o r i gi n e d e l n om e “a lpi” · annibale animò con la sua eloquenza i loro animi alla...
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ORIGINE DEL NOME “ALPI” CELIUS (settembre) 683 a.C.
L’impero etrusco era ormai alla sua massima espansione quando decidemmo di superare il limite rappresentato da quei monti che ci erano ormai noti. Valicammo dunque gli imponenti Appennini, lasciandoci così alle spalle la terra bagnata dal mare nella quale a lungo avevano vissuto i nostri avi. La terra che ci trovammo di fronte era tanto familiare quanto fantastica. Dall’altezza dei monti che toccavano il cielo ci ritrovammo in un luogo che si abbassava invece al livello del mare, una valle, una pianura, una distesa di terra piana che si estendeva per molte miglia. Simili luoghi erano presenti anche nella nostra madrepatria, ma essi erano solo punti minuscoli in mezzo ai monti, oppure lunghe strisce di terra delimitate dal mare, e interamente abitate. La valle di fronte a noi era incolta, verde e caratterizzata da un’assenza quasi totale di vita, e sembrava occupare uno spazio infinito. L’unico limite posto a tale luogo era una barriera imponente di roccia, una bianca corona, che circondava, quasi abbracciandola, la pianura. Furono necessari molti altri giorni per avvicinarci e vedere da vicino questo limite. E la sorte ci portò dunque a un’altra catena montuosa come quella che avevamo valicato per dare inizio all’esplorazione, ma che al contempo era infinitamente differente. Se i nostri monti toccavano il cielo, tali lo oltrepassavano, a tal punto che di alcuni tra questi non era visibile la vetta. Risplendeva magnifica su di essi la neve, come la schiuma che si crea all’arrivo di un’onda, e imponenti si presentavano, invalicabili. Le cime magnifiche non erano tozze, piatte, ricoperte di vegetazione come le cime degli Appennini, ma appuntite, alte, rocciose, come se volessero avvicinarsi al sole che tanto rendeva surreale il loro aspetto. Per questa caratteristica, la forma rocciosa e imponente, iniziammo dunque a chiamare suddetti monti con il nome di “Alpes”, rocciose, usando quella parola che i nostri antenati impiegarono spesso per indicare molte località che condividevano la stessa caratteristica, a partire dall’isola d’Elba, che nel suo nome porta ancora la radice arcaica di tale parola, o dalla leggendaria Alba Longa, situata sui monti Albani, nel nome della quale si scorge meglio la somiglianza con il termine da noi usato, con il quale sono chiamate molte alture anche tra gli Appennini. Dunque nominiamo così Alpi la colossale e magnifica catena montuosa, limite settentrionale delle terre a noi conosciute, che veglia sui territori della penisola e che le dona lustro e bellezza.
Tosco Tarquinio.
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HISTORIAE POENICAE Idi di settembre del 535 ab urbe Condita
Maarbale figlio di Imilcone glorioso membro del consiglio dei Cento e Comandante per la
forte Cartagine.
Che la gloria di Baal Hammon mi guidi nel narrare gli avvenimenti della guerra contro la
meretrice Roma. Oggi alla testa della mia armata di cinquemila cavalieri, fieri clibanarii
africani, abbiamo attraversato insieme all’impavido Annibale, dono di Tanit, il fiume
Rodano. Attraversando i paesaggi dell’Altopiano che i Romani chiamano alpino conoscemmo
gli Allobrogi popolo mite che ci rese ospiti nei loro villaggi e ci rinfrescarono con ogni
vivanda. Annibale animò con la sua eloquenza i loro animi alla guerra e all’odio contro
Roma, già i Galli Boi infatti accolsero in amicizia la nostra causa e si mossero con noi.
Proseguimmo indi verso il valico della Alpi individuato dal nostro Comandante nello iugum
Cremonis presso il saltus Graius Annibale nonostante le esortazione del re Allobrogico
Orgetorige rifiutò di proseguire per la strada più breve temendo un’intercettazione romana.
Ordinò a me di formare l’avanguardia. Così presi i miei fidati uomini e avanzai, ci
dirigemmo verso il fiume Druenza che i popoli locali chiamavano “Mangiatore di uomini “.
Ad accompagnare la mia armata ve n’era un’altra di tremila cavalieri guidata da Annone il
Suffeto di Cartagine. Superammo la cappa selvosa piena di querce , abeti e faggi marciando
di giorno e dormendo i più alti di rango sopra piccole lettighe i soldati semplici sopra la
terra. Dopo diversi giorni di cammino raggiungemmo la Druenza. Il fiume aveva un ampio
letto e il suo corso era nero tanto che ricordava lo Stige di cui tanto parlavano i sacerdoti
greci, i miei uomini per lo più cavalieri Numidi in grado di sfrecciare sui loro piccoli cavalli
e di sfiancare il nemico per poi lacerarlo com i loro speroni e i loro pugnali. Accanto a me
un soldato cornetta che reggeva lo stendardo di Cartagine raffigurante l’emblema della dea
Tanit con sole e luna crescente, si arrestò e mostrò il suo sgomento alla vista di quel pozzo
nero immobile e gorgogliante. Il fiume come se fosse vivo sembrava comunicare a ciascuno
dei soldati qualcosa. Gli occhi di ciascuno di loro sotto l’elmo eburneo a quella vista
divennero lucidi. Molti soldati piangevano di paura e anche i cavalli, fieri e corazzati con
ginocchiere e copricapi dorati, avevano il terrore negli occhi. Tutti apparivano come esseri
in procinto di morire. Annone proclamava:” Baal Hammon ci ha concesso di venire fin qui
non sarà questo misero fiume a bloccare la giusta sorte che abbiamo per Roma.”. Il Suffeto
non convinceva nemmeno se stesso. Decidemmo visto che il fiume scavava una radura e che
ormai il sole stava volgendo al tramonto di accamparci li; Annibale arrivó dopo poche ore e
fu avvisato da me e da Annone del da farsi. Allestimmo le tende e dormimmo sonni inquieti.
L’indomani Annibale spronò con un fiero discorso al dovere e io fui il primo a guadare quel
fiume, non saprei esattamente come definire ma sentii quasi un’attrazione al momento in
cui mi immersi il fiume era profondo e avevo fino alla bocca una cappa di pesante acqua se
così si può chiamare in realtà un liquido dallo strano odore e pieno di sedimenti , il mio
cavallo sprofondó e morì, il fondale era molle e poco resistente. Colpì tutti ma riuscì
boccheggiando e a tentoni a raggiungere l’altra sponda. Non ebbe lo stesso esito il resto
dell’esercito perdemmo migliaia di uomini che affogarono assorbiti dal fiume e altrettanti
cavalli pure il nostro Comandante Annibale fu visibilmente sbigottito. Le vittime furono
incalcolabili ma il nostro viaggio era appena all’inizio e le rocciose Alpi aspre e ripide erano
vicine.
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Dopo giorni di salita e di perdite incrociammo un villaggio in una rientranza della
montagna, si faceva chiamare Ceniso gli abitanti appartenevano a una popolazione
autoctona di Galli Taurini stremati chiedemmo supporto e lo avemmo , un gallo nerboruto ci
si presentò come Arminio e come “Caput Tribus” e in quanto conoscitore del latino si
propose di farci da guida per i picchi rocciosi. Accettai e fece lo stesso anche il Barcide.
Armonio è un uomo corpulento vestiva solo di un mantello di lana e aveva folti baffi Rossi e
due occhi di colore diverso e una strana cicatrice sul naso era un uomo di poche parole ma
estremamente convincente almeno per gli altri io lo guardavo con sospetto e disprezzo.
