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2021, VOL. 17, N. 38, pp. 367 - 387 ISSN 2279-9001 Formare alle competenze relazionali come presupposto cruciale per le professioni di aiuto. Una proposta student-centered. Relational skills training as a crucial pre-condition for helping professions. A student-centered proposal. Dario Fortin, Università degli Studi di Trento. Introduzione In questa lunga fase di emergenza pandemica da Covid-19 abbiamo riscoperto l’importanza dell’intersoggettività, in quanto il distanziamento fisico per ridurre la trasmissione del virus, la chiusura degli spazi di socializzazione e cultura, il distress da isolamento forzato e la tremenda solitudine negli ultimi giorni di vita, hanno fatto scoprire anche alla gente comune il grande bisogno di relazioni significative che ogni persona umana necessita. Ritorna così per noi di grande attualità la formazione alla competenza relazionale. Saper cioè costruire e ri-costruire relazioni significative che possano diventare un presupposto cruciale di ogni azione di cura, di educazione e di formazione. In questa direzione tutti i sistemi dell’istruzione e dell’educazione hanno oggi un’importante sfida da affrontare e forse anche l’ambito accademico sta cominciando lentamente a prenderne consapevolezza. Non vi è dubbio che l’ampia area delle scienze dell’educazione sarà chiamata sempre più ad essere di servizio a tutto quel mondo di realtà associative, scolastiche, imprenditoriali, sociali e sanitarie che permeano la vita del nostro Paese. Autore per la Corrispondenza: Dario Fortin - Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive, Università degli Studi di Trento. E-mail: [email protected] 367 ABSTRACT ITALIANO In questo contributo – anche in considerazione delle importanti conseguenze psicologiche date dalla pandemia da Covid-19 - si evidenzia l’opportunità di un rinnovato sforzo a realizzare percorsi universitari student-centered, orientati alla costruzione di competenze relazionali e all’ apprendimento permanente. Attraverso alcuni costrutti di tipo fenomenologico, interazionista e con i dati di una ricerca sul campo, viene inoltre mostrato come l’Approccio Centrato sulla Persona possa fungere da efficace base di partenza e presupposto applicativo per le professioni di aiuto. ENGLISH ABSTRACT This contribution highlights the chance for a renewed effort to create student-centered university training, aimed at building relational skills and lifelong learning. Today this seems most urgent taking into account the important psychological consequences given by the Covid-19 pandemic. Through some phenomenological, interactionist constructs and research data, it is also shown how the Person- Centered Approach can serve as an effective starting point and prerequisite for the helping professions. ESPERIENZE

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Page 1: Formare alle competenze relazionali come presupposto

2021, VOL. 17, N. 38, pp. 367 - 387  ISSN 2279-9001

Formare alle competenze relazionali come presupposto cruciale per le professioni di aiuto. Una proposta student-centered.Relational skills training as a crucial pre-condition for helping professions. A student-centered proposal.Dario Fortin, Università degli Studi di Trento.

Introduzione

In questa lunga fase di emergenza pandemica da Covid-19 abbiamo riscoperto l’importanza dell’intersoggettività, in quanto il distanziamento fisico per ridurre la trasmissione del virus, la chiusura degli spazi di socializzazione e cultura, il distress da isolamento forzato e la tremenda solitudine negli ultimi giorni di vita, hanno fatto scoprire anche alla gente comune il grande bisogno di relazioni significative che ogni persona umana necessita. 

Ritorna così per noi di grande attualità la formazione alla competenza relazionale. Saper cioè costruire e ri-costruire relazioni significative che possano diventare un presupposto cruciale di ogni azione di cura, di educazione e di formazione. In questa direzione tutti i sistemi dell’istruzione e dell’educazione hanno oggi un’importante sfida da affrontare e forse anche l’ambito accademico sta cominciando lentamente a prenderne consapevolezza. Non vi è dubbio che l’ampia area delle scienze dell’educazione sarà chiamata sempre più ad essere di servizio a tutto quel mondo di realtà associative, scolastiche, imprenditoriali, sociali e sanitarie che permeano la vita del nostro Paese. 

Autore per la Corrispondenza: Dario Fortin - Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive, Università degli Studi di Trento. E-mail: [email protected]

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ABSTRACT ITALIANOIn questo contributo – anche in considerazione delle importanti conseguenze psicologiche date dalla pandemia da Covid-19 - si evidenzia l’opportunità di un rinnovato sforzo a realizzare percorsi universitari student-centered, orientati alla costruzione di competenze relazionali e all’apprendimento permanente. Attraverso alcuni costrutti di tipo fenomenologico, interazionista e con i dati di una ricerca sul campo, viene inoltre mostrato come l’Approccio Centrato sulla Persona possa fungere da efficace base di partenza e presupposto applicativo per le professioni di aiuto.

ENGLISH ABSTRACT This contribution highlights the chance for a renewed effort to create student-centered university training, aimed at building relational skills and lifelong learning. Today this seems most urgent taking into account the important psychological consequences given by the C o v i d - 1 9 p a n d e m i c . T h r o u g h s o m e phenomenological, interactionist constructs and research data, it is also shown how the Person-Centered Approach can serve as an effective starting point and prerequisite for the helping professions.

ESPERIENZE

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Ritorna così per noi di grande attualità la formazione alla competenza relazionale. Saper cioè costruire e ri-costruire relazioni significative che possano diventare un presupposto cruciale di ogni azione di cura, di educazione e di formazione. In questa direzione tutti i sistemi dell’istruzione e dell’educazione hanno oggi un’importante sfida da affrontare e forse anche l’ambito accademico sta cominciando lentamente a prenderne consapevolezza. Non vi è dubbio che l’ampia area delle scienze dell’educazione sarà chiamata sempre più ad essere di servizio a tutto quel mondo di realtà associative, scolastiche, imprenditoriali, sociali e sanitarie che permeano la vita del nostro Paese. 

Alcune fonti empiriche e teoriche evidenziate in questo contributo possono diventare di ispirazione per chi è interessato alla costruzione di identità professionali fondate sulla fenomenologia dell’intersoggettività.

Prima parte. Una ricerca empirica di relazioni autentiche.

L’esperienza come unica evidenza e fonte della teoria.

In molti anni di impegno culturale ed educativo all’interno delle Comunità di Accoglienza residenziali aderenti al CNCA (1) abbiamo potuto verificare come l’approccio educativo e culturale delle comunità fa riferimento ad una concezione positiva della persona, che ha in sé la capacità di realizzare un processo di crescita personale e sociale ed ha il potenziale per diventare responsabile delle proprie scelte e protagonista della propria storia. Questa concezione non deriva principalmente da teorie pedagogiche o psicologiche (2), piuttosto deriva dalla condivisione di vita e dall’osservazione partecipante di migliaia persone che sono state accolte e che hanno frequentato queste realtà sociali nel corso di circa cinquant’anni di storia. Essa si fonda sulla fiducia che ogni persona, se sostenuta e facilitata, è in grado di apprendere dalla propria esperienza la direzione verso un miglior livello di autonomia e di autorealizzazione (CNCA, 1983, 1985, 1989; Panizza, 1989; Fanucci, 1992; Fortin, 2004; Castelli, 2007; Albanesi 2007; Fortin, 2020)

Se il cambiamento – nella tesi di Duccio Demetrio - è la sostanza visibile, percepibile e misurabile dell’educazione (Demetrio, 1990, pp.29-40) sappiamo che le persone si trovano a cambiare nel corso della vita per diversi motivi: apprendimenti importanti, nascite e lutti di familiari, migrazioni da un luogo ad un altro, cambi di lavoro, incidenti o malattie, ma pensiamo che una lettura pedagogica di questi cambiamenti debba partire proprio da un’analisi esperienziale dei fenomeni. 

