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Difesa Un Consiglio di sicurezza nazionale per l’Italia LORENZO MESINI Quanto sarà green il trasporto aereo? MARCO BATTAGLIA Aviazione Spazio Le mosse di Bruxelles tra satelliti e lanciatori MARCELLO SPAGNULO Mensile sulle politiche per l’aerospazio e la difesa n. 118 - gennaio 2021 Per un’Italia cyber-sicura D. Benigni, M. Braccioli, S. Cont, E. Damiani, M. Mensi, T. Profeta, B. Scolart, A. Tofalo

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Difesa

Un Consiglio di sicurezza nazionale per l’ItaliaLORENZO MESINI

Quanto sarà green il trasporto aereo?MARCO BATTAGLIA

AviazioneSpazio

Le mosse di Bruxelles tra satelliti e lanciatoriMARCELLO SPAGNULO

Mensile sulle politiche per l’aerospazio e la difesa

n. 118 - gennaio 2021

118

Per un’Italia cyber-sicuraD. Benigni, M. Braccioli, S. Cont, E. Damiani, M. Mensi, T. Profeta, B. Scolart, A. Tofalo

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1Airpress - gen. 2021 • n.118

La crisi di governo che ha investito l’Italia rischia di incidere non solo sul Recovery plan e sulle misure economiche contro la pandemia, ma anche sul settore dell’aerospazio, difesa e sicurezza. Il timore tra gli addetti ai lavori è che il Paese dia all’estero e tra le cancellerie europee una immagine di sé negativa, minata dall’incertezza dello scenario futuro (che in un certo senso ci appartiene) e della governance. Un segnale in realtà già raccolto dagli in-vestitori esteri e da chi intrattiene rapporti economici con Roma. La questione è ben nota: la stabilità e continuità dell’azione del governo sono determinanti per l’Ad&s, soprattutto quando le incertezze politiche intervengono nel momento più buio per l’economia provocato dal Covid-19.Lo spazio è il segmento che è stato meno toccato dalla crisi pandemica. Tra i programmi in evoluzione c’è sicuramente Artemis, il progetto lunare americano che presto scoprirà il pro-prio destino alla luce dell’avvicendamento turbolento alla Casa Bianca. In Europa si apre un passaggio delicato che andrebbe monitorato con attenzione dall’Italia: i rapporti di forza tra l’Agenzia spaziale europea e l’Ue sono destinati a mutare con un peso maggiore di Bruxelles, determinando altri effetti a cascata anche per il futuro spaziale italiano. Inoltre, a marzo ci sarà l’avvicendamento tra Wörner e Aschbacher, il quale ha già annunciato il lancio di un’a-genda 2025 per l’Esa.Sul versante sicurezza e difesa, nel corso del 2021 sono in programma degli avvicendamenti nelle Forze Armate che prevedono una chiara visione d’insieme da parte di Palazzo Barac-chini. Il 2020 è stato però un anno positivo per gli sforzi di budget realizzati su investimenti e programmi della difesa. Ora è necessario dare continuità a questa azione, procedendo in Parlamento con l’approvazione di diversi programmi a lungo attesi dalle nostre Forze arma-te. A livello europeo sarà necessario dare impulso alla partecipazione italiana ai progetti che segneranno il futuro come il Tempest (e l’auspicabile convergenza con il Fcas) e l’Eurodrone. Non appena Bruxelles approverà il bilancio pluriennale, partirà poi a tutti gli effetti anche il fondo per la Difesa (Edf).Il segmento più penalizzato di Ad&s resta quello “aero”, che dopo aver subìto uno scon-quasso dalla pandemia, rischia di restare schiacciato dalla mancanza di piani da parte del governo. Le compagnie aeree, gli aeroporti e l’indotto sono praticamente a terra, e per Ali-talia emergono ipotesi allarmanti. Oggi più che mai il settore ha bisogno di una iniezione di investimenti e visione per uscire da un periodo cupo che ha fatto tornare il volume del traf-fico agli anni Novanta e che ha spinto gli altri Paesi europei a premere sull’acceleratore degli aiuti. Il tema non è rimandabile, pena la perdita di terreno rispetto all’estero e l’aggredibilità del nostro mercato interno.

Flavia Giacobbe

editoriale

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sommario

editoriale 1

contributors 3

Angelo Tofalo 4A scuola di cyber-defender

Paolo Prinetto 5Che cos’è il CyberChallenge del Cini

Ernesto Damiani 6Il mondo militare diventa un modello

Gabriele Carrer 10La tempesta SolarWinds sugli Stati Uniti

Barbara Scolart 12La risposta a un attacco cibernetico

Marco Braccioli 14Anche le minacce ibride aumentano

Tommaso Profeta 16Rafforzare l’autonomia tecnologica

Domitilla Benigni 18Fragilità e resilienza

Lorenzo Mesini 28Oltre il Cisr, un National security council per l’Italia?

Stefano Cont 34Le strategie del Pentagono per la guerra elettronica

Stefano Pioppi 36I generali americani a Difesa della democrazia

Angelo Vallerani 40Opportunità sistemiche per lo Spazio italiano

Paolo Maggiore, Piero Messidoro, Roberto Vittori 42Un drone per Artemis

Paolo Gaudenzi, Chiara Telli 44Geopolitica delle terre rare (sulla Luna)

Marcello Spagnulo 46Le mosse di Bruxelles oltre l’atmosfera

Stefano Gualandris 50Tra industria e politica, quale futuro per l’Italia?Paper 54Cristina LeoneAviazione civile, come evitare la crisi

Gregory Alegi 58La Brexit sulle rotte europee

Marco Battaglia 60Quanto sarà green il trasporto aereo?

Livia Fichera 62Addio al Jumbo

RUBRICHE

Maurizio Mensi 9Impronte digitali

Adriano Soi 20Checkpoint Charlie

Bussola del mese 22Local

Bussola del mese 25Global

Cesare Ciocca e Lucrezia Falciai 30Casa di Vetro

Andrea Margelletti 33Strategicamente

Isabella Rauti 38In punta di anfibi

Roberto Vittori 49Contropensieri spaziali

Gregory Alegi e Francesca Garello 52Food for flight

Nick Brough 53Visti da lontano

Save the date 64

Rubriche

AirpressAgenzia stampa aeronautica tecnica politicaRegistrazione Tribunale di Roma n. 10311 del 7/4/1965. Registrazione R.O.C. n. 9884

Editore Base per altezza s.r.l.corso Vittorio Emanuele II, 18 · 00186 Roma

telefono 06 454 73 850 · fax 06 455 41 354partita iva 05831140966

Rivista fondata daFausto AlatiDirettore responsabileFlavia GiacobbeRedazioneStefano Pioppi Marco BattagliaProgetto graficoblueformaImpaginazione e graficaGiulio Fermetti /Essegistudio

Consiglio di amministrazionePresidenteGianluca CalvosaConsiglieriRoberto Arditti Ottavia Landi Giovanni Lo Storto Brunetto Tini Federico VincenzoniComitato strategicoLeonardo Tricarico(presidente) Gregory Alegi, Vincenzo Camporini, Alessandro Cornacchini,Paolo Puri

Per comunicati, abbonamenti, pubblicità[email protected] le riproduzioni di testi e immagini appartenenti a terzi, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione e riferimenti.

Recapito a cura di [email protected]

Numero chiuso in redazione il 14 gennaio 2021Finito di stampare il 18 gennaio 2021

Stampato in Italia da Rubettino printViale Rubbettino, 1088049 Soveria Mannelli

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2Airpress - gen. 2021 • n.118 3/

contributors

DOMITTILA BENIGNI

Ceo e direttore generale di Elettronica e presidente di Cy4Gate, la controllata specializzata a 360 gradi nel settore cyber. Membro della fondazione Women4Cyber, è stata inserita nel 2019 da Forbes nella classifica delle cento donne italiane più influenti e, dal magazine britannico SC, tra le “50 women of influence in cyber-security Europe”. È entrata in Elettronica nel 1996 dopo la laurea in Ingegneria elettronica, percorrendo tutte le funzioni aziendali fino all’attuale incarico.

ERNESTO DAMIANI

Presidente del Consorzio interuniversitario nazionale per l’informatica (Cini). È direttore del Center for cyber physical systems (C2PS) e dell’Information security center della Khalifa University di Abu Dhabi. Professore d’informatica dell’Università degli studi di Milano, ne guida il laboratorio dedicato alla Secure service-oriented software research (Sesar Lab). Esperto di intelligenza artificiale e Big data, vanta oltre 16mila citazioni su Google Scholar e 6.200 su Scopus.

PAOLO GAUDENZI

Direttore del dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale (Dima) dell’Università La Sapienza di Roma. Presso lo stesso ateneo dirige il master in satelliti e piattaforme orbitanti, è professore ordinario di Costruzioni e strutture aerospaziali e membro del Senato accademico. È stato editore della rivista specializzata Aerotecnica, missili e spazio, ed è autore di oltre 120 pubblicazioni, di cui oltre la metà su riviste internazionali.

TOMMASO PROFETA

Capo della Divisione cyber-security di Leonardo da settembre 2020. Nei sei anni precedenti è stato senior vice president chief security officer dell’azienda, responsabile in ambito business security e cyber-security, nonché “funzionario alla sicurezza” preposto alla segreteria principale Nato-Ue/Secret. Ha prestato servizio nella Polizia di Stato e, presso Roma Capitale, è stato vice capo di gabinetto del sindaco, direttore della Protezione civile e capo dipartimento Tutela ambientale.

ANGELO TOFALO

Sottosegretario di Stato alla Difesa, confermato nel Conte 2 dopo l’esperienza nel precedente governo con lo stesso incarico. Deputato, durante la XVII legislatura è stato membro della commissione Difesa di Montecitorio, della commissione Ambiente, territorio e lavori pubblici, e del Copasir. Co-fondatore del progetto “Intelligence collettiva”, ha conseguito nel 2016 un master di secondo livello in “Intelligence e sicurezza” presso la Link Campus University di Roma.

ROBERTO VITTORI

Generale dell’Aeronautica militare, astronauta dell’Esa e addetto alle questioni spaziali all’ambasciata d’Italia a Washington. Ha al suo attivo tre voli a bordo della Stazione spaziale internazionale, due con la navicella Soyuz e uno sullo Space shuttle. Come pilota collaudatore ha accumulato 2.500 ore di volo su circa cinquanta differenti tipi di velivoli, elicotteri e alianti. Come professore a contratto e ricercatore associato vanta varie pubblicazioni.

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A scuola di cyber-defender In un mondo sempre più digitalizzato, la sicurezza e la difesa informatica sono elementi fondamentali per la protezione del sistema-Paese. A questo scopo, la diffusione della cultura della cyber-security nelle scuole diventa un fattore-chiave per la formazione della generazione dei nativi digitali, i cyber-defender del futuro

ANGELO TOFALOsottosegretario di Stato alla Difesa, delegato alla trattazione delle problematiche relative alla sicurezza cibernetica

Cyber

Il governo nel suo insieme, e in particolare la Difesa, sono attivi nel settore della sicurezza cibernetica con diverse iniziative ad ampio spettro. Il dicastero si è impegnato a fondo nel pensare, sviluppare, creare, far nascere e crescere il Comando per le operazioni in rete (Cor), il nuovo organo di vertice a tre stelle la cui responsabilità è monitorare e intervenire in caso di minaccia cibernetica sulle reti della Difesa. Siamo tra i primi Paesi ad avvalersi di una simile struttura, un progetto innovativo di importanza strategica non solo per il dicastero. Nonostante sia appena nato, sta già operando in maniera eccellente, soprattutto alla luce della pandemia da Coronavirus in corso, che ci obbliga a utilizzare sempre più diffusamente gli strumenti digitali. È per questo che il ministero della Difesa, così come la presidenza del Consiglio, hanno supportato, continuano a supportare e supporteranno sempre tutti i ragazzi che hanno e avranno voglia di avvicinarsi al mondo della cyber-security.Al “CyberChallenge” del 2020, per la prima volta, ha partecipato anche una squadra dell’Esercito italiano, e questo fa capire la voglia da parte dell’amministrazione di contribuire attivamente

allo sviluppo di una cultura diffusa di sicurezza cibernetica, attraverso la quale passa la sicurezza del Paese. Nei prossimi anni proveremo a stimolare la presenza anche di altri ministeri, dagli Esteri all’Interno (le cui competenze di sicurezza cyber sono all’avanguardia) all’Economia, insieme alla Guardia di finanza e alle altre Forze armate. È evidente che oggi, chi ha un’esperienza riconosciuta nel campo cyber, in una società sempre più digitale, abbia l’obbligo di indirizzare e formare i nativi digitali, che a loro volta avranno l’onere in futuro di concorrere alla difesa del dominio cibernetico nel quale saremo sempre più presenti. I tredicenni, quattordicenni e quindicenni di oggi sono ragazzi con doti e qualità eccezionali nell’utilizzo dello strumento cibernetico che possono, se ben indirizzati, supportare gli apparati dello Stato.Spesso si sente parlare di sistema-Paese, che può essere schematizzato come l’insieme concentrico di tre nodi fondamentali: il singolo individuo, il nucleo (come famiglia o azienda) e lo Stato, inteso come l’insieme di tutte le istituzioni. Ognuno è contemporaneamente l’uno e l’altro (sistema-Paese appunto). Se hackerano il cellulare del singolo

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cittadino “Angelo Tofalo”, verrà compromesso anche il cellulare di un rappresentante del governo che contiene informazioni sensibili per la Repubblica italiana. Così, un amministratore delegato o un dipendente di un’azienda pubblica o privata, deve capire che oltre a essere un singolo cittadino con una sua sfera privata fa anche parte di un insieme ben più ampio. Ciò si può fare soltanto facendo nascere e crescere tale consapevolezza con una continua diffusione della cultura della difesa e della sicurezza cibernetica, perché il nodo più debole è sempre quello che sta tra la sedia e il Pc: l’essere umano.Quindi, oltre all’informazione da parte della pubblica amministrazione, deve esserci una formazione continua e costante delle risorse interne alle aziende, pubbliche e private. Monitorando, per esempio, i dati sulle mail di phishing, si vede che ancora oggi, anche se in leggera tendenza migliorativa, c’è molta più attenzione da parte del singolo cittadino quando viene hackerato l’indirizzo di posta elettronica privato rispetto a quella che viene posta quando a essere attaccato è l’account istituzionale o aziendale. Proprio questo deve essere il cuore del nostro sforzo e la direttrice

principale: la diffusione della cultura della sicurezza cibernetica, far capire che ognuno di noi è un singolo cittadino tra le quattro mura dell’ufficio, di casa, dell’azienda o delle istituzioni, ma è anche parte integrante di un complesso più grande, il sistema-Paese Italia. È dunque indispensabile formare, informare e insegnare queste materie fin dalle scuole elementari, così da far crescere il livello di conoscenza dei ragazzi e costruire un futuro in cui il sistema complessivo sia più resiliente. Negli ultimi anni l’Italia ha fatto enormi passi avanti nel dominio cyber e in materia di sicurezza, soprattutto grazie all’istituzione di un perimetro di sicurezza cibernetica. Ora guardiamo con lungimiranza allo spazio, puntando alla costituzione di un Comando per le operazioni spaziali (Cos) che accerterà le capacità di avvistare, identificare e reagire alle eventuali minacce.

