orchestra europea · farmaceutica; nel 2015 si fonde con il ramo italiano di sigma-tau, dando vita...

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magazine Orchestra europea Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna n.12 gennaio 2017

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magazine

Orchestra europea

Filarmonicadel Teatro Comunaledi Bologna

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E

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“[...] Del resto il teatro italiano non deve speraresalute dal governo. In un paese dove le leggiguarentiscono il più ampio esercizio del diritto diassociazione, gli artisti possono trovare efficacerimedio nelle proprie forze. [...] ne’ paesi liberi igoverni sono pessimi protettori delle arti belle, allequali conviene soltanto augurare che lo Stato nonsi occupi di loro. E qualche volta può accadere, come è accaduto inItalia, che sotto la toga di Mecenate si nascondal’esattore. Nell’anno di grazia testé terminato,quello stesso Ministero che si faceva iniziatore dellaSocietà rossiniana e decretava onori al Pesarese,chiedeva al Parlamento l’imposta del dieci percento sul prodotto delle rappresentazioni teatrali.Noi rispettiamo il voto del Parlamento; glieconomisti avranno ottime ragioni per lodarlo, magli artisti deplorano che sia stata per tal modocolpita l’arte appunto quando già si trovava ridottaa mal partito. [...] Come stanno presentemente lecose nessuna industria è aggravata quanto quelladei teatri. E che vedano errati coloro i qualiaffermano che la tassa colpisce lo spettatore e nonl’artista o l’appaltatore teatrale, lo dimostra il fattoche dal 1° gennaio (giorno in cui andò in vigore lalegge) fino ad oggi (febbraio 1869, ndr) nessunappaltatore aumentò, come sarebbe stato naturale,il prezzo d’ingresso in proporzione della nuovaimposta, e ciò per timore che diminuissesoverchiamente il numero degli spettatori. Siriconosca pertanto che l’imposta sui teatri è pagatanon già dai consumatori, ma dai produttori.”

Così scriveva sul numero 10 della rivista NuovaAntologia del 1869 Francesco D’Arcais, giornalista

e critico teatrale, nato a Cagliari nel 1830, morto aCastelgandolfo nel 1890. Laureato in legge aTorino, coltivò allo stesso tempo la sua passioneper la musica: nel 1853 entrò a Torino nellaredazione dell'Opinione, di cui scrisse le appendicimusicali e quando fu fondata la NuovaAntologia, venne chiamato come responsabiledella critica musicale, divenendone infine direttore.

A lui, alla sua voce lontana nel tempo, eppure cosìvicina, ho pensato di affidare l’editoriale di questonumero. Mi è parso che le sue considerazioniavessero un sapore di tale modernità e attualità,da valere per noi, gente di teatro di circacentocinquant’anni dopo, come ammonimento dalsentirsi soggetti di una catastrofe imminente unicanella storia e, allo stesso tempo, comedimostrazione del fatto che i problemi riguardantii teatri, alla fine, sono sempre gli stessi, fin dallafondazione dello Stato italiano.

Cosa prevarrà in noi, la rassegnazione o lasperanza? Certo è che, in questicentocinquant’anni, di passi avanti se ne eranofatti, con le fascistissime leggi istitutive degli Entilirici, con la nascita del Ministero della Cultura, nel1974, con l’istituzione del Fus, nel 1985, che dovevaservire a dare finanziamenti certi ai teatri, così dagarantire serenità e prospettiva nell’attività deglistessi.

E adesso? Adesso sembra di tornare indietro, e iproblemi che si manifestavano al nascere dell’Italiae che dovremmo vedere come un dato storico, unlontano ritratto, un dagherrotipo, del nostro Paese,

come accade per la mortalità infantile,l’analfabetismo, le epidemie di tifo o di vaiolo, lisentiamo vivi sulla nostra pelle e sul futuro nostroe delle nostre famiglie.

Così, gli Enti lirici, divenuti nel frattempoFondazioni, sono in dismissione, il Ministero dellaCultura ha riassorbito Sport e Turismo, in una sortadi fritto misto indigesto, dove non si fanno piùdistinzioni tra cultura e spettacolo e il FUS,finanziato inizialmente col 0,08 del Pil, è precipitatonel 2013 allo 0,02. Quest’ultimo dato, peraltro,smentisce chiaramente il mantra del “non ci sonosoldi”, perché, se così fosse, la percentuale sul Pilsarebbe rimasta immutata, mentre questa si èappunto ridotta a un quarto del dato iniziale,dimostrando la chiara volontà politica di noninvestire più in questo settore, visto come vitale datutti i Paesi civili.

A ogni buon conto, noi siamo qui, a fare conpassione il nostro mestiere di musicisti e adaspettare un governo che voglia smentire D’Arcais- anche dopo duecento anni, di questo passo! - eche si voglia occupare dei nostri teatri, per dare loroil ruolo che meritano nella cultura italiana.

EDITORIALE

Guido GiannuzziDirettore Responsabile

“Filarmonica Magazine”[email protected]

Filarmonica Magazinen. 12 mese gennaio anno 2017Aut. Tribunale di Bologna N. 7937 del 5 marzo 2009

EditoreAssociazione Filarmonica del Teatro Comunale di BolognaVia Bertoloni, 11 – Bologna

RedazioneSede operativa c/o Teatro Auditorium Manzoni via De'Monari 1/2, 40121 Bologna

Direttore responsabileGuido [email protected]

RedazioneMichele [email protected]

Orchestra europea

Filarmonicadel Teatro Comunaledi Bologna

Sede legale: Via A.Bertoloni, 1140126 BolognaSede operativa c/o Teatro Auditorium Manzoni via De' Monari 1/2, 40121 Bolognae-mail: [email protected]

www.filarmonicabologna.it

Hanno collaboratoMauro MasieroCecilia MatteucciPiero MioliRoberta PaltrinieriFabio Sperandio

Foto di copertina© Rocco Casaluci

Progetto graficoPunto e Virgola, Bologna

Pubblicità [email protected]

SOMMARIOEditoriale | 03Rubriche | 05Un flash sul far musica... | 07Un percorso di pura energia | 11Itinerario | 14Senza cultura non si mangia | 17Recensioni | 19

UN RINGRAZIAMENTO PARTICOLARE A

DIPAOLOARTE- Galleria Falcone-Borsellino 4 a/b, 40123 Bolognawww.dipaoloarte.it; [email protected]

051.225413 – da lunedì a sabato 11-13 e 16-20

ARTE MODERNA e CONTEMPORANEA

Ottone Rosai, Paese, 1934, olio su tavola, cm. 100x70

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LE MIE DOMANDEdi Cecilia Matteucci

A Marino Golinelli, Imprenditore, pioniere, filantropo, visionario. Fondatore e Presidente Onorario della Fondazione Golinelli.Nato a San Felice sul Panaro (Modena) l’11 ottobre 1920, nel 1943 si laurea in Farmacia all’Università diBologna. Il 24 gennaio 1948 rileva un piccolo laboratorio a Bologna e intraprende un’attività indipendenteper la produzione di farmaci. Fonda Biochimici A.L.F.A., poi Alfa Wasserman, colosso dell’industriafarmaceutica; nel 2015 si fonde con il ramo italiano di Sigma-Tau, dando vita ad Alfasigma.

