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Instant Book Chiarelettere Piero Calamandrei

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“Chiamare i deputati e i senatori ‘rappresentanti del popolo’ non vuol più dire oggi quello che voleva dire in altri tempi: si dovrebbero chiamare ‘impiegati del loro partito’.”Piero Calamandrei

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Page 1: Lo Stato siamo noi

CHIARELETTEREInstant Book

Date: 27/09/2011

Designer: David Pearsone. [email protected]. +44 (0) 20 7837 6654

Trimmed size: 110·0mm (w) x180·0mm (h)

Spine width: 10·0mm

ISBN: 9788861902299

Special instructions: Each title inthe Instant Book series uses 1 xPANTONE colour (PANTONE 206U) and 1 x process colour (black); isto be printed on a cotton-rich,uncoated cover board (approx.300gsm) and finished with mattvarnish or equivalent invisiblesealant.The front cover artwork is to besubtly debossed (see page 2 fordeboss guide).

Piero Calam

andreiLo Stato siam

o noi

Piero Calamandrei(‒)

“Chiamare i deputati e i sena-tori ‘rappresentanti del popolo’non vuol più dire oggi quelloche voleva dire in altri tempi:

si dovrebbero chiamare‘impiegati del loro

partito’.”

I S B N 978-88-6190-229-9

9 7 8 8 8 6 1 9 0 2 2 9 9

www.chiarelettere.it

€ ,

Progetto grafico:David Pearson

Instant Book Chiarelettere

Piero Calamandrei

Page 2: Lo Stato siamo noi

© 2011 Chiarelettere editore srl

Page 3: Lo Stato siamo noi

Discorsi e testimonianze di pensiero libero,piccoli saggi, articoli, lettere.

Contro censure e condizionamenti.Libri politici per cercare un’altra politica

e ritrovare un pensiero forte.Libri del passato pensati per il futuro.

Usiamoli.

instant book

© 2011 Chiarelettere editore srl

Page 4: Lo Stato siamo noi

Giurista e professore universitario, nel 1925 aderisce al Manifesto degli intellettuali antifascisti e collabora conla testata «Non Mollare» insieme a Gaetano Salvemini,Ernesto Rossi, Carlo e Nello Rosselli. Durante il Ventenniofu uno dei pochissimi professori e avvocati che non chiesela tessera del Partito nazionale fascista, continuando semprea far parte di una rete di opposizione al regime. Nel 1941 aderisce al movimento Giustizia e Libertà e un anno dopoè tra i fondatori del Partito d’Azione. Nel 1945 è nominatomembro della Consulta nazionale e nel 1946 è eletto all’Assemblea costituente. Nell’aprile del 1945 fondail mensile «Il Ponte». Tra le sue opere principali Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Uomini e città della Resistenza, Inventario della casa di campagna, Fede nel diritto.

piero calamandrei(Firenze, 1889 - 1956)

© 2011 Chiarelettere editore srl

Page 5: Lo Stato siamo noi

© 2011 Chiarelettere editore srl

Piero Calamandrei

Lo Stato siamo noi

chiarelettere

Giurista e professore universitario, nel 1925 aderisce al Manifesto degli intellettuali antifascisti e collabora conla testata «Non Mollare» insieme a Gaetano Salvemini,Ernesto Rossi, Carlo e Nello Rosselli. Durante il Ventenniofu uno dei pochissimi professori e avvocati che non chiesela tessera del Partito nazionale fascista, continuando semprea far parte di una rete di opposizione al regime. Nel 1941 aderisce al movimento Giustizia e Libertà e un anno dopoè tra i fondatori del Partito d’Azione. Nel 1945 è nominatomembro della Consulta nazionale e nel 1946 è eletto all’Assemblea costituente. Nell’aprile del 1945 fondail mensile «Il Ponte». Tra le sue opere principali Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Uomini e città della Resistenza, Inventario della casa di campagna, Fede nel diritto.

piero calamandrei(Firenze, 1889 - 1956)

00_PrimePagine x watermark.indd 3 6-10-2011 17:26:51

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© Chiarelettere editore srlSoci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A.Lorenzo Fazio (direttore editoriale)Sandro ParenzoGuido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.)Sede: via Melzi d’Eril, 44 – Milano

ISBN 978-88-6190-229-9

Prima edizione: novembre 2011

www.chiarelettere.itBLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA

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Sommario

Nota editoriale VIIPerché oggi di Giovanni De Luna IX

LO STATO SIAMO NOI

Prima di tutto 3

Discorso ai giovani sulla Costituzione 3 - Scuo-la e democrazia 10 - Cinquantacinque milioni 13 - Ragioni di un no 18 - «Lo avrai, camera-ta Kesselring...» 24