“CyberChallenge” è il primo programma italiano di addestramento in sicurezza informatica per studenti, un’azione di sistema organizzata dal Laboratorio nazionale di cybersecurity del Cini con il supporto del ministero della Difesa e del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica della presidenza del Consiglio dei ministri. Grazie alla disponibilità di diverse piattaforme, il Laboratorio è in grado di mettere a disposizione dei ragazzi molteplici dispositivi per i test, il training e le gare. Al progetto ha aderito nel

2020 anche il Comando per la formazione e la scuola d’applicazione dell’Esercito di Torino, e nel corso del 2021 si aggiungerà anche l’Accademia aeronautica di Pozzuoli. È stato anche presentato al ministero della Difesa il progetto “CyberChallenge for Italian military academies” nella speranza che possa diventare un valido strumento per tutte le accademie militari italiane.Punto di debolezza è ancora l’insufficiente riconoscimento istituzionale e una generale carenza di fondi, con tutte le attività svolte a livello di volontariato. Manca poi un

coinvolgimento più consistente dei ragazzi delle scuole superiori, per i quali sarà organizzata nel 2021 “Olicyber”, l’olimpiade della cyber-security, con percorsi di formazione per studenti e insegnanti. Altra criticità è il basso numero di ragazze che partecipano al progetto, motivo per cui è stato attivato il working group “CyberEquality”, esteso a tutte le iniziative del Laboratorio, il cui obiettivo è affrontare la problematica del gender gap del settore.Con l’arrivo del Covid-19 l’intero percorso è stato spostato in remoto ed è stato

attivato “OpenCyberChallenge.it”, un’iniziativa gratuita che offre libero accesso a tutto il materiale didattico per oltre mille studenti. A riprova del crescente interesse, una ricerca condotta dall’università di Oxford sull’impatto di “CyberChallenge” ha registrato come oltre la metà degli iscritti al progetto esprima l’intenzione di intraprendere una carriera nel settore della cyber-security. Questi dati sono un incentivo a continuare sulla strada intrapresa di offrire l’opportunità alle ragazze e ai ragazzi italiani di approfondire le proprie conoscenze nel campo della sicurezza cyber.

Che cos’è il CyberChallenge del CiniPAOLO PRINETTOdirettore del Laboratorio nazionale di cybersecurity del Cini

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Il mondo militare diventa un modelloLa collaborazione su piattaforme digitali favorita dalla pandemia ha cambiato profondamente il quadro della sicurezza nelle organizzazioni. Tale eredità è destinata a restare, ma le piattaforme devono essere adattate e certificate per rendere visibile il livello di confidenzialità che offrono. Le specifiche militari costituiscono una sorgente preziosa dalla quale attingere

ERNESTO DAMIANIpresidente del Consorzio interuniversitario nazionale per l’informatica, Cini

Cyber

Dopo un anno passato in trincea è arrivato il momento per la comunità della cyber-security di guardarsi alle spalle e di analizzare le conseguenze della crisi Covid-19 sul panorama complessivo. La conseguenza visibile della pandemia è il passaggio alla sfera digitale di fasi di processi che abitualmente erano svolte in presenza. Non si tratta tanto della digitalizzazione in quanto tale, quanto del fatto che i servizi digitali che hanno sostituito le attività in presenza (prime tra tutte, le videoconferenze) sono erogati su piattaforme altamente virtualizzate, le cui architetture sono poco trasparenti per chi le utilizza. Tutti noi abbiamo visto nei servizi televisivi il mosaico dei volti dei capi di Stato e di governo dell’Ue, intenti a discutere in videoconferenza, e ci siamo domandati se il percorso dei flussi di dati fosse visibile agli interlocutori. Lo stesso è accaduto senza tanto clamore anche per altre riunioni di organismi operativi europei, compresi quelli di collaborazione giudiziaria e di controllo delle frontiere.Come quantificare il rischio che abbiamo corso? Non c’è dubbio che la pandemia abbia ampliato a dismisura la superficie d’attacco: milioni di utenti

hanno installato su milioni di dispositivi personali e di proprietà dei loro datori di lavoro i moduli client delle piattaforme di collaborazione. Molti di questi utenti non erano mai stati raggiunti prima da alcuna informazione sulla sicurezza informatica. Persino le organizzazioni che hanno pratiche di cyber-security ben stabilite hanno allentato i freni per preservare la produttività dei loro processi interni.In queste condizioni l’infiltrazione è stata facilissima, perché le installazioni erano autogestite dagli utenti. Anche il numero elevato di piattaforme di videoconferenza disponibili ha creato un problema, rendendo difficile orientare gli utenti verso le applicazioni per cui sono disponibili configurazioni verificate. Questa situazione di estremo “Pyo” (Pick your own), con configurazioni fatte in casa, è stata alla base di fenomeni pittoreschi come le “Zoom-bomb”, vale a dire quando vandali si inseriscono nelle videoconferenze in corso per sabotarle, ma anche di pericolosi attacchi mirati al punto più debole: gli script di installazione. Come risultato, il parco dispositivi delle organizzazioni – anche quelle che hanno informazioni riservate da proteggere – contiene ora centinaia di migliaia di moduli ostili

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dormienti (i cosiddetti “sleeper”) che vanno dai web monitor agli estrattori di indirizzi mail da utilizzare per successive campagne di phishing. Ci troviamo tutti in un campo minato e la bonifica sarà un lavoro lungo e ingrato.Oltre ad aprire una breccia all’installazione di sleeper, l’adozione di massa delle piattaforme di collaborazione ha causato una vera e propria esondazione di dati fuori dal perimetro di sicurezza delle organizzazioni. Tra le informazioni “fuoriuscite” si trovano (per caso o per dolo) anche dati molto sensibili. Basti pensare all’esempio classico del bigliettino con la password di accesso incautamente appeso alla bacheca dell’ufficio: se nel periodo dello smart working la bacheca è stata inquadrata da una telecamera durante una videoconferenza, la sicurezza dell’intero sistema aziendale è compromessa, senza che i sistemi di difesa e filtraggio possano farci nulla.Il passaggio all’uso di piattaforme di collaborazione remota anche per i livelli decisionali più elevati ha le sue conseguenze anche per la sicurezza nella trasmissione dei dati. La trasmissione è sempre una parte vulnerabile delle procedure collaborative,

poiché i dati devono viaggiare su varie reti pubbliche e private per raggiungere la piattaforma di collaborazione, che è realizzata in modo distribuito. I percorsi di ciascuno possono dipendere dal carico della piattaforma stessa e non sono noti all’organizzazione che la utilizza. Per un attaccante esperto, una teleconferenza non crittografata può trasformarsi in una telecamera di sorveglianza abusiva, che registra e ritrasmette i segreti aziendali.La crittografia commerciale punto-punto, già adottata dalle app di messaggistica come WhatsApp, è spesso citata come rimedio, ma non è facile da realizzare come sembra. Un primo punto debole è la radiazione. Tutti i dispositivi elettronici emettono una certa quantità di radiazioni che possono essere intercettate; e la radiazione dei dati da uno schermo può essere letta fino a un chilometro di distanza. I militari lo sanno bene, e infatti tutti i dispositivi e i materiali di rete militari devono essere conformi alle linee guida sulle emissioni “Tempest” stabilite dal Jitc (Joint interoperability test command). I dispositivi approvati da Tempest vengono testati in una speciale camera anecoica in grado di rilevare le più piccole perdite elettroniche.

Commercializzare insieme soluzioni cloud sicure rivolte al mercato italiano ed europeo. È questo l’obiettivo della partnership tra Aruba e Leonardo, annunciata il 13 gennaio, che mette insieme le competenze del più grande cloud provider italiano e quelle del campione dell’aerospazio e difesa, entrambi “Day-1 member” di GaiaX, l’iniziativa europea per lo sviluppo di un cloud comune.Ora puntano ad accelerare ulteriormente la spinta verso progetti che possano garantire la sovranità del dato digitale, dando un contributo concreto nello sviluppo dell’ecosistema

cloud nazionale. La nuova offerta nasce dall’integrazione dei servizi di sicurezza cyber di Leonardo con il cloud di Aruba, ed è dedicata a grandi aziende e organizzazioni, infrastrutture critiche nazionali, pubblica amministrazione e Difesa. “Obiettivo della collaborazione – spiegano le due aziende – è proporre, tramite una filiera completamente italiana, delle soluzioni cloud altamente affidabili, scalabili e ad elevate prestazioni, sicuri in termini di protezione dei sistemi, con la garanzia della sovranità del dato e della compliance sia con il Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica, sia con gli standard

europei sulla privacy (Gdpr)”. Nel dettaglio, Leonardo metterà in campo la propria esperienza nei servizi di cyber-security, consulenza e supporto specialistico, progettazione e sviluppo di infrastrutture per la protezione delle informazioni e dei sistemi dalle minacce informatiche, nonché le capacità nel rilevamento real-time di incidenti, gestione delle vulnerabilità e della crisi, sviluppo di applicazioni secure by design. Aruba, da parte sua, potendo contare sulla propria esperienza sia in ambito di progettazione e gestione di data center che di infrastrutture cloud enterprise, è in grado

di fornire delle soluzioni uniche completamente personalizzate, ai massimi livelli di resilienza. L’intesa, ha spiegato Tommaso Profeta, managing director della Divisione cyber-security di piazza Montegrappa, è “in linea con il piano strategico Be tomorrow – Leonardo 2030, che identifica nelle collaborazioni con altre industrie, così come con il settore pubblico, uno strumento primario per offrire le migliori capacità per la sicurezza di persone e comunità in tutto il mondo, contribuendo alla loro crescita sostenibile”.

L’accordo tra Leonardo e Aruba per un cloud sicuro

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Purtroppo, questa consapevolezza non sempre si estende alle organizzazioni civili. Un secondo punto debole è la connessione, sui dispositivi client, tra la videocamera che registra le informazioni e l’implementazione del protocollo crittografico. A valle di questo modulo crittografico lo streaming della videoconferenza è protetto, ma nella memoria del dispositivo c’è comunque un punto di ascolto potenzialmente vulnerabile.Le preoccupazioni post-pandemia sono accresciute dal fatto che in molte organizzazioni, le videoconferenze sono state archiviate per un uso successivo o perché è richiesto da regolamenti e statuti, e questi archivi comprendono sia i dati multimediali, sia i metadati (come elenchi di partecipanti, contenuti condivisi, messaggi inviati in chat). L’archiviazione di questi dati dovrebbe essere coerente con il livello di segretezza delle informazioni che contengono. Purtroppo, molte organizzazioni usano invece storage standard (magari in cloud) per memorizzare i dati delle videoconferenze senza crittografarli, aprendo la strada a futuri rilasci in Wikileaks. È importante rilevare che le registrazioni delle videoconferenze

che contengono informazioni personali sono soggette alla normativa europea sulla privacy e che il fatto di non sapere se e quante ve ne siano non diminuisce la responsabilità di chi detiene i dati. Negli Stati Uniti vi sono anche normative settoriali come l’Health insurance portability and accountability act (Hipaa) e il Sarbanes-Oxley act del 2002, le quali richiedono che i fornitori di servizi sanitari, le istituzioni finanziarie e altre società proteggano tutti i dati digitali associati ai loro clienti e pazienti. Questo include tutte le trasmissioni elettroniche dei dati personali, anche via videoconferenza.La collaborazione su piattaforme digitali favorita dalla pandemia ha cambiato profondamente il quadro della sicurezza nelle organizzazioni. Questa eredità da Coronavirus è destinata a restare, ma le piattaforme devono essere adattate e certificate per rendere visibile il livello di confidenzialità che offrono. Le specifiche militari costituiscono una sorgente preziosa dalla quale tutte le organizzazioni possono attingere.

Superfici

La pandemia ha ampliato a dismisura la superficie d’attacco: milioni di utenti hanno installato su milioni di dispositivi personali e di proprietà dei loro datori di lavoro i moduli client delle piattaforme di collaborazione. Molti di questi utenti non erano mai stati raggiunti prima da alcuna informazione sulla sicurezza informatica. Persino le organizzazioni che hanno pratiche di cyber-security ben stabilite hanno allentato i freni per preservare la produttività dei loro processi interni.

Attacchi

Per un attaccante esperto una teleconferenza non crittografata può trasformarsi in una telecamera di sorveglianza abusiva, che registra e ritrasmette i segreti aziendali. La crittografia commerciale punto-punto, già adottata dalle app di messaggistica come WhatsApp, è spesso citata come rimedio, ma non è facile da realizzare come sembra. Un primo punto debole è la radiazione.

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*Professore Sna e Luiss Guido Carli, direttore esecutivo del centro Mena-Ocse Governance programme training

I passi in avanti europeiprevisto dalla raccomandazione del 26 marzo 2019. Per la segnalazione degli incidenti la proposta delinea un approccio in due fasi: le imprese hanno 24 ore di tempo per presentare un primo rapporto sommario, seguito da quello finale dettagliato entro un mese. Si propone che gli Stati membri individuino autorità nazionali responsabili della gestione delle crisi, con piani specifici e una nuova rete per la cooperazione operativa in tema di incidenti e crisi, la Eu Cyber crises liaison organisation network (Eu-CyClone).La proposta di direttiva sulla resilienza delle entità critiche estende invece il campo di applicazione della direttiva 114 del 2008 relativa a trasporti ed energia, a banche, infrastrutture dei mercati finanziari, salute, acqua potabile, acque reflue, infrastrutture digitali, pubblica amministrazione e spazio, prevedendo responsabilità chiare, una pianificazione adeguata e una maggiore cooperazione. Ogni Stato membro è tenuto ad adottare una strategia nazionale per garantire la resilienza delle entità critiche e a effettuare regolari valutazioni del rischio.