Nel 1988 nasce la Fondazione che porta il suo nome, con l’obiettivo di promuovere l’educazione e laformazione, di diffondere la cultura, di favorire la crescita intellettuale, responsabile ed etica dei giovani,i cittadini del futuro in un mondo globale. Oggi la Fondazione Golinelli è l’unico esempio italiano difondazione privata ispirata al modello delle grandi fondazioni filantropiche americane. Grazie a unimportante intervento di riqualificazione urbana, nel 2015 realizza Opificio Golinelli, cittadella per laconoscenza e la cultura dove si svolge ampia parte delle attività formative, didattiche e culturali che fannocapo alle sei aree progettuali della Fondazione. Dopo aver già investito nella Fondazione 51 milioni dieuro, Marino Golinelli ha messo a disposizione altri 30 milioni di euro per sviluppare e sostenere nei prossimianni il progetto Opus 2065 col quale intende rafforzare la missione etica della Fondazione.

Cecilia Matteucci e Marino Golinelli sulle poltrone del Teatro Comunale di Bologna,

donate dallo stesso mecenate nel 2016

La sua opera lirica preferita?Tristano e Isotta di Richard Wagner.

La canzone della sua giovinezza?Mi sono avvicinato tardi alla musica, avevoappena cominciato a frequentarel’università a Bologna. Era il 1938, miaffacciavo ai miei diciotto anni.M’interessavano già le scienze ma lamusica non era in cima ai miei pensieri.Ricordo però come fosse adesso che inquel periodo la mia canzone preferita eraSolitude di Louis Armstrong che ebbimodo di ascoltare una sera, in piazza SantoStefano. Da quel momento è stato un colpodi fulmine, non ho mai smesso di coltivarela passione per quell’arte, dalla musicaclassica alla contemporanea, che ci favivere i nostri sogni con passione.

Una canzone da dedicare a sua moglie?Strangers in the Night di Frank Sinatra,una notte vissuta insieme.

Fondazione Teatro Comunale diBologna: lei è da sempre un grandesostenitore, qualche idea per il suofuturo?Sono contento che sia stato scongiurato ilcommissariamento, ma ho perplessità peril futuro. Pubblico e privati, insieme,

devono tenere conto delle lororesponsabilità per il Teatro Comunale,bene imprescindibile per la città diBologna.

Un evento indimenticabile legato allamusica.Mi ricordo un memorabile Tristano eIsotta all’Opera Bastille di Parigi, con laregia di Peter Sellars e i filmati del video-artista Bill Viola.

L’arte contemporanea è la sua grandepassione: l’ultima opera che lo hacolpito?Mi ha particolarmente impressionatoImmortal Hunting di Ronald Ventura,opera del 2015. L’artista filippino, in questoIcaro rovesciato, mostra tutta la caducitàdell’uomo.

Qual è il suo museo preferito?Il Musem of Modern Art (MOMA) diNew York.

Opificio Golinelli, la sua ultimacreatura, già spazio di grande successo.La cittadella per la cultura e la conoscenzadella Fondazione Golinelli, fin dal suoprimo anno di vita, ha avuto una grandeaffluenza di pubblico, soprattutto fra i

LE VIE DEI CANTI a cura di Guido Giannuzzi

Le competizioni non sono per i musicisti

ma per i cavalli.

Béla Bartók“ ”

giovani che hanno frequentato le nostreattività. A Opificio sarà affiancato dagiugno 2017 il nuovo Centro Arti eScienze Golinelli che ospiterà importantiiniziative culturali. Questi due spazisaranno punto di riferimento formativo perle nuove generazioni.

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UN flash SUL “FAR MUSICA” D'ARTE,IN QUEL DI BOLOGNA ALL'INIZIO DEL DUEMILAdi Piero Mioli

Fare, più chiaramente comporre,eseguire, organizzare, trattare la musica, eparlarne, descriverla, commentarla,registrarla e così via. Il che è un’impresa, aBologna come altrove, e mentre va liberatada ogni sospetto d’ironia, la parola deveanche perdere un significato che in musicale compete davvero, cioè quello di impresa,impresariato, specifico punto di ideazionee confezione della musica (non solooperistica, come si potrebbe credere, bensìanche sinfonica e cameristica). Ma sequesta accezione del fare e dell’imprendereè comune, in Italia e pressappoco in diversipaesi d’Occidente, Bologna è pur sempreuna città a sé, con una storia sua einconfondibile, e questa realtà desta subitoqualche questioncella. Quasi mai capitale,nei tempi dei tempi, Bologna è uncapoluogo di provincia; ed è ancheprovincia in senso musicale? Tutto èrelativo, al proposito, e come rispetto aBologna sono provincia città come Imola,Lugo, Porretta e Cento ma anche Modena

e Ravenna, Bologna è provincia rispetto aRoma e Milano, che a loro volta debbonoreggere il confronto con Parigi, Vienna eLondra, a loro volta confrontabili conalcune altre metropoli del mondo eamericane in particolare.

Nei termini della musica classica,indubbiamente Bologna si muove concapacità e solerzia, contando sul TeatroComunale, sull’Accademia Filarmonica, sulConservatorio “Martini”, sul Dipartimentodelle Arti dell’Alma Mater, sul Museo dellaMusica, sull'orchestra Filarmonica delComunale, sul Bologna Festival, su MusicaInsieme, sugli assessorati (del Comune edella Regione), su diverse associazioni eaggregazioni regolarmente produttive ingiusta proporzione quantitativa con cittàpiù e meno grandi. Tuttavia qualcosa nonle abbonda, rispetto alle città maggiori, edè qualcosa di determinante proprio nelsenso della produzione: è l’editoriamusicale specifica o almeno parzialmente

interessata, quella che usa pubblicarepartiture musicali, libri e rivisted’argomento musicale, con poche ancorchévalenti eccezioni come Ut Orpheus editoree «ftcb», questo filarmonico magazine

dal titolo nient'affatto appariscente; e se ladiscografia annovera due case dal catalogogeneroso come Bongiovanni e Tactus, incomplesso non è paragonabile con ilnumero e l’eccellenza delle case classicheinsediate altrove.

Ideazione e produzione, si diceva;dunque si proceda in ordine. Quali sono lementi che debbono pensare, organizzare,disciplinare la musica classica in Bologna?Quelle di coloro che dirigono o presiedonole istituzioni citate, e che non di radoprovengono da fuori città: il che è un benein senso assoluto, ché la circolazione delleteste (magari ben piantate sui piedirispettivi) assicura varietà e libertà, madecresce un po' di bontà se rischia diassumere le sembianze del terreno diconquista, della colonizzazione (da Milano,

Lelio Dalla Volpe, Facciata del Teatro Comunale di Bologna, 1771

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com'è capitato a lungo in passato) esoprattutto se tali menti possono esseremodeste, povere o prive di precedenti. Sullato opposto, certo Bologna non manca dionorare qualche suo figlio di valore,musicista o musicologo, concertatored’orchestra o direttore artistico che sia, maforse lo fa un po’ occasionalmente, forsetemendo l’accusa di un certo tipo diprovincialismo e però incappando nellaprobabilità di un provincialismo d’altraspecie (né pare che questi famosi “figli”abbiano poi tanta fortuna altrove, aproposito di scambi opportuni o doverosi).Singolare il caso dell’insegnamento

universitario o conservatoriale, cheassicura un andirivieni continuo da Forlì,Ravenna, Firenze e Roma (per esempio) aBologna e da Bologna a Modena, Ferrara,Parma, Verona e così via: singolare eproficuo senza meno.

