalla CONVEZIONE DI CHICAGO.
Da qui, l’analisi degli incidenti ha sostanzialmente imposto lo sviluppo e
l’introduzione di nuove tecnologie.
L’introduzione del motore a getto, alla ine degli anni 50 inizio anni 60, ha portato
ad un incremento degli incidenti di volo conducendo le organizzazioni mondiali,
grazie anche ai nuovi strumenti e tecniche investigative, ad orientare l’attenzione
all’interfaccia uomo-macchina-ambiente.
In questo periodo inizia a prendere “piede” l’ergonomia delle cabine di pilotaggio
che divenne un elemento basilare per evitare alcune tipologie di errori, portando
a porre in essere modifiche sostanziali sulla dislocazione degli switch knob e degli
strumenti sul cockpit.
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La conoscenza delle cause degli incidenti diventò così l’elemento base per
attuare una prevenzione specifica. Mentre l’evoluzione tecnologica risolveva i
problemi in campo tecnico, riducendo i CAUSAL FACTORS dovuti alle
macchine, faceva, d’altro canto, aumentare i fattori causali dovuti all’uomo
(al pilota).
Inevitabilmente negli incidenti nei quali emergevano CAUSAL FACTORS dovuti
all’uomo, gli stessi venivano definiti: “PILOT ERROR”.
La definizione prevalse sino al 1975 alla Conferenza IATA di Istanbul. In
seguito della Conferenza e grazie alla partecipazione di eminenti esperti nel
campo investigativo, psicologico e fisiologico, l’attenzione di tutto il mondo
aeronautico orientò la propria attenzione dal “PILOT ERROR” allo “HUMAN
FACTOR” fornendo ampia documentazione sui problemi di interfaccia tra
operatore- macchina-ambiente.
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Fu proprio la Conferenza di Istanbul che vide la nascita del modello
S.H.E.L.L., elaborato dal Comandante Frank Hawkins, il cui acronimo sta ad
indicare Software, Hardware, Environment, Liveware e ancora Liveware.
In dettaglio questo modello vede al centro del sistema la componente umana
“L” che interagisce con le altre componenti “S.H.E.” ed ancora “L”. In sintesi
è l’uomo che si relaziona con l’ambiente di lavoro, con la tecnologia, con le
regole/procedure dell’organizzazione ed infine è sempre l’uomo che si
relaziona con gli altri uomini attraverso la comunicazione, relazioni sociali,
eccetera.
Dagli studi emersero chiaramente le ragioni dell’errore umano definendolo
come l’ultima frontiera della sicurezza.
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Gli studi rappresentarono un valido riferimento per lo sviluppo, negli anni
successivi, di nuovi criteri di selezione degli equipaggi e nuove modalità per
l’educazione e l’addestramento dei piloti, controllori del traffico aereo, tecnici
della manutenzione e degli altri operatori di “front line”.
Due anni dopo la Conferenza IATA, un grave incidente aeronautico nell’isola di
di Tenerife (più di 500 morti) evidenziò, in tutta la sua drammaticità, la
dimensione del problema: «un decadimento nelle procedure di
comunicazione ed un fraintendimento nei messaggi T/B/T furono considerate
quali reali cause del disastro».
Negli anni successivi ed a seguito della Conferenza IATA di Istanbul fu dato
via alla realizzazione, per la prima volta dalla Compagnia United Airlines -
Denver, Colorado, di un modulo addestrativo per piloti denominato C.R.M.
(Cockpit Resource Management).
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Il modulo C.R.M. si prefiggeva l’abbattimento delle barriere psicologiche
dovute alla diversità di ruolo o atteggiamenti pregiudiziali nei rapporti
interpersonali che erano (e purtroppo lo sono ancora oggi) fonte di inibizione
di un corretto e funzionale processo di comunicazione all’interno delle cabine
di pilotaggio.
Lo stesso C.R.M. ha subito, nel tempo, una propria evoluzione, da Cockpit si
ampliato a Crew (mantenendo lo stesso acronimo), coinvolgendo così il resto
dell’equipaggio non impegnato nella conduzione del volo, fino ad arrivare
oggi al concetto di Team Resource Management interessando con questo
termine tutti gli aventi causa nell’effettuazione della missione (comandante,
manutenzione, controllori, ecc.).
