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BARBARA DEMICK PER MANO NEL BUIO PIEMME 1-Demick-Per mano... 25-03-2010 14:29 Pagina 3

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BARBARA DEMICK

PER MANONEL BUIO

PIEMME

1-Demick-Per mano... 25-03-2010 14:29 Pagina 3

I Edizione 2010

© 2010 - EDIZIONI PIEMME Spa20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

Titolo originale dell’opera: Nothing to Envy: Ordinary Lives in North Korea© 2010 by Barbara Demick

Per la mappa © 2010 by Mapping Specialists, Ltd.

All rights reserved.

Published in the United States by Spiegel & Grau, an imprint of The Random HousePublishing Group, a division of Random House, Inc., New York.

Traduzione di Valentina Ricci / Studio Editoriale Littera

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A Nicholas, Gladys e Eugene

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COREADEL

NORD

Miglia

Chilometri

LINEA DI DEMARCAZIONEE ZONA SMILITARIZZATA (DMZ)

0

0

100

100

CINA

COREADEL NORD

COREADEL SUD

RUSSIA

Via di fuga principaleda Chongjin

a Musan o Hoeryong

Linea ferroviaria daChongjin a Pyongyang

MontePaektu

Baia diCorea

Mar Giallo

Mar del Giappone(Mare dell’Est)

FIUME TUMEN

FIUME YALU

FIUME YALU

MonteKumgang

Tumen

Yanji

Musan

Hoeryong

ChongjinKyongsong

Kimchaek

Kilju

Hamhung

Wonsan

Suwon

PanmunjomKaesong

Sinuiju

Incheon

Seul

Pyongyang

Onsong

Dandong

Nampo

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Prologo

Nel 2001 mi trasferii a Seul come corrispondente del «LosAngeles Times», con l’incarico di occuparmi di entrambe leCoree. All’epoca, per un giornalista americano era incredibil-mente difficile visitare la Corea del Nord. Anche dopo esse-re riuscita a entrare nel paese, scoprii che fare il mio lavoroera praticamente impossibile. Ai giornalisti occidentali veni-vano assegnati dei “sorveglianti”, con il compito di assicurar-si che i visitatori non avessero conversazioni non autorizzatee si attenessero a un rigido itinerario tra monumenti attenta-mente selezionati. Non era permesso avere contatti con i nor-mali cittadini. Nelle fotografie e alla televisione i nordcorea-ni sembravano automi, robot che marciavano in formazioneal passo dell’oca durante le parate militari o facevano eserci-zi di ginnastica in massa in onore del potere. Osservando lefotografie cercavo di capire cosa si celasse dietro quei voltiinespressivi.

Nella Corea del Sud iniziai a parlare con profughi nordco-reani fuggiti lì o in Cina, e cominciò a prendere forma un’im-magine di come fosse veramente la vita nella Repubblica De-mocratica Popolare di Corea. Scrissi sul «Los Angeles Times»una serie di articoli incentrati su ex abitanti di Chongjin, unacittà situata nella parte più settentrionale del paese. Ritenevodi poter verificare con maggiore facilità i fatti parlando conun certo numero di persone provenienti dalla stessa zona,preferibilmente distante dalle località da cartolina che il go-

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verno di Pyongyang mostra ai visitatori stranieri, anche sequesto significava scrivere di un luogo per me inaccessibile.Chongjin è la terza città della Corea del Nord per numero diabitanti, ed è stata tra le aree più colpite dalla carestia dellametà degli anni Novanta. Inoltre, è quasi completamentechiusa agli stranieri. Ho avuto la fortuna di incontrare tantepersone meravigliose che venivano da Chongjin, eloquenti egenerose nel dedicarmi il loro tempo. Per mano nel buio na-sce da quella serie di articoli.

Questo libro infatti si basa su sette anni di conversazionicon nordcoreani; io mi sono limitata a cambiare alcuni nomiper proteggere chi ancora vive nella Corea del Nord; tutti idialoghi sono ricavati dai racconti di una o più persone concui ho parlato. Ho cercato per quanto potevo di documenta-re le vicende che mi sono state narrate e di metterle in rela-zione con fatti di pubblico dominio. Le descrizioni di luoghiche non ho mai visto di persona sono state ricavate dalle testi-monianze dei profughi, da fotografie e filmati. Tanti aspettidella Corea del Nord rimangono così impenetrabili che sareb-be una follia pretendere di aver capito tutto fino in fondo. Lamia speranza è che un giorno la Corea del Nord apra i suoiconfini, permettendoci così di giudicare da soli quello che èrealmente accaduto laggiù.

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Per mano nel buio

Se si guarda una foto satellitare notturna dell’EstremoOriente si vede una grande macchia stranamente privadi luci; quell’area scura è la Repubblica DemocraticaPopolare di Corea.