Il 16 dicembre 2020 è stata presentata la nuova strategia Ue per la cyber-sicurezza insieme a due proposte legislative: la revisione della direttiva Nis sulla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi (2016/1148) e una nuova direttiva sulla resilienza delle entità critiche. Le proposte riguardano un’ampia serie di settori e sono volte ad affrontare i rischi attuali e futuri, online e offline, dagli attacchi informatici e criminali alle catastrofi naturali, traendo spunto dalla lezione della pandemia in corso, che ha evidenziato come società ed economie siano vulnerabili e viepiù dipendenti da soluzioni digitali, esposte a minacce cyber in crescita e in rapida evoluzione. Di qui la necessità per l’Unione di salvaguardare uno spazio cibernetico globale e aperto, ma basato su solide garanzie di sicurezza, sovranità tecnologica e leadership, capacità operative atte a prevenire, scoraggiare e rispondere alle eventuali minacce, con maggiore cooperazione.Alla base della proposta di revisione della Nis ci sono le carenze emerse anche dall’ampia consultazione svolta con le parti interessate: l’attuale insufficiente livello di cyber-security in capo alle imprese europee, l’applicazione incoerente delle regole da parte degli Stati nei vari

settori e la carente comprensione delle principali minacce e sfide. Ecco perché la proposta della Commissione, strettamente collegata ad altre due iniziative, la proposta di regolamento sul settore finanziario (Digital operational resilience act, Dora) e la proposta di direttiva sulle entità critiche (Cer), estende il campo di applicazione della Nis a nuovi ambiti: ospedali, reti energetiche, ferrovie, centri dati, amministrazioni pubbliche, laboratori di ricerca e produzione di dispositivi medici e medicinali. Supera la distinzione tra operatori di servizi essenziali e fornitori di servizi digitali includendo tutte le medie e grandi imprese, suddivise fra “essenziali” e “importanti”, soggette a diversi regimi di vigilanza, lasciando agli Stati la possibilità di considerare anche entità minori che presentino elevati profili di rischio.È prevista una nuova rete di centri operativi a livello nazionale in grado di rilevare i segnali di un attacco informatico con sufficiente anticipo, così da poter intervenire prima che si verifichino danni. La Commissione affronta il problema della sicurezza delle supply chain e dei rapporti con i fornitori, chiedendo alle aziende di svolgere valutazioni coordinate dei rischi, in base all’approccio adottato con successo per le reti 5G

di MAURIZIO MENSI*

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La tempesta SolarWinds sugli Stati UnitiIl New York Times lo ha definito “uno dei più sofisticati, e forse tra i più grandi, attacchi ai sistemi federali negli ultimi cinque anni”. È l’aggressione informatica a SolarWinds Orion, di tale sofisticazione e magnitudine da aver allertato anche i servizi italiani. Dietro, secondo diversi indizi, potrebbe esserci la Russia

GABRIELE CARRERgiornalista Formiche.net

Cyber

Che gli 007 italiani pubblicassero un comunicato per mettere in guardia da rischi per la sicurezza cibernetica non accadeva dall’aprile scorso. Cioè dagli attacchi informatici che hanno preso di mira strutture ospedaliere italiane impegnate in un’emergenza sanitaria straordinaria, quella legata alla pandemia di Covid-19. Tra questi lo Spallanzani di Roma. In quell’occasione i nostri 007 diedero comunicazione di una riunione straordinaria del Nucleo per la sicurezza cibernetica, l’organo presieduto da Roberto Baldoni, vice-direttore generale con delega al cyber del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. La discrezione, si sa, è una cifra dell’Intelligence: non si è mai visto un bravo 007 dare pubblicità al suo operato.Ecco perché ha destato particolare interesse e preoccupazione il comunicato con cui, all’antivigilia di Natale, i nostri servizi segreti hanno annunciato di aver attivato il Nucleo per la sicurezza cibernetica in seguito all’hackeraggio dell’azienda texana SolarWinds Orion, scoperto il 13 dicembre. Il timore è che il “sofisticato attacco” tramite backdoor nella piattaforma che ha colpito diverse agenzie governative degli Stati Uniti (compresi Fbi e Pentagono) e molti colossi tecnologici americani (tra i quali Microsoft, Cisco, Intel, per fare solo tre

nomi) sia arrivato anche in Italia. Cioè che alcune istituzioni o aziende del nostro Paese abbiano all’interno dei loro sistemi un ingresso nascosto che, come hanno spiegato gli 007 annunciando la riunione straordinaria, permette “all’hacker, una volta selezionate le vittime di interesse, di eseguire comandi manuali all’interno dei sistemi della vittima ponendo quindi le basi anche per il rilascio di ulteriore codice malevolo volto potenzialmente a spiare o a manomettere ulteriormente i sistemi dell’ente attaccato o dei servizi da esso erogati”. È per questo che il Nucleo ha raccomandato “a tutte le organizzazioni che utilizzano la citata piattaforma Orion di esaminare la problematica con la massima e puntuale attenzione”.E se gli effetti di quell’offensiva hanno allertato anche oltre Atlantico, allora c’è da analizzare la sofisticazione e la magnitudine di quello quello che in gergo si definisce un “attacco alla supply chain”. Stefano Mele, partner dello studio legale Carnelutti e presidente della Commissione cibernetica del Comitato atlantico italiano, ha definito a Formiche.net l’attacco un “un capolavoro sul piano operativo”. L’attore statale, ha spiegato, “ha messo nel mirino un unico obiettivo portando a casa, però, in un solo colpo almeno 18mila intrusioni”. Un

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esempio per fotografare la portata dell’offensiva? “Immaginiamo per un secondo se lo stesso attore avesse dovuto pianificare una singola operazione cibernetica per ognuno degli attori colpiti; appare evidente che, oltre allo sforzo inimmaginabile richiesto, le probabilità di successo e i risultati ottenuti sarebbero stati sensibilmente minori”. Ecco perché l’attacco a SolarWinds cambia le carte in tavola: “L’attore ha individuato uno dei fornitori globali delle principali agenzie governative e delle aziende americane per colpirlo e automaticamente – per così dire – avere lo stesso effetto di oltre 18mila operazioni di spionaggio cibernetico”, ha aggiunto l’esperto, sottolineando l’urgenza della sicurezza della supply chain. Viste sofisticazione e magnitudine dietro a quello che il New York Times ha definito “uno dei più sofisticati, e forse tra i più grandi, attacchi ai sistemi federali negli ultimi cinque anni” potrebbe esserci un attore statale. La Russia di Vladimir Putin, sospettano le agenzie d’Intelligence statunitensi. E l’ha sostenuto pubblicamente Mike Pompeo, il segretario di Stato che, dicendo “possiamo dire abbastanza chiaramente che sono stati i russi a condurre questa iniziativa”, ha sfidato il presidente Donald Trump che puntava il dito contro la Cina. Le tracce portano

a Mosca anche secondo Kaspersky, società leader nella sicurezza cyber con base proprio nella capitale russa, che ha analizzato le tecniche dell’attacco. Un rapporto degli esperti dell’azienda ha rivelato che la backdoor utilizzata “ricorda da vicino un malware legato al gruppo hacker Turla, che secondo le autorità estoni ha operato a nome del servizio segreto russo Fsb”. Si tratta di un gruppo con alle spalle due decenni di attività e un palmares eccezionale: attacchi contro un Parlamento nel Caucaso, due ministeri degli Esteri europei e perfino il Pentagono nel 2008. Secondo gli analisti e i servizi segreti statunitense è uno dei tanti bracci armati nell’arena cibernetica dell’Fsb, il servizio segreto russo fondato da Boris Eltsin nel 1995. Troppe le somiglianze fra l’attacco alle agenzie americane e il malware Tulsa: “Il modo in cui entrambi i malware hanno tentato di oscurare le loro funzioni dagli analisti di sicurezza, come gli hacker hanno identificato le loro vittime e la formula usata per calcolare i periodi in cui i virus rimangono dormienti cercando di evitare di essere scoperti”, ha spiegato l’agenzia Reuters. Troppe anche per Costin Raiu, capo della ricerca globale di Kaspersky, che ha spiegato, pur senza escludere la possibilità di un false flag, che tre somiglianze “sono più di una coincidenza”.

L’attacco

“Significativo e continuo”. Così, il 16 dicembre, con una nota ufficiale di tre agenzie (Fbi, Intelligence nazionale e la Cybersecurity and infrastructure security agency) gli Stati Uniti definivano l’attacco diretto al cuore dell’americana, una massiccia campagna di hacking della portata fino ad allora solo percepita. Immediata l’istituzione da parte delle tre agenzie di

un “Cyber unified coordination group” per coordinare la risposta del governo, mentre il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Robert O’Brien, interrompeva il suo viaggio in Europa per rientrare nella capitale e gestire il dossier.

Il colpo

Tra i duri editoriali del Washington Post e le indiscrezioni delle agenzie di stampa, nei giorni seguenti sono aumentati gli indizi di colpevolezza per la Russia e si è aperto il vaso di pandora delle agenzie colpite: Tesoro, Commercio, Homeland security, Centro per la prevenzione delle malattie (che si occupa alla lotta al Covid), Agenzia per l’energia e per il nucleare, Pentagono, Fbi, National security agency. Come è stato possibile? Attraverso un malware sul software di gestione delle

reti aziendali Orion, prodotto dalla texana SolarWinds e colpito dall’installazione di una backdoor nelle reti interne dei clienti, circa 18mila, tra cui diversi colossi privati (come Microsoft e Cisco).

Le accuse

A inizio gennaio il Cyber unified coordination group ha definito come “probabilmente russa” l’origine dell’hackeraggio. Pochi giorni dopo è arrivata la sponda di Kaspersky, secondo il quale la campagna d’attacco avrebbe fatto ricorso a una backdoor che “richiama da vicino un malware legato al gruppo hacker Turla, che secondo le autorità estoni ha operato a nome del servizio segreto russo Fsb”.

Il bureau di Pompeo

Il 7 gennaio il segretario di Stato statunitense, Mike Pompeo, ha annunciato

l’istituzione di un bureau per Cyber-space security and emerging technologies (Cset) all’interno del dipartimento di Stato. Lo ha definito un passo “fondamentale, poiché le sfide alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti presentate da Cina, Russia, Iran, Corea del Nord e altri concorrenti e avversari nelle tecnologie emergenti non sono che aumentate da quando il dipartimento ha notificato al Congresso nel giugno 2019 la sua intenzione di creare il Cset”. L’ufficio (che ha destato qualche perplessità tra i dem per un’istituzione che non è passata dal Congresso) si occuperà della protezione del cyber-spazio e delle tecnologie critiche, della riduzione del rischio di conflitti informatici e della sfida strategica posta dai rivali degli Stati Uniti in questo particolare ambito.

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La risposta a un attacco ciberneticoL’utilizzo della tecnologia cyber come strumento offensivo strategico pone il delicato interrogativo sulla sua natura giuridica quale “attacco armato” suscettibile di legittimo contrattacco con qualunque altro apparato difensivo, comprese le armi convenzionali. Se da una parte è innegabile la natura invasiva di un attacco digitale, l’eccessiva estensione delle risposte “possibili” espone la comunità internazionale a una pericolosa instabilità

BARBARA SCOLARTPhD, ufficiale del Corpo di commissariato dell’Esercito italiano

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Digitando l’espressione “attacco cyber” nel più noto tra i motori di ricerca sono restituiti 988mila risultati, scorrendo i quali si nota che l’espressione è indistintamente riferita a operazioni malevole rivolte contro individui, aziende, Stati per fini che vanno da quelli puramente criminali a quelli terroristici, dallo spionaggio all’attivismo, allo svolgimento di operazioni militari. Nel diritto internazionale, tuttavia, il termine “attacco” non è altrettanto generico, in quanto ha implicazioni giuridiche di rilievo sia nella disciplina dell’uso della forza sia in quella dei conflitti armati.Dal primo punto di vista, ci si può chiedere se un attacco cyber sia un’ipotesi di attacco “armato”, al quale l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite riconduce l’unica fattispecie legittima di uso della forza, vale a dire il diritto naturale di autodifesa individuale o collettiva. La questione è rilevante perché l’invocazione della legittima difesa giustifica operazioni militari cinetiche e una dilatazione eccessiva del novero delle condotte che possono essere qualificate come attacco armato esporrebbe la comunità internazionale al rischio di una pericolosa instabilità. La Carta non offre una definizione di cosa debba intendersi per attacco armato ma, nel suo noto

parere sulla liceità dell’uso delle armi nucleari, la Corte internazionale di giustizia ha precisato che l’articolo 51 non rileva il tipo di arma impiegato per l’attacco. Ora, se vi è un generale consenso sul fatto che per arma debba intendersi qualunque strumento idoneo a produrre conseguenze violente su persone e cose, si ammette altresì che ciò non debba necessariamente avvenire con un impatto fisico, attraverso il rilascio di energia cinetica, né che lo strumento impiegato debba essere stato appositamente ed esclusivamente creato per offendere, giacché, diversamente, non potrebbero essere considerate armi strumenti non cinetici e dual-use quali le armi biologiche e chimiche né sarebbero ritenuti mezzi di combattimento gli strumenti di guerra elettronica. Prescindendo dunque dal modo in cui lo strumento offende, può ammettersi che codici, software e hardware utilizzati per l’esecuzione di attacchi cyber siano armi che dispiegano i propri effetti attraverso flussi di dati. Se l’arma è tale per i suoi effetti e non per il suo funzionamento, occorre chiedersi quali effetti possano produrre gli attacchi cibernetici e se essi possano mai assimilarsi a quelli provocati dalle armi convenzionali o dalle armi di distruzione di massa. A questo riguardo è

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interessante notare che gli unici effetti diretti di un attacco cyber si verificano sul computer, sul sistema informatico o sulla rete attaccati e consistono tipicamente nella cancellazione, corruzione o modifica dei dati o del software oppure nella disruption del sistema; le altre conseguenze sono solo secondarie e indirette e si verificano dapprima sulle infrastrutture gestite dal sistema o dalla rete attaccati, con il danneggiamento totale o parziale o la distruzione dell’infrastruttura stessa, e poi sulle persone, che possono essere colpite dalla distruzione o dal malfunzionamento del sistema o dell’infrastruttura attaccati. Benché i danni materiali ai beni, la perdita di vite umane o il ferimento di persone non siano mai gli effetti primari di un attacco cyber, difficilmente si dubiterebbe, ove si verificassero, di trovarsi davanti a un’ipotesi di attacco armato. Si pensi, per esempio, all’attacco ai sistemi informatici che in un ospedale presidiano il supporto vitale dei degenti; alla disattivazione del sistema di controllo di una diga che abbia come conseguenza l’inondazione di vaste aree abitate; alla compromissione dei sistemi di controllo del traffico aereo o all’induzione della fusione del nocciolo di un reattore nucleare cui segua l’esplosione e il rilascio di materiale radioattivo in zone densamente

popolate. Al di fuori di queste ipotesi è da escludere che attacchi cyber-disruptive, ad esempio, delle capacità industriali o dei mercati finanziari e monetari giustifichino la legittima difesa. Nella prospettiva del diritto internazionale umanitario dei conflitti armati (Diu), l’attacco è qualunque atto “di violenza” contro l’avversario, a carattere sia offensivo sia difensivo (articolo 49 del primo Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949): l’interpretazione di cosa lo costituisca in concreto è cruciale perché è alle sole operazioni militari qualificate come attacchi che il Diu applica le regole derivanti dai principi di distinzione, proporzionalità e precauzione che offrono una protezione generale alle persone civili e ai beni di carattere civile, gravando i comandanti di specifici doveri nella pianificazione ed esecuzione degli attacchi e sancendone la responsabilità penale per crimini di guerra in caso di violazioni. Si è visto che gli attacchi cyber non possono mai direttamente ferire e uccidere persone o causare danni a beni, dunque anche ai fini del Diu se ne devono considerare i prevedibili effetti indiretti e ritenere di conseguenza vietate le ipotesi di attacco cyber che si traducano nell’impossibilità di funzionamento di un ospedale o nel rilascio di forze pericolose.