John Dewey lancia il sasso ai ricercatori specificando che: “l’esperienza concreta dell’educazione rappresenta la fonte primaria di ogni indagine e di ogni riflessione perché pone i problemi, e collauda, modifica, conferma o smentisce le conclusioni della ricerca intellettuale” (Dewey 1951, p. 44).

Lo psichiatra scozzese Ronald D. Laing (1927-1989) però ci mette in guardia da possibili superficiali interpretazioni della realtà osservata. Egli infatti ci dice che i comportamenti, i fatti osservati, possono diventare finzioni se non sono visti con i mezzi appropriati. Egli ben chiarisce l’approccio necessario ad una corretta ma disincantata lettura della realtà, perché “non abbiamo bisogno di teorie quanto dell’esperienza, che è la fonte della teoria”. Infatti “possiamo vedere il comportamento degli altri ma non la loro esperienza” perché

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“il comportamento altrui è un’esperienza mia, il mio comportamento un’esperienza altrui”. Dunque la fenomenologia sociale ci può aiutare nel nostro ragionamento sulle competenze relazionali, perché il suo compito sarebbe quello di “mettere in relazione la mia esperienza del comportamento altrui con l’esperienza altrui del mio comportamento” al fine di studiare l’inter-esperienza ossia il rapporto tra esperienza ed esperienza. Laing, criticando le correnti della psicologia comportamentista, ci chiarisce con parole semplici il punto di vista vicino alla filosofia fenomenologica quando ci dice “vedo il vostro comportamento e voi vedete il mio. Ma non vedo, non ho mai visto e mai vedrò la vostra esperienza di me, esattamente come voi non potete vedere la mia esperienza di voi” perché “siamo entrambi degli uomini invisibili” per cui se tutti gli uomini sono invisibili gli uni agli altri “l’esperienza è l’invisibilità dell’uomo all’uomo”, ma al contempo l’esperienza “è la cosa più evidente di tutte” tanto che Laing, capitalizzando la sua storia di ricerca e di vicinanza umana e professionale al mondo della follia, arriva a dirci che “solo l’esperienza è evidente. Essa è l’unica evidenza”.

Dunque seguendo Laing non possiamo fare a meno di cercare di comprendere l’esperienza altrui, perché “benché io non esperimenti la vostra esperienza, che non posso vedere (né gustare, né toccare, né fiutare, né udire), tuttavia ho esperienza di voi che esperimentate” (Laing, 1967/1968, pp.13-18).

Ma John Dewey avverte l’educatore praticone quando dice “non esiste scienza senza astrazione, e astrazione vuol dire essenzialmente che determinati eventi vengono trasferiti dalla dimensione dell’esperienza pratica e familiare entro quella dell’indagine riflessa o teoretica” (p.9). Egli, da un punto di vista metodologico, sottolinea che “ciò che è assolutamente necessario è che fluisca una qualche sorta di corrente vitale tra l’operatore sul campo e il ricercatore” (1951, p.33) e “la questione si presenta chiaramente circolare” (p.35) come poi ci diranno anche i teorici dell’action-research.

La transizione a un ruolo professionale

Un percorso universitario che abbia connotazioni non solo di carattere intellettuale, ma anche di tipo esperienziale, può avere un impatto significativo nella transizione verso l’adultità. Al fine di costruire un proprio spazio nel mondo, lo studente va aiutato a rappresentarsi anche in un futuro ruolo professionale. 

Il termine ruolo deriva dal teatro e rende l'idea della “parte” che ciascuno recita sulla scena della società, conformandosi alle aspettative ed alle regole stabilite dalla rappresentazione pubblica (Goffman, 1997). In molte situazioni infatti possiamo prevedere il comportamento degli altri e dare alle nostre azioni una forma conseguente. Ad esempio se al primo giorno di lezioni all’università entrasse in aula un signore in giacca e cravatta con una borsa da cui estrae dei libri che appoggia sulla cattedra, ci sentiremmo tranquilli. Quell’uomo – pensiamo – è certamente il docente, ma soprattutto siamo rassicurati dal fatto che egli interpreta il ruolo di insegnante comportandosi in quel momento come noi ci aspettiamo egli faccia per l’insegnamento ai suoi studenti.  

Capiamo così che quando una persona è socialmente collocata, ad esempio nella posizione di studente, di docente, di figlio, di padre, di medico o di malato, nascono delle attese sociali che definiscono ciò che è opportuno o non opportuno fare in quella posizione

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e situazione. L’effetto principale del ruolo è quello di rendere prevedibile e regolabile il comportamento dell’attore sociale, rendendolo quindi integrabile con quello altrui. Il grado di conformità al ruolo, cioè il livello di corrispondenza tra il comportamento effettivo e quello socialmente atteso, può essere molto variabile anche se, normalmente, è sufficiente a garantire un notevole grado di prevedibilità dei comportamenti (Neresini, 2001).

La sociologia interazionista ci dice che numerosi sono i ruoli che ciascuno di noi svolge all’interno della società, soprattutto in quanto adulti, molti dei quali si collocano in sfere differenziate tra loro (Bagnasco, Barbagli & Cavalli, 1997). Così abbiamo la sfera dei ruoli familiari (dove possiamo essere contemporaneamente figlio, padre, marito, zio, nonno…); la sfera dei ruoli lavorativi che si differenziano per rami di attività, per mansione, per posizione gerarchica ecc. Vi è inoltre la sfera dei ruoli relativi alle attività amicali e del tempo libero (alzatore nella squadra di volley, batterista in un gruppo jazz, soprano nel coro polifonico ecc.) la sfera dei ruoli di partecipazione sociale e politica (membro del consiglio di classe della scuola dei figli, consigliere di un’associazione di volontariato ecc.).

Possiamo facilmente comprendere come questa pluralità di ruoli o role set (Merton, 1949) sia una ricchezza per l’individuo che ha la fortuna di possederli, anche se sono destinati a mutare lungo tutto il corso della vita. Cambiamenti frequenti specialmente durante la cosiddetta età adulta (Demetrio, 2003) nella quale il cambiamento diventa una condizione esistenziale con la quale fare i conti costantemente. 

Quando i ruoli cambiano, viviamo delle vere e proprie svolte, a volte brusche, a volte impercettibili e graduali e comunque tutte interferiscono con i ruoli e le identità altrui e ne sono fortemente condizionate. 

Possiamo comprendere dunque quanto sia complessa ed intrigante per uno studente universitario nelle professioni di aiuto questa operazione di decostruzione e ricostruzione di parte della propria identità, in una fase di transizione alla vita adulta. 