Accanto al misterioso buco nero, la Corea del Sud, ilGiappone e ora anche la Cina brillano di prosperità.Anche da centinaia di chilometri d’altezza i tabelloni pub-blicitari, l’illuminazione stradale, i fasci di luce e le inse-gne al neon delle catene di fast food, ridotti a minuscolipuntini bianchi, ci indicano che gli abitanti vivono la lorovita di consumatori del ventunesimo secolo. E nel belmezzo di quelle luci, una distesa di buio grande quasiquanto l’Inghilterra. È incredibile che una nazione di ven-titré milioni di abitanti possa sembrare disabitata come unoceano. La Corea del Nord è semplicemente un vuoto.

Si è oscurata all’inizio degli anni Novanta: con il crollodell’Unione Sovietica, che aveva fornito nafta a basso prez-zo al vecchio alleato comunista, la sua economia scricchio-lante giunse al collasso. Le centrali elettriche andarono inrovina, le luci si spensero. Gente affamata si arrampicavasui pali della luce per rubare fili di rame da barattare congeneri alimentari. Quando il sole cala sulla linea dell’oriz-zonte, il paesaggio viene inghiottito da un grigio uniforme

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e le tozze casette scompaiono nella notte. Villaggi interispariscono al crepuscolo. Anche in alcune zone della ca-pitale Pyongyang, il fiore all’occhiello del regime, puòsuccedere di passeggiare di notte lungo una strada senzariuscire a vedere i palazzi che la fiancheggiano.

Quando gli osservatori esterni fissano lo sguardo sulvuoto in cui si è oggi trasformata la Corea del Nordpensano a remoti villaggi dell’Africa o dell’Asia sud-orientale, non ancora raggiunti dal tocco civilizzatoredell’elettricità. Ma la Corea del Nord non è un paese invia di sviluppo; è un paese che è uscito dal mondo in-dustrializzato. Sulle strade principali si vedono penzo-lare le tracce di un progresso che esisteva e ora è per-duto: i fili scheletrici della rete elettrica arrugginita cheun tempo ricopriva l’intero paese.

I nordcoreani che hanno varcato la soglia della mez-za età ricordano bene i tempi in cui avevano più elet-tricità (e più cibo) dei cugini filoamericani della Coreadel Sud, e quel ricordo non fa che acuire l’umiliazionedi dover passare le notti al buio. Negli anni Novanta gliStati Uniti si offrirono di fornire alla Corea del Nordl’energia di cui aveva bisogno, a patto che rinunciasseal suo programma di armamenti nucleari, ma l’accordofallì dopo che l’amministrazione Bush accusò i nordco-reani di non avere mantenuto le promesse. I nordcorea-ni si lamentano del buio con rabbia, danno la colpa allesanzioni americane. Di notte non possono leggere. Nonpossono guardare la televisione. «Non c’è cultura senzaelettricità» mi disse una volta in tono accusatorio unacorpulenta guardia giurata.

L’oscurità, però, ha i suoi vantaggi, soprattutto pergli adolescenti che frequentano qualcuno con cui nonpossono farsi vedere.

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Quando gli adulti vanno a letto, in inverno a volte giàalle sette di sera, è abbastanza facile sgattaiolare fuoridi casa. Il buio consente un livello di privacy e di liber-tà difficile da trovare nella Corea del Nord almenoquanto l’elettricità. Avvolti nel mantello magico dell’in-visibilità, si può fare ciò che si vuole senza preoccupar-si degli sguardi indiscreti dei genitori, dei vicini o dellapolizia segreta.

Ho conosciuto molti nordcoreani che mi hanno dettodi avere imparato ad amare profondamente il buio, mala storia che più mi ha colpito è quella di una ragazzi-na e del suo innamorato. Lei aveva dodici anni quandoconobbe un ragazzo più grande di lei di tre anni cheviveva in una città vicina. La famiglia della ragazza sitrovava ai livelli più bassi del sistema bizantino di clas-si sociali della Corea del Nord. Se si fossero fatti vedereinsieme in pubblico ne avrebbero risentito le prospet-tive di carriera del ragazzo, nonché la reputazione difanciulla per bene della ragazza, quindi i loro appunta-menti consistevano unicamente in lunghe passeggiate albuio. Non che all’epoca ci fosse molto altro da fare: al-l’inizio degli anni Novanta, quando cominciarono a usci-re insieme, non c’erano né ristoranti né cinema aperti,a causa della mancanza di elettricità.

Si vedevano dopo cena. La ragazza aveva detto al fi-danzato di non bussare alla porta d’ingresso, per evita-re le domande delle sorelle maggiori e del fratello mino-re, e la curiosità dei vicini ficcanaso. La famiglia di leiviveva stipata in un lungo edificio stretto, dietro il qualesi trovava un gabinetto esterno, condiviso da una deci-na di famiglie. Le case erano separate dalla strada daun muro bianco che arrivava appena sopra gli occhi. Ilragazzo trovò un punto dietro il muro in cui nessunol’avrebbe notato al calar della sera. L’acciottolio dei piat-

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ti lavati dai vicini o il rumore dello sciacquone del gabi-netto coprivano il suono dei suoi passi. L’aspettava perore, magari due o tre. Non importava; il ritmo della vitanella Corea del Nord è più lento. Nessuno aveva un oro-logio.

