la mano del morto

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Havana 1947. Cairo si trova ad essere torchiato da un gruppo di criminali locali per via di una valigetta scomparsa di cui però non sa nulla. Da questo momento un intreccio di personaggi e storie si susseguono a ritmo incalzante in un romanzo in perfetto stile spy-story con un retrogusto noir e pulp.

TRANSCRIPT

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Collana Black

La Mano del Morto

Antonio Chiconi

Romanzo

mōmentum

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a mio padre

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Note

Il romanzo è di pura fantasia, pertanto ogni riferimento a fatti, persone e luoghi è puramente casuale. Nel testo sono state indicate in corsivo le parole in lingua locale. Così termini simili in più lingue (come ad esempio negro) sono pertanto da intendere nell’accezione linguistica d’origine. I contenuti del romanzo lo rendono sconsigliato ad un pubblico non adulto.

Mappa dei luoghi

A. Havana (Cuba) B. Bahia (Brasile) C. Rio (Brasile) D. Veracruz (Messico) E. Asunciòn F. Città del Messico (Messico) G. Belèm H. Manaus I. Stalingrado J. New York City K. Ginevra

Prologo

Guy Pearce virò delicatamente verso sud ovest. Il piccolo aereo cambiò rotta e puntò il muso verso le coste del Messico. La notte serena facilitava il pilota nelle sue manovre. La luna splendeva fra le rare nubi. Era la notte ideale per andarsene senza essere visto. Nessuno si sarebbe accorto della sua partenza, se non quando fosse stato troppo tardi. Il peggio era passato, ora si trattava solo di avere pazienza. Guy pregustava il momento in cui tutto si sarebbe definitivamente risolto e avrebbe potuto ricominciare una nuova vita. Con lei. Doveva solo avere pazienza ed essere prudente. Controllò di nuovo la rotta, tutto a posto. Cuba scomparve lentamente, come il suo passato.

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Prima Parte

Acqua alla gola

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L’Havana 1947 Il primo pugno lo colpì al viso, facendolo cadere insieme alla sedia alla quale era stato legato. Il secondo lo raggiunse alla bocca dell’esofago, non appena gli fecero la cortesia di rimetterlo in posizione verticale. Il risultato fu che vide la cena trasferirsi dal suo stomaco alle scarpe del picchiatore che gli stava davanti. - Questo stronzo mi ha vomitato sulle scarpe! Un manrovescio gli si abbatté sulla faccia. Cairo sentì il sangue riempirgli la bocca ed ebbe la malaugurata idea di sputarlo. Addosso ad un altro dei picchiatori. I polsi gli sanguinavano. Il filo di ferro che avevano usato per legarlo stava cominciando a fare il suo lavoro. Vide, ancora prima di sentirlo, il manganello che gli colpiva le reni. - Non ammazzatelo! Il signor Cairo ci deve dire un sacco di cose. Erano almeno in quattro, l’ultimo che aveva parlato doveva essere il capo. Faceva caldo, era umido e la temperatura mozzava il respiro. Il picchiatore che gli stava di fronte era in canottiera, fradicio di sudore, più per il clima che per la fatica di fare il suo mestiere. Le finestre chiuse non aiutavano la respirazione. Quello che doveva essere il capo gli si mise alle spalle e gli tirò i capelli, con così tanta forza che quasi lo rovesciò all’indietro. - Signor Cairo, vorremmo da lei alcune informazioni, a proposito di

una certa valigia che è in suo possesso. Il tono era gentile, quasi neutro, ma Cairo rabbrividì nonostante il clima. Gli faceva molto più paura quel tono di voce che non le torture che potevano infliggergli gli altri sgherri. Cercò di farfugliare qualcosa, ma evidentemente questo non soddisfece quei signori. Sentì un paio di colpi abbattersi sul suo corpo. La vista gli si annebbiò. A quel punto Cairo fece la cosa più sensata che poté. Svenne.