Lo studente viene così inizialmente allenato, soprattutto nella preparazione professionalizzante di laboratorio e tirocinio, all’assunzione del “ruolo altrui” (Mead, 1934/1966). Altrui come professionista dell’educazione e della formazione con il quale “fare entrare nella propria mente una rappresentazione dell’altro, interagirci immaginariamente in un tempo che precede, succede e scorre parallelamente all’interazione con l’altro” (Romania 2002, p. 90). Significa mettersi empaticamente nei suoi panni. Ma non è solo per empatia, quanto anche per “la comune appartenenza ad un gruppo sociale, inteso come complesso integrato di relazioni” (Mead 1934/1966, p.255) dove gli studenti si riconoscono reciprocamente un ruolo e attraverso questo “riconoscimento reciproco” (Jervis, 1984) decodificano simbolicamente gli atti e i gesti altrui, anche al fine di facilitare un clima relazionale (Loiodice 2017) all’interno delle organizzazioni.

Identità dal versante oggettivo e soggettivo

Considerando il concetto di ruolo nell’ambito del più ampio versante identitario, con Giovanni Jervis (1933-2009), possiamo empiricamente sottolineare che vi sono almeno due valenze contemporaneamente presenti riguardo l’identità della persona: quella

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“oggettiva” e quella “soggettiva”. Nella dimensione oggettiva elenchiamo aspetti di “identità personale formale” come la professione, la classe di appartenenza, lo stato civile, la partecipazione ad un’associazione o partito. Questa parte formale si lega ad una più informale fatta di quell’ “immagine socio morale che parenti, amici, conoscenti e vicini hanno di un certo individuo per cui questo viene definito come una persona di un certo tipo”. 

La dimensione soggettiva dell’identità della persona “riguarda invece il modo con cui un individuo percepisce se stesso come persona” ovvero definisce se stesso come persona di un certo tipo e riesce ad immaginare “una propria continuativa identità di persona attraverso il tempo e lo spazio”. E’qui, nell’aspetto soggettivo dell’identità di persona, che lo psichiatra fiorentino Jervis sottolinea l’importanza del riconoscimento reciproco fra l’individuo e il suo ambiente sociale, perché “ciascuno per sapere chi è, ha bisogno di interiorizzare fin dall’infanzia l’immagine che gli viene rimandata da parte degli altri, di ritrovare questa immagine in ogni momento in se stesso, e di accettarla come valida” (Jervis, 1984, p.45).

Distanziamento fisico e bisogno di relazioni autentiche.

Il riconoscimento reciproco ci riporta al concetto di intersoggettività, aspetto che riteniamo di particolare importanza in questa fase di emergenza pandemica da Covid-19. Il distanziamento fisico (Fortin, 2020/b; Accademia della Crusca 2021) per ridurre la trasmissione del virus, la chiusura degli spazi di socializzazione e l’isolamento forzato in molte situazioni, hanno fatto riscoprire il grande bisogno di relazioni significative che ha la persona umana.

In una lettura biopsicosociale dei fenomeni sanitari, anche il Tecumseh Study, il Durham Country Study e il North Karelia Study, avevano già dimostrato come “alla mancanza di legami sociali sono connessi elevati rischi per la salute” (Zucconi A., Howell P., 2003, pag.124). Ma nei recenti studi esaminati sulle conseguenze psicologiche del lockdown, si sono evidenziate chiaramente sintomatologie da stress post-traumatico, ansia e depressione, frustrazione e noia; i sintomi di disturbi psicologici sono continuati diversi mesi dopo la prima quarantena. (Brooks S. et al., 2020)

Le pratiche di isolamento hanno procurato dunque un profondo malessere, distress, impatto negativo sulla salute mentale ed un importante aumento dell’assunzione di ansiolitici ed antidepressivi (Bonati, 2020; Perna & Caldirola, 2020).

Come appassionati delle scienze dell’educazione, probabilmente da oggi abbiamo ancora maggiori responsabilità rispetto al nostro ruolo di formatori di intersoggettività. Il pedagogista Marco Dallari è illuminante riguardo la forza evocativa di questo concetto. Egli in un suo lavoro sintetizza bene il pensiero dei fenomenologi che ispirano questa riflessione. L’identità personale è stata per Dallari troppo spesso oggetto di “maldestri tentativi di oggettivazione”, di blindatura, da parte di varie discipline e pratiche che hanno trattato l’identità personale come qualcosa di unitario, organico e coerente. Il tranello di guardare all’identità personale come a un qualcosa di fisso, immutabile, identico, stabile nel tempo, è sempre presente e “ciò avviene frequentemente quando si cade nell’equivoco secondo il quale l’identità personale è identificabile con il soggetto. Ma

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l’identità non è il soggetto e neppure è nel soggetto. L’identità è davanti, dietro, intorno a noi; è nella relazione, nello scambio” (Dallari, 2012, p. 179). L’intersoggettività (Husserl, 1961, p.211) insomma ci porta fuori di noi, verso l’altro, nella dimensione della relazione. 

“Esperendo, vivendo in generale come io (pensando, valutando, agendo) io sono necessariamente un io, che ha un suo tu, un suo noi e un suo voi: l’io dei pronomi personali (…) qualcosa che non può essere isolato individualmente, che è intimamente accumunato ” (Husserl 1961, p. 285)

L’isolamento introspettivo e la mindfulness possono essere certamente ottimi strumenti psicologici, biopsichici ed anche spirituali, ma se volontari e ben dosati con il resto delle funzioni fondamentali dell’essere. Il ritiro spirituale può diventare solo meditazione verticale, staccato dalla realtà della storia, se non è capace di saldarsi ad una dimensione orizzontale (3) ovvero relazionale, in ordine ad una vita sempre più integrata ed al contempo libera.

Come educatori sappiamo che la cura psicoterapica può diventare addirittura una parte che contribuisce all’emarginazione sociale, quando si concentra sul problema individuale, da risolvere magari solo farmacologicamente.

Sono i processi di relazione con gli altri e con il mondo ad essere originariamente - direbbe Edmund Husserl (1859-1938) - costitutivi dell’essere umano e facilitatori di una nostra identità. Concorderemo che essa diventa via via un’identità più consapevole agli altri e a noi stessi se le relazioni hanno la caratteristica dell’autenticità.

Sentire e gustare le cose internamenteNella ricerca spirituale di un’autentica relazione con il Trascendente, siamo eredi di una

metodologia pedagogica attiva, ispirata dal “modus parisiensis” della Sorbona ovvero l’Università di Parigi (Compagnia di Gesù 1986, 1994; Rendina 2002; Carmagnani, Danieli, Denora, 2006; De La Sala, 2008). Essa anticipa la filosofia fenomenologica e l’interazionismo simbolico qui accennati e offre ispirazione anche alla successiva nascita delle discipline psicologiche introspettive. Gli “Esercizi Spirituali” di Ignazio di Loyola (1491-1556) infatti ci interessano non tanto come libro di preghiere, ma in quanto guida metodologica per l’accompagnatore spirituale, che assume il ruolo di esercitatore, nei confronti dell’esercitante o del gruppo di esercitanti. Rimandiamo a quanto scritto dallo psicologo gesuita Livio Passalacqua in proposito dell’Annotazione metodologica n.2 di Ignazio di cui riportiamo la famosa conclusione: 

… non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima,ma il sentire e gustare le cose internamente(Ignazio di Loyola, 1548, n.2).