La ragazza arrivava appena riusciva a sfuggire allafamiglia. Quando usciva scrutava nell’ombra; all’inizionon lo vedeva, ma avvertiva la sua presenza con assolu-ta certezza. Non perdeva tempo a truccarsi; al buio nonce n’è bisogno. A volte indossava l’uniforme della scuo-la: una gonna azzurra che scendeva pudicamente sottoil ginocchio, una camicetta bianca e il cravattino rosso afarfalla, tutti di un ruvido materiale sintetico. Era abba-stanza giovane da non farsi problemi sul suo aspetto.

All’inizio camminavano in silenzio, poi cominciava-no a sussurrare e infine alzavano la voce fino a un tononormale quando si lasciavano alle spalle il villaggio e sirilassavano nelle tenebre. Rimanevano a una certa di-stanza l’uno dall’altra finché non erano certi che nessu-no li avrebbe visti.

Dopo le ultime case la strada attraversava un bo-schetto e conduceva al parco di una stazione termale,un tempo piuttosto nota. In passato le sue acque caldis-sime avevano attirato autobus carichi di turisti cinesi acaccia di cure per l’artrite e il diabete, ma ora era quasisempre chiusa. All’ingresso si trovava una vasca d’acquarettangolare circondata da un muretto di pietra. I sen-tieri che s’inoltravano nel parco erano fiancheggiati dapini, aceri giapponesi e ginkgo biloba, gli alberi prefe-riti della ragazza, che in autunno si spogliavano di de-licate foglie color senape identiche a piccoli ventagliorientali. Sulle colline circostanti i boschi erano statidecimati per farne legna da ardere, ma gli alberi delleterme erano così belli che la gente li rispettava.

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Per il resto, il parco era abbandonato a se stesso: nes-suno potava le piante, le panchine di pietra erano tuttecrepate, e i ciottoli dei vialetti erano saltati via qua e là,come denti cariati. A metà degli anni Novanta tutto oquasi nella Corea del Nord era logoro o rotto o funzio-nava male. Il paese aveva senza dubbio conosciuto gior-ni migliori; di notte, però, le imperfezioni non eranocosì evidenti. Nella piscina di acque termali, torbida eassediata dalle erbacce, si specchiava la notte.

Il cielo notturno della Corea del Nord non si dimen-tica; forse è il più brillante di tutta l’Asia nordorienta-le, l’unico a cui vengano risparmiate le polveri di car-bone, la sabbia proveniente dal deserto del Gobi el’anidride carbonica che soffocano il resto del conti-nente. Ai vecchi tempi anche le fabbriche nordcoreaneavevano dato il loro contributo alla coltre di nubi, maormai non accadeva più. Nessuna luce artificiale riescea competere con l’intensità delle stelle incastonate inquel cielo.

La giovane coppia camminava tutta la notte, lascian-dosi alle spalle una scia di foglie di ginkgo. Di cosaparlavano? Delle rispettive famiglie, dei compagni discuola, di libri che avevano letto: ogni argomento erainfinitamente affascinante. Anni dopo, quando chiesialla ragazza quali fossero i ricordi più belli della suavita, mi parlò di quelle notti.

Non è il genere di cose che si vede nelle foto scatta-te dal satellite. Che si trovino nel quartier generale dellaCIA a Langley, in Virginia, o nel dipartimento di studisull’Asia orientale di un’università, in genere gli esper-ti analizzano la Corea del Nord da lontano e non si sof-fermano a pensare che nel cuore di quel buco nero, inquel paese buio e triste in cui milioni di persone sonomorte di fame, esiste anche l’amore.

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Quando la conobbi, quella ragazzina era ormai unadonna di trentun anni. Mi-ran (così la chiamerò perraccontare la sua storia in questo libro) era scappata seianni prima e viveva nella Corea del Sud. Le avevo chie-sto di concedermi un’intervista per un articolo chestavo scrivendo sui profughi nordcoreani.

Nel 2004 il «Los Angeles Times» mi affidò l’incari-co di responsabile della redazione di Seul, con il com-pito di fornire notizie su tutta la penisola. Per la Coreadel Sud non c’era problema: era la tredicesima poten-za economica mondiale, una democrazia fiorente anchese a volte chiassosa, con uno dei servizi di stampa accre-ditata più aggressivi dell’Asia. I funzionari statali dava-no ai giornalisti il loro numero di cellulare e li potevichiamare senza problemi a tutte le ore. Invece, le comu-nicazioni della Corea del Nord con il resto del mondosi limitavano, per lo più, a invettive diramate dall’agen-zia di stampa centrale coreana, soprannominata “lagrande vituperatrice” per le sue ridicole e pompose in-vettive contro gli “yankee bastardi e imperialisti”. GliStati Uniti avevano combattuto a fianco della Corea delSud nella guerra di Corea (1950-1953), il primo gran-de scontro della Guerra Fredda, e c’erano ancora qua-rantamila soldati americani di stanza nel paese. NellaCorea del Nord l’ostilità era ancora feroce e viscerale,era come se la guerra non fosse mai finita.