L’autodifesa OnuL’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite sancisce che l’unica evenienza per la quale si può ricorrere all’uso legittimo della forza, cioè il diritto naturale di autodifesa individuale o collettiva, è l’attacco “armato”. Definire, pertanto, la natura di un attacco cyber diventa fondamentale per stabilire la liceità o meno di un contrattacco.

Cos’è un’arma?Sebbene non ci sia una definizione univoca o ufficiale di cosa può essere considerato un’arma, il consenso generale identifica quale “arma” qualunque strumento atto a produrre conseguenze violente su persone o cose, a prescindere dalle sue caratteristiche particolari o lo scopo per cui era stato originariamente creato.

La natura cyberLa natura particolare del cyber richiede una riflessione ulteriore sulle sue caratteristiche: se da una parte un attacco cyber non ha normalmente conseguenze dirette sulle persone o le cose, è innegabile che gli effetti indiretti possono essere drammatici, come l’attacco a un ospedale o l’induzione di una fusione a un reattore nucleare.

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Anche le minacce ibride aumentanoOggi assisitamo a un aumento di attacchi ibridi che si muovono per motivi economici, di attivismo o di pura strategia militare. L’obiettivo è sempre raggiungere la superiorità militare e imporre la propria deterrenza nel “quinto dominio”: il dominio cyber

MARCO BRACCIOLIco-direttore Cybersec della Fondazione Icsa

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È fuor di dubbio che la pandemia, a causa del massiccio ricorso allo smart working da parte delle aziende e delle pubbliche amministrazioni, tra le quali in particolare la Difesa, ha fortemente allargato la base di attacco cyber potenziale e molti recenti episodi critici ci restituiscono l’immagine di un mondo digitale insicuro. Portando l’attenzione sugli aspetti militari del fenomeno, al di là della cyber-warfare (cioè la guerra condotta via cyber tra due attori statali, di cui ne è un esempio recente lo scontro in corso tra Iran e Stati Uniti), aspetto molto più strisciante e occulto del problema è la crescita della “minaccia ibrida”, i cui effetti si concretizzano in disparità e disagio sociale, stagnazione economica, informazione ambigua, sistema scolastico vulnerabile, frammentazione dei servizi essenziali e cambiamento improvviso dello stile di vita.A tal proposito è utile fissare alcuni punti preliminari. In Cina il libro Guerra senza restrizioni di Qiao Liang e Wang Xiangsui ipotizzò, già nel 1999, la possibilità di coinvolgere nei conflitti armati fattori tradizionalmente considerati esterni al mondo militare: una guerra non convenzionale portata avanti attraverso tutti gli ambiti della società per ridurre il gap tra potenze più o meno avanzate.

Nel 2013 il capo di Stato maggiore dell’esercito russo, generale Valery Gerasimov, riprendendo la logica di Qiao e Wang, sviluppò la cosiddetta “dottrina Gerasimov” secondo la quale in uno stato di guerra costante, in cui si utilizzano mezzi non militari per raggiungere obiettivi politici e strategici in modo più efficace che attraverso le armi, si devono trovare e sfruttare tutte le vulnerabilità degli avversari in ogni momento e in ogni campo.La “minaccia ibrida” è una minaccia messa in atto da avversari in grado di impiegare simultaneamente mezzi convenzionali e non convenzionali, adattandoli per conseguire i propri obiettivi. Gli attori che ne impiegano gli strumenti, sebbene molto diversi tra loro, sono capaci di unire le proprie forze e capacità per conseguire i propri obiettivi, non necessariamente comuni. Tra questi attori troviamo criminali, contractor, attivisti, terroristi, pirati, banditi, delinquenti comuni, gruppi di hacker sponsorizzati da Stati avversari che lottano per il predominio del cyber-space. Nella pratica le minacce ibride, sfruttando le vulnerabilità proprie del target, generano ambiguità e ostacolano i processi decisionali allo scopo di generare sorpresa, prendere l’iniziativa, seminare l’inganno e l’ambiguità, evitare l’attribuzione

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dell’azione e massimizzare il disconoscimento della responsabilità per le azioni aggressive intraprese. Secondo il “Joint framework on countering hybrid threats” la minaccia ibrida è la combinazione di attività coercitive e sovversive, di metodi convenzionali e non (diplomatici, militari, economici e tecnologici) che possono essere usati rimanendo sotto la soglia dello scontro bellico, integrate da operazioni covert e overt e messe in atto da forze regolari sempre al di sotto della soglia di aperta ostilità.Per quanto riguarda gli attori, concentrandosi su quelle costole operative della cosiddetta difesa attiva o dell’attacco difensivo, questi sono principalmente enti al servizio dei diversi cyber commands militari impegnati in vere e proprie black ops. Tra gli attori più conosciuti di gruppi di hacker senza bandiera ci sono gli Equation group, conosciuti anche come Tailored access operation (Tao), così come gli Shadow brokers, i Red anons in Albania e i Lizard squad. In campo governativo sono rinomati il Syrian electronic army del governo siriano, la Tarh andishan iraniana, di cui ho parlato in un articolo precedente su queste colonne (Airpress 112). Altri sono l’Office 121 del governo nordcoreano e l’Unità 74455 del Gru russo (anche chiamato Fancy bear

e Cozy bear), specializzate nella manipolazione elettorale contro gli Stati Uniti ma che operano anche in Germania, Francia, Georgia e Ucraina. L’unità 8200 di Israele è orientata principalmente, ma non solo, al contrasto dell’Iran e a questa si oppone la #OPIsrael palestinese. L’unità 61398 della Cina, l’unica potenza che ammette di avere un reparto cyber ibrido, è particolarmente interessata allo spionaggio industriale: basti vedere quanto un caccia Chengdou 22 assomigli a un caccia F35 americano per capire il loro mestiere. Solo i difensori più veloci possono superare un attacco da parte di questo tipo di attori, con la regola del cosiddetto “1-10-60”: 1 minuto per la detection, 10 minuti per investigare e 60 minuti per rimediare e contenere l’attacco.In conclusione, tra l’effetto strutturale del Covid, l’allargamento della base di attacco dovuta allo smart working, un certo abbassamento della guardia difensiva e il disagio generale, ci troviamo a constatare un aumento della bellicosità di questa genia tecnologica che si muove attaccando per motivi economici, di attivismo o di pura strategia militare. L’obiettivo è sempre raggiungere la superiorità militare e imporre la propria deterrenza nel “quinto dominio”: il dominio cyber.

Cos’è un attacco ibrido

Secondo il “Joint framework on countering hybrid threats” la minaccia ibrida è la combinazione di attività coercitive e sovversive, di metodi convenzionali e non (diplomatici, militari, economici e tecnologici) che possono essere usati rimanendo sotto la soglia dello scontro bellico, integrate da operazioni covert e overt e messe in atto da forze regolari sempre al di sotto della soglia di aperta ostilità.

Chi sono i nuovi corsari

Equation group, Shadow brokers, Red anons, Lizard squad, Fancy bear insieme ai più anonimi Office 121, unità 8200 e unità 61398 sono solo alcuni dei nomi più famosi di gruppi specializzati nell’utilizzo del cyber quale minaccia ibrida. A metà strada tra tecnici governativi e hacker, sono i nuovi cyber-corsari, eroi per il proprio Paese, comuni criminali per il nemico.

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Rafforzare l’autonomia tecnologicaSe l’obiettivo è di minimizzare i rischi di devastanti attacchi informatici e perseguire la massima protezione delle informazioni strategiche del nostro Paese, come ad esempio i dati sanitari dei cittadini, la strada maestra è rappresentata dal rafforzamento della sovranità tecnologica e digitale

TOMMASO PROFETAcapo della Divisione cyber-security di Leonardo

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Tra smart working e servizi digitali è evidente come la pandemia abbia ampliato la superficie d’attacco disponibile ai cyber-criminali. L’aumento esponenziale delle attività malevoli registrato nell’ultimo anno ha riproposto con forza il tema della protezione dei dati sensibili dei cittadini e di quelli strategici nazionali più in generale, suggerendo un approccio unitario nella strategia di contrasto. Appare dunque chiaro come l’accurata identificazione, definizione, implementazione e il costante aggiornamento di adeguate misure di sicurezza, tecniche e procedurali, accompagnate da una formazione adeguata sulle minacce e le relative tecniche di attacco, possano ridurre significativamente il rischio di compromissioni informatiche verso infrastrutture tecnologiche aziendali e pubbliche. A ciò va affiancata un’accurata selezione di sistemi hardware e software in grado di assicurare i livelli di cyber-security idonei attraverso un rigoroso e trasparente processo di certificazione e validazione tecnologica delle infrastrutture adottate. Tutto ciò non è di per sé sufficiente. I provvedimenti normativi di recente adottati hanno indicato la via da seguire; la loro rapida attuazione sta favorendo la creazione di un ecosistema di protezione cibernetica avanzato, nella direzione di una partnership pubblico-privata in grado di favorire lo sviluppo di un’autonomia tecnologica nazionale ed

europea. Sul punto, anche la Commissione europea ha evidenziato quanto sia importante la disponibilità di un’ampia gamma di tecnologie digitali per le nostre economie e per la società in cui viviamo. I dati sono al centro della trasformazione digitale e rappresentano una risorsa essenziale per un’Europa più competitiva e sostenibile. Perché i dati possano essere analizzati, archiviati e consultati nel rispetto dei valori fondamentali europei è importante che anche l’Unione promuova, a beneficio di cittadini e tessuto economico, una strategia industriale ambiziosa, in grado di rafforzare l’autonomia tecnologica e la sovranità digitale nel proprio ecosistema, favorendo così lo sviluppo delle aziende in questo settore strategico. Nello specifico contesto italiano, se l’obiettivo è di minimizzare i rischi di devastanti attacchi informatici e perseguire la massima protezione delle informazioni strategiche del nostro Paese, come ad esempio i dati sanitari dei cittadini, la strada maestra è rappresentata dal rafforzamento della sovranità tecnologica e digitale. In tal senso Leonardo è un asset strategico per il Paese, motore di sviluppo e innovazione, e campione dell’industria nazionale nel settore della protezione delle infrastrutture critiche. Inoltre, ben prima della pandemia, aveva già definito la propria strategia di lungo periodo “Be

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tomorrow-Leonardo 2030” per cogliere le sfide legate alla rivoluzione digitale attraverso un percorso di crescita, innovazione e trasformazione del proprio business. Leonardo è pertanto il candidato naturale ad assumere un ruolo di guida e di garanzia verso il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi di sovranità digitale e cyber-security. Si badi bene, non facendo leva su una presunta posizione di rendita, ma forte della propria storia e delle peculiari competenze maturate sul campo, che si potrebbero sintetizzare in tre parole: innovazione (Leonardo investe risorse significative in progetti di ricerca e sviluppo), know how (Leonardo è pienamente in grado di ideare, implementare e fornire soluzioni distintive basate sulla approfondita conoscenza della minaccia cibernetica con metodologie che comprendano security by design e cyber-resilience dei propri prodotti e servizi) e affidabilità, essendo il più grande operatore privato nazionale abilitato a trattare informazioni classificate. Proteggere le informazioni critiche nazionali significa proteggere anche l’intera supply chain digitale per evitare che un attacco possa essere sferrato sfruttando gli elementi più vulnerabili nel ciclo di creazione del valore. L’aggregazione di un ampio tessuto produttivo di piccole e medie imprese attorno a un progetto di ampio respiro avrebbe infine

ricadute positive per l’economia e l’occupazione. Mitigare i rischi di un attacco e aumentare il livello di resilienza dell’ecosistema digitale non significa solo intervenire con procedure di sicurezza adeguate e con approcci, soluzioni e tecnologie certificate per individuare gli attacchi e neutralizzarne gli effetti. È necessario operare su un tessuto fertile di cultura e di competenze della sicurezza che siano condivise e sinergiche nel territorio nazionale. Perché avere una cultura della sicurezza significa per un Paese essere in grado di riconoscere i rischi cibernetici a livello centrale, ma anche di singola organizzazione e realtà aziendale. Significa saperli comprendere per capire quali misure adottare e quali tecnologie sviluppare per poter affrontare l’emergenza, rendendo sempre più organici gli apporti che il tessuto produttivo nazionale, le università e i centri di ricerca possono esprimere. Al riguardo, se le infrastrutture digitali e le reti cyber sono elementi sempre più importanti nello sviluppo industriale del prossimo futuro, non occorre solo investire nell’addestramento del personale di sicurezza delle infrastrutture critiche nazionali pubbliche e private, ma anche intervenire nella formazione delle nuove generazioni, le quali saranno chiamate a fornire capacità e conoscenze per creare una struttura nazionale affidabile, sicura e resiliente.

Il contesto

È spesso accaduto che gli utenti in smart working abbiano operato su dotazioni informatiche fuori da perimetri di sicurezza controllati, utilizzando reti e apparati consumer non adeguatamente protetti o con possibili problemi di vulnerabilità. In alcuni casi, inoltre, per indisponibilità di dotazioni fornite dai datori di lavoro o a causa dell’urgenza, sono stati utilizzati apparati personali privi dei sistemi di sicurezza implementati nelle infrastrutture informatiche pubbliche o private e sono state utilizzate connessioni attraverso Vpn gratuite, non tutte in grado di garantire adeguati livelli di protezione.

Le minacce

Lo smart working ha favorito lo sviluppo di mirate campagne di attacchi informatici che hanno sfruttato, tra altri, il tema Covid-19 per convincere le potenziali vittime a scaricare documentazione sul virus contenente malware o a cliccare su link in grado di infettare i propri dispositivi. Appare dunque chiaro che identificare, definire, implementare e aggiornare costantemente adeguate misure di sicurezza, tecniche e procedurali, possa ridurre significativamente il rischio di compromissioni informatiche verso infrastrutture tecnologiche aziendali e pubbliche.