Ricominciammo la marcia sotto la sua guida e superammo il cosiddetto Mons Cenisius e
una catena di Monti dai nomi desueti e dagli irti sentieri, i nostri morivamo cadendo dai
dirupi, per il freddo, per la fatica. Il freddo aumentava ma il gallo restava semi scoperto e
anzi sprizzava di vitalità e di energia, Annibale pure pativa le inedie ma perseverava in
quanto la brama di ardere Roma ardeva nelle sue viscere. A un certo punto dopo diverse
notti e dopo molte perdite Annibale mi mandó all’avanguardia con i tremila cavalieri
rimastimi asserendo che ero stato il più valente tra i generali. Stiamo necessario fare un
sopralluogo su un monte tanto ripido quanto strategico e così feci sopra la cima ci
accampammo aspettando di poter scrutare l’esercito di Annibale dall’alto e attenerci ai
comandi di Arminio. La cima era verde chiarissima sembrava quasi pura e vivevano ovini e
moltissime specie di animali agili dotati di corna che non avevamo mai visto riuscimmo così
a ovviare il problema vettovaglie. Il paesaggio ameno consentiva una vista privilegiata sulle
radure circostanti, dopo alcuni giorni proprio una di questa a contatto ravvicinato con la
Montagna giunse Arminio e l’arrivo dei cartaginesi fu contrassegnato dal suono del corno.
Scesero subito e si palesarono centinaia di soldati galli che resero ovvio il fatto che Arminio
altro non aveva fatto che addurre il nostro esercito in una morsa letale. A torso nudo e
brandendo una grande lama e un ampio scudo alcuni e un arco e giavellotto altri si
gettarono contro il grosso dell’esercito annibalico ma poco fecero. Mi scagliai infatti con
tutti i miei cavalieri e decapitai decine di Galli che sorpresi a loro volta e rintronati dalla
mia presenza non riuscirono ad accerchiare Annibale e così scoppiò la mischia della guerra.
I Mauri armati di giavellotti e gli Iberi con le loro falariche metalliche le loro falcate
(sciabole appuntite ) e le cetre , rotelle da pugno sottomisero i Galli conficcando le lame
nei loro crani e petti. I lancieri celtiberi tallonano i Galli infilando aste in mezzo agli occhi e
gloriosamente mimando le tecniche di combattimento spartane, pochi lancieri combattono
solo contro sciami di Galli insieme ai Libi dalla pesante panoplia. I Liguri piccoli e feroci
armati di pelte e spade a doppio taglio lacerano ulteriormente i Galli che vengono
penalizzati dall’ordine e dal decoro dei nostri soldati i quali godendo nella frenesia della
morte sterminano in modo doloroso il nemico. Annibale catturò un Taurino e lo fece legare e
con estrema veemenza iniziò a interrogarlo: ”Bestia Immonda se tieni ai tuoi arti dimmi
come si valicano le Alpi e dove si trova Arminio”.
Il gallo non rispose ma sputó in faccia ad Annibale che con sguardo impassibile gli taglió
tutte le dita della sua mano destra. Quello pianse ma rifiutò di parlare alchè Annibale lo
spoglió e mutiló i suoi genitali e poi gli tagliò piedi e mani poi ordinò che fosse legato a un
cavallo e trascinato e nutrito con le feci dei cavalli e con l’acqua delle pozzanghere.
Raggiungemmo dopo molti morti e giorni di marcia un tenero villaggio illuminato da un
focolare con qualche casetta di paglia e mattoni, Annibale ne ordinò il saccheggio: gli
uomini furono torturati e immobilizzati, le donne stuprate e uccise, Annibale tra questi
riuscì a trovare nascosto in un deposito di grano Arminio, lo spoglió e lo legò.
Successivamente ordinò di preparare una pira perché avrebbero compiuto un sacrificio a
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Eshmun e a Tanit a scopo propiziatorio . Arminio una volta ottenuti i preparativi
proferì:”Non sarò mai schiavo di qualche donnetta del deserto ho frantumato crani romani
e ho fatto frantumare molto dei crani dei vostri amici e fratelli che mai rivedranno la
patria.” Annibale impassibile lo fissò torvo dritto negli occhi poi fece un cenno e alcuni tanti
libici dalla pelle scura e la barba ispida condussero una serie di bambini tra i quali
probabilmente i figli di Arminio insieme alle donne del villaggio. Annibale guardò quelle
bestie pronte alla greppia e sentenziò:” Pride Baldassarre ministro di culto accendi la pira e
brucia queste vittime affinché il loro sangue compri l’affetto del nostri dei e della giusta
Tanit”. A quel dire Arminio grido terrorizzato ma nulla fermò Annibale e tutti noi che
gridammo:”TANIT sorella del cielo moglie del grande Baal consenti a noi di tornare vincenti
dalle nostre dolci spose e madri con l’aquila di Roma in pugno”. Come una litania
quest’invocazione cletica continuò a lungo e i bambini e le donne furono bruciate e immolate
e l’odore intendo di carne arsa pizzicò le nostre narici mentre il grido disperato di quelle
giovani anime inondò le orecchie nostre insieme a quello ancora più truce e disperato di
Arminio. Questi strepiti non lasciarono impassibile il cuore e fecero vacillare la mia
coscienza. Non compresi se ciò fosse davvero necessario o se anzi fosse solo la pretesa
macabra di un folle. La notte fu la più oscura di tutte e morirono moltissimi miei compagni.
Qui dove siamo adesso scarseggiano le risorse, il rigore del freddo colpisce chiunque ho visto
miei compagni perire e altri mangiare l’erba per sostenersi.
Una tempesta fortissima colpisce il cocuzzolo innevato dell’altura non sappiamo esattamente
dove siamo qualcosa da settimane di gallina quasi un miasma ma non saprei come spiegare
sta di fatto che molti muoiono senza motivo e i corpi morti spariscono e l’oscurità è densa.
Ormai Annibale è lontano e tra le nebbie ombre compaiono.
Uomini sporchi di sangue si nutrono in modo immondo.
Dove sei Baal, dove sei Tanit, dove siete, o stelle Pleiadi, a guidarci in questa impenetrabile
notte?
“Yth alonim ualonuth carothi sy macom syth / chy mlachthi in ythmum ysthalym ychy
ibarchu misehi / li pho caneth yth bynuthi iad aedin byn ui / bymarob syllohom alonim
ubymysyrthohom / byth limmoth ynnocho thuulech antidatamas chon / ys sy dobrim chi
phel yth chyl ys chon chen liphul / yth binim ys dubyrth ynnocho thnu agorastocles / yth
emanethi hy chirs aelichot syth nasot / bynny id li chy ily gubulim lasibitthim / bodi all
thera ynnynnu yslim min cho th iusim”.