I cittadini americani venivano ammessi molto raramen-te all’interno dei confini della Corea del Nord, a maggiorragione se erano giornalisti. Nel 2005, quando finalmen-te ottenni un visto per visitare Pyongyang, fui accom-pagnata insieme al mio collega in un pellegrinaggio uffi-ciale ai vari monumenti dedicati alla gloriosa leadershipdi Kim Jong-il e del suo defunto padre, Kim Il-sung.

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Avevamo sempre alle costole due uomini magrissimi incompleto scuro, che si chiamavano entrambi signor Park– la Corea del Nord prende la precauzione di assegnareai visitatori stranieri due “sorveglianti” perché si control-lino a vicenda, scongiurando così eventuali tentativi dicorruzione – e ostentavano la stessa retorica ampollosadell’agenzia di stampa ufficiale («Grazie al nostro amatoleader Kim Jong-il» era una frase che ricorreva con im-pressionante regolarità nelle nostre conversazioni). Ciguardavano di rado negli occhi mentre parlavano connoi, e mi chiesi se credessero a quello che dicevano. Cosapensavano veramente? Davvero amavano il loro leader?Avevano abbastanza da mangiare? Cosa facevano quan-do tornavano a casa dal lavoro? Come ci si sentiva a vive-re nel regime più repressivo del mondo?

Se volevo risposte alle mie domande, era chiaro chenon le avrei trovate all’interno della Corea del Nord:dovevo parlare con la gente che se ne era andata, con iprofughi.

Nel 2004 Mi-ran viveva a Suwon, una città vivace ecaotica a una trentina di chilometri a sud di Seul, dovesi trovano il quartier generale della Samsung e una seriedi industrie manifatturiere che producono oggetti noncerto familiari ai nordcoreani: monitor e chiavette percomputer, cd-rom, tv digitali. (Secondo una statisticaspesso citata, la disparità economica tra le due Coree èalmeno di quattro volte maggiore a quella che esistevatra Germania dell’Est e dell’Ovest al momento dellariunificazione nel 1990.) È un luogo rumoroso e soffo-cante, una cacofonia di colori e suoni male assortiti. Co-me in gran parte delle città sudcoreane, l’architettura èun’amalgama di orrende scatole di cemento ricopertedi insegne troppo vistose. Alti condomini si irradianoper chilometri intorno a un centro città congestionato

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e invaso da fast food americani, Dunkin’ Donuts e PizzaHut, affiancati da una quantità di loro imitazioni co-reane. I vicoli sono pieni di hotel per coppiette clande-stine; con nomi come Eros Motel e Love Inn Park, chereclamizzano stanze da affittare a ore. Il traffico è peren-nemente bloccato in un gigantesco ingorgo; migliaia diHyundai, un altro frutto del miracolo economico, cer-cano di farsi strada tra le abitazioni dei rispettivi pro-prietari e i centri commerciali. Per evitare di rimanereimbottigliata in quel caos presi il treno da Seul, un viag-gio di trenta minuti, poi salii su un taxi che arrancòverso uno dei pochi posticini tranquilli della città, unristorante che serve costolette di manzo alla griglia difronte a una fortezza risalente al diciottesimo secolo.

Lì per lì non individuai Mi-ran: era molto diversadagli altri nordcoreani che avevo conosciuto. All’epoca,nella Corea del Sud vivevano circa seimila profughi nord-coreani, e in genere esibivano tutti qualche segnale evi-dente della loro difficoltà a mescolarsi con il resto dellapopolazione, gonne troppo corte o etichette ancora at-taccate ad abiti nuovi. Mi-ran invece era indistinguibiledalle altre sudcoreane: indossava un elegante maglionemarrone e pantaloni di maglia in tinta. I suoi vestiti midiedero l’impressione (che poi si rivelò sbagliata, comemolte altre) che fosse abbastanza schiva. I capelli eranopettinati all’indietro con cura e trattenuti da un ferma-glio di strass. L’aspetto impeccabile era appena guastatoda uno sfogo di acne sul mento e da un arrotondamen-to alla vita, causato dalla gravidanza: era incinta di tremesi. Un anno prima aveva sposato un sudcoreano, unimpiegato civile dell’esercito; aspettavano il loro primofiglio.

Avevo invitato Mi-ran a pranzo per saperne di piùsul sistema scolastico nordcoreano. Prima di fuggire lei

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era stata maestra d’asilo in una città mineraria e nellaCorea del Sud stava seguendo un corso di specializza-zione postlaurea in pedagogia. Fu una conversazioneseria, a tratti deprimente. Non toccammo cibo mentrelei parlava di come avesse visto i suoi alunni di cinquee sei anni morire di fame. A quei bambini denutriti do-veva insegnare che essere nordcoreani era una benedi-zione. Kim Il-sung, al governo dal momento in cui lapenisola era stata divisa in due dopo la Seconda guer-ra mondiale fino alla sua morte nel 1994, doveva esse-re venerato al pari di una divinità e Kim Jong-il, suofiglio nonché successore, come il figlio di Dio, quasi co-me Gesù Cristo. Mi-ran era diventata un critico ferocedei sistemi di lavaggio del cervello nordcoreani.