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Fragilità e resilienzaNel 2020 segnato dal Coronavirus gli attacchi cyber sono più che raddoppiati. Tra debolezze e vulnerabilità da colmare, c’è anche un’eredità positiva per l’anno che verrà: la piena consapevolezza dell’urgenza di un’indipendenza tecnologica europea e di contromisure adeguate di cyber-difesa per aziende e istituzioni

DOMITILLA BENIGNIdirettore generale di Elettronica e presidente di Cy4Gate

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Se dovessimo mettere un’etichetta al 2020, scriveremmo “l’anno dei dati”. Complice la pandemia, l’anno che abbiamo alle spalle ha rivelato in pieno gli scenari della data society. Fino a quel momento la riflessione circa la dominance dei dati e la loro protezione era una questione circoscritta ad addetti ai lavori e studiosi. Oggi ogni imprenditore, così come ogni lavoratore e ogni studente, è consapevole dei prodigi e dei rischi della digitalizzazione. Il recente black out di novanta minuti di Google (che ha paralizzato il mondo intero) è abbastanza paradigmatico in tal senso. Nel 2020 gli attacchi cyber sono più che raddoppiati e tra le vittime ci sono state grandi aziende, personaggi famosi, istituzioni ed enti di alto valore simbolico come l’Agenzia europea del farmaco e lo Spallanzani, solo per citarne due. L’aumento del ricorso allo smart working e, in generale, la necessità di affidare alla digitalizzazione una fetta importante dei processi aziendali e della vita personale dei cittadini, dagli acquisti all’intrattenimento, hanno offerto un piatto particolarmente ghiotto ai criminali informatici, condito dalla mancanza di adeguata consapevolezza sui rischi delle proprie condotte da parte degli utenti. Fatti che hanno reso evidente quanto il fattore umano sia l’anello debole di questa catena. Altrettanto evidente è stata la mancanza di adeguati sistemi di protezione

periferica da parte delle aziende e dei governi. È emersa inoltre, con una certa evidenza, la bipolarizzazione del cyber-crime, da un lato quello più semplice a opera di criminali “comuni” che hanno semplicemente trasferito le proprie condotte dal mondo reale a quello virtuale; dall’altro quello più sofisticato ai danni di nazioni e grandi organismi per esfiltrare informazioni sensibili, o per alterarle, minando la credibilità dei dati e dei loro detentori, i cosiddetti trust attack. Pensiamo inoltre ai recenti deep fake che hanno avuto come protagonisti personaggi politici e istituzionali, diventati inconsapevolmente attori di copioni scritti da hacker. Nell’anno 2020 i dati sono diventati le nuove armi e gli hacker i nuovi 007, elementi non irrilevanti se pensiamo che la data economy avrà, secondo la Commissione europea, un valore di 829 miliardi di dollari nel 2025. È soprattutto la seconda tipologia di cyber-crime a rappresentare il nemico più temibile per le nostre economie e per le nostre democrazie. Tuttavia, nell’assoluto sconforto che il 2020 ci ha appena lasciato, c’è anche un’eredità positiva per l’anno che verrà: la piena consapevolezza dell’urgenza di un’indipendenza tecnologica europea e di contromisure adeguate di cyber-difesa per aziende e istituzioni. Non sono poi mancate altre notizie positive in quest’anno funesto. Vanno annoverate tra queste due fatti di grande rilievo:

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la costituzione del Perimetro di sicurezza cibernetica nazionale e il lancio di una Strategia europea di sicurezza cibernetica. Inoltre, nella dialettica mondiale sulla gestione e protezione dei dati, è finalmente arrivata una risposta europea sul cloud, fondamentale per le implicazioni economiche e geopolitiche che presenta. Su GaiaX, cui porterà il proprio contributo anche Cy4Gate, circoleranno informazioni sensibili di governi, aziende e persone, e tutto questo avverrà con un cappello legislativo europeo di protezione dei dati. Guardando al futuro, ci aspetta un’ulteriore sfida infrastrutturale in termini di sicurezza, da affrontare nel modo opportuno: il 5G. Il dibattito è ancora in corso e molto acceso. Usa e Cina stanno decidendo il proprio futuro tecnologico e geopolitico su questa partita, perché il 5G determinerà l’utilizzo su larga scala di tecnologie come robotica, intelligenza artificiale e Internet of things, nonché la loro definitiva applicazione nei settori delle telecomunicazioni, della produzione industriale, della sicurezza, della cultura e della sanità. Uno degli aspetti di maggiore attenzione in tale ambito è quello relativo all’aumento vertiginoso dei dispositivi connessi (che potrebbe arrivare a settanta miliardi entro il 2025) e con esso dei rischi legati all’accesso alle informazioni e alle possibili vulnerabilità dei sistemi. Con l’avvento del 5G gli operatori dovranno aggiornare

la sicurezza, distribuendo gli strumenti di difesa su tutto il perimetro della rete. È un cambiamento di paradigma fondamentale che non dovrà trovarci impreparati. In passato la garanzia sulla sicurezza avveniva sui nodi centrali; oggi sono le periferie i punti di attacco più frequenti, perché più deboli. Le infrastrutture più datate infatti non sono state pensate attraverso un approccio security by design e questo non è un tema che deve preoccupare solo i gestori di centrali elettriche, di aeroporti, ma qualsiasi imprenditore, persino le industrie delle bevande, come abbiamo letto nelle cronache più recenti. Nell’impossibilità di immaginare sistemi completamente e per sempre sicuri, l’unica strategia possibile è l’investimento nella resilienza cyber a tutti i livelli. In tal senso il Recovery fund può rappresentare un punto di svolta. Non possiamo infine non considerare come centrale il tema delle competenze nazionali. Si parla da più parti di autonomia strategica, che deve essere delle imprese ma anche dei cervelli, che diminuisca la dipendenza da Paesi terzi extra-Ue e comporti investimenti nelle risorse interne, con un impegno comune tra pubblico e privato per far fronte alle minacce globali nel governo dei dati sensibili. Da ciò dipenderanno la sicurezza e la prosperità delle nostre democrazie, delle nostre economie e dei nostri cittadini.

RischiLo smart working e la necessità di affidare alla digitalizzazione una fetta importante dei processi aziendali e della vita personale dei cittadini hanno offerto un piatto particolarmente ghiotto ai criminali informatici, condito dalla mancanza di adeguata consapevolezza sui rischi delle proprie condotte da parte degli utenti.

Sfida 5GUno degli aspetti di maggiore attenzione nell’ambito del 5G è relativo all’aumento vertiginoso dei dispositivi connessi (che potrebbe arrivare a settanta miliardi entro il 2025) e con esso dei rischi legati all’accesso alle informazioni e alle possibili vulnerabilità dei sistemi.

Occasione RecoveryNell’impossibilità di immaginare sistemi completamente e per sempre sicuri, l’unica strategia possibile è l’investimento nella resilienza cyber a tutti i livelli. In tal senso il Recovery fund può rappresentare un punto di svolta.

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poterli intravedere. Se veramente si ritiene indispensabile la figura dell’autorità delegata, bisogna allora modificare la legge, nel senso di obbligare il presidente del Consiglio a nominarla. Sconsiglieremmo tuttavia chiunque, in qualsiasi governo, di imporre al presidente un’autorità delegata di un partito diverso dal suo. Politicamente è possibile farlo, in sede di trattativa di governo, ma la storia dell’Intelligence insegna che il rapporto tra numero uno e numero due in questo campo deve essere fondato sulla fiducia più completa, scarsamente compatibile con una diversa appartenenza politica. Inoltre, il dibattito sul modo migliore per promuovere in Italia ricerca e sviluppo industriale nel campo della sicurezza cibernetica in un quadro, necessario e per altro già tracciato, di collaborazione europea, è troppo importante per finire nel frullatore di una crisi di governo. Tutte le forze politiche devono ragionarne insieme, attorno a un tavolo lontano dallo strepito delle istanze di parte. Quel tavolo si trova al sesto piano di palazzo San Macuto, la sede del Copasir.

Quando Matteo Renzi ha aperto il vaso di Pandora dei suoi j’accuse politici indirizzati al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, tra i principali argomenti (accanto all’utilizzo del Mes) è saltato fuori “l’uso discutibile dei servizi segreti”. Per la prima volta nella storia della Repubblica, l’Intelligence entra tra i temi centrali di una crisi di governo, non perché ne siano state denunciate o accertate deviazioni dai compiti istituzionali, con l’immancabile corredo di depistaggi, ma perché il governo ha utilizzato il Dis, l’Aise e l’Aisi in una maniera che ha fatto storcere il naso al senatore di Rignano (e non solo a lui). Un bel passo avanti, per un Paese che durante la seconda metà del secolo scorso con deviazioni e depistaggi ha dovuto ripetutamente fare i conti. Di ciò va dato atto sia ai legislatori del 2007, sia a quanti in questi anni hanno lavorato per garantire la sicurezza e gli interessi nazionali. Tre sono le questioni direttamente o indirettamente richiamate dall’ex presidente del Consiglio: primo, gli incontri “segreti” dell’estate 2019 tra i vertici tecnici della nostra Intelligence e il ministro della Giustizia statunitense; secondo, l’uso “notturno” e disinvolto della decretazione d’urgenza per modificare estemporaneamente la disciplina vigente sulle nomine dei

vertici o per istituire la controversa fondazione sulla sicurezza cibernetica, da qualcuno dipinta come una sorta di nuova spectre incombente sull’intero sistema di informazione per la sicurezza; terzo, la mancata nomina dell’autorità delegata che avrebbe potuto sollevare, a detta di molti, il presidente del Consiglio dagli impegni legati alla gestione quotidiana della politica dell’informazione per la sicurezza, la cui “alta direzione” e “responsabilità generale” sono comunque attribuiti dalla legge “in via esclusiva” allo stesso presidente, assieme alle decisioni sul segreto di Stato, alle nomine dei vertici del comparto e infine, alla determinazione dei finanziamenti annuali destinati al suo funzionamento. In questo complesso pacchetto si mescolano questioni di merito (è opportuno far incontrare i capi dei nostri apparati di informazione per la sicurezza con il ministro della Giustizia di un Paese alleato?) e di metodo, che attengono alle regole giuridiche e risultano, in conclusione, preponderanti rispetto alle prime. Al momento di chiudere questa nota, qui al Check-point Charlie non abbiamo la più pallida idea di come si concluderà la crisi di governo, però almeno due spunti utili per il futuro dibattito e, semmai, per il futuro governo, ci sembra di

Se l’Intelligence conquista la politica

di ADRIANO SOI*Check

–point Charlie

*docente di Intelligence e sicurezza nazionale presso la Scuola di Scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze

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PENAV

enav.it

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local

BARI STUDIA LA MOBILITÀ AEREA URBANA

La mobilità aerea urbana (Uam) è il sistema di trasporto aereo che utilizzerà aeromobili automatizzati per trasportare passeggeri o merci all’interno delle aree urbane. A Bari, in Portogallo e in Polonia saranno effettuate delle attività di condivisione di soluzioni innovative all’interno del progetto europeo Assured-Uam per la sicurezza del traffico aereo urbano, puntando all’integrazione nelle città di sistemi innovativi di controllo del traffico aereo e lo sviluppo di norme di riferimento.

THALES ALENIA SPACE SULLA LUNA

Thales Alenia Space, la joint venture tra Thales e Leonardo, ha firmato il contratto con Northrop Grumman per sviluppare il modulo pressurizzato Halo (Habitation and logistics outpost), la prima cabina abitabile per gli astronauti del Lunar Gateway, la stazione spaziale lunare che sarà lanciata verso il nostro satellite entro fine 2023. Il modulo servirà agli astronauti per preparare e organizzare le loro missioni di esplorazione della superficie lunare nel contesto del programma Artemis della Nasa.

I PREMI DI AMCHAM ITALY

AmCham Italy premia le eccellenze italiane e statunitensi che nell’ultimo anno si sono distinte per gli investimenti operati sull’asse transatlantico, contribuendo a rafforzare il legame che unisce l’Italia agli Stati Uniti. Le aziende italiane premiate con i Transatlantic Awards 2020 sono state Fincantieri, Gruppo Menarini, Tenaris e Webuild. Per la prima volta dopo quattordici edizioni l’evento si è svolto in modalità digitale, nel rispetto delle disposizioni governative relative al contenimento della pandemia Covid-19.

L’AERONAUTICA SOSTENIBILE

Siglato presso Teledife un contratto fortemente innovativo attraverso la formula del partenariato pubblico-privato per ridurre il consumo energetico e il relativo impatto ambientale dell’aeroporto militare di Pisa, sede della 46ª Brigata aerea dell’Aeronautica militare. Il contratto, firmato con Enel, Leonardo ed Enershare hub prevede la riqualificazione energetica delle infrastrutture, degli impianti del servizio di navigazione aerea e del sistema di sorveglianza radar.

A TORINO L’ANTENNA PER EUCLID

Thales Alenia Space ha consegnato l’antenna ad alto guadagno in banda K presso il suo stabilimento di Torino, dove sarà integrata al resto del satellite Euclid. La divisione spagnola della joint venture tra Thales e Leonardo è responsabile del sistema di telecomunicazioni dello spazio profondo che comprende il pannello di comunicazione consegnato nel 2019 e l’antenna ad alto guadagno. La missione Euclid dell’Agenzia spaziale europea (Esa), prevista nel 2022, servirà a comprendere meglio l’espansione dell’universo.

RYANAIR RAFFORZA LA FLOTTA NAPOLETANA

Ryanair ha annunciato che baserà un ulteriore aeromobile all’aeroporto di Napoli come parte del suo operativo per l’estate 2021, offrendo 46 rotte per un totale di 150 voli settimanali e una crescita del 20% del traffico Ryanair sullo scalo campano. Il nuovo apparecchio porterà la flotta napoletana della società a quattro aerei, che assicureranno il collegamento con le principali mete turistiche europee e nazionali. La nuova disposizione creerà oltre 1.920 nuovi posti di lavoro.

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ENAV A IMPATTO ZERO

Il 17 dicembre scorso, in occasione della terza edizione del Sustainability day, Enav ha presentato le sue iniziative per implementare la sostenibilità ambientale facendo leva su due pilastri: l’innovazione tecnologica e la professionalità del personale. L’ambizioso obiettivo della società è quello di ridurre del 23% le emissioni di CO2 nel 2021, fino all’80% nel 2022, in anticipo di quasi dieci anni rispetto a quanto previsto dalle linee-guida dell’Unione europea.

BARI HUB AEROSPAZIALE

Parte la collaborazione tra il Distretto tecnologico aerospaziale (Dta), il ministero dello Sviluppo economico, il comune di Bari e l’Enac per lo sviluppo del Drone living lab, un progetto con il quale rafforzare l’ambiente di ricerca per lo sviluppo di servizi e tecnologie aerospaziali per le smart cities. Il Dta è stato anche selezionato per partecipare alla gara promossa dalla Commissione europea che si concluderà con l’istituzione dell’European digital innovation hub, una rete di poli dell’innovazione digitale.

L’ASI TI PORTA SULLA LUNA

In occasione del primo lancio di Artemis, la missione Usa con l’obiettivo di far tornare nei prossimi anni gli umani sulla superficie lunare, l’Agenzia spaziale italiana (Asi), in accordo con il ministero dell’Istruzione, offre l’opportunità agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado di inviare un proprio contributo audio, video o scritto sulla propria idea di spazio. L’iniziativa è quella di potenziare la conoscenza e la cultura dello spazio tra i giovanissimi italiani.