Dopo le teste, tocca alle mani: ecco dunquei mezzi materiali, i fondi, i contanti, lepossibilità e le sovvenzioni economiche,derivanti da sponsor svariati masoprattutto, si sa, da fondazioni bancarie(meritevoli, in particolare, la Carisbo e ilMonte di Bologna e Ravenna) e imprese.Intanto non bisognerebbe dimenticare un

punto fondamentale: non è poi detto chequalche iniziativa di carattere musicale nonpossa anche arrangiarsi, sostentarsi da sé,per esempio con una programmazioneoculata e una gestione degli incassialtrettale (certi libri, per esempio, sonopagati agli editori dagli autori o chi perloro, certi altri fortunatamente viceversa).Quindi bisogna prendere atto del minoreascendente che la musica può esercitaresugli sponsor rispetto ad altre discipline: learti figurative nel loro complesso,l’acquisizione di un dipinto, il restauro diun affresco, il riscatto di un cortile o unachiesa sembrano avere un potere

d’attrazione fortissimo, mentrel’allestimento di una serie di concerti o lapubblicazione di un libro storico-musicaledestano ancora delle perplessità e quindifrequenti rifiuti. Il discorso verteovviamente sulle generali, ché le eccezionisussistono sempre (per esempio, guarda unpo’, là dove la musica confina con l’arte ela tecnica del restauro, circa gli strumentimusicali); ma è particolarmenteincrescioso, perché, se è vero che la culturamusicale trova troppo poco spazio nellascuola superiore (e quindi fa capire ilfenomeno), è vero anche che la musicacanta e suona, parla e annuncia, appella e

apostrofa con maggior vigore d’attualitàdelle altre arti, e come è capace dirichiamare di più gli spettatori cosìdovrebbe richiamare di più i suoi protettorie benefattori.

Riguarda anche questo settore “manuale”un aspetto notoriamente riguardante ilsettore “ideale” di cui sopra: si tratta diquel giro (o anche quel traffico) che sifrappone (o anche s’intromette) tra leistituzioni, le associazioni, lerappresentazioni cittadine e i personaggidella vita culturale, civile, politica siacittadina che nazionale. Dove, a parte i casi

lampanti dicondizionamento ocorruzione (qui ora nonprevisti), a contare nonpoco è la conoscenzadiretta, la frequentazione,l’amicizia, anche laconoscenza indiretta:bene, ché anche legaranzie umane hanno unvalore, e meno bene se afarne le spese sono gliopposti e numerosi casianonimi, irrelati, giovani orecenti. Vedansi certi libripresentati da politici eaccademici zelanti eprestigiosi, ma magaripubblicati mediocrementee spesso destinati a pocafortuna; o vedansi libri,atti congressuali, rassegneconcertistiche, cicli di

manifestazioni sostenuti dagli sponsor anetto svantaggio di altri altrettanto omaggiormente meritevoli (ma chi devegiudicare i meriti? quanto meno chiconosce la materia). Nessun dubbio,comunque, che tutto il mondo sia paese:quanto s'è appena detto vale per Bolognacome per ogni altro centro o luogomusicale, almeno in Italia.

Dopo l’ideazione e la produzione, ildiscorso non è affatto finito, perché deveinvestire la critica musicale; ma qui ildiscorso che continua non può contenersinell’amplesso della Grassa e della Dotta.

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L'antico «Resto del Carlino» (associato al«Giorno» e alla «Nazione»), la modernaredazione della «Repubblica» e altreredazioni ancora più recenti si sonouniformate alle placide costumanzenazionali: è una critica, questa, che datempo ha smesso di avere una cifra, untono, un’aura etimologicamente “critica”,cioè pronta o rassegnata a usare un'equabilancia di valori; e le attese attivitàrecensorie, esaltazioni o stroncature obenefiche vie di mezzo, tendono spesso alimitarsi all’introduzione, all’annuncio, allanotizia, all'intervista (per quanto benfornita).

I primi a saperlo sono i critici stessi con laloro lucida associazione; per cui non vale

la pena di insistere sul caso se non perauspicare un riavviamento generale einvitare le redazioni nazionali e locali deiperiodici a moltiplicare e corroborarel’attività critica. Altrettanto sembra giustoincoraggiare l’attività editoriale ediscografica, aiutando le menti e le manidei giovani volonterosi e competenti. Esoprattutto, forse, sembra opportuno farcircolare di più le idee e le notizie, i progettie i programmi, i curricoli e le informazionirelative al passato, al già fatto e già visto,al cominciato e al finito, magari anche alcominciato e non finito: affinché l’impresamusicale di Bologna apprenda e capisca, simuova con cognizione di causa, decida concognizione di risultato, sorrida aun’amicizia fidata ma anche s’affidi a un

imprenditore di sé stesso che altrimentinon sappia in quali mani deporre le sueidee.

Senza scrupoli di sorta, certo, e senzapregiudizi di carattere “storico”: peresempio senza ricordare che nella Forza

del destino di Verdi, melodramma del1862, l’infelicissimo tenore don Alvaroricorda la figura del padre e di una suaazione canta rassegnato “fallì l’impresa”.Fallì? porta male, pensarono l’impresariodell’occasione e quindi gli impresari dimezzo mondo, e presto presto il tenore, delresto sulle stesse cinque note scritte dalgran Giuseppe, cominciò a cantare “Fuvana impresa”.

Primo numero de Il resto del Carlino,

30 marzo 1885

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“UN PERCORSO DI PURA ENERGIA”INTRODUZIONE ALL’ASCOLTO DEI QUARTETTI DI BEETHOVEN di Mauro Masiero

“Un percorso di pura energia”. CosìQuirino Principe sulla galassia costituitadai sedici quartetti e dalla Grande Fugadi Ludwig van Beethoven, un corpus checontempla alcuni tra i più altiraggiungimenti dell’attività umana, nonsoltanto in campo musicale. Tentiamo disondarne la vastità siderale iniziando conuna sintetica panoramica a volo d’uccello.Si tratta di un “percorso” poiché il generedel quartetto accompagnò tutte le fasidella vita e della produzionebeethoveniana, più che il pianoforte el’orchestra, ancorché in quantitànumericamente inferiore: fu in questogenere e in questo organico che Beethoventrovò il più alto raffinamento del suoapprendistato con i sei quartetti op. 18 trail 1797 e il 1800, nei quali, tuttavia, “erachiaro che Beethoven andasse cercandoqualche cosa di più”, scrive JosephKerman. Il compositore giunse a Vienna nel1792 “per ricevere, con ininterrotto zelo, lospirito di Mozart dalle mani di Haydn” equi inizialmente venne acclamato comefenomenale virtuoso e improvvisatore al

pianoforte; il suo lavoro come compositoreera ancora in uno stato embrionale. Ilgenere del quartetto si rivolgeva a unpubblico ristretto e competente, costituitodi musicisti dilettanti di ottimo livello oprofessionisti, amatori e intenditori dimusica che sapevano afferrare le finezze ele debolezze della scrittura e dello stile. Lacomposizione di quartetti era quindi unterreno accidentato, che non consentivadilettantismi né approssimazioni eBeethoven attese qualche anno prima dicimentarvisi. Quando pubblicò l’op. 18 eraconsapevole di aver compiuto il passodecisivo verso la sua consacrazione comecompositore nella capitale della Musica:Vienna. Questa prima raccolta, infatti, nonsi apre con il primo quartetto in ordinecronologico, bensì con quello reputato ilmigliore da Beethoven e da Schuppanzigh,suo violinista di riferimento. Il numero disei quartetti, di cui uno in modo minore,rispondeva a un uso tradizionale – Haydne Mozart pubblicarono diverse raccolte diquartetti in gruppi di sei – segno ulterioredella volontà del giovane Beethoven di