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La pioggerellina costante gli inzuppava l’abito e i capelli. Cairo rinvenne e aprì lentamente gli occhi. Se ne pentì immediatamente. Sentì una fitta lancinante, che, partendo dal cranio si irradiava per tutto il corpo, moltiplicandosi in modo esponenziale durante il tragitto. La luce arancione del lampione lo colpì agli occhi tumefatti, come se si trattasse della più bianca luce tropicale. Poco alla volta Cairo aprì gli occhi e altrettanto lentamente si guardò intorno. Era riverso per terra, all’aperto. Con estrema fatica si mise in piedi, più o meno. Barcollando arrivò ad un muricciolo e ci si appoggiò pesantemente. Era ancora vivo anche se avrebbe preferito essere già morto e sepolto: perché, anche se non sapeva per quale motivo, era nei guai fino al collo, ed anche oltre. Il dolore era sempre acuto, ma le fitte andavano diminuendo, consentendogli di vedere dove diavolo era finito. Era sul Malecòn, indubbiamente. Da qualche parte sul lungomare dell’Havana. Come ci fosse finito rimaneva un mistero, che Cairo non aveva nessuna intenzione di scoprire. Adesso doveva trovare un dottore e un luogo sicuro dove poter riprendere le forze. E pensare, naturalmente. Pensare a come si sarebbe potuto tirare fuori da tutto quel merdaio che lo stava ricoprendo. L’alba si stava avvicinando e il Malecòn iniziava ad animarsi. I tiratardi usciti da qualche casa da gioco, che si erano fatti spennare a sufficienza per quella notte e avevano riempito il portafoglio del signor Lansky e soci, lo guardavano senza scomporsi troppo. Non era certo raro trovare uno conciato come lui abbandonato in mezzo alla strada in quella città. Cairo si tolse la scarpa destra e ne tolse la soletta. C’erano cento dollari, la scorta d’emergenza. Quelli come lui dovevano tenere sempre conto di ogni eventualità. Faticosamente si alzò e si avvicinò alla strada. Fermò un taxi che aveva scaricato le ultime puttane della notte con relativi clienti. Era ormai fradicio. - Maledetta pioggia del cazzo. Decise che non sarebbe morto all’Havana. Non questa volta, almeno.

***

I giorni successivi li passò in preda alla febbre alta. Vide nel dormiveglia un bel po’ di gente, quasi tutti morti e quelli che non lo erano se lo sarebbero meritato. Insomma un bell’incubo continuo. Quando finì, Cairo non ne ebbe nessuna mancanza. Si trovava in uno squallido letto di una squallida pensioncina nel quartiere Vedado. Ce lo aveva portato Marcos Piñero, un portuale che

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gli doveva qualche favore e forse anche di più. Veniva a curarlo un dottore nordamericano, un certo Snow. Era un tipo magro, piuttosto alto, perennemente sudato. Forse per via del nome così inadatto per quelle latitudini. Cairo sapeva che una volta, a casa sua, nella zona di New Orleans, praticava aborti clandestini. A tutte, senza distinzione di censo o di razza. Malauguratamente una sua paziente gli morì sotto i ferri e purtroppo per lui era del colore sbagliato. Quindi fu costretto a fare i bagagli piuttosto in fretta e decise di trasferirsi, non in Messico come facevano di solito altri nella sua stessa situazione, ma a Cuba. Marcos garantiva per lui. A Cairo questo bastava. - Caro signore, nel complesso non è messo troppo male: è ancora

vivo! Il dottore ridacchiò e continuò: - Ha quattro costole incrinate, il naso rotto, ematomi di ogni tipo e

un probabile trauma cranico, quindi riposo assoluto. Detto questo si diede da fare con le fasciature, riducendolo come un parente prossimo di una mummia. Poi gli fece una iniezione di morfina. - Tornerò fra un paio di giorni, ma fino ad allora riposo assoluto! Lo disse come una minaccia e se ne andò. Il calore della droga si impadronì di Cairo.

***

Cairo era disteso supino sul letto, con il costato fasciato e il naso incerottato. Faceva fatica a respirare. Nonostante questo si accese una Camel ed inspirò. Tossì e gli parve di avere un vulcano in eruzione nei polmoni. Il dolore gli era tornato, costante ed intenso, ma non voleva prendere dell’altra morfina che il dottore gli aveva lasciato. Sapeva fin troppo bene quanto potesse essere pericolosa e seducente quella signora. Dalla strada venivano voci e rumori, musica ed a volte anche un po’ di silenzio. Luce e buio si alternavano dietro le gelosie accostate. Ogni tanto pioveva. Il caldo umido era onnipresente.

Ci morirò in una di queste topaie, pensò Cairo. Quante volte si era ripromesso di non finirci più? Ormai non le contava neanche. In fondo, quante promesse, soprattutto con se stesso, non aveva potuto, o forse voluto, mantenere. Troppe, sempre troppe, si disse. Appoggiò il braccio sopra gli occhi umidi. La sigaretta si consumò fino in fondo bruciandogli le dita. Cairo non la sentì nemmeno.