La nuova Italia 27

Leggi chiare, stabili, oneste 27 - La festa dell’In-compiuta 29 - Repubblica pontificia 32 - Costi-tuente e questione sociale 47

Resistenza e guerra 55

Desistenza 55 - Passato e avvenire della Resi-stenza 58 - Nessuno sarà innocente 76

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Politica 79

Maggioranza e opposizione 79 - Appunti sul professionismo parlamentare 88

Società e giustizia 97

In difesa di Danilo Dolci 97 - Bisogna aver visto 116 - La disgrazia di essere innocenti 121

Appendice 129

In nome di Dio o della Costituzione 129

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Nota editoriale

Gli scritti e i discorsi di Piero Calamandrei qui pubblicati coprono un arco temporale che va dal 1946 al 1956. La maggior parte dei testi raccolti sono ripresi da «Il Ponte», rivista fondata dallo stesso Calamandrei nel 1945, nel clima difficile del secondo dopoguer-ra, per difendere e indirizzare la nascente democrazia contro tutte quelle forze, politiche e non, che contrastavano il passaggio verso un’Italia diversa. Progetto di Calamandrei è quello di «defascistiz-zare gli italiani»; fondare una nuova, forte, coinvolgente religione civile capace di trovare nel senso dello Stato il suo valore essenziale e riscoprire l’importanza della cittadinanza attiva.

Oltre ai testi de «Il Ponte», riportiamo vari discorsi, tra cui il Discorso ai giovani sulla Costituzione (1955), il discorso tenu-to durante la votazione per l’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico (1949), in cui l’Autore argomenta le ragioni del suo convinto No, e ancora l’arringa in difesa di Danilo Dolci, che Calamandrei dife-se nel processo intentatogli per manifestazione sediziosa e turba-mento dell’ordine pubblico.

Ancora, Scuola e democrazia (1956) e Appunti sul professioni-smo parlamentare (1956) sono tratti rispettivamente da una rac-colta postuma di scritti di Giovanni Ferretti e dalla rivista «Cri-tica sociale».

I testi qui raccolti sono preceduti da un’introduzione di Giovanni De Luna. Ringraziamo Silvia Calamandrei per i consigli e la colla-borazione, e la Biblioteca e Archivio storico «Piero Calamandrei».

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Perché oggidi Giovanni De Luna

Una rinascita morale

L’Italia passò dal fascismo alla repubblica, dalla ditta-tura alla democrazia, attraversando le macerie di una guerra drammaticamente rovinosa. Si trattò di una di quelle «fratture» che segnano irreversibilmente la sto-ria di un paese, fasi convulse in cui affiorano i «padri fondatori», personaggi-enzimi che aiutano una nazio-ne a metabolizzare il brusco passaggio alla «terra di nessuno» di una nuova stagione politica e istituziona-le, a interpretare le coordinate al cui interno vengono vissute esperienze collettive mai sperimentate prima. Piero Calamandrei fu uno di questi. Lo fu come giu-rista, per il ruolo autorevole che assunse nell’elabora-zione della nostra carta costituzionale. Ma lo fu anche nel suo impegno complessivo, negli scritti, nei comizi, nelle epigrafi, in tutti i segmenti di un «discorso» inin-terrotto, di una tempesta oratoria che puntava a resti-tuire una religione civile all’Italia repubblicana, fon-dandola sulla Resistenza e sull’antifascismo.

I contorni di questo progetto si ritrovano nitida-mente, già subito, nell’aprile 1945, nell’editoriale di presentazione al primo numero de «Il Ponte». «Nessu-