Dopo un’ora o due di conversazione su questo tono,passammo a quella che si potrebbe definire una chiac-chierata tra donne. C’era qualcosa nel contegno di Mi-ran, nella sua schiettezza, che mi permise di passare adomande più personali. Cosa facevano i giovani nord-coreani per divertirsi? Aveva conosciuto momenti difelicità quando viveva nella Corea del Nord? Aveva unfidanzato laggiù?

«È curioso che me lo chieda» rispose. «L’ho sogna-to proprio l’altra notte.»

Descrisse il ragazzo dicendo che era alto e snello, concapelli lunghi che gli cadevano sulla fronte. Quando sene era andata dalla Corea del Nord aveva saputo congrande gioia di un idolo sudcoreano delle ragazzine, uncerto Yu Jun-sang, che assomigliava moltissimo al suoex ragazzo. (Per questo motivo ho scelto per lui lo pseu-donimo di Jun-sang.) Era molto intelligente, un futuroscienziato che studiava in una delle migliori universitàdi Pyongyang; anche per questo non potevano farsi ve-dere in pubblico.

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Non ci sono hotel dove una coppia possa appartarsinella Corea del Nord; l’intimità tra persone di sessoopposto non è vista di buon occhio. Tuttavia cercai dichiederle con discrezione fino a che punto si fosse spin-to il loro amore.

Mi-ran rise.«Ci abbiamo messo tre anni a stringerci la mano,

altri sei per baciarci» rispose. «Non mi sarei mai sogna-ta di fare altro. Quando lasciai la Corea del Nord avevoventisei anni ed ero un’insegnante, ma non sapevocome si fanno i bambini.»

Mi-ran ammise di pensare spesso al suo primo amo-re e di provare rimorso per il modo in cui se ne eraandata. Jun-sang era stato il suo migliore amico, la per-sona a cui confidava i suoi sogni e i segreti della suafamiglia, però gli aveva taciuto il segreto più grandedella sua vita. Non gli aveva mai detto che era disgu-stata dalla Corea del Nord e non credeva alla pro-paganda che doveva insegnare ai suoi scolari. Soprat-tutto, non gli aveva rivelato che la sua famiglia stavamettendo a punto un piano per fuggire. Non che nonsi fidasse di lui, ma nella Corea del Nord non si pote-va mai essere troppo prudenti. Se lui ne avesse parlatoa qualcuno, che a sua volta poteva parlarne a qualcunaltro... be’, non si poteva essere sicuri di niente, le spieerano dappertutto. I vicini denunciavano i vicini, gliamici gli amici. Perfino gli amanti si denunciavano l’unl’altro. Se la polizia segreta avesse scoperto i loro piani,tutta la sua famiglia sarebbe finita in un campo di lavo-ro in montagna.

«Non potevo rischiare» mi disse. «Non ho neanchepotuto dirgli addio.»

Dopo il nostro primo incontro Mi-ran mi parlò spes-so di Jun-sang. Era felicemente sposata e, quando la

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incontrai la volta successiva, anche mamma, però ognivolta che si accennava a lui cambiava tono di voce, siagitava e arrossiva. Avevo la sensazione che fosse con-tenta quando lo nominavo, perché ero l’unica personacon cui poteva condividere quella storia.

«Che ne è stato di lui?» le chiesi.Alzò le spalle. A cinquant’anni dalla fine della guer-

ra di Corea ancora non c’è una vera e propria comuni-cazione tra Nord e Sud. Da questo punto di vista lasituazione è del tutto diversa da quella della Germaniadell’Est e dell’Ovest, o da quella di qualsiasi altro posto.Tra le due Coree non esistono linee telefoniche, né unservizio postale o tantomeno di e-mail.

Anche Mi-ran aveva molte domande senza risposta.Era sposato? Pensava ancora a lei? La odiava perché sene era andata senza una parola? La considerava una tra-ditrice della patria perché era fuggita?

«Penso che abbia capito, non so perché, ma non homodo di saperlo» mi rispose.

Mi-ran e Jun-sang si incontrarono nella prima ado-lescenza. Vivevano alla periferia di Chongjin, una dellecittà industriali del nord-est della penisola, non lonta-no dal confine con la Russia.

I paesaggi della Corea del Nord sono resi alla perfe-zione dalle pennellate nere della pittura orientale. Atratti sono di una bellezza incantevole, a un americanopotrebbero ricordare le coste settentrionali del Paci-fico, ma con una gamma di colori molto più limitata,ridotta al verde scuro di conifere e ginepri e al grigiolattiginoso delle cime di granito. La scacchiera verdebrillante delle risaie, così tipica delle campagne del-l’Asia, compare solo in estate, nei pochi mesi della sta-gione delle piogge. L’autunno regala un breve attimo di

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colore, ma il resto dell’anno tutto è giallo e marrone,con tonalità smorte e sbiadite.