Purtroppo gli incidenti continuavano ancora a causa dei fattori che dovevano
essere abbattuti o quantomeno prevenuti attraverso l’addestramento al
C.R.M.
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Sul tema dell’affidabilità umana emergono gli studi del prof. Jens Rasmussen
rivolti ai sistemi industriali che trovano applicazione anche in campo
aeronautico. Questi ha sviluppato un modello di ANALISI DEGLI ERRORI
UMANI, presentato nel 1980, dove distinguono tre diverse forme di
comportamento
livello skill-based: basato sulle abilità;
livello rule-based: basato sulle regole;
livello knowledge-based: basato sulle conoscenze.
Secondo questo modello l’operatore tenderà, in funzione della complessità
delle differenti situazioni in cui si viene a trovare, ad utilizzare modi di
controllo differenti (Skill, Rule, Knowledge) e l’errore in tutto questo viene
ricondotto al diverso livello di esecuzione del compito.
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L’ulteriore evoluzione avvenuta nel campo della sicurezza ha visto, sempre in
questi anni, il cambiamento del punto di vista sulle cause scatenanti gli
incidenti. Di particolare rilievo sono gli studi intrapresi su incidenti avvenuti
dal 1972 al 1983 da Gerry Bruggink, che individuò le pre-condizioni dei fattori
umani alle quali venne dato il nome di “POLICY FACTOR”, ovvero quelle
condizioni interne all’organizzazione che possono favorire l’insorgenza di
comportamenti inadeguati rispetto alla situazione da parte degli operatori di
“front line”.
In particolare, per il trasporto aereo, nel 1985 Bruggink affermo’:
“una policy factor diventa una componente causale qualora i Top-Manager
dell’organizzazione favoriscono l’incidente ignorando le lezioni di incidenti
predittivi e disastri similari avvenuti in passato o tollerando compromessi
per ragione di immagine personale, economicità o per incompetenza”.
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Tali concetti, furono successivamente ripresi da un altro innovatore e
precursore nella ricerca sulle condizioni e sulle cause scatenanti gli incidenti
nelle organizzazioni, il prof. James Reason (ideatore del modello definito
“Swiss Cheese”) a seguito di studi svolti su eventi disastrosi come, tra i più
importanti, quelli della Centrale nucleare di Three Miles Island e della
Centrale di Chernobyl.
La sua teoria, La sua teoria, definita degli errori umani e dei fattori latenti,
ha rivoluzionato l’approccio alla disamina degli incidenti.
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Egli afferma che quando occorre un evento catastrofico, significa che vari livelli di
difesa, posti in essere dal manager dell’organizzazione, sono stati superati
contemporaneamente ed a pagarne le conseguenze rimane solo l’ultimo operatore.
Dietro al comportamento sbagliato dell’operatore di prima linea, che ha generato
l’incidente, sussistono, oltre alle condizioni di lavoro che favoriscono gli errori,
anche decisioni prese al vertice dell’organizzazione. Questi fattori sviluppati dal
vertice vengono definiti, appunto, “FATTORI LATENTI”. Gli operatori, quindi, non
sono i soli responsabili di un incidente, ma possono essere definiti come gli “eredi”
di difetti presenti nel sistema che sono stati generati da figure dell’organizzazione
lontane nel tempo e nello spazio dalla prima linea.
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In sintesi, Reason identifica nel modello quattro livelli di errore umano, dove
ognuno influenza il successivo.
In caso incidente o quasi incidente (near-miss), si risale dagli Unsafe Acts (l’errore
commesso dell’operatore che ha “generato” l’incidente) alle Preconditions for
unsafe acts, per passare alle Unsafe Supervisions e infine alle Organizational
Influences.