Passalacqua mette in evidenza che il metodo ignaziano per l’accompagnamento spirituale anticipa di alcuni secoli l’intuizione della psicologia umanistica e in particolare di Carl R. Rogers (1902-1987), rispetto al contatto con il sé ed i propri sentimenti, all’importanza dell’ascolto dell’esperienza organismica e della facilitazione dell’insight. Sia per Ignazio che per Rogers si tratta di un metodo che rifugge dall’interpretazione e privilegia la sottolineatura empatica di quanto il soggetto sta esprimendo nel qui-ed-ora.

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(Passalacqua 2004, pp.79-80). Ignazio enfatizza così il ruolo delle emozioni nella ricerca spirituale introspettiva, piuttosto che lo studio teologico isolato dal resto. 

Applicato ai processi di apprendimento in classe “si trattava di un metodo pedagogico essenzialmente attivo in cui si mettevano a fuoco tutte le capacità dello studente, aiutandolo così alla sua realizzazione personale” (De Lasala 2008, p.2016) secondo uno dei traguardi che Ignazio si era posto per i propri collegi, ovvero di aiutare le persone secondo “scientia et virtus”.

Formare alle differenze come istanza psicologica, culturale e politica

A favore di questa ricerca empirica di relazioni autentiche orizzontali e verticali – ricerca mai finita da parte di ogni persona umana - possiamo approdare al discorso psicologico, antropologico e politico sulle differenze, che dovrebbe essere un fondamento della formazione di base delle professioni di aiuto.

Jung (1875-1961) parla non tanto di identificazione (processo psichico caro a Freud nel quale il soggetto assimila alcune caratteristiche di un’altra persona adattandoli a sé) ma di individuazione che “coincide con il processo di sviluppo della coscienza dall’originario stato di identità. L’individuazione dunque è un allargamento della sfera della coscienza e della vita psichica cosciente” (p. 419) e più precisamente l’individuazione si definisce come:

processo di differenziazione che ha per scopo lo sviluppo della personalità individuale ed è una necessità naturale; ostacolarla con regolamentazioni rigide o esclusive secondo le norme collettive pregiudicherebbe molto l’attività vitale dell’individuo (…) ma la sua esistenza stessa presuppone rapporti collettivi così che il suo processo di individuazione non porta all’isolamento, ma ad una coesione collettiva più intensa ed universale

ed inoltre favorisce una funzione che lo psico-antropologo svizzero chiama “trascendente” (Jung 1970, p. 418).

Dal versante dell’antropologia culturale Matilde Callari Galli ci aiuta a ad avere attenzione alla valorizzazione delle differenze in questo momento storico di importanti migrazioni, nel quale diventa necessaria l’integrazione e la convivenza delle differenze e dei diversi modelli culturali.

Il rapporto con la diversità – del sé nei confronti di un sé che appare diverso nel fluttuare del tempo, dei sentimenti, dei rapporti; del sé nei confronti di coloro con cui si condividono sin dalla nascita linguaggi, costumi, comportamenti, credenze, valori; nel proprio gruppo nei confronti degli altri gruppi; della propria specie nei confronti delle altre specie – è forse ciò che distingue la nostra specie da tutte le altre: e questo rapporto chiama in causa il livello individuale e il livello collettivo, il rapporto tra natura e cultura, tra storia e società, i meccanismi psichici individuali e i mutamenti sociali. (Callari Galli in Dallari 2000, p. 72).

Nella loro analisi sul principio di uguaglianza e sulle implicazioni che la sua diffusione ha in ambito educativo, i pedagogisti Piero Bertolini (1931-2006) e Marco Dallari evidenziano una contraddizione - che diventa una sorta di linea guida culturale e politica - quando ci dicono che

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l’uguaglianza nasce come aspirazione dell’individuo ad abbattere i privilegi del potere precostituito, a cancellare le gerarchie storicamente affermate; nasce come determinazione di ogni individuo a essere considerato, nella sua diversità, uguale agli altri

e qui sta la contraddizione per cui “è l’uguaglianza che deve garantire la diversità, difendere cioè l’unicità e la validità di ogni esperienza” come direbbe anche il sopracitato Laing, mentre la valorizzazione delle differenze è in realtà “un tema assai ostico per la nostra cultura, che finora ha proceduto con la cancellazione delle differenze” (Bertolini & Dallari 1988, p.72). Vi è dunque una chiara percezione di inadeguatezza di una didattica standard uguale per tutti, infatti

l’omogeneità è un’illusione pericolosa – afferma il pedagogista Dario Ianes - ma nel profondo di ognuno di noi è la diversità che porta con sé il segno del pericolo. Cercare di valorizzare le differenze negli alunni è dunque una scelta faticosa di civiltà, di cultura e di politica della convivenza umana (Ianes 2015, p. 7).

Cambiamento come sapere, apprendimento, conoscenza di sé

Il più efficace strumento di strutturazione dell’identità personale è dunque – secondo il nostro Dallari - il sapere, ovvero i saperi che impariamo nella nostra formazione iniziale e quelli che continuiamo ad apprendere durante tutto l’arco della vita. Ma

a patto che il know-how di cui ciascuno si serve per risolvere giorno per giorno i problemi dell’esistenza quotidiana, possa corrispondere o integrarsi con un sapere che a qualcuno potrebbe apparire ‘inutile’ ed invece è indispensabile per costruire per sé e per gli altri la propria figura identitaria.

Il più importante pedagogista dell’arte italiano ci aiuta ad uscire dalle sole logiche di un sapere formale dato dai sistemi classici dell’ istruzione, perché

occorre cioè che il patrimonio rappresentato da un bagaglio culturale, da abilità, conoscenze e competenze simboliche facenti parte della comunità di appartenenza e condiviso con essa divenga anche mio, e mi metta nelle condizioni di utilizzare le mie idee, il mio linguaggio, le mie conoscenze per poter commentare, spiegare, raccontare quel che so e dunque quel che sono (Dallari, 2000, p.45).

Facilitare la consapevolezza, l’individuazione, l’intersoggettività

Ma come scoprire ed accrescere le proprie differenze, ovvero questo patrimonio personale di conoscenze e competenze personali di cui abbiamo appena parlato? Come trovare il bandolo della matassa della propria identità personale e professionale in un contesto davvero problematico fatto di insicurezze e paure diffuse? (Fortin & Colombo, 2011). Come affrontare un tempo nel quale “tendenze naziste” (Pontara, 2019) si manifestano a vari livelli (culto del più forte, disprezzo per il debole, emarginazione del diverso, glorificazione della violenza, culto dell’obbedienza assoluta, dogmatismo fanatico) e in forme sempre più raffinate? Come evitare i pregiudizi e limitare il pericolo

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della “neutralità olimpica” (4) (Tarozzi 2004, p. 315) fatta di cinica indifferenza e di disinteresse per le differenze?