DA CASORIA, ECCO L’IDROVOLANTE “TASCABILE”

Il Seagull sarà il primo velivolo idrovolante ultraleggero al mondo caratterizzato da un sistema automatizzato di ripiegamento delle ali, una propulsione ibrido-elettrica, un esteso impiego di materiali compositi e di processi di fabbricazione sostenibili. Nato dall’idea del professor Leonardo Lecce, amministratore di Novotech e già docente di Ingegneria aeronautica a Napoli e Brindisi, il velivolo è stato sviluppato e realizzato presso le sedi Novotech di Casoria e Avetrana.

FINCANTIERI INVESTE NELLA SANITÀ

Nasce Fincantieri infrastrutture sociali (Finso), specializzata nella costruzione di strutture sanitarie e fornitura di servizi e tecnologie per l’industria e il terziario. Con questa operazione Fincantieri mette a frutto tutte le proprie competenze da mare a terra e consolida la propria presenza nel campo delle infrastrutture, integrando le sue competenze nell’ambito della lavorazione dell’acciaio e della gestione di una filiera complessa come quella della costruzione navale.

D’ANGELANTONIO ALLA GUIDA DI AIRBUS ITALIA

Serafino D’Angelantonio è il nuovo head of country di Airbus in Italia. In questo ruolo, D’Angelantonio sarà responsabile della strategia complessiva, del business e delle relazioni istituzionali di Airbus in Italia, guidando le divisioni velivoli commerciali, difesa e spazio, ed elicotteri dell’azienda. Nato nel 1968 a Pescara, Serafino D’Angelantonio ha conseguito la laurea in Scienze politiche all’università di Padova e un master in Relazioni internazionali e difesa alla Sorbona di Parigi.

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I PRIMI T-345A ALL’AERONAUTICA

Sono arrivati al 61° Stormo i primi due velivoli da addestramento basico T-345, sviluppati e prodotti da Leonardo. Il jet biposto è totalmente made in Italy, destinato a sostituire la flotta di MB339 della Forza armata, tra i quali quelli della Pattuglia acrobatica nazionale. Il nuovo addestratore sarà impiegato per le fasi 2 e 3 dell’iter formativo. Inizia così il nuovo programma addestrativo che integrerà il 61° Stormo con la International flight training school (Ifts) di Decimomannu.

LEONARDO DRONE CONTEST 2021

Confermata la seconda edizione del Leonardo Drone Contest, la competizione universitaria di intelligenza artificiale unica nel suo genere sul panorama internazionale: un vero e proprio gioco tra droni che, in cooperazione con sensori a terra, interagiranno con la realtà circostante per eseguire diverse operazioni che contribuiranno ad alzare il punteggio. La gara servirà a favorire lo sviluppo di nuove tecnologie legate all’IA applicata ai velivoli unmanned.

SOLUZIONI DIGITALI PER AEROPORTI DI ROMA

Si è concluso il 15 dicembre 2020 il “Born to fly”, il primo hackathon realizzato da Aeroporti di Roma in partnership con l’università di Tor Vergata. Lo scopo della competizione è stato quello di stimolare gli studenti a sviluppare soluzioni digitali che contribuiscano a innovare l’esperienza aeroportuale per i passeggeri. La competizione si è svolta interamente online, dati i vincoli posti dalla pandemia che vede Aeroporti di Roma costantemente impegnata nella prevenzione e nel contenimento del virus.

BRUSSELS AIRLINES ARRIVA A BARI

A partire dal prossimo 5 maggio 2021 Brussels Airlines avvierà il collegamento tra l’aeroporto Karol Wojtyla di Bari e il proprio hub di Bruxelles. Il volo sulla capitale belga sarà operato sino a tutto il 25 settembre con una doppia frequenza settimanale, ogni mercoledì e sabato. Il presidente di Aeroporti di Puglia, Tiziano Onesti, si è dichiarato entusiasta della ripresa operativa in questo momento di grande difficoltà sia per il settore dei trasporti aerei che per quello del turismo in generale.

IL DIGITAL PER LA GESTIONE DEL TERRITORIO

Il Crs4 ha presentato la sua piattaforma digitale in grado di agevolare la gestione delle dinamiche all’interno delle città, chiamato “Ubiquitous digital platform” (UbiDP). La piattaforma permette di coordinare la logistica dei territori e gli eventuali stati emergenziali gestendo dati, immagini, suoni, video da fonti diverse (governativi, cittadini, sensori, Internet) e trasformandoli in informazioni per gestire e monitorare eventi e situazioni anche critiche.

ALITALIA LA PIÙ PUNTUALE D’EUROPA

Nell’anno più critico della storia del trasporto aereo mondiale, Alitalia è risultata la compagnia aerea più puntuale in Europa e la terza al mondo tra le aerolinee non low cost. Nel corso del 2020 oltre il 90% dei voli Alitalia è atterrato in orario, come certificato da FlightStats di Cirium, società che ogni mese stila la classifica di tutte le principali compagnie aeree del mondo. Nel 2019 Alitalia si era classificata seconda in Europa e settima nel mondo.

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global

EMIRATES VOLA CON L’OLIO DA CUCINA

L’Airbus A380 numero 116 di Emirates è atterrato a Dubai il 5 dicembre scorso dopo aver viaggiato alimentato da una miscela composta dal classico jet-fuel e da un carburante sostenibile ottenuto dalla lavorazione di olio da cucina esausto. Si tratta della prima volta in cui questa miscela sostenibile viene utilizzata per alimentare un A380. Gli A380 rimangono le ammiraglie della flotta Emirates e l’iniziativa si inserisce negli sforzi della compagnia indirizzati a ridurre le emissioni del settore aeronautico.

I PROGRESSI SUL FCAS

Airbus ha concluso la fase pilota del progetto “Innovazioni per il Fcas” che mira a coinvolgere nello sviluppo del “Future combat air system” (Fcas) le aziende tedesche non tradizionalmente coinvolte nel settore della difesa: start up, Pmi e istituti di ricerca. Questa iniziativa, lanciata nell’aprile 2020, è stata finanziata dal ministero della Difesa tedesco. Il programma ambisce a favorire le ricadute tecnologiche dal mondo militare a quello civile nell’innovazione dei sistemi aeronautici del futuro.

UN VOLO QUANTISTICO

Il 10 dicembre scorso si è conclusa la “Quantum computing challenge” di Airbus (Aqcc) con la vittoria della squadra italiana della Machine learning reply, azienda leader nell’integrazione di sistemi e servizi digitali parte del gruppo Reply, grazie al suo algoritmo per le configurazioni ottimali di carico degli aeromobili. Con l’aumento dell’efficienza delle operazioni il numero dei voli potrebbe essere ridotto, con un impatto positivo sulle emissioni di CO2, contribuendo alle ambizioni di sostenibilità di Airbus.

EMIRATES: “DUBAI È APERTA”

Dubai è aperta al business e al turismo: è il chiaro messaggio di Emirates in ogni angolo del mondo. Grazie a una collaborazione con il dipartimento del turismo e del commercio, Emirates ha riattivato i voli verso l’hub internazionale di Dubai da oltre cento destinazioni in Africa, Asia, Europa, America, Golfo e Medio oriente. I clienti Emirates che visiteranno la città nel periodo invernale potranno inoltre usufruire di una o due notti gratuite presso l’albergo JW Marriott Marquis.

ETIHAD A IMPATTO ZERO

Etihad si è impegnata ad acquistare le compensazioni di anidride carbonica (carbon offset) per neutralizzare completamente le emissioni di CO2 del proprio aeromobile Boeing 787-10 “Greenliner” relativamente all’intera operatività del 2021. L’iniziativa rappresenta l’inizio del percorso intrapreso nel 2019 volto a ridurre del 50% le emissioni di CO2 entro il 2035 e raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050.

IL PRIMO ATR CARGO PER FEDEX

Atr, joint venture tra Airbus e Leonardo, ha consegnato il 15 dicembre scorso a FedEx Express il primo velivolo turboelica regionale cargo mai realizzato. L’apparecchio è il primo di un ordine per trenta aeromobili, con un’opzione per ulteriori venti, sottoscritto da FedEx con la partnership italo-francese. L’Atr è inoltre il velivolo regionale più efficiente in termini di consumo, sviluppato proprio nell’ottica di rendere il settore aeronautico più sostenibile nel futuro.

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IL 787 SOSTENIBILE DI ETIHAD

L’ecoDemonstrator 2020 entra in servizio dopo un anno di iniziative sulla sostenibilità, avviate in seguito al lancio del programma Etihad Greenliner a novembre 2019 durante il Dubai Airshow. Nell’ambito del programma ecoDemonstrator 2020, sviluppato in partnership con Boeing, NASA e Safran landing systems, il 787 Dreamliner di Etihad è stato utilizzato come banco di prova per accelerare gli sviluppi tecnologici mirati a rendere l’aviazione commerciale più sicura e sostenibile.

LE ARMI LASER ROLLS-ROYCE

Rolls-Royce fornirà il sistema di gestione termica e di alimentazione “ColdFireTM Solutions” per le prove sul campo delle piattaforme a energia diretta di Lockheed Martin. Si tratta di un sistema autonomo, che riduce al minimo il fabbisogno di risorse della piattaforma e alimenterà un sistema Lockheed Martin a energia diretta da 100kw. La tecnologia è stata sviluppata per supportare i clienti militari a soddisfare le loro esigenze di piattaforme a energia diretta potenziate.

DUE H160 ALLA HÉLI-UNION

Héli-Union, operatore francese di supporto tecnico e logistico alle attività di velivoli civili e di Stato in Francia e all’estero, ha firmato con Airbus Helicopters un contratto per l’acquisto di due H160 multi-missione in grado di operare un’ampia gamma di scenari. L’H160 è progettato per svolgere tutte le principali operazioni aeree, dal trasporto off-shore, ai servizi medici d’emergenza, alla ricerca e soccorso, integrando le innovazioni di Airbus Helicopters volte ad aumentarne la sicurezza e la sostenibilità.

AIRBUS A330NEO PER AIR GROENLANDIA

Air Groenlandia è l’ultimo vettore in ordine di tempo ad aver ordinato l’aeromobile widebody A330neo di nuova generazione di Airbus per garantire le operazioni di collegamento tra l’isola artica e la Danimarca a partire dalla fine del 2022. L’Airbus A330neo è un aeromobile di nuova concezione, con un consumo di carburante per poltrona inferiore del 25% rispetto agli aeromobili della generazione precedente.

H135 PER IL SOCCORSO AEREO AUSTRIACO

Öamtc Air Rescue, il servizio di soccorso dell’associazione automobilistica austriaca, ha firmato con Airbus Helicopters un contratto per l’acquisto di cinque elicotteri H135, il primo previsto per l’inizio del 2022. L’H135 è l’elicottero di riferimento per gli operatori d’emergenza in tutto il mondo: combina eccellenti prestazioni a elevate capacità di carico. Öamtc Air Rescue, particolarmente attivo d’inverno, l’anno scorso ha effettuato più di 20mila missioni, con una media di 52 missioni al giorno.

L’A330NEO A UGANDA AIRLINES

Uganda Airlines ha preso in consegna il suo primo A330neo, l’ultima versione del più popolare aeromobile di linea widebody. Si tratta del primo aeromobile Airbus consegnato al vettore nazionale dell’Uganda, compagnia aerea fondata nel 2019. L’A330neo consuma meno carburante rispetto alla generazione precedente. L’A330neo consentirà a Uganda Airlines di avviare le sue operazioni a lungo raggio con voli intercontinentali verso il Medio Oriente, l’Europa e l’Asia.

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IL PRIMO A400M ARRIVA IN BELGIO

L’Aeronautica militare belga ha preso in consegna il primo dei sette aeromobili da trasporto militari Airbus A400M. L’aeromobile è stato consegnato a Siviglia e successivamente ha effettuato il volo di trasferimento verso la base del 15° Stormo da trasporto aereo a Melsbroek, in Belgio. Il secondo A400M sarà consegnato all’inizio del 2021. L’A400M sarà operativo all’interno di un’unità binazionale belga e lussemburghese.

IL PREMIO PER LA MIGLIOR COMPAGNIA

Emirates è stata premiata nell’ambito degli Aviation business awards come “Airline of the year” del 2020, in riconoscimento dell’agilità, flessibilità e approccio innovativo con i quali ha affrontato la pandemia e per le iniziative di sicurezza messe in atto per la tutela dei viaggiatori. In particolare Emirates è stata la prima a offrire gratuitamente una copertura assicurativa per il Covid-19. Sir Tim Clark, presidente di Emirates, è stato anche premiato con il “Lifetime achievement award” per il suo contributo all’industria aeronautica.

VACCINI COVID TRASPORTATI DA EMIRATES

Con un volo da Bruxelles a Dubai il 22 dicembre scorso, Emirates SkyCargo ha trasportato il primo carico di vaccini per il Covid-19 della Pfizer-BioNTech negli Emirati Arabi Uniti per conto dell’autorità sanitaria di Dubai. I vaccini sono stati trasportati a titolo gratuito nello sforzo comune contro il contagio e come ringraziamento per il servizio sanitario emiratino. Una volta a Dubai, i vaccini sono stati collocati nella struttura dedicata allo stoccaggio dei farmaci Emirates SkyPharma.

GLI NH90 PER IL QATAR

Hanno effettuato i voli inaugurali in Italia e in Francia i primi due elicotteri NH90 destinati alla vendita alle forze aeronavali del Qatar. Leonardo agisce in qualità di prime contractor con la responsabilità per la gestione del programma per il velivolo in configurazione “Nato frigate helicopter” (Nfh) per operazioni navali. Le prove sono servite agli equipaggi per valutare le prestazioni delle unità e il corretto funzionamento di tutte le componenti dell’NH90 e hanno confermato i risultati attesi.

NUOVA VITA PER I SATELLITI ESA

Arthur D. Little (Adl) supporterà l’Agenzia spaziale europea (Esa) nell’identificazione delle più promettenti applicazioni intorno alle quali sviluppare la prossima generazione di satelliti per le comunicazioni. Adl svolgerà una serie di studi per identificare i servizi ad alto potenziale per la prossima generazione di infrastrutture SatCom attraverso un processo collaborativo per definire i bisogni e valutare le potenzialità dei servizi satellitari dei prossimi 10-15 anni.

ANNO DI SUCCESSI PER L’F-35

Lockheed Martin ha consegnato l’F-35 numero 123 dell’anno all’Aeronautica militare italiana. Nel 2020, sono stati consegnati 74 F-35 alle forze armate degli Stati uniti, 31 alle nazioni partner internazionali e 18 ai clienti del programma statunitense per la vendita di equipaggiamenti militari all’estero. In totale il programma ha visto la consegna di oltre 600 velivoli in tutto il mondo, accumulando oltre 350mila ore di volo. A oggi sei nazioni hanno impiegato il velivolo in operazioni di combattimento.