Maarbale
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LE VETTE DEI BARBARI Idi di maggio 738 ab Urbe Condita
Tiberio Giulio Cesare, pretore della Gallia Comata ed ex-pretore, comandante in capo delle legioni della regio transpadana, vincitore dei Sigambri, abitanti delle fredde regioni settentrionali della Spagna e dei Parti, che abitano le calde sabbie e le fertili terre dell’Oriente, figlio adottivo e servo fedele del Divo Augusto. Anno 738 ab Urbe Condita, del consolato di Marco Livio Druso Libone e Lucio Calpurnio Pisone. Benché mai io, troppo impegnato a condurre gli eserciti di Roma, occupazione alla quale non ho intenzione di rinunciare, pensai di impiegare il mio tempo nello scrivere delle mie gesta, consapevole che altri illustri poeti ne sono certamente più in grado, non trovo che sia cosa turpe esprimere per iscritto i miei pensieri su queste pagine, allontanandomi anche dalle formalità previste dalla mia posizione; poco importa se mai nessuno le troverà, perse sulle cime delle Alpi possenti, donateci dagli dei immortali per proteggere le feconde terre italiche, che solo Annibale riuscì a violare. Il Divo Augusto ha incaricato me e mio fratello Druso di porre fine alle scellerate razzie dei barbari che abitano queste terre innevate, dalla Liguria fino alla Rezia, noti col nome di Reti e Vindelici, e di guidare contro di loro le legioni, al fine di porre sotto il Dominio di Roma queste genti. A me spetta di affrontare e sottomettere i secondi, i Vindelici, a Druso i Reti. Questo compito, certamente non semplice, richiede una soluzione tanto geniale quanto imprevedibile: grazie ad una precisa manovra a tenaglia io e Druso, che si trova con le legioni assegnategli nei pressi di Tridentium, riusciremo senza dubbio a vincere le disorganizzate forze dei Germani. Io sono a capo di ben sei legioni e mi trovo attualmente con esse sul versante rivolto verso la pianura delle Alpes Maritimae, da me personalmente strappate ai Liguri. Le marce fino ad ora sono state dure per i soldati poiché al di fuori della provincia non abbiamo percorsi precisi da seguire e il clima certamente non ci adiuva; inoltre mi capita di notare un certo timore nel loro animo, il quale non credo sia dovuto alla pericolosità dei nemici che andremo ad affrontare. Che siano forse i monti a turbarli? Le legioni di Roma sono grandi e ancor di più lo è Roma stessa, ma queste montagne, queste vette, fanno impallidire anche il più forte degli eserciti e la più ricca e popolosa delle città; viste dalla pianura sembrano un ostacolo come un altro, ma qualora ci si avvicini, non si può che provare timore al loro cospetto. La loro grandezza è tale che talvolta sembra che siano loro a muoversi verso di te... poco importa dell’armatura che indossi, della spada che porti cinta alla vita o del giavellotto che impugni...esse intimoriscono anche il più corazzato dei soldati ed il più lesto nell’arte della spada; forse perché i fitti boschi delle loro pareti possono celare il nemico, pronto a colpire quando meno te lo aspetti. Ma no. Il timore che suscitano non è lo stesso che il codardo prova in battaglia, è diverso, forse non lo riusciamo a comprendere o a cogliere a pieno, ma siamo Romani, nulla di quanto è comprensibile all’animo umano ci è sfuggito, nulla sul campo di battaglia come nelle strade delle città può ormai stupirci! Abbiamo visto gli
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elefanti, i più grandi esseri che calpestano la terra, abbiamo attraversato il Mare, che è sconfinato e indomabile, e lo abbiamo reso nostro, abbiamo scoperto terre di immane estensione, di cui pochi sino a quel giorno avevano anche solo immaginato l’esistenza... Eppure ci intimoriscono le montagne, visibili a migliaia di centurie di distanza, sempre ferme al loro posto, nostre fedeli alleate...tutto ciò va al di là della ragione...Forse c’è un motivo se sono lì, visibili a tutti gli uomini, con le vette bianche, visibili anche nella più buia delle notti, forse sono lì per ricordarci che ci sarà sempre qualcosa più grande di noi, un limite che non si può superare, qualcosa che sempre ci impressionerà, con la sua bellezza o con la sua possanza. Più le guardo e più penso che non possano essere state create neanche dagli dei, poiché essi non creerebbero mai qualcosa di più grande e più possente di loro. Forse i moniti che poco fa ho menzionato non sono solo per gli uomini, ma anche per gli dei stessi, che abitano l’Olimpo, un ciottolo di ghiaia se paragonato a queste altre vette! Sì, dev’essere così, o almeno, a me me piace pensarla così, che sopra tutto e tutti ci siano le Alpi: che esse ci guardino giocare quando siamo bambini, che ci guardino ciarlare nel foro, che ci guardino mentre educhiamo i nostri figli e invecchiamo e moriamo e così per tutte le generazioni degli uomini del passato e del futuro, sempre uguali, sempre immobili, sempre presenti, sempre possenti. Mi cola sulla guancia una lacrima pensando a queste cose...Potranno esserci dopo questa campagna altre migliaia e migliaia di conflitti su queste cime, tra Romani e barbari, tra Romani e altri Romani, tra barbari e altri barbari, ma loro saranno ancora qui, mute, cieche, sorde, immobili, temibili, a ricordarci che...siamo uomini e che tali resteremo...questa è la più grande scoperta che possiamo fare mirando e rimirando questi luoghi, nonché forse la più grande benedizione che ci possa essere donata, da qualsiasi divinità clemente e misericordiosa abiti lassù. Io sono Tiberio Giulio Cesare, pretore della Gallia Comata ed ex-pretore, comandante in capo delle legioni della regio transpadana, vincitore dei Sigambri, abitanti delle fredde regioni settentrionali della Spagna, e dei Parti, che abitano le calde sabbie e le fertili terre dell’Oriente, figlio adottivo e servo fedele del Divo Augusto… Io temo e ammiro, ora e per sempre, le Alpi, donate agli uomini come fonte di saggezza.
Tiberius Iulius Cesar
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IL NOME DELLA ROSA Diario di un monaco passeggiatore
Annus Domini MCCCXXVII
Dio mi assista in questa scrittura facendo si che essa perduri ed illumini menti future che al montan passato, per montan sentiero vogliano guardare. Oggi a mattutina ho visto fratello Malachia render l’anima a nostro Signore, gli animi dei confratelli sono sempre più turbati e per salvare la mia anima dalla forza maligna che imperterrita imperversa sulla tanto amata abbazia ho, come soglio fare, portato le mie senili membra all’infuori della sacra cinta per le arcinote strade che con solerzia percorro e mi aiutan a liberar la mente permettendo al santo spirito di entrarvi ed illuminarla con la sua grazia. La montagna è l’unico posto che ci permette di pensare, capendo la piccolezza dell’uomo in confronto al grande operato di Dio, noi così piccoli, così inermi di fronte alla magnitudine ed alla magnificenza dell’operato divino in grado di creare talune grandezze; pochi oggigiorno osano sfidare la loro altezza, le loro irte vette canute, così graziosamente modellate dalla grandiosità dei cieli. Passeggiando insù questi cammini, che fin dall’arcano tempo del noviziato percorro con grande stupore per le maraviglie che l’Altissimo ha creato in natura, mi pongo grandi interrogativi sul senso della mia esistenza, da quando l’idruntino ci ha lasciati, scombussolando quell’ordine sul quale si basa l’equilibrio della nostra monastica vita. Giunto in cima al monte che ha dirimpetto il monastero poco fa mi raccolsi in preghiera come mio solito, ma a differenza di questa dozzina di lustri nei quali per quotidiana abitudine ho pregato davanti a codesta croce, ho notato, come Voi, mio futuro lettore, quella fessura nella base della croce racchiudente il vetusto manoscritto che con solerte volontà mi accingo a intessere di racconti montani che “a cultu atque humanitate civitatis longissime absunt”. I monti permettono al pensiero di riscoprire in sé nuove parti di se, asserì stamane frate Guglielmo da Bascavilla, francescano giunto in abbazia per un convegno con la delegazione di Sua Santità il Papa, delegato dall’abate di indagare sui recenti casi di questa abbazia nel Nord della penisola italiana, di cui è pietoso e saggio tacerne anche il nome. Cerco consolazione fra questi sperduti monti sperando che la loro pace mi porti il consiglio di Dio, e mi illumini su che cosa stia accadendo nella mia santa dimora, su che cosa stia accadendo nella terrena casa di Dio. Poca gente nella vita ha la grazia di risalire e conoscere un monte, impervia, ed innevata, antica e tortuosa, maestosa ed ignota via di ascendenza verso il più alto dei cieli, è visto da molti solo come una barriera un impedimento ad agevoli commerci e scambi, ma l’uomo deve guadagnarsi il pane con il sudore della fronte e la montagna adunque è solo il mezzo tramite cui Dio dà compimento alle Sacre Scritture facendo si che il lavoro di coloro che per guadagnare altro non fanno che schioppettar il cavallo sia equamente faticoso quanto quello di un mezzadro che con vanga e aratro porta il tanto agognato alimento in tavola.