affermarsi come continuatore del grandestile haydniano e mozartiano (quello cheoggi chiamiamo classico), nel pienorispetto della grande forma.L’apprendistato formale è, con l’op. 18, giàcompiuto, con tratti individuali bendistinguibili – e forieri quanti altri mai diconseguenze – che traluconodall’oggettività della forma sonata.Sappiamo dai suoi quaderni di appunti eda alcune lettere che la gestazione diquesti quartetti fu lunga e ardua, trattocaratteristico di Beethoven, solito a unaprofonda, persino drammaticaelaborazione del materiale musicale.Questo laborioso procedimentocompositivo era dovuto anche allo spettrodella sordità, che dal 1797, anno dicomposizione dell’op. 18 n. 3, iniziò ainsinuarsi nella sua esistenza. Il dedicatariodell’op. 18 fu il principe von Lobkowitz,ottimo dilettante di violino e mecenate, nelcui palazzo risuonarono per la prima voltai poderosi accordi della Sinfonia Eroicanell’agosto del 1804.Fu con i tre quartetti Rasumovsky op. 59

F. Stober, I funerali di Beethoven, dipinto del 1827

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che Beethoven – tra il 1805 e il 1806 –seppe trasporre la nuova via dell’Eroicaall’interno di una composizionecameristica, dilatandone le forme e iconfini, ampliandone la sonorità,esasperandone l’espressività. Ilcommittente e dedicatario di questiquartetti era l’ambasciatore russo aVienna, Andrey Kirillovich Rasumovsky,anch’egli eccellente violinista dilettante emecenate, che nel 1808 fondò un quartettod’archi privato guidato da IgnazSchuppanzigh. Il fenomeno di un quartettodi professionisti e il nuovo stile eroicobeethoveniano dell’op. 59 vanno di paripasso: Beethoven non concedeva nulla aimusicisti. L’urgenza creativa lo portava aignorare le difficoltà tecniche imposte agliesecutori, cosa che andrà esacerbandosisino ai limiti dell’umanamente sostenibilecon le composizioni dei periodi più tardi, sipensi soltanto all’emblematico, in questosenso, quartetto vocale nel finale dellaNona Sinfonia. Già prima del 1810 la suascrittura era di una vastità e di unadifficoltà sino ad allora inaudite, tanto darichiedere l’interpretazione di musicistiprofessionisti e tanto da risultaresconvolgenti per il pubblico, nonostante aVienna fosse, “almeno all’iniziodell’Ottocento, un po’ meno diffidente

[rispetto che in Italia] nei confrontidell’originalità e si aspettava di esseresorpreso, o anche sconcertato, dai nuovisviluppi dell’arte”, scrive Charles Rosen.Beethoven fu il primo artista a pretenderedi essere ascoltato in silenzio, il primo apretendere piena autonomia daqualsivoglia autorità, un ruolo socialericonosciuto e sostenuto dallo Stato equesta sua volontà granitica trovòmagnifica espressione nella superbia deiRasumovsky, dopo i quali Beethoven nonscrisse più quartetti pensati all’interno diraccolte: i successivi furono concepiti comesingole unità.Tra il 1809 e il 1810, Beethoven riconobbenuovamente nel quartetto per archil’opificio ideale per ulteriorisperimentazioni ed elaborazioni stilistiche:l’op. 74 sembra placare l’esuberanteimpeto eroico dei Rasumovsky in favoredi una ritrovata distensione apollinea e uncontrollo supremo sulla Forma. Con l’op.95, invece, si spinse in là sino a forgiare unlinguaggio radicale ed esoterico, aspro edermetico, analitico, ellittico. Ogni elementoè distillato alla sua essenza. Si tratta delcosiddetto Quartetto Serioso, che portacon sé almeno due fatti paradossaliquantomai rivelatori: 1) il dedicatario, ilconte ungherese Nicolaus Zmeskall vonDomanocvetz, era un nobile funzionarioungherese talmente affascinato dallafigura titanica di Beethoven da assicurarglila sua disponibilità totale, costante eservile, sbrigando per lui le faccendepratiche più disparate e accettando a testabassa le intemperanze e le soperchierie delMaestro. 2) Beethoven si premurò dicomunicare all’editore che il quartetto erariservato a una cerchia ristretta diintenditori e che non avrebbe dovutoessere eseguito in pubblico. Questi dueaspetti paradossali, lungi dal costituiregratuita aneddotica, svelano molto dellapersonalità dell’autore, del suo sprezzo perl’autorità costituita, dell’importanzasuprema che conferiva al linguaggiomusicale: un’esigenza di diremusicalmente così forte dal travalicareogni necessità editoriale, commerciale,personale. Ciascuna nota del più radicaledei suoi esperimenti è dotata di pesostrutturale e di una funzione portantenell’equilibrio dell’edificio sonoro: ilquartetto si afferma dunque come luogoprediletto per la meditazione e per laspeculazione.Circa una quindicina d’anni separano l’op.95 dagli Ultimi Quartetti. L’op. 127,concepito nel 1822 contemporaneamentealla Nona Sinfonia, vide la luce solo nel

1825. Gli ultimi anni di Beethoven furonotremendamente difficili: la sordità eradivenuta, almeno dal 1816, pressochétotale e la conseguente misantropia si acuìtrascinando con sé isolamento e instabilitàfinanziaria. Nella musica tuttavia, ciò nonlascia che una traccia minima: la volontàd’acciaio, l’esigenza – talora disperata – dicomunicare e la consapevolezza di avereancora molto da dire sulla musica e tramitela musica trascendono il mero datobiografico.Nel periodo in cui lavorò alla MissaSolemnis (op. 123) alla Nona Sinfonia(op. 125) Beethoven elessedefinitivamente il quartetto a suo mezzoprivilegiato ed esclusivo di espressioneintima e ancora, sempre, incessantementedi sperimentazione, di costante lavorioformale: vi affidò il suo pensiero piùestremo, le inquietudini, le riflessioni piùprofonde, un umorismo ora nero esardonico, ora genuino e bonario. Nelcosmo della produzione beethoveniana, gliUltimi Quartetti (opere 127, 130 - 135) siaggregano in una costellazioneabbacinante di luce, veri astra cuiBeethoven giunse attraverso gli aspera diun lavoro continuo di metamorfosi, di lottatitanica con la materia più sublime e piùvile, di una vita di dolore e rinuncia; di purevolontà ed energia, appunto.Che cosa ha fatto sì che, dopo gli splendorimichelangioleschi della Missa Solemnis edelle ultime sinfonie, Beethoven si fosserivolto nuovamente al genere da cameraper eccellenza, capace del solo timbro diquattro strumenti ad arco? È un toposnella storia delle arti e del pensiero che lostile tardo di un autore sia caratterizzatoda maggiore astrazione, da un pensierodistaccato, atemporale e ultraterreno,scaturigine di un’incessante riflessionesulla forma e sulla materia maturata nelcorso di tutta una vita. Scrive CarlDahlhaus che “L’opera tarda è […] già allasua nascita intimamente estraneaall’epoca a cui appartiene esteriormente.Un abisso la separa dal tempo di cui portala data”. Nel periodo aurorale dellagenerazione romantica, Beethoven scelseancora una volta di agire controcorrente:in un’epoca in cui “un’esigenza di radicalenovità inventiva […] rese sostanzialmenteconvenzionale la rottura delle convenzionida parte dei compositori, […] Beethoven[…] fino alla fine dei suoi giorni continuòa usare e persino a resuscitareprocedimenti musicali che aveva appresoda bambino” (Rosen). Egli si rivolse conattenzione particolare, meticolosa eanalitica a due procedimenti antichi che