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Oltre il Cisr, un National security council per l’Italia?Mentre infuria la polemica politica sulle attribuzioni dell’esecutivo in materia di Intelligence, da più parti ci si interroga sulla capacità italiana di esprimere una politica di sicurezza e difesa coerente e attenta agli interessi nazionali del Paese. In particolare si riflette sulla possibilità anche per l’Italia di dotarsi di un Consiglio di sicurezza nazionale sul modello americano e britannico

LORENZO MESINIPhD in Filosofia presso la Scuola normale superiore di Pisa

Difesa

Le recenti polemiche sull’Intelligence hanno richiamato l’attenzione sull’opportunità di sottrarre una materia tanto delicata alle liti politiche. In Italia è stata avanzata più volte la proposta di istituire un National security council (Nsc) secondo l’esempio americano. La proposta è di grande interesse e pone urgentemente al centro del dibattito temi che meriterebbero una riflessione più approfondita rispetto a quella svolta sinora. Occorre tuttavia maggiore precisione nel definire i termini della questione per evitare imprecisioni, ambiguità e confusione. Quale funzione assolve il Nsc americano? Da quando è stato istituito nel 1947 per supportare il presidente in materia politica estera, difesa, Intelligence ed economia, il Nsc ha garantito il necessario coordinamento tra i dipartimenti governativi e la Casa Bianca. Al suo interno si riuniscono i principali attori responsabili per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il Nsc è inoltre dotato di un proprio staff e le sue attività sono organizzate all’interno di un sistema di commissioni multilivello. Il consigliere per la sicurezza nazionale (incarico non elettivo di nomina presidenziale) gestisce l’agenda quotidiana del presidente in materia di sicurezza ed è supportato dallo staff nella stesura di documenti classificati da sottoporre ai membri del consiglio. L’esempio americano ci invita a riflettere

sul carattere poliedrico del concetto di sicurezza nazionale, non riducibile alle più specifiche attività di Intelligence. La sicurezza dei propri cittadini e del proprio territorio rientra tra i doveri fondamentali di ogni governo. La sicurezza nazionale chiama in causa una pluralità di ambiti (difesa, Intelligence, politica estera e cooperazione internazionale, commercio internazionale, sicurezza interna, cyber-sicurezza) e definisce un insieme dinamico di sfide e problemi che richiedono risposte adeguate e coerenti. Si tratta di un compito complesso e al tempo stesso indispensabile per assicurare le ambizioni di ogni governo sulla scena internazionale. L’Italia non dispone attualmente di un organismo analogo al National security council americano. Presso la presidenza del Consiglio dei ministri è presente il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr), un organismo di consulenza e deliberazione sugli indirizzi e le finalità generali specifiche dell’Intelligence. Ammesso (e non concesso) che la principale esigenza italiana sia una maggiore indipendenza dell’Intelligence, allora il modello a cui rivolgersi non è il Nsc americano, in cui vige il primato della politica sulla burocrazia. Se si cerca l’indipendenza dalla politica e dai partiti occorre guardare ad altri esempi. Le tensioni verificatesi negli ultimi anni tra il presidente Trump e il Nsc ci

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ricordano che i contrasti tra politica e burocrazia non rappresentano una anomalia imputabile a indebite intromissioni politiche bensì l’esito fisiologico della mancanza di fiducia reciproca. Se invece, come ritiene chi scrive, la nostra principale esigenza è una cooperazione politica rafforzata in materia di sicurezza nazionale (non solo per l’Intelligence), allora il Nsc può fornire un valido modello. Anche la Gran Bretagna ha istituito nel 2010 il proprio National security council, traducendo l’esempio americano all’interno del proprio sistema di governo. Quello inglese rappresenta probabilmente l’esempio più appropriato alle esigenze del nostro Paese, per via del comune sistema parlamentare. Un Consiglio per la sicurezza nazionale fornirebbe un forum per il dialogo e il coordinamento interministeriale garantendo una maggiore regolarità ed efficienza nei processi decisionali, una elaborazione strategica più sistematica e la costante attenzione del presidente del Consiglio in materia grazie al supporto di un apposito consigliere per la sicurezza. L’esempio americano e britannico ci invita tuttavia a una riflessione disincantata sulla condizione del Paese. Cosa accadrebbe se si istituisse un Consiglio per la sicurezza nazionale nelle condizioni attuali? Il rischio di vedersi moltiplicare al suo interno le divisioni già presenti nella maggioranza di governo è molto

elevato. Un consiglio interministeriale sul modello anglo-americano richiederebbe inevitabilmente il rafforzamento, attraverso modifiche costituzionali, della figura del presidente del Consiglio. Un simile organo presuppone infatti l’esistenza di un potere esecutivo coeso e di partiti fortemente intenzionati a condurre una politica estera corrispondente all’interesse nazionale. Si tratta di due elementi rari in un Paese come l’Italia che fatica ad accettare gli oneri politici e materiali connessi a una presenza attiva sulla scena internazionale. L’assenza di una nozione condivisa di interesse nazionale nell’attuale classe politica è un limite culturale di lungo corso che non verrà direttamente colmato mediante l’istituzione di nuovi organi o comitati. Da solo un Consiglio per la sicurezza nazionale non colmerà le nostre lacune storiche. Senza uno sforzo di maturazione politica anche i migliori modelli organizzativi sono destinati all’impotenza. L’istituzione di un Consiglio per la sicurezza nazionale rappresenterebbe un passo in avanti necessario ma non sufficiente per risolvere le mancanze italiane, che sono di carattere etico-politico prima ancora che istituzionali. Un dibattito più ampio su questi temi consentirebbe sicuramente alle proposte recenti di acquisire maggiore profondità, aumentando le proprie possibilità di successo.

Il modello UsaVoluto dal presidente Truman per coordinare le attività della Cia all’alba della Guerra fredda, il National security council (Nsc) è il principale organo, composto da senior advisor civili e militari, che consiglia il presidente degli Stati Uniti in materia di politica estera, di sicurezza e di difesa.

L’omologo UkNel 2010 il Primo ministro David Cameron diede vita all’omonimo National security council, composto dai ministri competenti in materia di sicurezza e impiegato per coordinare la politica estera e di difesa del Regno Unito. L’ente ha un suo precedente storico nel Comitato di difesa imperiale, in funzione dal 1902 al 1947.

E l’Italia?In Italia è attivo il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr), presieduto dal presidente del Consiglio e composto da diversi ministri coinvolti nella sicurezza nazionale. A differenza del modello anglo-americano è competente solo in materia di Intelligence, supervisionando l’operato delle agenzie di sicurezza italiane.

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NATOL’Alleanza ha avviato la riflessione sul futuro

Nel 2020 si sono registrate 400 intercettazioni aeree; il 90% su velivoli russi

Un terzo dei Paesi membri supera la soglia del 2% del Pil per la Difesa

CYBERProposte per la separazione tra il Cyber command e la National security agency

UNIONE EUROPEALa Cyber-security strategy e le nuove regole per incrementare la resilienza

L’Unione conferma il suo impegno operativo in Corno d’Africa; via libera alle missioni

D1 D2 D3

di CESARE CIOCCA e LUCREZIA FALCIAI*

*Comitato atlantico italiano, insieme a Davide Lorenzini

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sono stati impegnati circa 40 tra centri radar e di controllo e di riporto, e circa 60 velivoli intercettori pronti 24 ore su 24 e sette giorni su sette. Le principali missioni di air policing nel 2020 si sono svolte nei Paesi baltici, nei Balcani e in Islanda. Due centri operativi principali in Germania e Spagna assicurano il monitoraggio di tutti i movimenti nello spazio aereo europeo.

Posizioni sul 2%

Una recente analisi dell’International institute for security studies ha rivelato che, oltre a Grecia, Regno Unito e Stati Uniti, tradizionalmente i più impegnati nel settore, altri sette Paesi tra il 2019 e il 2020 hanno superato la soglia del 2% del Pil destinato alla Difesa: Estonia, Francia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia. Ciò dimostra l’accresciuta percezione delle minacce e dei rischi alla sicurezza e le esigenze di ammodernamento degli strumenti militari, incluso il rafforzamento delle capacità expeditionary di Paesi come la Francia. Incrementi nel biennio si registrano comunque anche per quelli che rimangono sotto alla soglia del 2%, a conferma dei maggiori impegni assunti per la difesa nazionale e collettiva.

D1 NATO

L’Alleanza guarda al futuro

L’1 e 2 dicembre i ministri degli Esteri della Nato hanno concluso due giorni di riunioni online per discutere sui temi di maggiore rilevanza per l’Alleanza, tra i quali l’adattamento della Nato, il rafforzamento militare della Russia e la politica di potenza della Cina, la missione in Afghanistan, la situazione in Bielorussia e in Nagorno Karabakh. Temi che, in una prospettiva di medio-lungo termine, caratterizzano il rapporto “Nato 2030: united for a new era”, redatto dal gruppo di esperti nominato lo scorso marzo dal segretario generale nell’ambito di una riflessione sul rafforzamento della dimensione politica dell’Alleanza, presentato in occasione della riunione ministeriale. Oltre a effettuare un’analisi sui trend e le minacce del prossimo futuro il rapporto contiene 138 raccomandazioni pratiche, tra le quali spiccano l’invito all’aggiornamento del concetto strategico del 2010, la continuazione dell’approccio del doppio binario (dialogo e deterrenza) nei confronti della minaccia tuttora rappresentata dalla Federazione russa, una maggiore attenzione all’altro rivale “sistemico” quale oggi è la Cina, nonché il tema tecnologico. Il rapporto invita, inoltre, ad aumentare l’impegno della Nato sul versante meridionale dell’Alleanza, anche attraverso il rafforzamento dell’Hub per il sud, situato a Napoli.

Un anno di intercettazioni aeree

Tra le circa 400 missioni aeree di air policing compiute dalla Nato in tutta Europa nel corso del 2020, il 90% ha portato all’identificazione di velivoli militari russi in avvicinamento allo spazio aereo alleato, registrando un incremento rispetto a quanto avvenuto nel 2019. È risultato come spesso tali velivoli non abbiano attivato il trasponder per comunicare le rispettive posizioni, così come non abbiano notificato alcun piano di volo o comunicato con i controllori dello spazio aereo, con ciò ponendo un problema di sicurezza anche per le linee aeree civili. Complessivamente per intervenire su tutti i casi sospetti, non preannunciati o in emergenza per avarie nei sistemi di comunicazione,

D2 CYBER

Separazione tra Cyber command e Nsa?

Nel mese di dicembre 2020 è stata avanzata la proposta di separare lo Us Cyber command dalla National security agency. Sebbene il dibattito sul comando di tale struttura sia sempre stato estremamente vivace fin dalla sua creazione nel 2008 e successiva elevazione a comando

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Impegno operativo nel Corno d’Africa

Il 23 dicembre 2020 è stata pubblicata la decisione del Consiglio europeo di prolungare di altri due anni la Eu’s civilian capacity-building mission (Eucap Somalia), la Eu’s military training mission (Eutm Somalia) e l’Eu-NavFor Operation Atalanta, attive dagli anni 2008-2012 per la stabilizzazione del Corno d’Africa e la ricostruzione istituzionale della Somalia. Le tre iniziative sono espressione dell’approccio integrato dell’Ue a crisi e conflitti, allo scopo di rafforzare la risposta dell’Unione all’evoluzione del contesto di sicurezza nell’area e il suo ruolo di security provider. Il successo ormai consolidato di Atalanta nel contrasto alla pirateria marittima ha consentito un ampliamento dei suoi compiti anche in altri settori, come il contrasto ai traffici illeciti di droga e armi, nonché il sostegno all’applicazione dell’embargo di armi verso la Somalia deciso dall’Onu e il contrasto ad Al Shabaab e ai relativi flussi di sostegno finanziario. La sua area di competenza consente ora all’Unione di consolidare la sicurezza marittima dal mar Rosso, attraverso Bab el-Mandeb, fino all’oceano Indiano occidentale. L’azione dell’Unione europea è stata estesa in vista di un graduale passaggio di consegne della responsabilità per la sicurezza alla African union mission in Somalia (AmiSom), ampliando il mandato di Eucap Somalia e Eutm Somalia. Esse potenzieranno le capacità delle forze di sicurezza somale e relative istituzioni mediante le funzioni di consulenza strategica, mentoring e addestramento, inclusi equipaggiamenti finanziati dall’Unione, il tutto in un quadro di legalità e controllo da parte delle autorità civili.

combattente unificato per le operazioni cibernetiche nel 2017, attualmente questo ricade sotto la responsabilità del direttore dell’Nsa. I sostenitori della scissione ritengono che il Cyber command sia ormai autonomo e stia sottraendo le risorse necessarie all’agenzia di Intelligence. Dall’altro lato, i critici sostengono che non sia ancora pronto a muoversi in maniera indipendente e che il rapporto tra le due strutture sia simbiotico. Laddove si dovesse realmente arrivare a una scissione, tale approccio si porrebbe in contrasto con l’orientamento dei principali attori internazionali. Peraltro, la scelta avverrebbe all’indomani del massivo attacco informatico che ha colpito numerose agenzie federali statunitensi.

D3 UNIONE EUROPEA

Nuove regole cibernetiche

Il 16 dicembre 2020 la Commissione e l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue hanno presentato una nuova strategia per la sicurezza cibernetica, con lo scopo di sostenere la resilienza collettiva contro le minacce cibernetiche e garantire a tutti i cittadini servizi e strumenti digitali affidabili, attendibili e protetti. La strategia, inoltre, permette di promuovere uno spazio cyber globale, aperto, sicuro e basato su legalità, diritti umani, libertà fondamentali e valori democratici. A questa si prevede di associare direttive coerenti e complementari sulla resilienza delle critical entities in vari settori, contro rischi online e offline inclusi i disastri naturali.

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*presidente del CeSI

Difficile dunque non condividere le parole del ministro Guerini, che auspica e prospetta un rinnovato protagonismo dell’Italia e della sua Marina militare all’interno del Mediterraneo. Dobbiamo ricordare che l’Italia oggi possiede una delle marine migliori e meglio equipaggiate al mondo. Ciò fornisce al nostro Paese uno strumento di politica estera preziosissimo, sia per proteggere e ampliare i nostri interessi strategici, sia per contribuire alla stabilità dell’intera regione. Pochi Paesi hanno oggi lo standing, la tradizione, l’esperienza, i mezzi e le competenze per assumere un ruolo di security provider di prim’ordine all’interno del Mediterraneo.La storia potrebbe presto fornirci anche una preziosa occasione. Il nuovo presidente americano, Joe Biden, sembra infatti intenzionato a dare nuova linfa al multilateralismo, a ridare lustro alla Nato e a lavorare assieme agli alleati europei per una maggiore sicurezza cooperativa, con specifica attenzione anche al cosiddetto fianco sud dell’Alleanza. Ci auspichiamo che Roma colga tale opportunità per rilanciare il proprio ruolo, con l’obiettivo di rendere il Mediterraneo un mare più sicuro a 360 gradi.