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Tali ritengono invece la montagna luogo di serena meditazione e di ispirato eremitaggio, come il nostro Santo fondatore Benedetto che unì forse le mie asserzioni nel suo motto: Ora et labora. Il silenzio ispira la preghiera ed aiuta la mente a concentrarsi sul bene, sulla contemplazione del Cristo; con queste parole Abbone, Abate del nostro cenobio ha imposto religioso silenzio di penitenza per purificare il convento, silenzio così assordante in questi monti da far quasi dimenticare cosa sia la città, fomite dei più deplorevoli peccati, con i suoi scalpori, così ho sempre pensato ma ad oggi il peccato ha raggiunto anche questa sacra casa, poiché palesemente i cari confratelli non sono passati al mondo migliore per divina volontà ma per la vile mano di qualcheduno. Bellamente aleggia il fresco profumo di muschio portando il mio sguardo su una rosa, chinatomi a guardarla poco innanzi alla felice rinvenuta del manoscritto, mi sono trovato a pensare, per l’ennesima volta, ai casi dell’abbazia e cogitando e cogitando sono giunto alla conclusione che probabilmente è l’essere in se dell’abbazia che la sta lentamente dilaniando, portandola ad un progressivo appassimento esattamente come quella Rosa che mi trovavo dinnanzi, del cui caldo colore, avvolgente profumo ed incantevole figura, giunto il freddo, altro non rimarrà che il Nome. È strabiliante come queste leggiadre e fresche passeggiate mi schiariscano le idee e non mi risultino di grande affanno in questa gradita senescenza. Ordunque leggitore di queste parole ormai così lungi, probabilmente, da voi, mi volgo a tornare alla abbazia, volutamente innominata in questa breve scrittura sicché se in splendore gaudrà innanzi ai vostri occhi, che scorrono curiosi su queste righe, non vi sarà bisogno di conoscerne il nome per chiamarla, mentre se come un rudere giacerà a terra, avrò fatto si che tramite queste lettere non si diffonda il nome dell’antico splendore ormai decaduto.
Fra’ Alinardo da Grottaferrata
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A DIONIGI DA BORGO SAN SEPOLCRO, DELL’ORDINE DI SANT’AGOSTINO, PROFESSORE DELLA SACRA PAGINA
27 Aprile 1336
Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono
salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti
anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le
vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall'infanzia e questo monte,
che a bell'agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi.
Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde
del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con
un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del
monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il
poeta che "l'ostinata fatica vince ogni cosa". Il giorno lungo, l'aria mite,
l'entusiasmo, il vigore, l'agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci
ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un
vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che
anche lui, cinquant'anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era
salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo
e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri,
prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a
noi - così sono i giovani, restii ad ogni consiglio - il desiderio cresceva per il divieto.
Allora il vecchio, accortosi dell'inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po' tra le
rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e
ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani. Rimessici in marcia,
avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la
montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il
crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che
mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di
trovare un sentiero più agevole dall'altra parte del monte e che non mi dispiaceva di
fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e
mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da
nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l'inutile fatica mi
stancava. Annoiatomi e pentito oramai di questo girovagare, decisi di puntare
direttamente verso l'alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio
fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco
procedemmo insieme. Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del
primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la
vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in
gravi difficoltà. Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla
volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l'altezza
discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio
avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più.
C'è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il "Figliuolo"; perché non
so dirti; se non forse per antifrasi, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti
i monti vicini. Sulla sua cima c'è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. Ma
ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi. "Oggi - mi
dicevo - si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai
abbandonato Bologna: Dio immortale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel
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frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non
sono ancora così sicuro in porto da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un
giorno in cui potrò enumerarle nell'ordine stesso in cui sono avvenute,
premettendovi le parole di Agostino: 'Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le
carnali corruzioni dell'anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio'.
Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che
ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo:
lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È
proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo
tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me
faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: ‘Ti odierò, se posso;
se no, t'amerò contro voglia'.
Questi ed altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nella mente.
Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune
instabilità delle azioni umane; e già mi
pareva d'aver dimenticato il luogo dove
mi trovavo e perché vi ero venuto,
quando, lasciate queste riflessioni che
altrove sarebbero state più opportune, mi
volgo indietro, verso occidente, per
guardare ed ammirare ciò che ero venuto
a vedere: m'ero accorto infatti, stupito,
che era ormai tempo di levarsi, che già il
sole declinava e l'ombra del monte
s'allungava. Mentre ammiravo questo
spettacolo in ogni suo aspetto ed ora
pensavo a cose terrene ed ora, invece,
come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l'anima, credetti giusto dare uno
sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell'autore e di chi me l'ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole
ma d'infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott'occhio: quale
pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio
fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era
attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo,
vi lessi: "e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare,
le ampie correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri e trascurano
se stessi". Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di
non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell'ammirazione che ancora
provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei
dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l'anima, di fronte alla cui
grandezza non c'è nulla di grande.
Francesco Petrarca
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Ho bisogno di torrenti 12 Febbraio 1762
“ Un paese di pianura per quanto sia bello, non lo fu mai ai miei occhi. Ho bisogno di torrenti, di rocce, di pini selvatici,
di boschi neri, di montagne, di cammini dirupati ardui da salire e da scendere,
di precipizi d’intorno che mi infondano molta paura. ” Jean-Jacques Rousseau
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PRIMA ASCENSIONE AL MONTE BIANCO 8 agosto 1786
Abbiamo camminato per giorni senza sosta, stanchi e affamati. Ora che siamo qui mi sembra tutto surreale, un paesaggio meraviglioso, la vera montagna, la vetta piu’ alta d’ Europa! Siamo i primi al mondo! Davanti a me, in lontananza, si estende la pianura; piatta e metropolitana. E pensare che poche ore fa sembrava tutto impossibile. Eravamo al limite delle nostre forze, vedevamo la vetta a pochi passi da noi eppure ci sembrava irraggiungibile. Stremati, abbiamo deciso di riposarci, di riprendere le forze per questo ultimo sforzo, immane ai nostri occhi. E’ stato proprio li’, a pochi passi da questa meraviglia naturale, che ho ritrovato il diario delle alpi. Ci eravamo fermati per riposare e per mangiare, quanto bastava per ricaricare le nostre forze. Affaticati, il mio compagno Balmat dice di lasciare giù gli zaini e di sdraiarci per riposarci. Fu allora che cominciai a girovagare per le rocce. Avrei voluto riposarmi ma la mia curiosità mi guidava altrove. Dopo pochi minuti di camminata mi ritrovai a qualche metro di distanza dal mio compagno. Mi sedetti per ammirare la vista, mozzafiato gia’ in quel
punto. Iniziai a riflettere su tutto cio’ che stavo facendo, a ripensare a quella mattinata a Ginevra, ospitati dallo scienziato Horace-Bénédict De Saussure, ove tutto ebbe inizio. Lui stesso ci promise tre ghinee nel caso lo avessimo scalato il monte più alto d’Italia. Feci per alzarmi e tornare al punto in cui avevo lasciato Balmat ma inciampai e quasi caddi. Eccolo, incastrato