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X Lo Stato siamo noi

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na vittoria militare, per quanto schiacciante, nessuna epurazione, per quanto inesorabile, potrà essere suffi-ciente a liberare il mondo da questa pestilenza [il fasci-smo, ndr], se prima non si rifaranno nelle coscienze le premesse morali, la cui mancanza ha consentito a tante persone [...] di associarsi senza ribellione a que-sti orrori, di adattarsi senza protesta a questa belluina concezione del mondo.» Alla discontinuità politica e istituzionale sancita dal referendum del 2 giugno 1946 doveva accompagnarsi una complessiva rigenerazione morale. Il fascismo era morto, ma il «costume» fascista sopravviveva in tutti gli interstizi degli apparati statali e della società civile. Non bastava quindi all’antifascismo averlo sconfitto militarmente. Si trattava ora di sgo-minare «quell’atmosfera di prepotenza e viltà, di com-promesso e di corruzione in cui era immerso l’ordine fascista». Calamandrei non sottovalutava la pervasivi-tà e l’ampiezza del progetto fascista di «fare gli italia-ni». Sapeva benissimo che quel progetto aveva godu-to di larghi consensi, che in quel «costume» si erano rispecchiati i comportamenti e le scelte collettive della larga maggioranza degli italiani. Si era trattato, diceva, di «un arido ventennio di diseducazione, passato sulle menti come una carestia morale». Bisognava impedire che gli elementi essenziali di questa carestia transitas-sero intatti nella nuova Italia repubblicana.

Il nemico da battere

Il primo passo in questa direzione era precisare qua-le fosse il nemico da battere. Il progetto di domi-

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nio mussoliniano aveva infatti dimensioni non tut-te immediatamente riconducibili al potere politico, affidando le proprie mire totalitarie a un massiccio intervento nei confronti della società con iniziati-ve volte a destrutturare le identità e le appartenenze sedimentatesi in precedenza attraverso la creazione di un nuovo spazio pubblico compiutamente mili-tarizzato e ideologizzato. Non si trattava più di «fare gli italiani», ma di «fascistizzare gli italiani» attra-verso il culto del duce, il partito unico, gli appara-ti repressivi, lo strangolamento delle libertà civili, l’asservimento della cultura, ricorrendo a un’accoz-zaglia di materiali eterogenei, i riti (teschi e camicie nere), le beffe punitive, le uniformi, lo stile marziale e romano, l’atletismo, le adunate oceaniche, la cultu-ra del gruppo dirigente, la stampa, i giornali, il tea-tro, la scuola, la propaganda (Eiar, scritte murali), la fascistizzazione della lingua, l’università, la campa-gna demografica, il clero, la musica fascista, l’urba-nesimo, gli scrittori, l’esercito, le barzellette, il buon costume, il razzismo, la burocrazia,1 che precipita-vano in un «costume» che serpeggiava, fermentava, circolava, «alimentando altre ruberie, incoraggiando altre tracotanze, suscitando altre oppressioni».

Il coraggio di ricominciare

Bisognava quindi ricominciare da capo e non limitarsi a ricostruire un sistema politico. Calamandrei era alla

1 «Il Ponte», n. 10, 1952.

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XII Lo Stato siamo noi

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ricerca di antidoti possenti, in grado di neutralizzare le tossine introdotte nei comportamenti degli italia-ni dal «costume» fascista (un termine significativo, non a caso utilizzato senza mai riferirsi a una qual-che forma di «religione civile»). La Resistenza pote-va essere il luogo storico in cui questi antidoti dove-vano essere rintracciati. Una Resistenza vista come un movimento di popolo, spontaneo, cresciuto dal basso; la scelta della lotta partigiana era stata indivi-duale e ognuno ne aveva attinto le motivazioni solo alla propria coscienza; era stata una guerra civile che aveva contrapposto due diversi tipi di italiani e due visioni del mondo. Una interpretazione che si oppo-neva frontalmente a quella comunista, così come fu, ad esempio, allora proposta da Pietro Secchia, tesa invece a valorizzarne gli aspetti più dell’«organizza-zione» che della «spontaneità», insistendo sull’effi-cacia dell’azione dei partiti, (in particolare del Pci), sul ruolo decisivo non «del popolo indifferenziato» ma della classe operaia, sui suoi caratteri patriottici che ne facevano una guerra di liberazione nazionale piuttosto che una guerra civile.

Torniamo a credere nello Stato

Proprio partendo da questa concezione spontaneisti-ca della Resistenza, Calamandrei cercava di sottrar-re il paradigma di fondazione della nostra Repubbli-ca all’ipoteca (che gli appariva effimera) dei partiti antifascisti per riconsegnarla direttamente al vissuto e all’esperienza collettiva di tutti gli italiani. Di qui la