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*** Marcos Piñero entrò nella stanza portando un vassoio con un piatto fumante. Sembrava un cameriere dell’Hotel Nacional. Cairo sorrise al pensiero. - Ti ho portato un piatto di sopa de pollo con lime. Mama Tina al

piano di sotto dice che è miracolosa per guarire gli ammalati. Appoggiò il piatto su un tavolino di fortuna vicino al letto ed aiutò Cairo ad avvicinarcisi. Poi si sedette a cavalcioni su una sedia e si mise a ridere. - Fai un po’ meno schifo di una settimana fa, ma sembri ancora

uscito da un film con Boris Karloff. Cairo fece una smorfia e cominciò a mangiare la zuppa. Marcos era un nero alto e prestante, con il sorriso pronto e gli occhi furbi. Lo stesso aspetto che gli aveva guadagnato una moglie, molti amici e moltissime amichette in tutta l’Havana. Aveva anche una cicatrice lungo il collo, seminascosta da un fazzoletto rosso, che gli dava un aspetto pericoloso, da felino pronto alla zuffa. Lavorava al porto, faceva un po’ di contrabbando ed era membro rispettatissimo della Società segreta Abakuà. Conosceva tutto di quella città e poteva muovercisi a piacimento. Si erano conosciuti durante la prima venuta a Cuba di Cairo, otto anni prima. Allora Cairo faceva da tramite per della gente di New York che lavorava per “Lucky” Luciano. Una sera, al porto, dopo aver controllato un carico che doveva partire per gli Stati Uniti, sentì delle voci provenienti da un angolo dei docks. Si avvicinò silenziosamente e vide due gorilla che tenevano fermo un nero ed un terzo che si dava da fare con un tirapugni di ottone. Erano tre grossi stronzi irlandesi, che lavoravano come operai specializzati per la Bell. Cairo li aveva visti in giro, sempre insieme e sempre in cerca di guai. - Tieni negro di merda, così impari a rompere i coglioni e a dirci

che cosa possiamo o non possiamo fare. Detto questo l’irlandese tirò due ganci micidiali al costato del nero. Questi iniziò a perdere sangue dalla bocca. - Dai Pat fagli vedere a questa scimmia! - Si, diamogli una bella lezione a questo carboncino puzzolente! I due che tenevano il nero si stavano esaltando pericolosamente. Il tipo chiamato Pat tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni un grosso coltello a serramanico e lo aprì. - Tenetelo fermo ragazzi, che gli insegno le buone maniere.

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Il nero sbarrò gli occhi dalla paura e cercò di divincolarsi, ma i due gorilla lo strinsero in una morsa. - Ora negro ti castro, come si fa con gli animali del tuo stampo.

Così imparerai a rispettare gli uomini bianchi e a non molestare le nostre donne.

Il nero cercò di urlare, mentre i due irlandesi se la ridevano, assaporando lo spargimento di sangue. Cairo tirò fuori l’automatica e sparò. Il primo proiettile trapassò il ginocchio del tipo chiamato Pat, scaraventandolo per terra. Gli altri due, paralizzati dalla sorpresa rimasero immobili. Il secondo proiettile colpì il gorilla di sinistra al fegato, mentre il terzo raggiunse la schiena del gorilla di destra, che si era ripreso e stava cercando di scappare. Il nero si accasciò a terra e cominciò a vomitare. Cairo si avvicinò al tipo chiamato Pat, puntandogli la pistola in faccia. L’irlandese si cagò addosso dalla paura e chiese pietà. - Così volevi insegnare le buone maniere a questo negro, vero

irlandese del cazzo? Bene, ora ti terrò io un corso rapido di buona educazione.

Detto questo Cairo gli sparò tre colpi in rapida successione, tutti e tre in mezzo alle gambe. Il tipo chiamato Pat urlò come un maiale sgozzato. - Sempre stati sulle palle gli irlandesi. Poi si avvicinò al nero che era ancora bocconi e lo aiutò a rialzarsi. A fatica e sputando sangue, il nero riuscì a parlare. - Mi chiamo Marcos Piñero e ti devo la vita. - Lo credo bene, amico. Cairo, allora, se lo caricò in spalla con una certa fatica e lo trascinò via da quella macelleria.