Franz Klein, Ritratto di Beethoven, 1812

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assursero a cardine del dato musicale in sé:la variazione e la fuga, tanto da rinunciarein alcuni casi alla forma sonata. Questegli consentirono un lavoro capillare sullacellula musicale, sulle unità minime dellasintassi, sulle loro metamorfosi, sulle lorointerazioni contrappuntistiche; glipermisero una meditazione sul concetto ditempo e sul suo fluire che solo l’ascoltoattento di alcuni particolari movimenti – etenteremo più in la di accennare quali –può parzialmente schiudere. Si tratta diprocedimenti profondi e complessi al limitedel trascendente, per i quali non troviamoparole migliori di quelle, ancora una volta,di Quirino Principe: “La funzione supremadelle due forme, la fuga e la variazione, ènella loro essenza: l’assoluta autogenesidella musica […].”Lo stile ermetico sperimentato con ilSerioso non portò a una ulterioreradicalizzazione e a un inasprimento dellinguaggio in senso espressionista (adeccezione della supernova che è GrandeFuga), ma cedette sorprendentemente ilpasso a una ritrovata cantabilità, taloraaddirittura serena, ironica, disincantata, auno scavo nella meditazione piùintrospettiva. L’oggettività della forma

applicata con tanta maestria e coerenzanei Rasumovsky divenne una cosa solacon la soggettività dell’espressione, che lanebulizza senza distruggerla.Con l’op. 127 Beethoven mantenne latradizionale suddivisione in quattromovimenti, ma inserì nella nuova, irenicacantabilità numerosi elementi irrazionaliche ne dilatano le sezioni e ne ampliano laforma; qui sperimentò per la prima voltanegli Ultimi Quartetti le forme ultime dellavariazione e della fuga. Nell’op. 132, ilsuccessivo in ordine cronologico, aggiunseun quinto movimento, radicalizzòulteriormente la sua scienza armonica eformale sino a condurre all’interno delQuartetto l’elemento vocale con loHeiliger Dankgesang. Coacervo dicontrasti tra i suoi sei movimenti, ma ancheinterni a ciascun movimento nella suaindividualità è l’op. 130, cheoriginariamente culminava nella tensionesovrumana della Grande Fuga, supremo,lucido, vertiginoso delirio, tantosconvolgente e trascendentale, tantolibera e ricercata da indurre lo stessoautore a pubblicarla a parte come op. 133.L’op. 131 mette in discussione la naturastessa del quartetto come genere: in esso

ciascuno dei sette movimenti confluisce nelsuccessivo in uno straordinario lavoro dilogica interna. Dopo aver raggiunto edesplorato il cosmo, sorvolando i singoli solidell’ultimo periodo beethoveniano, ci sipuò a buon diritto aspettare il massimogrado di speculazione e astrazionedall’ultimo quartetto op. 135, unaemanazione di luce bianca pervasiva eirresistibile, ma Beethoven seppesorprendere ancora una volta con unritorno ai quattro movimenti, una formasonata ancor più atomizzata e unainaspettata, spiazzante ironia dicommedia.Il Maestro morì circa cinque mesi dopo lacomposizione dell’ultimo quartetto caricodi progetti per il futuro: le avversità deldestino non gli avevano impedito attimi dibuon umore, né avevano scalfito lasperanza e il desiderio di cingere l’umanitàintera in un abbraccio, come riuscì aesprimere nella Nona Sinfonia.E del resto aveva affibbiato al corpulentoSchuppanzigh il soprannome di Falstaff,personaggio che in un altro prodigiosoopus ultimum canterà, guarda casoarticolato in una fuga, “tutto il mondo èburla”.

L. van Beethoven, manoscritto del Quartetto per archi Op.59

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Caro lettore, è da qui che voglio cominciareil nostro viaggio nell’Europa della musicacontemporanea. E’ dalla Vienna di ArnoldSchönberg che, in quel nefasto 1914,mentre la salma di Francesco Ferdinandocercava sepoltura, metteva a segno uncolpo altrettanto deflagrante per la storiadella musica a venire, ponendo in queglianni le basi che porteranno di lì a poco alladodecafonia, ovvero un metodo dicomposizione con dodici suoni chestanno in relazione solo tra di loro, edando il via alla dissoluzione dei

tradizionali linguaggimusicali.

Il nostro itinerariocomincia pocodistante dal caffèMuseum, luogod’incontro diintellettuali e artistidell’epoca, presso l’Arnold SchönbergCenter(www.schoenberg.at,Schwarzenbergplatz6, Zaunergasse 1-3, A-1030 Wien).Situato in unelegante palazzo, ilcentro accoglie i suoivisitatori con unvideo della figlia epresidentessa NuriaSchönberg N. (tieni amente questo nome,ci tornerà utile) che

descrive brevemente l’idea che ha animatoil progetto. Nato nel 1998 l’ArnoldSchönberg Center offre mostre sulla vitae l'opera del compositore, una galleria disuoi dipinti, una riproduzione dello studiodi Los Angeles, una biblioteca su temi cheriguardano la scuola viennese. Il centro sifa promotore di concerti, conferenze,workshop e simposi che permettono dicomprendere meglio i contributi dati daSchönberg alla musica e alle arti.Affascinante è la fedele ricostruzione dellostudio dal cui arredamento si può evincerela meticolosità e l’acribia che ilcompositore metteva in tutto ciò chefaceva, costruendosi i mezzi stessi per lacomposizione, come una penna perdisegnare pentagrammi o strumenti perdecifrare serie di dodici suoni.Si preannuncia un viaggio molto lungo, più

di mille chilometri e cento anni di storia. Laprossima grande tappa sarà Parigi, maprima vorrei farti conoscere una piccolacittà dell’Assia, Darmstadt. Da qui sonopassati i grandi nomi che hanno segnato ilcorso della musica contemporaneaeuropea. Alle spalle ci lasciamo la Scuoladi Vienna, seconda a quella del periodoclassico, in una città, dove è rimasto soloAnton Webern, dopo che nel ‘33Schönberg, suo maestro, è emigrato inAmerica e nel ’35 Alban Berg è morto.L’esasperata necessità di porre una regolaautonoma, un moto quasi solipsistico, allabase delle strutture del linguaggiomusicale, costituirà la pietra angolare per igiovani compositori dell’epoca cheinterpreteranno questa possibilità didedurre tutto da una formula astrattacome una forma di emancipazione daicondizionamenti soggettivi.