in una fessura tra due rocce, da cui si intravedevano pagine ormai ingiallite ed una copertina vecchio stampo. mi chinai e lo raccolsi: il diario delle alpi. Fu uno dei momenti più gioiosi di tutta la scalata, se solo mi fossi preparato a ciò che stava per venire… Tornai dal mio compagno, il quale, a mia sorpresa, iniziò a ripetermi dell’impossibilità dell’impresa che stavamo compiendo, dell’essere colmo di ripensamenti, di voler tornare dalla propria famiglia. Ci vollero altri quaranta minuti prima di convincerlo a proseguire, riuscii a persuaderlo partendo proprio dalla straordinarietà di ciò che stavamo facendo, gli spiegai che saremmo stati i primi, avremo ricevuto tre ghinee, e come dimenticare la vista di cui avremmo goduto poche
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ore dopo. Tutte le fatiche, se ci fossimo arresi, sarebbero state vane. Iniziai a fare riferimento a tutto ciò che avevamo superato, a partire dalle notti passate in bianco per paura dell’attacco di animali selvatici, per poi passare a quella promessa fatta, basata su supporto, lealtà e coerenza. Saremmo stati i primi, avremmo lasciato un’impronta indelebile nella storia. Non potevamo fermarci a un passo dal traguardo! Mi stupii della persuasione del mio discorso e ne andai fiero, dunque proseguimmo il nostro percorso. Non passarono più di due ore e il mio piede appoggiava la propria pianta nella neve candida, immacolata, lasciando la propria impronta, l’impronta di cui avevo parlato a Balmat. Mi percosse un brivido, sentii la felicità scorrere nelle mie vene, esplosioni di piacere, meraviglia, sorpresa e gratitudine quasi mi offuscavano la vista. E che vista! Per un attimo mi sentii cadere, ma la pacca sulla spalla di Balmat mi risollevò. Iniziai ad ammirare il panorama, la sensazione di libertà e gratitudine arrivarono al culmine. Gridai, sorrisi, piansi, mi sentii potente ed impotente allo stesso tempo. Ero sulla vetta più alta d’Europa…
Michel Gabriel Paccard
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VOYAGES DANS LE ALPES 15 luglio 1794
Le montagne corrugano la superficie terrestre da decine di milioni di anni e l’uomo ha cominciato a viverle solo da qualche migliaio d’anni attratto da un richiamo particolare delle loro sommità. totalmente diverso dai sentimenti mistici o religiosi comunemente associati ad esse. Quel giorno, quel 15 luglio 1789, precisamente cinque anni addietro, mi trovai lì, tra quelle imponenti e maestose montagne, lasciata la mia dimora a Ginevra con la piacevole compagnia di mio figlio Nicholas in direzione Briga, Passo del Sempione e pendici del Monte Rosa, per studiare l’orografia e dedicarmi all’osservazione della fenomenologia delle alte quote. Solo un giorno era passato da quel momento di svolta per la Rivoluzione francese, ma io non ne sapevo nulla a quel tempo perché nelle alte montagne il conflitto non arriva, si tratta di un mondo isolato, oscuro, tempestato da superstizioni di qualsivoglia genere. La montagna esercitò sempre, da quando ho memoria, un ambiguo potere su di me e proprio grazie ad esso emerse la mia curiosità nello scoprire, nell’investigare quel mondo così distante ma vicino, così abbandonato e nel medesimo tempo vivo. Fu proprio questo desiderio a spingermi a camminare sui bordi dei ghiacciai armato di martello nella mano con cui prelevare campioni di roccia, ad abbandonare il ruolo di geologo per indagare la vegetazione o misurare il vento dei tremila, come feci proprio quella giornata d’estate. L’aspetto più affascinante dell’alta quota fu sempre per me l’assenza di limiti, la costante possibilità per lo sguardo di vagare e di posarsi prima sul giogo dei ghiacciai e nell’istante successo sul dettaglio di un fiore alpino. Proprio ciò infatti mi era successo quel giorno, durante quel viaggio, mentre ci trovavamo accampati in un prato rivestito di fiori variopinti circondati da erba alpina e dalle rocce del Monte Rosa imponenti nell’immenso azzurro cielo. Andare in montagna ha sempre significato a mio parere un cambiamento di prospettiva, come se l’essere in alto offrisse l’occasione di vedere il mondo con occhi diversi e migliori. Ricordo perfettamente la prima volta che provai delle emozioni così intense, fu quando riuscii a completare il giro del Monte Bianco nel 1767, esperienza quelle che diede inizio ad una pressoché infinita serie di viaggi alla scoperta delle alpi dove lì, come da nessun’altra parte, mi venne data l’occasione di unire alla folle passione per la montagna anche lo studio della mineralogia e della geologia. Senza alcun tipo di dubbio mi sento in dovere di ammettere che, nonostante ogni mio viaggio sia stato a suo modo emozionante, niente fu mai, nel corso della mia intera vita, paragonabile al 3 agosto 1787 quando accompagnato da guide e servitori raggiunsi, dopo una vita di sogni, la cima del Monte Bianco. Fu un’emozione indescrivibile a parole perché là, su quella che appariva ai miei occhi come la cima del mondo, tutto era così puro, limpido, spettacolare. Niente, nemmeno l’ottenimento della cattedra nell’università di Ginevra nel lontano 1762, fu mai tanto gratificante per me quanto trovarsi immerso tra le Alpi.
Horace-Bénédict de Saussure
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I MONUMENTI TRA CIELO E TERRA 17 aprile 1813
Dio mi ha concesso di visitare questo luogo per la seconda volta nella mia vita, ha desiderato che anche io calcassi con piede questa verdeggiante erba, odorassi con naso tale tersa, limpida e profumata aria e rivedessi un luogo tanto incantevole e dalle pendici di monti tanto maestosi su cui crescono rigogliose e ritte le candide stelle alpine. Il padre eterno affidò il celebre compito di descrivere tali cime con la piuma ai letterati e con il pennello agli artisti. Mi chiamo William Turner, sono nato a Londra e sono un pittore, mi ritengo molto fortunato per il fatto di aver ricevuto dal signore tale vocazione artistica fin dalla più tenera età a seguito della morte di mia madre. Fortunatamente fui cresciuto con infinito amore da mio padre,fabbricante e venditore di parrucche, il quale espose da subito i miei piccoli elaborati sulle vetrine della sua bottega o addirittura li vendeva ai suoi clienti per qualche scellino. Ripeteva sempre a loro: "William farà il pittore" e soprattutto non mancò mai di incoraggiarmi ad intraprendere questa carriera. Tale compito ho ricevuto dal signore,di trasportare con olio su tela le bellezze da lui prodotte nei primi giorni della sua creazione: i paesaggi.
Ed è quello che feci esattamente dieci anni addietro dopo essere stato qui per la prima volta,in questo incomparabile luogo. Camminavo in compagnia del mio amico John Alcnutt, ed entrambi provammo sensazioni piacevolissime ed uniche, la fresca brezza ci accarezzava i volti, l'aria pura ci colmava i polmoni e la sensazione di libertà scorreva giù per i nostri muscoli. Tirammo un respiro profondo e ci riempimmo di quell'ossigeno che ci distese pian piano i nervi. Fummo ospitati insieme per un paio di giorni nella baita di un anziano pastore molto gentile, che ogni mattina non ci faceva mai mancare del buon latte di capra. Dall'abbaino di quella baita riuscivo a vedere chiaramente il passo di San Gottardo ,uno scorcio che dava le vertigini. Ricordo ancora
in quella fresca mattinata di aprile John sopraggiungere dietro di me e chiedermi: ''Ti piace, vero?" io non risposi, ma la mia espressione era sicuramente affermativa.Allora riprese:"Perchè non dipingi questa meraviglia?". io annuii,deliziato dall'idea di racchiudere sulla tela quella zona sbalorditiva e di portarla via con me, a Londra. Così mi recai da solo
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sul luogo e mi misi all'opera. In questa atmosfera la realtà si fonde con il sogno. Cercai di rappresentare questo clima incantato utilizzando dei colori chiari per la luce,emanazione dello spirito divino. Ogni uomo che si sia trovato qui prima di me non può non essersi sentito tanto piccolo ed insignificante di fronte al potere della natura e ad un'entità così suprema. La mole gigantesca di quei monti insediò in me un sentimento di paura verso ciò che è infinito ed ignoto, ma allo stesso tempo affascinò me e chiunque vi sia passato, trasformandosi in qualcosa da cui l'uomo è perennemente attratto. Cercai di enfatizzare sulla tela tutta la sublimità di quel ponte,nominato ''del Diavolo'', sfumando i colori ed aumentando a dismisura la profondità di quel ponte. Mi misi quindi all'opera ignaro del fatto che quel dipinto sarebbe stato ancora una volta fabbrica dei miei successi. Ed eccomi, dopo dieci lunghi anzi lunghissimi anni, di nuovo qui sulle mie amate Alpi che mi hanno aspettato per tutto questo tempo. Le ho ritrovate qui ed insieme ad esse un'inaspettata sorpresa. Camminavo non senza pensieri su quelle vette per la seconda volta nella mia vita guardando il tramonto quando sentii sotto i piedi qualcosa di duro, no non era un sasso,era rettangolare,guardai verso il basso spostando il piede:un diario. Fortemente incuriosito l'ho aperto e l'ho letto. Un oggetto speciale sul quale valorosi uomini del passato come Annibale e Giulio Cesare e autori come Petrarca hanno riportato le loro ineguagliabili sensazioni provate in un luogo sereno come la montagna. Questo è il diaro su cui ho appena posato la mia piuma per descrivere le mie percezioni e lasciare anche io la mia piccola testimonianza. Ma per quanto io mi sia impegnato a rappresentare e descrivere quanto ho visto, le mie sono solo parole destinate a sparire al cospetto della presenza eterna e maestosa di questi monti.