Il caos che contraddistingue la Corea del Sud è deltutto assente: non ci sono insegne e si vedono pochi vei-coli a motore. Per lo più è illegale possedere un’auto-mobile, che comunque nessuno potrebbe permettersi.È raro perfino vedere dei trattori; solo buoi smunti chetrascinano aratri. Le case sono semplici, funzionali emonocrome; poche risalgono a prima della guerra diCorea, in gran parte sono state costruite negli anni Ses-santa e Settanta con blocchi di cemento e calcare, eassegnate alla popolazione sulla base del lavoro svoltoe del livello sociale. Nelle città si trovano “stie per pic-cioni”, monolocali in palazzotti bassi, mentre di solitochi abita in campagna vive in edifici a un piano chiama-ti “armoniche”: file di casette con una sola stanza, alli-neate l’una accanto all’altra come le piccole scatole cheformano le armoniche. A volte gli infissi di porte e fine-stre sono dipinti di un sorprendente turchese, ma ingenere quasi tutto è color calce o grigio.

Nella cupa visione futuristica di 1984, Orwell descri-ve un mondo in cui il colore è presente solo nei mani-festi della propaganda; nella Corea del Nord è davverocosì. Le immagini di Kim Il-sung ostentano i vividicolori da poster cari allo stile pittorico del realismo so-cialista. Il Grande Leader è seduto su una panchina esorride benevolo a un gruppo di bimbi vestiti con colo-ri vivaci che lo circondano. Raggi gialli e arancioni siirradiano dal suo volto: Lui è il sole.

Il rosso è appannaggio esclusivo dei caratteri deglionnipresenti manifesti di propaganda. Il coreano usa unalfabeto particolarissimo, composto di cerchi e linee, ele lettere rosse risaltano con prepotenza sul grigiore delpaesaggio. Si susseguono nei campi, dominano le vette

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di granito delle montagne, compaiono a intervalli rego-lari sulle strade principali e danzano sui tetti delle sta-zioni ferroviarie e degli altri edifici pubblici.

LUNGA VITA A KIM IL-SUNG

KIM JONG-IL SOLE DEL VENTUNESIMO SECOLO

VIVIAMO A MODO NOSTRO

OBBEDIAMO AL PARTITO

NON ABBIAMO NULLA DA INVIDIARE IN QUESTO MONDO

Fino all’inizio dell’adolescenza Mi-ran non aveva mo-tivo di non credere a quei cartelli. Il padre era un umileminatore, la sua famiglia era povera, ma lo erano anchetutte le altre persone che conosceva. Tutto ciò che pro-veniva dal mondo esterno era bandito, pubblicazioni,film e trasmissioni, e Mi-ran dava per scontato che nelresto del mondo nessuno vivesse in condizioni migliori,e che, anzi, probabilmente stessero molto peggio. Allaradio e alla televisione ripetevano di continuo che i sud-coreani erano infelici sotto il dominio del leader fantoc-cio filoamericano Park Chung-hee, e in seguito del suosuccessore, Chun Doo-hwan. I nordcoreani imparavanoche il comunismo diluito adottato dalla Cina aveva menosuccesso di quello rigoroso instaurato da Kim Il-sung, eche milioni di cinesi soffrivano la fame. Tutto sommato

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Mi-ran si riteneva abbastanza fortunata a essere nellaCorea del Nord, sotto l’amorevole protezione del Lea-der paterno.

In effetti negli anni Settanta e Ottanta il villaggiodove crebbe Mi-ran non era poi così male: aveva unmigliaio di abitanti ed era stato progettato dalla piani-ficazione centrale in modo che fosse impossibile distin-guerlo dagli infiniti altri villaggi di quel tipo, ma si tro-vava in una posizione privilegiata. Il Mare dell’Est, cioèil Mar del Giappone, si trovava ad appena dieci chilo-metri di distanza, quindi ogni tanto si potevano man-giare pesce fresco e granchi. Il villaggio sorgeva propriodietro le ciminiere di Chongjin e dunque godeva deivantaggi della vicinanza alla città e degli spazi aperti sucui si potevano coltivare ortaggi. Il territorio era rela-tivamente pianeggiante, una benedizione in un paesedove le pianure coltivabili scarseggiano. Presso le vici-ne terme c’era uno dei molti palazzi di villeggiatura diKim Il-sung.

Mi-ran era la più giovane di quattro figlie. Nel 1973,l’anno in cui nacque, quattro figlie erano una disgrazia,proprio come nell’Inghilterra del diciannovesimo seco-lo, all’epoca in cui Jane Austen descrisse in Orgoglio epregiudizio le difficoltà di una famiglia con cinque figlie.Tutti i coreani, a Nord come a Sud, sono imbevuti dellatradizione confuciana secondo la quale sono i figli ma-schi a portare avanti la stirpe e a prendersi cura dei geni-tori anziani. Ai genitori di Mi-ran fu risparmiata la tra-gedia di non avere figli maschi. Quando Mi-ran avevatre anni, nacque un fratellino, ma questo significò che lapiù piccola divenne la più trascurata dei figli.