***

Cairo aveva finito di mangiare e si stava gustando finalmente una sigaretta, disteso sul letto. - Allora quale è la situazione? Marcos si rabbuiò. - La tua situazione è disastrosa. Ti stanno cercando in tutta

l’Havana. Tipi brutti. - Questo lo avevo immaginato, ma mi piacerebbe sapere “chi” mi

sta cercando e magari anche il “perché”…

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- Sul “perché” non ne so molto, ma il “chi” lo conosco e certamente non ti farà piacere scoprirlo.

Cairo alzò il sopracciglio in segno di curiosità. Si sentiva stupidamente calmo, come se la cosa non lo riguardasse. Vide addirittura tutta la scena da un'altra prospettiva: lui disteso sul letto e Marcos che gli stava seduto di fronte. Sfortunatamente la cosa lo riguardava, eccome. E, soprattutto, non si poteva certo permettere di non avere paura. - Forza compadre, non farti pregare, sputa il rospo! Chi c’è dietro? - L’uomo che ha diretto le operazioni, quello che ti ha rapito e

interrogato, si chiama Ruben Fonseca… - Cazzo! - …ed è l’uomo di fiducia di Gregorio Matos, il referente cubano

di… - …Santo Trafficante. Ora che sapeva “chi” cominciava ad avere paura. Si accese un’altra sigaretta, ma questa non se la gustò per niente. - Ne sei sicuro? - Assolutamente compadre. Uno dei gorilla che ti ha pestato è il

cugino di un mio hermano dell’Abakuà. Gli ho parlato personalmente. Mi ha detto che l’ordine è venuto direttamente da Gregorio: ha specificato che dovevano pestarti e farti sputare dove tenevi una certa valigetta. E, dopo averla recuperata, farti sparire nel golfo. Per sempre. Matos non voleva guai con Landers dell’United Tobaccos, né tanto meno con Luciano.

Logico, pensò Cairo.

***

Cairo era tornato a Cuba l’anno precedente. Ci era stato mandato da Robert McCloure, un alto dirigente di un’azienda del tabacco della Virginia. Si erano dati appuntamento in un caffè di Brooklin, lontano da occhi ed orecchie indiscreti in un giorno di fine settembre. Pioveva e i newyorkesi avevano già tirato fuori dall’armadio i cappotti. Cairo era arrivato all’appuntamento con un certo anticipo, come suo solito, per evitare sgradite sorprese. Non gli piaceva quella città e cercava sempre di starci il meno possibile. All’ora stabilita arrivò McCloure, capelli brizzolati tagliati a spazzola, marziale come un colonnello in pensione. Ed in effetti quello era, solo che si era congedato dall’esercito con il grado di generale ad una

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stella. Aveva reso servizio nello Stato Maggiore del Generale per tutta la campagna del Pacifico e subito dopo la guerra aveva ripreso il suo posto nella vita civile. Cairo lo aveva conosciuto quando era occupato nel Servizio Informazioni Riservate di MacArthur. - Buongiorno signor Cairo, o come si fa chiamare attualmente. Lo disse mentre si accomodava di fronte a Cairo e nello stesso momento ordinava un caffè con un solo gesto rivolto alla cameriera. Che prontamente ubbidì. Cairo se lo immaginava mentre, con piglio militare, comandava una legione di segretarie, dalla sua scrivania. Cairo trattenne un sorriso a stento. - Cairo va bene signore. Cosa posso fare per lei, generale? - Non so mai se mi sta prendendo per il culo o meno quando usa

quel tono. Ma veniamo agli affari. La mia società ha un’importane affiliata a Cuba, la United Tobacco. Il direttore si chiama Mike Landers, ed è un tipo in gamba. Ex comandante di marina, Ivy League e tutto il resto. Ma non è abituato a trattare certi “problemi” collaterali alla sua attività ed alle peculiarità dell’isola in questione.

Arrivò il caffè e McCloure ne bevve una lunga sorsata bollente senza battere ciglio. Un vero soldato. - Purtroppo ci sono persone che gravitano intorno al mondo degli

affari in generale ed in particolare a Cuba… - Cosa Nostra. - Non sarei così lapidario, Cairo. Sono uomini d’affari che non ci

possiamo permettere di ignorare. - Quindi… - Quindi ci serve una persona che tratti con queste persone per

conto nostro. Una persona che non sia direttamente collegabile con l’azienda o con Landers. Una persona che conosca quelle persone e sappia come…parlarci. Uno come lei, insomma. Verrebbe ovviamente ben ricompensato ed avrebbe un lavoro…onesto.