È necessario dare a queste domande delle risposte umanamente necessarie e concretamente realizzabili almeno nei contesti propri dell’educazione come la scuola, ma non solo. Il campo applicativo della pedagogia interculturale infatti

ha a che fare con la possibilità di formarsi alla conoscenza e alla pratica della propria cultura e di quella degli altri, con la capacità di stabilire relazioni, scambi, confronti e di gestire negoziazioni e conflitti (Favaro, 2004, p. 15).

Seconda parte. L’experiential learning per le relazioni d’ aiuto

Per un tentativo di risposta umanamente necessaria nella gestione di relazioni problematiche, iniziamo la nostra riflessione riferendoci al massimo esperto italiano di teoria e pratica della nonviolenza gandhiana Giuliano Pontara, mentre per la concretizzazione formativa ci affidiamo ad una prassi efficacemente sperimentata dalla comunità scientifica di psicologi e pedagogisti di tutto il mondo, che fa riferimento all’applicazione di metodologie di experiential learning come l’Approccio Centrato sulla Persona di Carl R. Rogers. 

Fiducia e tendenza attualizzante come antefatti

Pontara, in uno studio da noi sollecitato risponde, nelle sue conclusioni, che la fiducia è il fattore che considera comune sia alla nonviolenza che alla democrazia: “la fiducia è una componente importante della ‘strategia’ nonviolenta di trasformazione dei conflitti” che presuppone una disposizione fiduciosa ad attendersi dall’altro, anche se oppositore, che

risponda in modi umani quando lo si mette di fronte a comportamenti nonviolenti (che non comportino una minaccia alla sua incolumità fisica e psichica); una disposizione fiduciosa ad attendersi che l’altro sia portato ad agire e ad interagire in modi cooperativi e costruttivi quando lo si mette di fronte a comportamenti di tal fatta (Pontara, 2011, p. 30).

Egli stesso ci dice tuttavia che la fiducia nell’altro comporta anche l’essere disposto a correre dei rischi, ovvero a scommettere sull’altro. Cosa che, in certe situazioni può anche rendere vulnerabile chi la pratica. Per cui:

la fiducia nell’altro presuppone, psicologicamente, un senso di fiducia in sé: per chi non ha fiducia in se stesso – perché ‘non sente sicurezza’ – è più difficile avere fiducia nei confronti dell’altro (idem).

È proprio sulla fiducia negli altri e in se stessi che – dal nostro punto di vista - si innesta fluidamente l’action-research fenomenologica di Carl R. Rogers. Sappiamo che egli, prendendo ispirazione dai successi clinici del suo metodo psicoterapeutico, ha cercato di applicarli nel campo dell’educazione, della promozione della salute e della formazione al fine di favorire lo sviluppo di persone interiormente libere. Egli ha cercato di realizzare una piccola rivoluzione, pur sapendo che le tendenze dominanti nel campo dell’istruzione 375

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formale andavano verso il conformismo, l’obbedienza, la rigidità, allontanandosi dalla libertà e dunque dalla ricerca di un’identità personale e professionale autenticamente intesa.

Alla base politica, o all’orizzonte, dell’Approccio Centrato sulla Persona (ACP) sta infatti la profonda fiducia nell’organismo umano nello sviluppare le potenzialità del soggetto, in una tendenza organismica direzionale costruttiva chiamata “tendenza attualizzante” diretta alla conservazione, all’accrescimento e alla riproduzione (Rogers, 1983, p.103). 

Formare alle competenze relazionali in modalità student-centered

Il metodo esperienziale di Carl R. Rogers, basato su una solida teoria umanistica della personalità, può offrire alcune strategie concrete e molto apprezzate dagli studenti (Tausch & Tausch, 1978; Zucconi & Howell, 2003; Fortin, 2013; Fortin, 2019) anche al fine di acquisire alcune competenze relazionali di base, specifiche ed efficaci per la futura professione di aiuto (5). A dire il vero il metodo risulta di valida applicazione sia per il futuro professionista, che per il comune cittadino caregiver, che intende attivare una relazione parentale di aiuto significativa (Rogers, 1983). Esso, nel contesto delle professioni in campo sociale e sanitario, si può collocare all’interno del paradigma Sistemico Biopsicosociale alla cura (WHO, 1986; Zucconi & Howell, 2003) e non esclude, ma piuttosto favorisce ed incentiva, il contributo specifico di altre teorie scientifiche. Nel contesto del Lifelong Learning (Goguelin et.al. 1972; Cresson, 1995; Bruscaglioni, 1997; Maggi, 2000) questo approccio può diventare uno strumento applicativo dell’Experiential Learning (Dewey 1938/1997; Kolb, 1984; Carmagnani, Danieli & Denora, 2006), come dei modelli di progettazione per competenze di profili professionali (Lotti, 2017), ma anche dell’Action-Research (Lewin, 1946; Kemmis S. & McTaggart, 1988) nel quadro degli auspici del Memorandum di Lisbona. Nel contesto della formazione universitaria esso favorisce l’applicazione concreta dei Descrittori di Dublino (6) per la costruzione della progettazione didattica dei corsi di laurea in coerenza con il Bologna Process (1999) ed alla realizzazione delle “attività formative” previste dalla legge 270/2004 (7).

Nelle sue ricerche cliniche a partire dagli anni ’50 lo psicologo e pedagogista statunitense (8) si concentra proprio sulla relazione intersoggettiva e su quanto avviene a livello di comunicazione. Questo approccio maieutico e sistemico mette in evidenza ciò che sostiene e facilita un processo di crescita positivo, tendente al benessere e alla realizzazione della persona, ovvero in grado di contrastare quei processi di deterioramento e aggravamento dell’eventuale disagio.

Le tre core conditions “necessarie e sufficienti” che dipendono essenzialmente dalla competenza del formatore (ma anche dal genitore, dall’adulto, dal helper, dal carer, dal terapeuta, dal contesto educativo e formativo ecc..) sono: l’unconditional positive regard (rispetto positivo incondizionato), congruence (autenticità) ed empathic understanding (comprensione empatica).

Unconditional Positive Regard. Il formatore durante il training esperienziale considera lo studente come una persona globale e degna di rispetto incondizionato, assegnando valore in particolare alle sue emozioni e opinioni, non solo al suo intelletto. Tale

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insegnante assume un atteggiamento non giudicante la persona sulla base delle sue opinioni; convinzioni che sa rispettare profondamente e comprendere pienamente anche se totalmente diverse dalle proprie. 

Il formatore sa “accettare appieno la paura e l’esitazione dello studente quando si avvicina ad un nuovo problema, oltre che la gratificazione che prova dal riuscire. Se l’insegnante è in grado di accettare l’apatia occasionale dello studente, il suo desiderio di esplorare strade collaterali alla conoscenza, oltre che i suoi sforzi disciplinati per raggiungere gli obiettivi principali, promuoverà questo tipo di apprendimento” (Rogers & Stevens 1987, p. 67).

È risultato evidente come lo sviluppo di questo approccio all’insegnamento, tende ad aumentare la stima di sé dello studente che così, egli stesso, si può accettare più facilmente, apprezzando i suoi particolari punti di forza, comprendendo i suoi particolari punti di debolezza e, senza caricarsi di profondi e deleteri sensi di colpa, si predispone così all’incontro fiducioso con il nuovo, anche se particolarmente implicante e problematico, come nel caso delle professioni di aiuto.