Joseph Mallord William Turner
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LA STANZA AFFACCIATA SUI MONTI... 21 Agosto 1829
Mi trovo ora, dopo molti anni, in questa stanza, in un capanno di caccia immerso tra le montagne presso la zona di Weimar. Non è la prima volta che visito questo luogo, a dire il vero questa stessa stanza suscita in me molte emozioni e ricordi intanto che osservo sulla parete quei versi che incisi su questo legno molti anni orsono, nel 1780, quando mi recai qui con i miei amici.
Quella sera, ad essere precisi il 7 settembre, mi trovavo proprio in questa stanza, immerso in una realtà che pareva differente, stavo in piedi davanti alla grande finestra, spostai la mia attenzione verso il paesaggio che si prospettava davanti ai miei occhi. Un senso di pace assoluta mi pervase, sento ancora sulla mia pelle la leggera brezza dell’aria di montagna, fresca e limpida, leggermente pungente, il profumo di pace che potevo inalare, il leggero venticello di settembre faceva svolazzare le tende della finestra, percepivo la sottile brezza sulle mie guance.
Provai una sensazione indescrivibile, respirai a pieni polmoni quella freschezza che solo i monti mi potevano donare, mi sentii libero, quasi come se da un momento all’altro potessi sollevarmi e prendere il volo tra quei monti silenziosi. Davanti a me stavano, imponenti ma tremendamente quiete, le cime delle montagne, silenziose e pacifiche. Presi il coltellino che portavo sempre con me e cominciai ad incidere sul legno di fianco alla finestra queste parole “su ogni cima è pace; in ogni chioma senti appena un alito”. Intanto scrutavo la verde e rigogliosa vegetazione, le foglie degli alberi che oscillavano leggermente, anch’esse accarezzate dalla brezza serale e le contemplavo intanto che lentamente venivano avvolte nel buio della notte, ormai vicina. La quiete e il silenzio si facevano sempre più imponenti, la pace notturna stava giungendo. Potevo scorgere all’orizzonte la luna, che si trovava tra due cime, che parevano sagome nere, e illuminava tutta la valle davanti a me. Potevo sentire i deboli raggi della luce lunare accarezzarmi la pelle, e fu ancora più quiete, ancora più silenzio. Continuai ad incidere “tacciono gli uccelli nella selva”; adesso tutto era scuro, anche le creature che popolano questi luoghi venivano avvolte, così come la natura, nel buio e nella calma notturna. Non un rumore, non un lamento. Potevo percepire i battiti del mio cuore e anche i miei sospiri, che sembravano un tutt’uno con il leggero alito che si muoveva tra i rami e le foglie. Sentivo un profumo, profumo di natura, di libertà, avrei voluto essere anch'io così calmo e quieto, ed ero certo che prima o poi lo sarei stato. “Aspetta, presto anche per te c’è pace”, continuai ad incidere. Attendi, prima o poi anche tu otterrai quella solenne quiete che tanto vai cercando tra queste cime. Prima o poi anche tu sarai così. Oggi mi trovo davanti a questi versi insieme ai miei amici. Si, siamo tornati in questo luogo e io leggo, leggo quelle incisioni. Ricordo, e intanto sento le lacrime che sgorgano dai miei occhi.
Johann Wolfgang von Goethe
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PAESAGGIO ALPINO AL TRAMONTO 15 maggio 1897
Il cielo mi sovrasta come una cupola di lapislazzuli, in lontananza riesco a vedere le cime dei monti innevate, candide e aguzze, dei silenti guardiani di ghiaccio e roccia che circondano la valle, pronti a proteggerla, ma che potrebbero anche condannarla con un loro capriccio. Sono così belle eppure così pericolose, solo loro conoscono i segreti nascosti sotto quelle cupole spesso nascoste da una coltre di nubi, là , dove la terra sfiora il cielo, pochi sono i coraggiosi che osano avventurarsi sfidando la natura e da dove spesso la maturano li lascia tornare. La vegetazione ricopre i monti come un verde mantello di velluto, in i essi si avvolgono d’inverno per scaldarsi e d’estate per ripararsi dal sole. Le radici degli alberi formano un vasto intreccio che si estende per le pendici, adornato dai boccioli che la primavera porta con sé. Più a valle gli alberi sempreverdi crescono rigogliosi, forti e ritti come soldati, ma quassù le loro radici non arrivano, vicino alle vette si trovano i muschi, i licheni e l’erba che, mezza ingiallita, fa da pascolo a greggi. Sento il gorgoglio di un ruscello,la fresca acqua scende zigzagando tra le rocce, tanto elegante quanto tenace, che scava e modella anche i massi più duri. C'è un pastore, è venuto qui poco prima di me con le sue pecore. Deve essersi alzato all alba per poter radunare gli animali, riesco a leggergli in faccia la stanchezza, nelle rughe del volto e nei segni scuri sotto gli occhi. Quegli occhi che, ridotti a due fessure, di tanto in tanto passano in rassegna le pecore per assicurarsi che non vadano troppo lontano. Stringe il bastone con le mani callose e piene di grinze, mani esperte che hanno provato mille sensazioni, dalla gelida rosoffice alla soffice lana. Le persone come lui in questo posto fanno affidamento sul poco che hanno, affrontando le fatiche di questi pendii anche nei lunghi mesi invernali. Gli animali sono il loro sostentamento, la loro compagnia,sembra quasi che si crei una sorta di legame empatico tra il pastore e il suo gregge. Sono loro i veri esploratori della montagna, i suoi abitanti, coloro che hanno stretto un tacito accordo con la natura, coloro che sopravvivono anche alle sfide di questi terreni impervi. In quella piccola pozza davanti a me vedo il riflesso della luna, che ancora pallida si affaccia timidamente nel cielo, pronta a rischiarare la notte. Il vento, che mi accarezzava il viso e mi scompigliava i capelli giocosamente, ora soffia più forte, più freddo. Sembra che Zefiro mi voglia incoraggiare ad andarmene e immagino che abbia ragione, ormai le incombenti ombre delle cime, che da bianche si sono colorate di rosa, si sono fatte più pesanti e fitte. È il momento di mettere via tela e colori, per il resto lascerò che sia la mia arte a parlare.
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Le pecore si stanno agitando, il pastore le raduna e si incammina verso valle prima che possa scendere il buio, farò meglio a seguirlo.