- Già, verrei scaricato alla voce “rappresentanza” suppongo. McCloure si irrigidì e fece la faccia seria. Si stava per incazzare di brutto. Non era abituato a farsi prendere per il culo. Cairo tese le mani in segno di scuse. - Quando devo partire, signore? - Il più presto possibile.

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Soddisfatto l’ex generale si alzò, lasciò alcune banconote sul tavolo e scomparve all’esterno sempre con aria assolutamente marziale. Il giorno dopo Cairo era su un aereo diretto all’Havana. Si lasciò alle spalle l’autunno nordamericano. Senza rimpianti.

*** Cairo si sistemò in una pensione senza pretese e prese contatto con Landers appena possibile, secondo precise istruzioni dell’ex generale. Si incontrarono in un paladar a Matanzas, nella città vecchia. Era un pomeriggio soleggiato, ma niente affatto afoso. Landers aveva circa quarant’anni, alto, biondo, il tipico esemplare di all american boy. Era un figlio della vecchia aristocrazia di Boston, ex comandante di marina, durante la guerra era stato nel Pacifico a farsi il culo agli ordini di Nimitz. Il padre era un importante azionista della United Tobacco, quindi finito di dare la caccia ai giapponesi aveva trovato immediatamente lavoro. Ma Landers non era il solito figlio di papà. Parlava spagnolo e conosceva piuttosto bene la realtà cubana. A Cairo piacque immediatamente. - Amo questo paese, signor Cairo, amo la sua gente, i suoi colori,

tutto. Non vorrei essere in nessun altro posto al mondo. Anzi, per portarmi via mi dovranno arrestare e deportare!

Rise ed ordinò altre due birre. - Per un marinaio come me questo è il paradiso. Si può pescare di

tutto e i fondali poi…Ma non vorrei darle l’idea che qui non faccia niente. Lavoro, anche bene pare. Ma ci sono delle faccende nelle quali è meglio che non sia coinvolto.

- E qui entro in azione io. - Esatto signor Cairo. Lei sarà un nostro consulente esterno.

Prenderò contatto con lei ogni volta che ce ne sarà bisogno. - Per quanto riguarda i soldi? - La pagherò dai miei fondi per le spese personali. Quindi non ne

rimarrà nessuna traccia. - Sarò come l’uomo invisibile. Ordinarono dell’aragosta, che si rivelò naturalmente eccellente. - Chi conosce di quella gente, signor Cairo? - Ufficialmente nessuno, sono un “indipendente”, entro certi limiti.

Ma ho buoni contatti con la gente di Luciano. - Lo conosce personalmente?

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- Ho lavorato per lui. - E’ mai stato dentro? - Non mi hanno mai beccato. Più o meno. - Ciò significa che è uno sveglio. - Veloce, più che altro. Landers rise e alzò il bicchiere per un brindisi. - Il colloquio di lavoro è terminato, quindi? - Esatto. Penso che andremo d’accordo.

*** Cairo la vide una sera in un dancing. Era una mulatta di poco più di vent’anni, alta più di lui di una buona testa. Portava un vestito a fiori che faceva risaltare la sua semplice bellezza. La abbordò e poco dopo si ritrovarono a letto in un motel poco distante. La sistemò in una casetta di tre stanze poco fuori l’Havana. Le pagava tutti i conti e le passava un generoso mensile. In cambio Cairo voleva solo del sesso ogni volta che ne aveva voglia, della compagnia per andare a cena, a ballare, al cinema. O quando la solitudine o i brutti pensieri diventavano difficilmente gestibili. Cairo non era certo un romantico o un sentimentale. Non voleva un simulacro di relazione, anzi non voleva proprio nessun tipo di relazione. Anche lei non pretendeva niente di più di quello che Cairo poteva e voleva darle. In fondo la trattava bene, non la picchiava ed era piuttosto gentile. Ne aveva avuto abbastanza di sopportare quei grassoni sudati che rimorchiava per arrivare alla fine del mese o i capetti che se la sbattevano in fabbrica e tutto per non farsi licenziare. Per non parlare di quei damerini dalla parlantina facile e dalle mille promesse, che, una volta passati dal suo letto, sparivano nella notte. Adesso invece aveva una casa tutta per lei, non doveva dividere la stanza di quel merdoso condominio dove aveva abitato con altre tre ragazze e condiviso il bagno con tutto il piano. Se fosse stata attenta e previdente avrebbe messo via un po’ di soldi per i tempi duri, che sicuramente sarebbero tornati. Lei si chiamava Mariana.