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Perché oggi XIII

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sua insistenza sul «carattere religioso» della lotta par-tigiana, non solo nei suoi aspetti legati al sacro e al divino, che pure affiorano da alcune lettere dei con-dannati a morte della Resistenza («l’estrema preghie-ra del credente che spera la salvazione dalla religione tradizionale sinceramente professata»), ma soprat-tutto in quelli più marcatamente laici che avevano portato molti a sacrificare la propria vita per il bene degli altri, in una disposizione morale al cui inter-no si era preferita la morte al «tradimento lucroso di un’idea».2 In questo senso, la Resistenza veniva vista come il momento in cui «il senso del dovere» si era sostituito a ogni altro impulso, anche a quello del-la sopravvivenza; era stata quella l’ora in cui si era stati chiamati a testimoniare il bisogno di non ave-re niente da rimproverarsi, di essere in pace con la propria coscienza, presentabile di fronte a qualsia-si istanza giudicante. «Vincere la morte mediante il fare» aveva scritto Eugenio Colorni. «Non dare né ricevere, ma fare... E per fare intendo creare qualco-sa che stia da sé, e che sia però nello stesso tempo un prolungamento di me che mi appartenga, in cui mi riconosca, ma che non abbia bisogno della mia presenza per continuare a esistere.» Era la riafferma-zione di un culto tutto laico dell’immortalità, l’im-pegno ad attivare le energie più riposte nei singoli individui per vincere, nella storia e per la storia, la sfida con la morte.

A fondamento di un nuovo spazio pubblico in cui

2 Piero Calamandrei, Passato e avvenire della Resistenza, discor-so del 28 febbraio 1954.

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XIV Lo Stato siamo noi

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ci si potesse riconoscere come cittadini di uno stesso Stato nel nome di valori condivisi, Calamandrei chia-mava così «il popolo dei morti» («di quei morti che noi conosciamo uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e sulle pianu-re, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti...»), presentato non nella dimensione «vittimaria» dell’innocenza e della inconsapevolez-za, ma come fonte attiva di una «nuova legittima-zione dello Stato». Quali che fossero state le scelte politiche e ideologiche degli italiani, che ci si fosse schierati con la Resistenza o con Salò, o che si fos - se confluiti nel magma indistinto della zona gri-gia della «non scelta», per tutti era stato «tempo di guerra», in un’esistenza collettiva scandita dalla pau-ra, le privazioni, la fame, il ripetersi ciclico di gior-ni senza speranza, un senso di precarietà carico di angoscia. Nella Resistenza, però, il «tempo di guer-ra» smarriva i suoi caratteri di passività, si svinco-lava dalle tentazioni di quell’auspicio consolatorio che risuonava nell’invocazione della Napoli milio-naria di Eduardo De Filippo (adda passà ’a nutta-ta), per assumere i tratti del protagonismo e dell’at-tivismo consapevole.

Nella sua spontaneità la Resistenza era stata soprat-tutto questo: «Distruzione e morte ci hanno visita-ti. Ma ora c’è una speranza nell’aria»; termina con queste parole il Diario di Iris Origo di cui Calaman-drei si appropria in questa riflessione: «La Liberazio-ne fu veramente come la crisi acuta di un morbo che finalmente si spezzava dentro il nostro petto, come lo strappo risoluto con cui il popolo italiano riuscì con

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le sue stesse mani a svellere dal suo cuore un grovi-glio di serpi che per venti anni lo aveva soffocato».3 Questo senso di liberazione interiore scaturiva diret-tamente dalle caratteristiche della guerra partigiana, «diversa da tutte le guerre conosciute prima: una guerra in cui non c’erano più combattenti: una guer-ra in cui non vi erano più azioni militari, perché i gesti della normale vita quotidiana erano guerra, per-ché ormai il dovere militare aveva lo stesso volto del dovere civile, perché ormai l’unico modo di essere civili era quello di una guerra all’ultimo sangue alla bestialità e alla barbarie».4 I morti invocati da Cala-mandrei rappresentavano l’eredità più viva di quel-la guerra e sul loro culto doveva costruirsi un nuo-vo Pantheon in cui ospitare gli eroi di una religione civile in grado di azzerare ogni traccia del «culto del duce» e dei suoi orpelli; un Pantheon in cui far con-fluire i fratelli Cervi («nessuno si immaginava la pos-sibilità di tanta grandezza in quella famiglia di gente semplice e oscura»), Luciano Bolis («che in prigio-nia, temendo di non resistere alla tortura, si tagliò le corde vocali per non parlare; e non parlò»), ma anche «l’adolescente che, condotto alla fucilazione, si rivolse all’improvviso verso uno dei soldati tede-schi che stavano per fucilarlo e lo baciò con un sor-riso fraterno, dicendogli: “Muoio anche per te, viva la Germania libera”».5

3 Piero Calamandrei, Passato e avvenire della Resistenza, cit.4 Ibidem.5 Ibidem.

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si dovrebbero chiamare‘impiegati del loro

partito’.”

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