Congruence. Un altro elemento che caratterizza l’insegnamento student-centered, è la sua congruenza o genuinità, la sua capacità di essere autentico, ovvero l’assenza di una facciata nella relazione interpersonale. 

Il formatore così

può arrabbiarsi. Può anche essere sensibile e simpatico. Dato che accetta come proprie le emozioni che prova, non ha alcun bisogno di imporle agli studenti. Può non piacergli l’elaborato di uno studente senza che questo implichi che esso sia oggettivamente negativo o che lo studente sia un cattivo studente. E’ semplicemente vero che a lui come persona questo elaborato non piace. Così egli è una persona per i propri studenti, non una personificazione anonima di un’esigenza didattica, né uno sterile tubo attraverso il quale la conoscenza viene trasmessa da una generazione all’altra (Idem).

Dunque l’insegnante, l’educatore, l’adulto, nel mentre vive la sua esperienza di relazione può comunicare all’altro la sua autenticità, ovvero ciò che è “disponibile alla consapevolezza”, ma “quando ciò sia appropriato” al grado di maturità, alle possibilità di comprensione ed ai bisogni dello studente (Rogers 1983, p. 101).

Empathic understanding. Un’altra condizione facilitante l’apprendimento creativo e responsabile è quella competenza di comprensione empatica del formatore, con lo scopo di capire dall’interno le reazioni dello studente e di fungere da modello in tal senso. Si tratta di sintonizzarsi nella stessa lunghezza d’onda dell’altro, di percepire lo stato emotivo dell’altro “come se” lo sentisse allo stesso modo, “come se” fosse al posto dello studente, ma senza mai dimenticare di essere un facilitatore di competenze e processi di consapevolezza. Ma per Rogers non basta la comprensione, in quanto essa, perché sia trasformativa, deve essere comunicata all’altro attraverso l’“ascolto attivo”, che non è solo una tecnica comunicativa (che peraltro andrebbe specificamente addestrata all’interno dei percorsi formativi) ma che diventa un modo di rispettare profondamente il percorso di ricerca di soluzione dei problemi agito dal soggetto aiutato in quanto protagonista assoluto del percorso di cura.

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Il nostro Piero Bertolini, dando un’accezione più prettamente fenomenologica, parla di “entropatia” (Bertolini & Caronia, 1993) nella rieducazione dei “ragazzi difficili”; ovvero quella capacità di considerare l’essere nel mondo del soggetto, con la sua storia particolare e più specificamente cercando di collocarsi dentro il significato che esso stesso dà alla propria esperienza, sulla base anche della propria cultura di riferimento e delle conseguenti rappresentazioni mentali.

Queste condizioni facilitanti ci confermano che, via via che continua questo apprendimento significativo, avvengono dei cambiamenti personali in direzione di una maggiore libertà e spontaneità, verso la realizzazione di “individui flessibili, adattivi e creativi” (Rogers & Stevens 1987, p. 75). Una flessibilità che potrebbe aiutarci a sostituire quegli atteggiamenti spontanei basati su pregiudizio o sulla paura, con altri più coraggiosi, più aperti, più inclusivi e “spingere più in là i confini dell’esclusione” verso una nuova forma di “comunità omnicomprensiva” (Bauman 2003, p. 79) ovvero inclusiva soprattutto per i più vulnerabili. 

FIG. 1 - THE THREE FACTORS IN THE PERSON-CENTERED APPROACH. (GRAPHIC BY TONY MCGREGOR)

Una spirale di relazioni significative

Come formatori abbiamo detto che una competenza fondamentale nelle professioni di aiuto è quella di saper costruire intenzionalmente una relazione significativa che sia evolutiva per il soggetto aiutato. Perché questa non sia solo una buona intenzione ma diventi una competenza è necessario farlo in un modo “in cui le dimensioni affettive e sociali siano commisurate ai bisogni e caratteristiche” del soggetto o del gruppo (Bertolini & Caronia 1993, p.500) e commisurate “agli obiettivi dell’intervento educativo, flessibili alle circostanze e ai cambiamenti che via via la relazione stessa produce” (Idem). Egli evidenzia la caratteristica della reciprocità della relazione per cui 378

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l’intervento educativo acquisterà un andamento a spirale cui contribuiscono attivamente sia l’educando che l’educatore (Ibidem, p.501) (9). 

Non dobbiamo però lasciarci solo affascinare da questa definizione, perché la centratura sul soggetto, questa alta flessibilità e questo andamento a spirale sono qualcosa di notevolmente indefinito che può produrre ansie ed incertezze allo studente poco esperto.

Risulta pertanto essenziale alla salute e sicurezza psicologica degli studenti, che ogni attività formativa basata sulle competenze relazionali, abbia formatori preparati con una solida teoria fenomenologico esperienziale di riferimento, validata da studi e ricerche riconosciute dalla letteratura scientifica internazionale.

L’approccio centrato sulla persona nella preparazione dei professionisti dell’educazione e della formazione

L’experiential learning nella formazione fenomenologica dedicata agli studenti delle professioni di aiuto, della salute, ovvero nelle professioni educative, dell’istruzione e formazione, viene praticata efficacemente in setting di Laboratori di didattica partecipativa, anche chiamati Laboratori di formazione esperienziale. 

Riferendoci qui ad un’esperienza di didattica universitaria (Fortin & Gottardi 2013) i Laboratori sono inseriti in un gruppo di insegnamenti finalizzati alla costruzione dell’identità di ruolo da parte di futuri educatori professionali e allo sviluppo di competenze professionali specifiche. In quell’esperienza di didattica laboratoriale si sono focalizzati alcuni temi di fondo suddivisi nel triennio di base: I anno: consapevolezza di sé; II anno: relazione di aiuto e counselling individuale; III anno: il gruppo e le sue potenzialità educative.

Questa tipologia di azioni di experiential learning laboratoriale richiede un setting specifico caratterizzato da:

- obiettivi formativi concordati (non solo tra formatori ma anche attraverso un patto formativo con gli studenti); - una metodologia specifica (attività con importanti caratteristiche partecipative; procedura finalizzata; spazio, tempi e strumentazioni tecnologiche adeguate); - una teoria psicologica scientifica riconosciuta al livello mondiale per il lavoro formativo in aula (l’ACP come minimo comun denominatore dei docenti ed anche come approccio comprendente altre teorie e discipline); - un clima di sicurezza psicologica (con lo scopo di aumentare la fiducia reciproca e diminuire la minaccia legata all’esporsi a livello personale); - alcune regole funzionali all’apprendimento esperienziale (sospensione del giudizio sulle persone del gruppo; rispetto della confidenzialità ovvero del segreto professionale; rispetto degli orari concordati).Inoltre è stato verificato, anche in quell’esperienza, che le caratteristiche della

formazione partecipativa rogersiana permettono di: 1. Orientare il lavoro del gruppo-classe in direzione del gruppo di lavoro (Quaglino et al. 1992) favorendo contemporaneamente la costruzione di relazioni interpersonali positive e orientate alla salute.