Ritornando al modello di Reason, questo non offre una vera applicazione pratica,
poichè non individua esattamente le lacune ai vari livelli. Ma nel 1997 Shappel &
Wiegmann, dopo aver analizzato oltre 300 rapporti di incidenti della U.S. Navy,
hanno proposto un modello che inizia a dare un “nome” ad ogni lacuna, al fine di
consentire agli addetti ai lavori l’esatta identificazione della failure del sistema.
Il lavoro condotto da Shappel e Wiegmann, grazie alla collaborazione di molte altre
organizzazioni nel campo dell’aviazione, ha portato alla versione definitiva che fu
presentata nel 2000 con un documento edito dall’Office of Aviation Medicine - FAA
dal titolo: “The Human Factors Analisys and Classification System - HFACS (2000)”.
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Se inizialmente l’approccio alla persona guardava all’ identificazione dei
responsabili dell’accaduto, l’approccio al sistema si propone di aumentare le
condizioni di affidabilità e sicurezza dell’organizzazione tendendo
all’eliminazione delle “Latent Failure”.
Questi concetti portano inevitabilmente ad individuare in anticipo le falle
latenti al fine di costituire un sistema sicurezza proattivo, ovvero
un’organizzazione che lavora anticipando e prevenendo gli eventi attraverso
l’eliminazione delle criticità presenti nel sistema organizzativo stesso. Questi
concetti portano inevitabilmente ad individuare in anticipo le falle latenti al
fine di costituire un sistema sicurezza proattivo, ovvero un ‘organizzazione
che lavora anticipando e prevenendo gli eventi attraverso l ‘eliminazione
delle criticità presenti nel sistema organizzativo stesso.
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Ma com‘è possibile individuare le criticità presenti nel sistema? Per fare
questo è necessario, come peraltro viene suggerito dallo stesso Reason,
porre in essere un cambiamento dell‘organizzazione che prenda coscienza
dell‘importanza e dell‘efficacia di una Cultura della Sicurezza che sviluppi un
efficiente sistema di riporto degli errori basato su un approccio “no blame”
tendente a favorire la scoperta degli inconvenienti (reali o potenziali)
considerandoli come importanti opportunità per l ‘individuazione delle aree
di rischio presenti nel sistema.
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Tutto ciò può certamente essere perseguito attraverso una “just culture”,
che deve essere delineata e ben definita da parte del manager dell
‘organizzazione.
Pertanto, la necessità di possedere una consistente conoscenza della storia
del sistema fa nascere l ‘esigenza, nell‘organizzazione, di possedere un
buon sistema di gestione della sicurezza ossia un Safety Management Sistem
(S.M.S.), che sia parte integrante dell‘organizzazione diventando elemento
focale della Cultura Organizzativa.
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Ciò può essere raggiunto attraverso il modello delle “4 P”:
1. Philosophy: delineano le strategie per il raggiungimento degli scopi
dell‘organizzazione;
2. Policy: definiscono le linee guida, le autorità e le responsabilità
nell’organizzazione;
3. Procedure: definiscono quale è il compito degli operatori, quando e come
deve essere effettuato, da chi ed in quale sequenza;
4. Practices: costituiscono l‘azione vera e propria messa in atto dagli operatori.
Un SMS significa quindi gestire i rischi e ciò sarà fatto tanto meglio quanto più
elevata sarà la percezione dell‘esistenza stessa dei rischi da parte degli attori
dell‘organizzazione.
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Inoltre, se pensiamo che tutti i “problemi” nascono dall’uomo, perché errare
fa parte della condizione umana, nel futuro si dovrà obbligatoriamente
rivolgere l’attenzione all’uomo.
E’ possibile che un apporto sostanziale possa venire dall’Ergonomia, ove
convogliati più campi di studio quali la psicologia, la medicina e l’ingegneria, e
che in questi anni ha avuto notevole evoluzione che ha sviluppato
’“l’ergonomia cognitiva”, che si prefigge lo scopo di studiare:
l’interazione tra individui e tecnologie attraverso lo sviluppo di modelli e
strumenti per la previsione dell’errore umano, per la riduzione del carico di
lavoro mentale e per fornire indicazioni per la progettazione di macchine che
tengano conto dei limiti delle possibilità del sistema cognitivo umano.
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