Giovanni Segantini
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LA GRANDE GUERRA IN
VALLECAMONICA
23 aprile 1921 La prima volta che arrivai in Vallecamonica, più precisamente a Edolo, era il 18 agosto 1915. Mi trovavo lì perché venni arruolato come volontario del 5° alpini ed assegnato al fronte dell’Adamello. Trascorsi a Edolo alcuni mesi, durante i quali fui impegnato ad addestrarmi. Sin da quando arrivai iniziai a scrivere riflessioni sulla zona nella quale mi ero stabilito, sulla vita militare e sulla guerra. Si tratta di un luogo molto importante per me, si può dire che è proprio qui che ha avuto inizio la mia vita da romanziere. Infatti il primo libro che ho scritto, intitolato “Giornale di Guerra e di prigionia”, parla del periodo che ho trascorso in questo luogo e circa un centinaio di pagine sono dedicate all’Alta valle. Queste pagine non hanno lo scopo di descrivere il paesaggio o di celebrarlo, ma sono dei semplici intermezzi che interrompono il racconto della Grande Guerra. Quest’anno “Giornale di Guerra e di prigionia” è appena stato pubblicato, anche se è passato un pò di tempo da quando l’ho scritto, e ho deciso di riportare su questo diario di montagna alcune righe, tratte dal mio libro: “... Inoltre uno strano intorpidimento dell'animo mi toglie di godere a pieno della vivissima emozione fantastica e sentimentale che per solito la montagna mi destava, e talora anzi mi lascia indifferente del tutto: però levando lo sguardo al Baitone, alle sue rocce e alle sue nevi, questa monotona e stanca situazione dello spirito si interrompe per poco. Anche le cattive notizie della Guerra dei Russi mi mandano a traverso questi giorni che potrebbero essere di esaltazione.” Ecco qui perfettamente descritto il mio stato d’animo, sempre lo stesso in quel periodo. Purtroppo non ero riuscito a godermi a pieno il paesaggio e le emozioni straordinarie che normalmente le Alpi mi avrebbero dato. Tale paesaggio al contrario mi lasciava del tutto indifferente, perché non amavo oziare ed ero solo un sottufficiale che voleva trovarsi in prima linea e andare dove c’era la battaglia per combattere.
Carlo Emilio Gadda
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FRA TRINCEE E MONTAGNE 4 Giugno 1916
E’ finalmente finita la vita di trincea. Ora contrattaccheremo manovrando, e in montagna finalmente. Vedremo dunque anche noi alberi, foreste, sorgenti, vallate e angoli morti, che ci faranno dimenticare con il grande riposo sfumato, quell’orribile petriera carsica, squallida, senza un filo di erba e senza una goccia di acqua, tutta eguale, sempre eguale, priva di ripari. Ci potremo finalmente sdraiare, nelle ore di ozio, e prendere il sole, e dormire dietro un albero senza essere visti, senza avere per sveglia una pallottola nelle gambe. E dalle cime dei monti, avremo, di fronte a noi, un orizzonte e un panorama, in luogo degli eterni muri di trincea e dei reticolati di filo spinato. Ci libereremo finalmente di quella miserabile vita, finiremo di ammazzarci ogni giorno l’un l’altro senza odio. La manovra sarà un’altra cosa: una buona manovra e duecento, trecento mila prigionieri così! In un sol giorno, senza quella spaventosa carneficina generale in trincea.
Sto scrivendo su questo sbrindellato e umido diario di montagna, nella speranza che un giorno tutto questo possa diventare testimonianza di codesto evento storico, semmai lo diventerà. E penso che non siano solo i miei pensieri, ma anche quelli di ognuno dei miei compagni combattenti, che come me ora si riposano dopo il lungo cammino, avendo marciato dal Carso per raggiungere l’Altopiano di Asiago, già sotto attacco delle truppe austriache. Quando poco fa siamo giunti ai piedi dei pendii, presso il luogo vigeva un caotico disordine che ha disseminato nei nostri animi, stanchi dal cammino, confusione e smarrimento: non riuscivamo a distinguere le postazioni delle truppe italiane da quelle austriache. Ma ora, mentre sono qui, sulla cima a godermi per pochi minuti il panorama montano, mentre i miei uomini si riposano un poco prima di rimetterci in armi, sono meravigliato dalla fresca brezza mattutina che aleggia su questo altopiano e non rimpiango per nulla quell’orribile luogo di guerra, che fu la nostra trincea, prima che ci mettessimo in cammino. Per questo ho deciso di mettere per iscritto ciò che, oggi, per noi soldati, è la montagna: è tranquillità, quiete, riposo; è, per i nostri occhi, un barlume di luce e ilarità, in mezzo alla nebbia oscura dei proiettili e degli spari da fuoco, che siamo abituati a vedere quotidianamente. Non so se il valore e il significato del soggiorno montano rimarrà tale anche per i nostri posteri, ma, nel caso in cui non sarà così, ci tengo a mostrare a coloro che troveranno questi scritti, quanto invece fosse forte e importante al nostro tempo. È un senso di libertà, di grandezza, di pace interiore che ci perfora le ossa, schiacciate dal peso delle armi da guerra, e che scorre nel nostro sangue di ferro, talmente grande che ora, mentre mi trovo in questo posto edenico, riesco già a provare, sotto tutta questa sensazione di sollievo e felicità, quella malinconia e nostalgia futura, che ci invaderà quando dovremo lasciare codesto paradiso.
Emilio Lussu
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LE MONTAGNE
Antonia Pozzi
Occupano come immense donne
la sera:
sul petto raccolte le mani di pietra
fissan sbocchi di strade, tacendo
l’infinita speranza di un ritorno.
Mute in grembo maturano figli
all’assente. (Lo chiamaron vele
laggiù – o battaglie. Indi azzurra e rossa
parve loro la terra). Ora a un franare
di passi sulle ghiaie
grandi trasalgon nelle spalle. Il cielo
batte in un sussulto le sue ciglia bianche.