Gli Internationale Ferienkurse fürNeue Musik di Darmstadt(www.internationales-muiskinstitut.de)nascono nel 1946 con l’intento di dare,dopo la guerra, un impulso alla rinascitadella musica contemporanea tedescamessa al bando per oltre dieci anni. Conl’arrivo di Renè Leibowitz, allievo diWebern, per continuare a percorrere ilnostro filo rosso, viene data anche aglistudenti stranieri la possibilità dipartecipare ai corsi e Darmstadt diventaun contesto fondamentale per lasperimentazione e la discussione delleavanguardie nel panorama culturaleeuropeo. Dopo le riflessioni maturate inquesto ambiente ad esempio, OlivierMessiaen scriverà Mode de valeurs etd’intensitè , considerata la prima opera afar uso della serialità integrale, ovvero diuna tecnica compositiva che predisponeuna matrice combinatoria utilizzandotutte le caratteristiche del suono, altezza,durata, tecnica di produzione e sfumature.Da qui sono passati lasciando la loroimpronta Karlheinz Stockhausen, LucianoBerio, Pierre Boulez, John Cage, BrunoMaderna, Luigi Nono e tanti altri.Attualmente, i corsi hanno cadenzabiennale.

Siamo negli anni sessanta, da tempo hafatto il suo ingresso la tecnologia nelmondo della musica, prima con le tecnichedi riproducibilità del suono e poi conl’avvento dell’elettronica, innovazione che

mette a disposizione una sconfinatapossibilità di utilizzo della materia sonoracome oggetto plasmabile. É il periodo diÉclats di Boulez, di Gruppen diStockausen, oltre oceano le influenze delmisticismo zen torneranno in Europa inbrani come Aus den sieben Tage dellostesso Stockhausen. Mentre Boulez cercadi razionalizzare con ésprit de geometrietutto francese il concetto di alea,l’incursione del caso nel gesto musicale,opponendosi alle intuizioni mistiched’impronta americana considerate “unamanchevolezza fondamentale nellatecnica della composizione”,Stockhausen porta avanti una tecnica detta“per gruppi “ che cerca di coinvolgerel’ascoltatore in percorsi percettivi,superando il rapporto esclusivistico delcompositore con la sua opera.

Et Paris m'a pris par la main et m'adit c'est là dans la Seine que je désiremettre en scène mes hiboux, questocantava Leo Ferrè quando nel 1969Georges Pompidou decide di istituire uncentro di arte contemporanea nell’ area diBeaubourg nel cuore della Citè. Nel 1971gli italiani Renzo Piano, GianfrancoFranchini, con Richards Rogers, siaggiudicano il progetto che segnerà le basidi una nuova forma rovesciata diarchitettura. Gli elementi portanti, le scale,gli ascensori, le scale mobili, le gallerie dicircolazione, i tubi di ventilazione eriscaldamento, le condutture per l’acqua edil gas sono stati collocati all’esterno dellefacciate (ciascun tubo dell’esterno èdipinto in un colore differente, poiché ognicolore corrisponde ad una diversafunzione: il blu corrisponde all’impianto diclimatizzazione, il giallo a quello elettrico,il rosso alla circolazione e il verde ai circuitidell’acqua).

Dedicato alla musica, nasce nel 1977l’IRCAM, Institut de Recherche et deCoordination Acoustique/Musique(www.ircam.fr, 1, place Igor-Stravinsky,75004 Paris) guidato fin dagli esordi daPierre Boulez. Alla fucina dell’IRCAM siformano costantemente le nuovegenerazioni di compositori. Per l’Italiapossiamo annoverare tra gli studentiFederico Gardella, Vittorio Montalti,Francesca Verunelli, Daniele Ghisi, alcunitra gli autori della nuova generazione piùapprezzati dal panorama

ITINERARIOdi Fabio Sperandio

“Autorità in nero, cappelli a cilindro.Ordini secchi, present’arm. Il convoglio aspetta, già avvolto nel vapore della locomotiva. Alle 9.50 fischia il capostazione con feluca e spadino eil treno si muove, cigola, in mezzo ai marciapiedi pieni. Ma il film non si ferma, perché ora vedo binari e cavalli, ilvento gelido sullo Schneeberg, il cielo nero, i feretri sistemati nel palazzo della Hofburg, la folla silenziosa, la facciadi pietra dell’imperatore.Poi nella notte, l’ultima partenza, i catafalchi caricati su un altro treno alla Westbahnofsotto un temporale imminente…” (cit. Come i cavalli che dormono in piedi, Paolo Rumiz)

Arnold Schonberg, 1924

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internazionale.Come si può leggere nel sitostesso, l’istituto è attualmente uno dei piùgrandi centri di ricerca consacrato allacreazione musicale e all’innovazionescientifica e tecnologica. I poli di cui sicompone il centro sono la Ricerca, laCreazione, la Divulgazione e l’Innovazione.L’IRCAM sviluppa e produce numerosisupporti informatici elaborati partendo daproblematiche musicali come lacomposizione al computer, laspazializzazione e la sintesi sonora. Lamissione fondante è suscitareun’interazione feconda tra questi aspetti,cifra sempre più comune nell’esteticamusicale moderna.

Sempre nel 1977 M.Rostropovich, ilceleberrimo violoncellista, commissiona adodici compositori, tra i quali L.Berio,P.Boulez, A. Ginastera, H.Holliger un pezzoper violoncello che prenda spunto dallelettere del nome S A C H E R, giocando conl’utilizzo della notazione letterale, per cuiad ogni nota corrisponde una lettera, perfesteggiare il settantesimo compleanno diPaul Sacher.

Prima di tornare in Italia, ci spostiamo inSvizzera e precisamente a Basilea. Qui sitrova uno dei templi della ricercamusicologica internazionale piùimportanti al mondo per qualità e quantitàdi manoscritti di composizioni del XX e XXIsecolo.

Paul Sacher è stato un importante direttored’orchestra che nel corso della sua carrieraha commissionato, e poi collezionato,lavori a illustri compositori come Bartók,Stravinskj, Strauss, Dutilleux, Boulez,Birtwistle ecc. Situata nel cuore della città,fondata nel 1973, la Paul SacherStiftung (www.paul-sacher-stiftung.ch,Münsterplatz 4, CH-4051 Basel) nasce conl’intento di preservare l’archivio musicaledello stesso Sacher. Oggi la Fondazione èun centro di studi internazionale per lamusica del nostro tempo e s’impegna asostenere la ricerca scientifica concedendol'accesso ai documenti disponibili.L'edificioè dotato di diverse sale di lettura, uffici,depositi e una speciale bibliotecaclimatizzata consente di conservare almeglio i documenti originali.

Se, come dice Karl Popper, non ci sono ideesenza pregiudizi, lasciami cedere allatentazione dei luoghi comuni e chiuderequesto viaggio nella città degli innamorati:Venezia. “Mi manca l'abbraccio. E quegli occhiche non ti lasciano. In un certo sensoho la fortuna di continuare a viverecon lui, occupandomi della suafondazione visitata da studiosi ditutto il mondo. Quando vedo i suoivecchi filmati, resto tranquilla, mabasta che cambi stanza, e senta la

voce, solo la voce: ancora miemoziono”.Ritorniamo brevemente all’inizio del nostroviaggio. Nuria Schönberg N. figlia di MaxBlonda e Arnold Schönberg, nata aBarcellona nel 1932, durante una parentesicatalana del compositore che per curarel’asma cercava sollievo nei climi caldi delsud, cresciuta in California, dove la famigliasi rifugiò dalle minacce antisemite nel1933, vive da cinquant’anni a Venezia ed ècome abbiamo già detto, la presidentessadel centro viennese intitolato al padre, manon solo. Ora finalmente posso svelarti, seancora non lo avessi capito, il nomemisterioso che si cela dietro a quella letteraN puntata. Parliamo, infatti, di Luigi Nono,suo marito. Dopo essersi incontrati nel1953 ad Amburgo per la prima esecuzionedel Moses und Aron del padre Arnold, sisposano nel 1955 e fino alla morte delcompositore hanno condiviso una vita dibattaglie estetiche e politiche.