Bahia

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Il Dottore si lavò le mani nella bacinella sbeccata. Quella era stata la sua ultima visita per quel giorno. Non ce ne sarebbero state altre fino alla sua prossima venuta in città. Erano quasi tre anni che faceva visite gratuite per quei poveracci che vivevano nel pelourinho. Si asciugò, salutò i pazienti che si erano radunati in quell’ambulatorio di fortuna e si incamminò per le vie della città coloniale. Nonostante la decadenza dovuta all’incuria, il fascino e la bellezza di quella che era stata la prima capitale del Brasile erano ancora visibili. Attento a non inciampare nell’acciottolato che lastricava tutto il quartiere, il Dottore arrivò in Praça da Sé. Era di corporatura minuta con la testa completamente rasata, indossava un inappuntabile abito bianco di lino, tagliato su misura e aveva due occhi grigi ai quali niente sfuggiva. Karl lo stava aspettando, appoggiato alla berlina nera parcheggiata nella piazza. Appena lo vide, si riassettò immediatamente e gli si fece incontro. - Allora Karl, novità? - Purtroppo no, signore. Il nostro uomo all’Havana ci ha

comunicato che l’inglese è sparito. Pare che avesse un complice. - E la merce? - Volatilizzata anche lei. Karl esitò. - C’è altro, Karl? - Si signore. Le persone di Asunciòn, vorrebbero che lei li

raggiungesse al più presto in Paraguay. Hanno organizzato una riunione di tutto il direttivo.

- Un'altra…Continua Karl, scommetto che c’è dell’altro. - Si signore. Parker, quello del governo americano, le vorrebbe

parlare. Il Dottore puntò i suoi occhi grigi in quelli di Karl, che cominciò a sudare. Il Dottore non si alterava mai in maniera evidente, gli bastava cambiare tono di voce e Karl ormai ne conosceva tutte le sfumature. Ora stava perdendo la pazienza. Karl avrebbe potuto spezzargli il collo con una mano sola: non solo lo sovrastava di almeno trenta centimetri, ma era addestrato a farlo. Ma non lo avrebbe mai fatto. Aveva troppa paura e rispetto per quell’uomo, non solo, se glielo avesse chiesto sarebbe morto per lui. Di certo per lui aveva già ucciso.

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Il Dottore inspirò a fondo per ricacciare la collera montante indietro ed espirò dopo aver ritrovato la calma. - Bene Karl. Manda un cablo ad Asunciòn e rassicura tutti che sarò

lì in tempo per la riunione. Poi fai preparare l’aereo, che sia pronto per partire per Rio questa sera stessa. Andremo a sentire cosa vuole il signor Parker da noi. Dicevi che il nostro inglese ha un complice? Sappiamo almeno chi è, che cosa fa, dove abita?

- Si signore. Il nostro uomo all’Havana dice che il complice si chiama Cairo e che è sparito anche lui.

- Curioso non trovi? Spariscono tutti da quella città. Sembra di essere dentro un gioco di prestigio di Houdinì. Vedi di farlo ritrovare questo Cairo. E di stragli dietro. Magari ci porterà dall’inglese o dalla merce.

- Una volta trovato potrebbe convincerlo a parlare, con altri mezzi…

- Caro Karl, a volte si ottiene di più con il cervello che con la forza bruta, ormai dovresti saperlo.

Detto questo salì in auto e fece cenno allo chauffeur di andare. Aveva un appuntamento per pranzo con il vescovo in un convento poco lontano. Karl rimase fermo finché non vide l’auto scomparire, poi si avviò a piedi verso l’ufficio della Western Union, dove avrebbe potuto mandare il cablo, mettersi in contatto con l’aeroporto e con Cuba. Bahia si era vestita a festa e si stava preparando a celebrare il Venerdi Santo, la mattina con le processioni cattoliche e la notte nei terreiros de candomblè. A Karl non dispiaceva il Brasile, nonostante la sua evidente arretratezza, il suo endemico sottosviluppo, l’eccessivo colore e il difficile clima tropicale. A volte, di notte, sotto la zanzariera, Karl sognava i paesaggi bavaresi della sua infanzia, ma, ridestandosi, pensava che aveva visto di peggio. Stalingrado, ad esempio.

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