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2. Fornire al processo di insegnamento/apprendimento una caratterizzazione centrata sulla persona del partecipante e sul gruppo di apprendimento così da facilitare il coinvolgimento attivo e l’apprendimento significativo (Rogers 1969/1973; Dale 1969; Rogers 1983, Quaglino 2004).

3. Facilitare nel gruppo-classe la possibilità di sviluppare le competenze necessarie all’apprendimento continuo sul campo (a partire dai tirocini) e in particolare la capacità di metariflessione sull’esperienza (Rogers 1969/1973; Schön 1983/1993; Dallari 2005).

4. Integrare teoria e pratica in un processo continuo di ricerca-azione necessario per rispondere in modo flessibile ed adattivo ai bisogni emergenti (Quaglino & Carrozzi, 1996) in sinergia con le teorie presentate al corso di laurea in ambito dell’identità di ruolo.

5. Apprendere una metodologia di lavoro educativo attraverso la formazione di una comunità di apprendimento e la condivisione dell’esperienza (Rogers 1980, Salomone 1997, Reggio 2010)

6. Promuovere in modo integrato le competenze nelle tre aree del sapere, saper fare, saper essere e quindi mirare in modo specifico allo sviluppo delle capacità di relazione e comunicazione nei diversi contesti (Goguelin P. et al. 1972) ai fini di facilitare la crescita psicologica e l’empowerment delle persone in difficoltà. 

Questa trentennale esperienza di formazione di educatori professionali e di altri cittadini e professionisti secondo l’Approccio centrato sulla Persona, diventa dunque uno strumento di lavoro dei docenti universitari formatori.

La fenomenologia psicopedagogica di Rogers permette dunque di fare esperienza applicativa con i futuri educatori di una teoria delle relazioni interpersonali necessaria per poter orientarsi con fiducia e speranza nel territorio delicato e difficile della relazione con persone che, più di altre, sono state ferite dagli eventi o dalle caratteristiche disfunzionali delle relazioni della loro vita.

Infine la teoria di Rogers fornisce ai docenti un modello cui ispirarsi nel concreto lavoro delle attività esperienziali e di conseguenza, agli studenti, un esempio vissuto di relazione educativa, ovvero di una interazione che non toglie, ma incrementa consapevolezza, fiducia, libertà e responsabilità etica (Fortin & Gottardi 2013).

La soddisfazione percepita dagli studenti in educazione professionale

Una recente indagine sulla soddisfazione percepita da tutta la popolazione di 250 studenti (10 coorti di laureati dei primi 13 anni di corso) in educazione professionale, all’interno del ‘Laboratorio di formazione esperienziale’ di un corso di laurea del nord Italia, ha raggiunto valori di alta soddisfazione, superiori al 90%, evidenziando (in un’estrema sintesi che qui abbiamo aggettivato) i seguenti risultati. 

Il Laboratorio di experiential learning per gli studenti risulta:1. “Identitario”: il laboratorio è ritenuto fondamentale e utile in termini di identità professionale da quasi l’unanimità degli studenti. Essi considerano sia anche un irrinunciabile luogo di apprendimento attivo e un’importantissima occasione di crescita personale. 

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2. “Centrato”: l'obiettivo formativo “raggiungere la consapevolezza di essere con la propria ‘persona’ lo strumento principale del processo educativo conoscendo meglio i propri principi e atteggiamenti nella relazione interpersonale” è stato acquisito con un grado di consenso molto alto. Gli studenti hanno percepito come il laboratorio li abbia sollecitati ad esperire prioritariamente la dimensione umanistica delle competenze rispetto alla dimensione tecnica degli interventi.

3. “Impegnativo”: secondo l’opinione degli studenti, questa metodologia didattica, tocca un mix di contigue dinamiche personali e professionali, comportando anche un notevole dispendio di energie, in quanto il mettersi in gioco da protagonisti li tiene impegnati esistenzialmente e cognitivamente. Il laboratorio infatti comporta fatica e in alcuni casi anche sofferenza personale, favorendo così consapevolezza della loro vulnerabilità, cosa che, da un punto di vista formativo finalizzato alla relazione con persone con gravi vulnerabilità, è davvero molto importante. Anche se molto impegnativo il laboratorio è stato considerato dagli studenti uno spazio di benessere. 

4. “Relazionale”: il metodo di apprendimento laboratoriale sperimentato dagli studenti, a confronto degli insegnamenti teorici, favorisce in misura maggiore l’acquisizione delle competenze relazionali. Al contempo, tuttavia, essi sembrano attribuire una certa distanza cognitiva – anche se limitata e non dissonante - tra i laboratori e gli insegnamenti teorici; ciò offre uno spunto di miglioramento rispetto all’importante funzione dell’integrazione cognitiva degli apprendimenti e rispetto alla necessità di un affinamento della convergenza nella progettazione didattica futura. 

5. “Funzionale”: rispetto alla formazione pratica in tirocinio, gli studenti considerano il laboratorio molto utile e funzionale alle tre esperienze di tirocinio svolto all’interno dei servizi sociali, sanitari e socio assistenziali partner dell’università.

6. “Affettivo”: riguardo la formazione continua, esiste negli studenti una percezione di utilità della partecipazione a simili attività laboratoriali durante il loro futuro lavorativo, anche se preferirebbero farlo periodicamente assieme ai propri compagni di studi.

La soddisfazione e adesione alla proposta formativa espressa dagli studenti educatori può incoraggiare anche docenti universitari di diverse discipline a sperimentare e promuovere forme di didattica partecipativa, collegata alla realtà professionale e centrata sullo studente.

Conclusioni

In questo contributo abbiamo dato importanza alla formazione delle competenze relazionali. Siamo sempre più consapevoli che, in ambiente formativo, lo sviluppo personale vada considerato seriamente quanto lo sviluppo delle conoscenze teoriche e tecnico professionali. Utilizziamo le caratteristiche personali, note anche come soft skills, per interagire con le persone ed esse ci aiutano a migliorare il modo in cui comunichiamo e ci relazioniamo con studenti, colleghi, pazienti, familiari e amici. Queste abilità intersoggettive stanno diventando sempre più importanti con particolare attenzione alle professioni di aiuto. Le competenze relazionali possono positivamente influenzare le prospettive di studio, di carriera, le prestazioni lavorative e altre attività legate allo stile di 381

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vita. Sappiamo che i datori di lavoro, oltre alle qualifiche, sono sempre più alla ricerca di queste competenze "soft". In ambito socio assistenziale, sanitario e scolastico, queste competenze personali trasversali possono essere anche più importanti di alcune abilità tecniche. 

In questo lavoro, attraverso l’evidenziazione di costrutti di elaborazione fenomenologica ed interazionista, riteniamo di aver costruito un tessuto connettivo di concetti e teorie che evidenziano come l’Approccio centrato sulla persona di Carl R. Rogers possa avere una funzione applicativa importante nella preparazione delle professioni di aiuto. 