La Fondazione Archivio Luigi Nono(www.luiginono.it, Giudecca 619-621 -30133 Venezia) è stata fondata nel 1993,per volontà della stessa Nuria, allo scopodi raccogliere, conservare e promuovere ilprezioso lascito del compositore ed èconsiderata una delle più importantiiniziative culturali veneziane. Questolascito consiste di manoscritti, libri epartiture, vinili, programmi di sala,recensioni e saggi critici sulle esecuzionidelle opere di Nono. Di questo compositorepiù che del centro di studi, che vale la penavisitare nella sua ubicazione sull’isola dellaGiudecca, ci piace ricordare Prometeo,Tragedia dell’ascolto del 1984. Nonosviluppò l’opera su un testo ricreato daMassimo Cacciari, pensato come unarcipelago di frammenti, affidò a RenzoPiano la costruzione di un contenitoresonoro modulabile e aperto, all’interno

della chiesa di San Lorenzo, a EmilioVedova le proiezioni di luci e a ClaudioAbbado la direzione musicale. Nato allafine di una parabola di ricerca personale, ilPrometeo costituisce un unicum perconcezione, collaborazioni, costi erappresenta uno degli apici della nostraavanguardia, nel suo svelare attraversol’interdisciplinarietà la dimensione dellamusica che si fa spazio. Forte anche del suocredo politico, Nono perseguiva un’idea diteatro teso a infrangere il dispotismounivoco di una forma d’arte sulle altre.Attraverso l’interdipendenza più cheattraverso la somma delle variecomponenti, in un costante scambio direttoe simultaneo, Nono ha cercato una totaleimmersione dell’ascoltatore nell’operastessa fino a renderlo parte attiva eintegrante.

Per finirla lietamente all’usanza teatrale,caro lettore, ti chiedo un ultimo sforzo. Cidirigiamo verso le cantine di Alois Lageder(www.aloislageder.eu, Vicolo dei Conti 9I -39040 Magrè sulla Strada del Vino), dovepotrai trovare ristoro, ma soprattutto doveha luogo VIN-o-TON un progettoculturale nato dal desiderio di regalare adun pubblico più vasto le prelibatezze dellamusica contemporanea, commissionandoogni anno ad un compositore un’operanuova da eseguire in prima assoluta nellasua tenuta. Un esempio di mecenatismoculturale che merita essere segnalato. Nelleultime edizioni sono stati ospitati FedericoGardella, Toshio Hosokawa e Matan Porat.Ci permettiamo di consigliarti in chiusuraun bicchiere del suo CabernetLöwengang 2011, sempre affascinantenei suoi sentori terrosi e nella finezza dellasua struttura.Zum Wohl!

Karl Heinz Stockhausen a Darmstadt, luglio 1957

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A Bologna, in una domenica sera di inizioottobre, in una sala gremita perl’esecuzione di Mahler, a sorpresa e tra gliscrosci di applausi, il Direttore Musicale delTeatro Comunale di Bologna MicheleMariotti, nel ricordare come ogniesecuzione sia il frutto di studio e di lavorodi anni, al suo pubblico ha ribadito la crisistrutturale in cui da anni vive il TeatroComunale di Bologna. Uno spettro,infatti, si aggira per le Fondazioni liricosinfoniche italiane, è lo spettro deiprogressivi tagli e il relativo declassamentoda Fondazione Lirico Sinfonica a Teatro diTradizione. La dura realtà è che se non sidovesse raggiungere il pareggio di bilancio,che comporterebbe minori finanziamentistatali e progressivi sacrifici richiesti ailavoratori, ci troveremmo di fronte ad unprodotto di minor qualità, dovutaall’assenza di un’orchestra stabile edall’impossibilità di produzioni autonome. Inqueste considerazioni meramente dibilancio troppo spesso, infatti, ci sidimentica che non solo il Teatro è una verae propria impresa, che dà lavoro a circa 270persone, promuovendo un’antica tradizioneartigianale, ma che soprattutto esso è uncentro di produzione culturale che ci vieneinvidiato da tutta Europa. Il Teatro soffre,come tutte le forme attraverso cui siesprime la cultura, di una sorta dipregiudizio per il quale la cultura è solo uncosto, sintetizzato dal ministro Tremonti

con la famosa affermazione: “con la culturanon si mangia”. La questione è inveceinversa, “senza cultura non si mangia”,perché la cultura è prima di tuttoinvestimento. Investire in cultura significainvestire, e dunque fare crescere, lecomunità di cui essa è espressione.Certamente non riduco la parola crescitaalla dimensione economica. La culturaproduce consapevolezza, riduce ledisuguaglianze, ci rende cittadini migliori.La “presa di parola” di Michele Mariotti èper me non solo un monito alla ricchezzaed alla bellezza che stiamo perdendo, maè un richiamo alla responsabilità per unbene comune. La cultura è la nostraidentità, prima ancora che un volano per ilturismo come spesso ci sentiamo dire.Estetica ed etica, come spesso accade,vanno dunque a braccetto. Sappiamo tuttiche di fronte alla coperta corta degliinvestimenti pubblici una delle possibilitàè quella di rivolgersi al settore privato.Questo è il motivo per il quale credo che lostrumento dell’Art Bonus, la legge chepermette un credito di imposta per coloroche devolvono denaro a favore dellacultura e dello spettacolo, dovrebbe esseremaggiormente utilizzata, per le FondazioniLirico Sinfoniche e più in generale per tuttigli ambiti a cui essa si rivolge. La leggecitata nel sito dedicato recita che il suoscopo è quello di far crescere “Mecenaticontemporanei”. D’altro canto il

mecenatismo non è una novità, si praticavagià nel periodo romano, il nome deriva daGaio Clinio Mecenate vissuto tra il 68avanti cristo e l’8 dopo cristo. Il mecenatecontemporaneo io credo in terminiidealtipici non è semplicemente colui chefa un dono, ma la sua azione può essereinserita in una più ampia dimensione dellaresponsabilità sociale condivisa, come cichiede l’Europa, che implica unalaicizzazione dello stesso atto del dono edal contempo un suo rafforzamento intermini di coesione sociale, dipartecipazione, di creazione di fiducia. Mipiace pensare ai mecenati contemporaneinon come a persone che devolvono unatantum, ma come a soggetti responsabiliche facciano della cultura una lorobandiera, capaci di far crescere progetticulturali virtuosi per il territorio. Mi sipermetta di definirlo, in estrema, sintesi,come un “mecenate responsabile”, ovverouna nuova figura idealtipica che ben siattaglia a quella che Zamagni definisce lasussidiarietà di tipo circolare, al cui internoil privato sia l’interlocutore decisivo nonsolo di un dialogo con il settore pubblico ela comunità, ma abbia un ruolo nelprogettare le politiche culturali del suoterritorio.