Madri. E s’erigon nella fronte, scostano
dai vasti occhi i rami delle stelle:
se all’orlo estremo dell’attesa
nasca un’aurora
e al brullo ventre fiorisca rosai
Pasturo, 9 settembre 1937
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FERRO 12 Febbraio 1975
In mezzo a noi, Sandro era un isolato. Era un ragazzo di statura media, magro ma muscoloso, che neanche nei giorni più freddi portava mai il cappotto. Veniva a lezione con logori calzoni di velluto alla zuava, calzettoni di lana greggia, e talvolta una mantellina nera che mi faceva pensare a Renato Fucini. Aveva grandi mani callose, un profilo ossuto e scabro, il viso cotto dal sole, la fronte bassa sotto la linea dei capelli, che portava cortissimi e tagliati a spazzola: camminava col passo lungo e lento del contadino. Da pochi mesi erano state proclamate le leggi razziali, e stavo diventando un isolato anch’io. Avevamo molto da cederci a vicenda. Gli dissi che eravamo come un catione e un anione, ma Sandro non mostrò di recepire la similitudine. Era nato sulla Serra d’Ivrea, terra bella ed avara: era figlio di un muratore, e passava le estati a fare il pastore. Non il pastore d’anime: il pastore di pecore, e non per retorica arcadica né per stramberia, ma con felicità, per amore della terra e dell’erba, e per abbondanza di cuore Aveva percorso il lungo itinerario del ginnasio-liceo tirando al massimo risultato col minimo sforzo: non gli importava di Catullo e di Cartesio, gli importava la promozione, e la domenica sugli sci o su roccia. Aveva scelto Chimica perché gli era sembrata meglio che un altro studio. Iniziammo a studiare insieme: lui, che fino ad allora non aveva letto che Salgari, London e Kipling, divenne di colpo un lettore furioso. Digeriva e ricordava tutto, e tutto in lui si ordinava spontaneamente in un sistema di vita; insieme, incominciò a studiare, e la sua media balzò dal 21 al 29. Nello stesso tempo, per inconscia gratitudine, e forse anche per desiderio di rivalsa, prese a sua volta ad occuparsi della mia educazione, e mi fece intendere che era mancante. Ma lui aveva un’altra materia a cui condurmi, un’altra educatrice: non le polverine di Qualitativa, ma quella vera, l’autentica Urtstoff senza tempo, la pietra e il ghiaccio delle montagne vicine. Mi dimostrò senza fatica che non avevo le carte in regola per parlare di materia. Quale commercio, quale confidenza avevo io avuto, fino allora, coi quattro elementi di Empedocle? Sapevo accendere una stufa? Guadare un torrente? Conoscevo la tormenta in quota? Il germogliare dei semi? No, e dunque anche lui aveva qualcosa di vitale da insegnarmi. Nacque un sodalizio, ed incominciò per me una stagione frenetica. Sandro sembrava fatto di ferro: d’inverno, quando gli attaccava secco, legava gli sci alla bicicletta rugginosa, partiva di buonora, e pedalava fino alla neve, senza soldi, con un carciofo in tasca e l’altra piena d’insalata: tornava poi a sera, o anche il giorno dopo, dormendo nei fienili, e più tormenta e fame aveva patito, più era contento e meglio stava di salute. Sandro andava su roccia più d’istinto che con tecnica, fidando nella forza delle mani, e salutando ironico, nell’appiglio a cui si afferrava, il silicio, il calcio e il magnesio che aveva imparati a riconoscere al corso di mineralogia. Gli pareva di aver perso giornata se non aveva dato fondo in qualche modo alle sue riserve di energia, ed allora era anche più vivace il suo sguardo: e mi spiegò che, facendo vita sedentaria, si forma un deposito di grasso dietro agli occhi, che non è sano; faticando, il grasso si consuma, gli occhi arretrano in fondo alle occhiaie, e diventano più acuti. Mi trascinava in estenuanti cavalcate nella neve fresca, lontano da ogni traccia umana, seguendo itinerari che sembrava intuire come un selvaggio. D’estate, di rifugio in rifugio, ad ubriacarci di sole, di fatica e di vento, ed a limarci la pelle dei polpastrelli su roccia mai prima toccata da mano
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d’uomo: ma non sulle cime famose, né alla ricerca dell’impresa memorabile; di questo non gli importava proprio niente. Gli importava conoscere i suoi limiti, misurarsi e migliorarsi; più oscuramente, sentiva il bisogno di prepararsi (e di prepararmi) per un avvenire di ferro, di mese in mese più vicino. Vedere Sandro in montagna riconciliava col mondo, e faceva dimenticare l’incubo che gravava sull’Europa. Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accenda. Suscitava in me una comunione nuova con la terra e il cielo, in cui confluivano il mio bisogno di libertà, la pienezza delle forzea. Uscivamo all’aurora, strofinandoci gli occhi, dalla portina del bivacco Martinotti, ed ecco tutto intorno, appena toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche. Erano un’isola, un altrove. Le nostre imprese erano sempre più impegnative: mai tranquille evasioni, poiché Sandro diceva che, per vedere i panorami, avremmo avuto tempo a quarant’anni. “Dôma, neh?” mi disse un giorno, a febbraio: nel suo linguaggio, voleva dire che, essendo buono il tempo, avremmo potuto partire alla sera per l’ascensione invernale del Dente di M’, che da qualche settimana era in
programma. Dormimmo in una locanda e partimmo il giorno dopo, non troppo presto, ad un’ora imprecisata (Sandro non amava gli orologi: ne sentiva il tacito continuo ammonimento come un’intrusione arbitraria); ci cacciammo baldanzosamente nella nebbia, e ne uscimmo verso l'una, in uno splendido sole, e sul crestone di una cima che non era quella buona. Allora io dissi che avremmo potuto ridiscendere di un centinaio di metri, traversare a mezza costa e risalire per il costone successivo: o meglio ancora, già che c’eravamo, continuare a salire ed
accontentarci della cima sbagliata, che tanto era solo quaranta metri più bassa dell’altra; ma Sandro, con splendida malafede, disse in poche sillabe dense che stava bene per la mia ultima proposta, ma che poi, “per la facile cresta nord-ovest” (era questa una sarcastica citazione dalla già nominata guida del Cai) avremmo raggiunto ugualmente, in mezz’ora, il Dente di M’; e che non valeva la pena di avere vent’anni se non ci si permetteva il lusso di sbagliare strada. La facile cresta doveva bene essere facile, anzi elementare, d’estate, ma noi la trovammo in condizioni scomode. La roccia era bagnata sul versante al sole, e coperta di vetrato nero su quello in ombra; fra uno spuntone e l’altro c’erano sacche di neve fradicia dove si affondava fino alla cintura. Arrivammo in cima alle cinque, io tirando l’ala da far pena, Sandro in preda ad un’ilarità sinistra che io trovavo irritante. - E per scendere? - Per scendere vedremo, - rispose; ed aggiunse misteriosamente: - Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso -. Bene, la gustammo, la carne dell’orso, nel corso di quella notte, che trovammo lunga. Scendemmo in due ore, malamente aiutati dalla corda, che era gelata: era
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diventato un maligno groviglio rigido che si agganciava a tutti gli spuntoni, e suonava sulla roccia come un cavo da teleferica. Alle sette eravamo in riva a un laghetto ghiacciato, ed era buio. Mangiammo il poco che ci avanzava, costruimmo un futile muretto a secco dalla parte del vento e ci mettemmo a dormire per terra, serrati l’uno contro l’altro. Era come se anche il tempo si fosse congelato; ci alzavamo ogni tanto in piedi per riattivare la circolazione, ed era sempre la stessa ora: il vento soffiava sempre, c’era sempre uno spettro di luna, sempre allo stesso punto del cielo, e davanti alla luna una cavalcata fantastica di nuvole stracciate, sempre uguale. Ci eravamo tolte le scarpe, come descritto nei libri di Lammer cari a Sandro, e tenevamo i piedi nei sacchi; alla prima luce funerea, che pareva venire dalla neve e non dal cielo, ci levammo con le membra intormentite e gli occhi spiritati per la veglia, la fame e la durezza del giaciglio: e trovammo le scarpe talmente gelate che suonavano come campane, e per infilarle dovemmo covarle come fanno le galline.Ma tornammo a valle coi nostri mezzi, e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino. Perciò sono grato a Sandro per avermi messo coscientemente nei guai, in quella ed in altre imprese insensate solo in apparenza, e so con certezza che queste mi hanno servito più tardi. Non hanno servito a lui, o non a lungo. Sandro era Sandro Delmastro, il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione. Dopo pochi mesi di tensione estrema, nell’aprile del 1944 fu catturato dai fascisti, non si arrese e tentò la fuga dalla Casa Littoria di Cuneo. Fu ucciso, con una scarica di mitra alla nuca, da un mostruoso carnefice-bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni che la repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori. Il suo corpo rimase a lungo abbandonato in mezzo al viale, perché i fascisti avevano vietato alla popolazione di dargli sepoltura. Oggi so che è un’impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta di uno strano Diario sperduto sulle Alpi: un uomo come Sandro in specie. Non era uomo da raccontare né da fargli monumenti, lui che dei monumenti rideva: stava tutto nelle azioni, e, finite quelle, di lui non resta nulla; nulla se non parole, appunto.
Primo Levi
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LA TRAGEDIA DEL MONTE EIGER 17 settembre 1939
“Quando ti trovi ai piedi di una montagna” disse una volta Toni, “ai piedi del muro, e guardi in alto, allora cominci a chiederti come può qualcuno salire fin lassù, perché qualcuno dovrebbe volerlo fare. Poi quando sei lassù, ore più tardi, e guardi in basso, allora hai già dimenticato tutto, tranne quella sola persona cui hai promesso che s