Crediamo che la formazione universitaria italiana abbia l’opportunità di sfruttare con più decisione il format pedagogico in cui gli ordinamenti dovrebbero essere posizionati, quello dei Descrittori di Dublino, ovvero di co-costruire con gli studenti quelle competenze applicabili anche nella pratica professionale e di imparare a comunicare e ad apprendere lungo tutto l’arco della vita. Abbiamo l’urgente “esigenza di rafforzare questa scelta, facendo sì che la declinazione degli Ordinamenti in termini di Descrittori non sia un adempimento quasi burocratico, a latere dell’effettiva progettazione, ma divenga invece il punto di partenza della stessa” (Luzzatto, 2001).

Concordiamo con chi esprime la necessità urgente che i Laboratori esperienziali universitari vengano maggiormente valorizzati, in quanto purtroppo sono

spazi di formazione che troppo spesso non trovano il giusto riconoscimento, relegati da chi non ne comprende la potenza formativa, a momenti di pura ‘gingillometria’, un luogo dove si perde tempo. Invece no, non è così e la riprova sta nei giovani futuri colleghi che dopo aver passato del tempo a sperimentarsi in momenti formativi dove la teoria incontra la pratica e l’incontro è naturale e bello, dove il fare insieme diventa necessario per comprendere le caratteristiche del lavoro, ti ringraziano (Petrini 2021, pp. 47-48).

Abbiamo riscontrato, anche dunque dai risultati di ricerche con studenti, che uno dei fondamenti per la costruzione dell’identità professionale del futuro professionista dell’educazione e della formazione, è la valorizzazione della relazione intersoggettiva. Si tratta di un presupposto metodologico, di uno strumento personalistico, di un terreno fertile su cui poi poter andare ad innestare più efficacemente ogni utile specialità teorica e pratica tra quelle auspicabili nelle scienze dell’educazione e della salute. Si tratta – per dirla con Mantegazza - a livello di politiche dell’educazione, non solo di un pensiero utopico sovversivo in direzione “della costituzione di un soggetto libero ed emancipato”, ma di “sognare l’utopia come luogo realizzabile e non solo immaginato” (Mantegazza 2005, pp. 60-61).

In considerazione dei profondi cambiamenti in corso, dovuti alla tragica esperienza della pandemia da Covid-19, il vasto mondo delle scienze dell’educazione, non potrà più sottodimensionare il proprio impegno di formazione esperienziale dell’intersoggettività, se non vorrà porsi al di fuori del reale e dalla storia.

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Note dell’autoreIl presente contributo è il risultato di un processo di ricerca-azione ispirato da Livio Passalacqua e costruito assieme a Giuseppina Gottardi con la collaborazione di: Marco Degasperi, Alessia Franch, Katia Guerriero, Lino Guidolin, Luisa Lorusso, Elisa Pastorelli e la stimolante supervisione di Marco Dallari e Antonio Samà. 

Note(1) Il CNCA, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza è una Associazione di

promozione sociale organizzata in 16 federazioni regionali a cui aderiscono circa 260 organizzazioni presenti in quasi tutte le regioni d’Italia, fra cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, enti religiosi. È presente in tutti i settori del disagio e dell’emarginazione, con l’intento di promuovere diritti di cittadinanza e benessere sociale. Complessivamente in un anno le organizzazioni associate alla Federazione si fanno carico di 4.000 nuclei familiari e 45.000 persone, mentre entrano in contatto con 20.000 famiglie e 153.000 persone. Approfondimenti in: www.cnca.it (visit. 01.04.2021).

(2) “La filosofia dell’educazione rappresenta (…) una fonte della scienza dell’educazione, nella misura in cui essa provvede ipotesi di lavoro di vasta applicazione (…) Sono ipotesi e non principi o verità, fisse e definitive” (Dewey 1951, p.43).

(3) “Nella prospettiva della fede cristiana Dio diventa per noi un Tu nella persona di Gesù Cristo. Nel Dio incarnato la relazione orizzontale dell’io umano con il Tu del Figlio di Dio, vero uomo, diventa la relazione verticale dell’io umano con il Tu divino. In altre parole, l’alterità verticale dell’Altro divino si rende accessibile a noi attraverso l’alterità orizzontale di Gesù di Nazareth” (Kowalczyk D., 2017, p.158).

(4) “L’indifferenza, il neutralismo del giudizio, è l’apparente valorizzazione della superficie esteriore della differenza, tipica del liberismo economico e di certo liberalismo politico. Una formula che accetta tutte le differenze secondo le regole superficiali del politically correct, poiché, in fin dei conti, il mercato richiede che non si facciano discriminazioni tra potenziali acquirenti. E’ il neutralismo della ragion pratica, astratto, separato da ogni giudizio di valore e ben attento a non mescolarsi alla passione” (Tarozzi, 2004, pp. 314-315)

(5) Fabio Folgheraiter sintetizza una definizione: «si ha relazione di aiuto quando vi è un ‘incontro’ tra due persone, di cui una si trovi in condizioni di sofferenza/confusione/conflitto/disabilità (rispetto ad una determinata situazione o a un determinato problema cui si trova di fronte e che si trova a dover gestire) e un’altra invece dotata di un grado ‘superiore’ di adattamento/competenza/abilità rispetto a queste stesse situazioni o tipo di problema» (Folgheraiter 1987, p. 8).

(6) I Descrittori di Dublino Conoscenza e capacità di comprensione (knowledge and understanding); Conoscenza e capacità di comprensione applicate (applying knowledge and understanding); Autonomia di giudizio (making judgements); Abilità comunicative (communication skills); a Capacità di apprendere (learning skills)

(7) Il D.L. 270/2004 definisce:-Art.1 o): “per attività formativa, ogni attività organizzata o prevista dall'università al fine di assicurare la formazione culturale e professionale degli studenti, con riferimento, tra l'altro, ai corsi di insegnamento, ai seminari, alle esercitazioni pratiche o di laboratorio, alle attività didattiche a piccoli gruppi, al tutorato, all'orientamento, ai tirocini, ai progetti, alle tesi, alle attività di studio individuale e di autoapprendimento”. -Art. 10 d): “attività formative, non previste dalle lettere precedenti, volte ad acquisire ulteriori conoscenze linguistiche, nonché abilità informatiche e telematiche, relazionali, o comunque utili per l'inserimento nel mondo del lavoro, nonché attività formative volte ad agevolare le scelte professionali, mediante la conoscenza diretta del settore lavorativo cui il titolo di studio può dare accesso, tra cui, in particolare, i tirocini formativi e di orientamento di cui al decreto 25 marzo 1998, n. 142, del Ministero del lavoro”.

(8) Per approfondire aspetti biografici cfr. Rogers C.R. & Russell D.E. (2007). Carl Rogers: un rivoluzionario silenzioso. La Meridiana.

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(9) Di questo andamento circolare o meglio “a spirale” ci sono contributi importanti di Lewin (1946); Denzin-Lincoln (2005) riguardo il processo dell’Action-Research. In riferimento alle metodologie di apprendimento esperienziale delle competenze relazionali sono particolarmente interessanti anche i contributi teorici di David Kolb (1984) sull’Experiential Learning e Carmagnani-Danieli-Denora (2006) che con il Paradigma Pedagogico Ignaziano hanno attualizzato le intuizioni psicologiche di Ignazio di Loyola (1441-1556) presenti nel metodo degli “Exercitia spiritualia” (1541).

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