SENZA CULTURA NON SI MANGIAdi Roberta Paltrinieri*

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*Università di Bologna-Dipartimento di Sociologia

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RECENSIONIa cura di Piero Mioli

PAGANINI SENZA CAPRICCI UN VIOLINO FRA CAMERA E CHIESA UNA VECCHIA COMMEDIA

Paganini RediscoveredPlayed on Paganini's violinLuca Fanfoni, violin(Dynamic CDS 7672)

È celeberrimo, Paganini, edeseguitissimo: ma soprattutto all'altezzadei capricci, di qualche concerto, dellemaggiori variazioni. Molto del restomanca dal concertismo, e molto sarebbeancora da cercare e fissare. Compie unpasso in avanti questo PaganiniRediscovered, le cui note di copertina,redatte da uno specialista del settorecome Danilo Prefumo, raccontano tuttoper filo e per segno: per esempio comesolo ora la Sonata a preghiera sul Mosèdi Rossini sia completa di introduzione ecome il cosiddetto sesto concerto non siail n. 6 ma probabilmente il n. 0(precedente cioè quel n. 1 spostando ilquale succederebbe il finimondo, nelcatalogo). In complesso i pezzi sono 13:fra la sonata con accompagnamento dipianoforte (Luca Ballerini) e il concertotripartito accompagnato dalla chitarra(Fabrizio Giudice) stanno tre ritornelli perdue violini (Daniele Fanfoni comesecondo) e violoncello (Luca Simoncini),sei preludi per violino solo, un rondò perviolino e cello e un capriccio per violinosolo. Adeguatamente sorretto (e si sacome debba funzionare il fondoarmonico di tanto solismo), il violino diFanfoni spazia e impazza in ogni dove:davanti a «Dal tuo stellato soglio» saanche indugiare, qua e là, per poiattaccare e procedere quasi divertendosi;nei ritornelli riesce a equilibrare sicurezzatecnica e slancio espressivo; nel nonopreludio non esita a inasprire il timbro; enel concertone sembra proprio strizzarel'occhio a un vecchio amico di Nicolòcome Gioachino.

Giovanni Battista SomisOpus IVMarco PedronaEnsemble Guidantus(Indésens CAL 1526)

Definite “da camera”, le sonate cheGiambattista Somis pubblicò a Parigi nel1726 escludono ogni forma di danza od'altro (dall'allemanda alla ciaccona,dalla siciliana alla fuga) e quindi,composte solo di Allegri, Adagi e così via,hanno comunque un bell'aspetto diantica sonata da chiesa. Anche perchéall'epoca Arcangelo Corelli, il maestrodell'autore (il maestro di tutti, s'è perquesto, di tutti quei giovani violinisti chepreferivano Roma alla Venezia di Vivaldie alla Padova di Tartini) che aveva agitoda spartiacque sonatistico fra il Seicentoemiliano e il Settecento europeo, erascomparso da poco, per l'esattezza da 13anni soltanto. Bene ha fatto l'EnsembleGuidantus a pescare, nel vasto lago delcatalogo del torinese tanto fortunatooltr'Alpe, questa limpida, regolare,moderna opera quarta, dove può esibireun'indiviabile tenuta sonora, una raracontinuità di fraseggio nobile e classicoormai dimentico del messaggio barocco.Si tratta di sette pezzi, scelti dallaconsueta somma di dodici, tutti tripartiticon l'eccezione della sonata n. 1 (dovel'Adagio iniziale di 45 secondi può anchefungere da introduzione al Largo di unminuto e 19 secondi e la quadripartizionetornare tripartizione), e tutti aperti dalmovimento lento. Alla francese? Sì, mal'ultimo è sempre un Allegro e spesso unAllegro assai, sicché la mescidanza frastile italiano e stile francese è evidente.Il suono di Pedrona, violino principale,articola perfettamente i passi veloci,senza mai arruffarne il contrappunto conle altre voci, e si espande generosamentein quelli lenti: valga, come esempio, il belLargo della sonata n. 3. Robusto ecolorito il basso continuo, realizzato conil violoncello di Claudia Poz, ilclavicembalo di Piero Barbareschi, latiorba e la chitarra barocca di Silvio Rosi..

Giovanni Paisiello Le finte contesseMaria Luisa Casali, Anrje Rux, Alessandro Scotto di Luzio, Andrea BonsignoreOrchestra Barocca “La confraternita de' Musici” direttore al cembalo Cosimo Prontera Bongiovanni (GB 2462/63-2)

Contava 26 anni, Paisiello, allorquando diedeal Valle di Roma un “intermezzo” di un paiod'ore: nel 1766 l'esuberante maestrotarantino non era ancora il geniacciodell'opera classica che avrebbe brillato olamentato con La molinara, Il barbiere diSiviglia, La Nina e la Proserpine tra Napoli,S. Pietroburgo e Parigi, ma sprizzavacommedia all'italiana da tutti i pori, più diSarti, di Piccinni e fors'anche di Cimarosa(ancora giovanetto, però). Tale è in fondoquesta partitura tratta dalla biblioteca delConservatorio di “S. Pietro a Majella”, anchese, a differenza delle commedie vere eproprie, si limita a quattro personaggi(dunque facendo a meno dei comprimari,oltre che del coro). Quanto a limiti, ilmanoscritto autografo ne soffre altri: fra iviolini e i bassi non scrive le parti delle viole,infatti, né pone, a fianco di questi archi alti ebassi, gli strumenti a fiato. Tutto si potevaintegrare, ma l'esperto maestro al cembalodella confraternita ha scelto di fermarsi aquanto ha trovato; e ciononostante iltappeto sul quale si svolge l'azione è dei piùefficaci, spiritosi e pungenti, adattissimo allesempiterne scaramucce che vi si combinano.Simpatiche le voci, delle quali tre italiane euna all'italiano ben avvezza: come Lenina laCasali ha timbro e brio da vendere, ma laminor Lauretta della Rux non le è da meno;e mentre Bonsignore è un tipico buffonapoletano che nei panni del vecchio conteTulipano snocciola vanterie e assurdità,Scotto di Luzio dà al contino Giorgino nonsolo colore gradevole ma anche un tonoingenuo, campato in aria, gentilmentesventato che centra subito il personaggio.Derivato dal Marchese villano di PietroChiari, il libretto è anonimo, spesso anchebanalotto: ma grazie a diversi topoi di scenae di parola dà un'idea del pozzo senza fondodell'operismo medio-settecentesco dal qualeson sorti capolavori come Così fan tutte.

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Era l’anno 1932, i De Paz iniziarono a importare i tessuti dalla Gran Bretagna; i famosi Shetland, il cashmere, i preziosi pettinati, l’Irish donegal, il Thornproof.

Pensarono i De Paz di trasformare la stoffa in prodotto, quel prodotto ben caratterizzato e necessariamentemodellato in uno stile classico-sportivo fuori dai canoni della moda.

Questo prodotto del tessuto, così naturalmente filtrato, con quei disegni di vecchia simpatia ed elevata tradizione, ha chiamato con sé la maglia, la cravatta, la camicia e tutto quell’insieme del vestire che classicamente si lega senza abbinarsi.

Questo è uno stile, una maniera propria di vestire, non vincolante né dettata, ma libera, classica, disinvolta.De Paz continua oggi, in maniera ortodossa questo stile, anche se forti sono gli stimoli delle mode e dellevendite veloci.

DE PAZ VI ATTENDE IN VIA UGO BASSI 4/D, IN VIA CALZOLERIE 2/D (DONNA) E IN VIA TAGLIAPIETRE 12/A (PROMOTIONAL) PER DARVI IL MEGLIO.