La famiglia viveva in un monolocale nelle case adarmonica, in accordo con la posizione sociale del padredi Mi-ran. La porta di ingresso dava direttamente su

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una piccola cucina che fungeva anche da stanza dellacaldaia. Legna o carbone venivano buttati nel camino,e il fuoco che producevano veniva usato sia per cucina-re sia per riscaldare la casa con un sistema di tubi checorrevano sotto il pavimento, noto con il nome di ondol.Una porta scorrevole separava la cucina dalla stanzaprincipale, dove l’intera famiglia dormiva su materassi-ni che di giorno venivano arrotolati. La nascita delmaschietto portò a otto i componenti della famiglia: icinque figli, i genitori e una nonna. Così il padre di Mi-ran corruppe il capo del comitato del popolo perché gliconcedesse un monolocale adiacente al loro e gli con-sentisse di collegare i due appartamenti con una porta.

Con uno spazio più grande, i due sessi si separarono.Al momento dei pasti le donne si radunavano intorno auna bassa tavola di legno vicino alla cucina per mangia-re una specie di polenta, meno costosa e nutriente delriso, l’alimento preferito dei nordcoreani, che venivariservato a padre e figlio, seduti a un tavolo tutto perloro.

«Pensavo che fosse semplicemente lo stato naturaledelle cose» mi disse in seguito Sok-ju, il fratello di Mi-ran.

Se le sorelle maggiori notavano quelle disparità nonne facevano un dramma, ma Mi-ran scoppiava in lacri-me e si lamentava delle ingiustizie.

«Perché Sok-ju è l’unico ad avere le scarpe nuove?»insisteva. «Perché la mamma si prende cura solo diSok-ju e non di me?»

La facevano tacere senza rispondere.Non era la prima volta che si ribellava contro le limi-

tazioni imposte alle giovani donne. All’epoca, nella Co-rea del Nord, le ragazze non potevano andare in bici-cletta a causa di un pregiudizio sociale: si pensava cheuna ragazza in bicicletta fosse disdicevole e troppo pro-

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vocante. Di tanto in tanto il Partito dei lavoratori ema-nava editti formali che rendevano la pratica tecnicamen-te illegale, ma Mi-ran ignorava quella regola. Dall’età diundici anni cominciò a prendere l’unica bicicletta del-la famiglia, un modello giapponese usato, per avviarsisulla via di Chongjin. Doveva sfuggire all’oppressionedel suo piccolo villaggio, andare altrove. Il tragitto erafaticoso per una bambina, circa tre ore di salita, ed eraasfaltato solo in parte. Gli uomini in sella alle loro bicicercavano di superarla, insultandola per la sua sfronta-tezza.

«Ti spaccherai la fica» le urlavano.A volte un gruppo di adolescenti le tagliava la stra-

da cercando di farla cadere. Mi-ran reagiva, risponde-va agli insulti con altri insulti. Alla fine imparò a igno-rarli e a continuare a pedalare.

C’era solo un momento di tregua per Mi-ran nel suovillaggio: il cinema.

Ogni città della Corea del Nord, per quanto piccolasia, possiede un cinema, grazie alla convinzione di KimJong-il che i film siano uno strumento indispensabileper istillare la fedeltà nelle masse. Nel 1971, all’età ditrent’anni, Kim Jong-il ottenne il suo primo lavoro:supervisore dell’Ufficio di agitazione e propaganda delPartito dei lavoratori, che dirigeva gli studi cinemato-grafici nazionali. Nel 1973 pubblicò un libro, Sull’artedel cinema, in cui esponeva la sua teoria secondo laquale «l’arte e la letteratura rivoluzionarie sono mezziestremamente efficaci per ispirare il popolo a lavorareper gli scopi della rivoluzione».

Sotto la direzione di Kim Jong-il gli studi cinemato-grafici coreani alla periferia di Pyongyang furono am-pliati fino a estendersi su un’area di oltre tremila metri

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quadrati. Sfornavano una quarantina di film all’anno,per lo più drammatici e tutti sugli stessi temi: la viaverso la felicità è fatta di sacrificio e repressione dell’in-dividuo per il bene della collettività; il capitalismo èpura e semplice degradazione. Quando visitai gli studi ci-nematografici nel 2005 vidi una riproduzione di quellache doveva essere una strada tipica di Seul, fiancheggia-ta da vetrine fatiscenti e bar con donnine discinte.

Mi-ran adorava andare al cinema anche se proiettava-no solo film di propaganda. Era una cinefila, per quan-to lo poteva essere una ragazzina in un villaggio nord-coreano. Da quando fu abbastanza grande per andareal cinema a piedi da sola, supplicava la madre di dar-le i soldi per il biglietto. I prezzi erano bassissimi, solomezzo won, l’equivalente di pochi centesimi, più o me-no il costo di una bibita. Mi-ran andava a vedere tuttoquello che poteva. Alcuni film erano considerati trop-po audaci per i più giovani, come la pellicola del 1985intitolata Oh amor mio, in cui si alludeva a un bacio trauomo e donna. In realtà la protagonista abbassava conmodestia il parasole in modo che il pubblico non vedessele labbra che si sfioravano, ma tanto bastava a classifi-care il film come vietato ai minori di diciotto anni. Lepellicole di Hollywood, naturalmente, erano banditenella Corea del Nord, come quasi tutti i film stranieri,con qualche eccezione per quelli sovietici. A Mi-ran ifilm russi piacevano più di tutti perché erano meno im-bevuti di propaganda di quelli nordcoreani, e anche piùromantici.

Forse era inevitabile che una giovane sognatrice cheandava al cinema per vedere sullo schermo l’amore citrovasse l’amore reale.

Si incontrarono nel 1986, quando c’era ancora elet-tricità a sufficienza per far funzionare i proiettori. Il Pa-

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lazzo della Cultura, un edificio su due piani abbastan-za grande da contenere una galleria, era il più imponen-te della città, costruito nello stile grandioso in voganegli anni Trenta, quando la Corea era occupata dalGiappone. La facciata era coperta da un gigantescoritratto di Kim Il-sung: c’erano regole precise secondole quali tutte le immagini del Grande Leader dovevanoessere proporzionate all’edificio. Il Palazzo della Cultu-ra fungeva da cinema, teatro e sala conferenze. In occa-sione delle feste nazionali, come il compleanno di KimIl-sung, ospitava le cerimonie di premiazione dei citta-dini che seguivano più da vicino l’esempio del GrandeLeader. Altrimenti proiettava film, le ultime produzio-ni in arrivo da Pyongyang circa una volta al mese.

Anche Jun-sang andava matto per il cinema, e quan-do sapeva che c’era in programma un nuovo film si pre-cipitava per essere il primo a vederlo. Quella sera pro-iettavano Nascita di un nuovo governo, una pellicolaambientata durante la Seconda guerra mondiale in Man-ciuria, dove i comunisti coreani guidati dal giovane KimIl-sung si erano organizzati per resistere all’occupazionecoloniale giapponese. La resistenza antigiapponese eraun tema ricorrente del cinema nordcoreano, come gliindiani e i cowboy agli albori di Hollywood. C’era daaspettarsi che il film attirasse folle di spettatori perché virecitava una giovane attrice molto popolare.

Jun-sang arrivò al botteghino in anticipo e compròdue biglietti, uno per sé e uno per il fratello. Quandola vide stava passeggiando avanti e indietro fuori delcinema.

Mi-ran era in piedi in fondo a una fila che avanzavaverso la biglietteria. Il pubblico cinematografico dellaCorea del Nord tende a essere giovane e turbolento, equella sera era particolarmente scalmanato. I ragazzi

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più grandi erano arrivati in testa alla fila a furia di spin-toni e avevano formato una specie di cordone per impe-dire ai più piccoli di arrivare alla cassa. Jun-sang si avvi-cinò per guardare meglio la ragazzina, che pestava ipiedi per la rabbia e sembrava sul punto di scoppiarein lacrime.

Quella ragazza non aveva niente a che vedere con ilcanone di bellezza nordcoreano, che prevede carnagio-ne chiara (più chiara è, meglio è), viso tondo e bocca aforma di cuore. Aveva i lineamenti allungati e pronun-ciati, il naso aquilino, gli zigomi alti. A Jun-sang parvequasi straniera e un po’ selvaggia. Gli occhi della ragaz-za brillavano di rabbia davanti al caos della biglietteria.Non era come le altre ragazze, che si schermivano e sicoprivano la bocca quando ridevano. Jun-sang avvertìin lei un’impazienza focosa, come se la vita nella Coreadel Nord non l’avesse domata. Lo incantò all’istante.

A quindici anni Jun-sang era ben consapevole di esse-re molto interessato alle ragazze, ma fino a quel momen-to non era mai stato attratto da una ragazza in partico-lare. Aveva visto abbastanza film da poter immaginarecome sarebbe apparso sullo schermo quel primo incon-tro con lei. In seguito avrebbe ricordato quel momentoin un sognante technicolor, con una specie di alone misti-co intorno alla figura di Mi-ran.

«Non riesco a credere che ci sia una ragazza così inquesta piccola città» si disse.

Girò intorno alla folla un paio di volte per guardar-la meglio, incerto sul da farsi. Era uno studente model-lo, non un bullo; non sarebbe riuscito a farsi largo finoalla biglietteria. Poi gli venne un’idea: il film stava percominciare e suo fratello non era ancora arrivato. Se leavesse venduto il biglietto che avanzava, la ragazza sisarebbe dovuta sedere accanto a lui, visto che i posti

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erano numerati. Le girò intorno di nuovo, studiando lafrase che avrebbe usato per offrirle il biglietto.

Alla fine non trovò il coraggio di rivolgerle la parolae si infilò dentro il cinema. Quando lo schermo fu inva-so dall’immagine della protagonista che galoppava suun campo innevato, Jun-sang pensò all’occasione che siera lasciato sfuggire. L’attrice recitava la parte di un’in-domita eroina della resistenza che portava i capelli ta-gliati corti come quelli di un ragazzo e lanciava il suocavallo al galoppo nelle steppe della Manciuria, decla-mando slogan rivoluzionari. Jun-sang non riusciva asmettere di pensare alla ragazza fuori del cinema. Quan-do, alla fine del film, cominciarono a scorrere i titoli dicoda, uscì di corsa a cercarla, ma lei se n’era già andata.

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