Stiamo assistendo da tempo a un incontrovertibile trend geopolitico. Negli ultimi dieci anni il quadro politico-securitario del Mediterraneo è drasticamente peggiorato, passando da una situazione di generale stabilità, intervallata da piccole aree di potenziale fragilità, a una di generale instabilità, dove i focolai di crisi sembrano moltiplicarsi senza posa.Oggi ci troviamo di fronte a due Stati rivieraschi falliti, Siria e Libia, attraversati quotidianamente da milizie armate, flussi migratori, contractor appartenenti a potenze straniere ed equipaggiati con sistemi d’arma all’avanguardia. Spostandoci, incontriamo un Paese travagliato e da tempo sull’orlo del baratro, il Libano, ma anche nazioni che si stanno velocemente riarmando, Grecia ed Egitto, nonché una media potenza regionale, la Turchia, con una politica estera sempre più ambiziosa e a tratti assertiva. Per non parlare dei tentativi di Mosca di mettere piede in modo stabile nelle acque del mare nostrum e dei sempre più tentacolari interessi cinesi nella regione. Ciascuno di questi elementi si somma e interseca con gli altri, generando un groviglio di tensioni che non accenna a sciogliersi. Ma cos’è cambiato, al fondo, rispetto al 2011? Diatribe e ambizioni hanno sempre caratterizzato l’orografia sommersa di questo bacino. Tuttavia oggi manca

quello che fu un tempo l’arbitro, o se vogliamo lo sceriffo, che dall’alto della sua supremazia diplomatico-militare si poneva a garante degli equilibri regionali: gli Stati Uniti. In un primo momento sulla scia della “War on terror” di Bush, in seguito con il “pivot to Asia” di Obama-Clinton, gli Usa hanno progressivamente ridirezionato i propri interessi strategici verso altri lidi, lasciando un problematico vuoto di potere. Come ci ricorda l’attuale querelle greco-turca, oggi manca una potenza legittimata in grado di fare da re Salomone. Il processo di entropizzazione del Mediterraneo sembra graduale e costante.L’Italia, all’interno di questo scacchiere, ha sempre agito con grande prudenza e saggezza, evitando in tutti i modi di dare adito a ulteriori escalation. Talvolta tali scelte, perseguite nell’interesse generale, si sono persino rivelate dannose per gli interessi strategici nazionali. Oggi, tuttavia, il panorama sta peggiorando e occorre prenderne atto. Assistiamo a una proliferazione senza precedenti di materiale d’armamento, a una vivacissima attività sottomarina, alla comparsa di nuove e ben armate milizie e gruppi informali, al rischieramento di sistemi missilistici e di guerra elettronica a poche miglia dalle nostre coste. A un contesto mutato serve una risposta adeguata.

Con Biden, l’Italia torni al centro del Mediterraneo

di ANDREA MARGELLETTI*

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Le strategie del Pentagono per la guerra elettronicaIl Pentagono ha di recente pubblicato una nuova strategia per la “Superiorità nello spettro elettromagnetico”. È ritenuta necessaria per consentire alla difesa statunitense una reale capacità di tracciare, sperimentare, comandare, controllare, addestrare, proteggere e proiettare le forze. Ecco perché

STEFANO CONT

Difesa

L’ampia diffusione di nuove tecnologie avanzate in moltissimi settori, dall’informazione alle nanotecnologie, dalla robotica alla cibernetica, dallo spazio all’intelligenza artificiale, ha cominciato a permeare e condizionare la vita quotidiana delle nostre società creando un ambiente di sicurezza totalmente nuovo. Sebbene i campi di applicazione siano molto differenti, esiste un unico filo conduttore che lega queste tecnologie e i prodotti da esse derivanti e tale elemento è rappresentato dall’utilizzo dello spettro elettromagnetico sia per il loro diretto controllo e funzionamento, sia per la loro interconnessione. Lo spettro elettromagnetico (Ems) comprende la gamma di tutti i tipi di radiazioni elettromagnetiche, dalla luce alle microonde, dai raggi X fino alle più comuni e conosciute onde radio. Nonostante l’ampiezza dello spettro sia potenzialmente molto vasta, oggi essa è in pratica sfruttata solo per una frazione delle sue possibilità e tale utilizzo è prevalentemente concentrato nella fascia delle onde radio, sempre più impiegata per numerose applicazioni civili e militari. L’importanza di tale dominio, quindi, è molto elevata e la recente pubblicazione da parte del dipartimento della Difesa americana di una nuova strategia per la “Superiorità nello spettro elettromagnetico”, seguita

da un rapporto del General accounting office (Gao) sulle criticità per la sua implementazione, ne sono la conferma. Come annunciato da Ellen Lord, sottosegretario alla Difesa per Acquisition and sustainment, una nuova strategia per l’impiego dello spettro Em è ritenuta necessaria per consentire alla difesa statunitense “una reale capacità di tracciare, sperimentare, comandare, controllare, addestrare, proteggere e proiettare le forze”. La superiorità nel campo dell’Ems è ritenuta quindi elemento fondamentale per avere la superiorità in tutti gli altri domini di azione, poiché ne rappresenta il reale abilitatore strategico. Inutile avere, ad esempio, un satellite che vede una minaccia con molto anticipo se poi lo stesso non può comunicare con il sistema che dovrebbe neutralizzarla o con il centro di comando che deve coordinare l’azione. Non vi è da stupirsi, quindi, che la strategia americana riprenda sostanzialmente i concetti d’azione delle “operazioni in domini multipli” (Mdo), riaffermando in particolare, quali obiettivi, la “libertà di azione” nello spettro Em invece del suo controllo completo e una struttura unificata per la sua gestione al posto di un sistema frazionato tra le varie Forze armate. Elemento-chiave per raggiungere quest’obiettivo è lo sviluppo di un sistema integrato per il monitoraggio

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dinamico, la valutazione, la pianificazione e la regia delle operazioni nell’Ems a supporto di quelle dei vari comandanti, denominato “Em battle management” (Embm). Il futuro Embm sarà caratterizzato da un’ampia modernizzazione digitale, intelligenza artificiale, dati e strumenti basati sul cloud e sulla piena integrazione della famiglia dei sistemi di comando e controllo che saranno impiegati per le Mdo. Tale sistema sarà integrato da un’infrastruttura organizzativa per stabilire e gestire le architetture, gli standard per l’interoperabilità e l’efficiente scambio delle informazioni; per analizzare e provare nuove soluzioni, ma anche per elaborare e incorporare i nuovi concetti e le relative dottrine nei cicli di formazione e addestramento. Riguardo alle capacità da sviluppare, invece, la nuova strategia riprende i medesimi concetti delle “Digital acquisitions” introdotti per l’industria aerospaziale. In particolare, sono ritenute fondamentali qualità specifiche d’interoperabilità, di rapidità di aggiornamento software e hardware, di sviluppo rapido dei prototipi e la loro veloce operatività e d’utilizzo di scenari e della simulazione per la prova pratica delle soluzioni. Tali soluzioni richiedono certamente un approccio modulare basato su sistemi aperti (Modular opened system approach), che

eviti l’utilizzo di sistemi proprietari e anzi sfrutti estesamente, adattandole, tecnologie commerciali. L’impiego in tempi normali dell’Ems dovrà essere necessariamente condiviso con le esigenze del settore civile in rapida espansione. Facilitata dal largo utilizzo di tecnologie commerciali, la soluzione più idonea appare essere quella dello spectrum sharing, ovvero dell’utilizzo congiunto militare e civile del medesimo spazio disponibile, in alternativa al modello esistente di gestione proprietaria di frequenze univocamente assegnate. La condivisione, infatti, offre maggiore libertà d’azione all’interno dello spettro Em, ove le interferenze dannose possono essere mitigate mediante tecnologie e accordi. C’è poi la necessità di una nuova visione della guerra elettronica non più come elemento separabile dalla gestione integrata dell’Ems, ma necessariamente come parte di un sistema unitario nell’ambito delle operazioni nello spettro. Da un punto di vista pratico, ciò comporterà lo sviluppo di capacità di guerra elettronica che siano innovative e asimmetriche, in grado cioè di proteggere il funzionamento e l’efficacia di costosi assetti (satelliti, aerei di quinta e sesta generazione, centri C3) e al tempo stesso, con costi relativamente bassi, di negare agli avversari l’impiego dei loro sistemi più avanzati.

Lo spettroLo spettro elettromagnetico comprende la gamma di tutti i tipi di radiazioni elettromagnetiche, dalla luce alle microonde, dai raggi X fino alle più comuni e conosciute onde radio. Nonostante l’ampiezza dello spettro sia potenzialmente molto vasta, oggi essa è in pratica sfruttata solo per una frazione delle sue possibilità.

La pubblicazioneL’importanza di tale dominio è molto elevata. Ne sono conferma la recente pubblicazione da parte del dipartimento della Difesa Usa di una nuova strategia per la “Superiorità nello spettro elettromagnetico” e il successivo rapporto del General accounting office (Gao) sulle criticità per la sua implementazione.

La gestioneElemento-chiave è lo sviluppo di un sistema integrato per il monitoraggio dinamico, la valutazione, la pianificazione e la regia delle operazioni nell’Ems a supporto di quelle dei vari comandanti. È denominato “Em battle management” e sarà caratterizzato da ampia modernizzazione digitale tra intelligenza artificiale e cloud.

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I generali americani a Difesa della democraziaNella risposta compatta delle istituzioni americane alle rivolte di Capitol Hill c’è stata anche la Difesa. I vertici militari hanno ribadito fedeltà alla Costituzione e riconosciuto Biden come prossimo “comandante in capo”. La transizione sul Pentagono è stata tuttavia delicata, con molteplici sfide ad attendere la nuova amministrazione

STEFANO PIOPPI

Difesa

Forse tardiva, è arrivata il 12 gennaio la ferma condanna dei vertici militari degli Stati Uniti d’America sui fatti di Capitol Hill di sei giorni prima. Un memorandum ufficiale, di cui non si ricordano precedenti nella storia americana, in cui gli otto capi di Stato maggiore (comprese Space force e Guardia nazionale) ribadiscono fedeltà alla Costituzione, condannano le “violente proteste” e riconoscono Joe Biden quale prossimo “comandante in capo”. Segnando le definitive distanze tra i vertici militari e Donald Trump, la nota ha messo il sigillo della Difesa americana sul rispetto delle regole democratiche e dello Stato di diritto, con l’aggiunta di un richiamo alla “obbedienza” che da diversi osservatori è stato interpretato con l’obiettivo di evitare che militari fuori servizio o veterani si potessero unire ai riottosi pro-Trump. Ma la Difesa era già entrata nell’ampio cerchio che ha riunito intorno ai valori democratici le istituzioni statunitensi dopo l’assalto a Capitol Hill. Con uno statement ufficiale rilasciato mentre il Congresso era ancora occupato, il segretario alla Difesa pro tempore Chris Miller (scelto da Trump dopo l’uscita di Mark Esper all’indomani del voto del 3 novembre) spiegava che, insieme al generale Mark Milley, capo di Stato maggiore, aveva parlato separatamente con il vice-presidente Mike Pence e i vari leader

del Congresso, la speaker Nancy Pelosi, il senatore repubblicano Mitch McConnell e i democratici Chuck Schumer e Steny Hoyer. Tali contatti hanno portata alla “piena attivazione” della Guardia nazionale, arrivata quando la situazione appariva già sotto controllo, ma comunque senza alcuna interlocuzione con il presidente Trump.D’altra parte sulla Difesa americana si sono concentrati alcuni dei nodi più intricati della transizione tra Donald Trump e Joe Biden, ben prima delle rivolte del 6 gennaio. Tra cambi al vertice del Pentagono, accuse di non favorire il passaggio di consegne e i tentativi dell’amministrazione uscente di piazzare gli ultimi colpi di coda (con ritiri e accordi militari), sono stati molti i punti di tensione. C’è stato anche l’attacco informatico SolarWinds, che ha fatto tremare il mondo della sicurezza a stelle e strisce, mentre a livello parlamentare è stato necessario convocare il Congresso durante la pausa natalizia per il primo “override” degli ultimi quattro anni, cioè il superamento (con la maggioranza dei due terzi) del veto che Trump aveva posto al budget del Pentagono per il 2021. L’attesa maggiore resta per la deroga legislativa che servirà al generale Lloyd Austin III per diventare prossimo segretario alla Difesa, necessaria in virtù dei soli cinque anni passati dal ritiro dal servizio attivo, invece dei setti

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richiesti ai militari per poter assumere cariche civili di vertice al Pentagono. Le apparizioni presso i comitati Armed services sono iniziate, ma un voto non è previsto prima del 21 gennaio, lasciando dunque l’avvio della nuova amministrazione senza un segretario alla Difesa confermato, cosa che non succedeva da decenni. Il ruolo potrebbe essere assunto da David Norquist, attuale vice-segretario, scelto da Trump nel 2019.Nel frattempo nel giorno dell’inaugurazione di Biden avrà lasciato il suo incarico anche Ellen Lord, under secretary of defense for acquisition and sustainment negli ultimi tre anni e mezzo, la più longeva nel dipartimento tra le cariche a conferma del Senato durante l’intera amministrazione Trump. Capace di stare lontana dalla bagarre politica, ha visto alternarsi ben quattro capi del Pentagono. Il suo incarico passerà pro tempore (in attesa che Biden faccia la sua scelta) a Stacy Cummings, già a riporto della Lord in qualità di acting deputy assistant secretary. Quella di sottosegretario alle acquisizioni è tra le cariche più rilevanti della Difesa americana, con responsabilità sul procurement del maggiore portafoglio federale degli Stati Uniti, pari a 740,5 miliardi di dollari per il 2021. Ha anche responsabilità su uno dei temi più rilevanti dei prossimi anni, ovvero il completamento della riforma delle acquisizioni militari, già avviata dalla

Lord e volta ad accelerare le pratiche burocratiche per essere al passo con l’innovazione tecnologica.È con questa esigenza che è maturato negli ultimi anni il processo di “digital acquisition” (approfondito sul mese di ottobre di Airpress da Stefano Cont), che sono aumentate le partnership pubblico-private e che è aumentato il numero dei contratti assegnati tramite Other transaction agreement (Ota), formula particolarmente flessibile pensata proprio per dare velocità a ricerca e sviluppo. L’eredità di Ellen Lord è in queste dinamiche, all’interno di un budget che resta ai massimi storici ma che si prevede piatto per i prossimi anni. Piatto, cioè stabile, non in crescita, a fronte invece dell’aumento dei programmi in partenza e delle minacce da affrontare (con focus inalterato sulla sfida cinese). A livello industriale ciò è destinato a tradursi in una corsa per assicurarsi le fette e i progetti maggiori. Il contesto produttivo americano ha mostrato in passato di sapersi ben adattare alle evoluzioni del bilancio pubblico e una nuova stagione pare essersi già aperta. Il 2020 si è chiuso con l’acquisizione da 4,4 miliardi di dollari da parte di Lockheed Martin di Aerojet Rocketdyne, specializzata nella propulsione per vettori spaziali. Permetterà al colosso di accelerare sullo sviluppo della missilistica ipersonica, uno dei campi sui quali il Pentagono punta di più.

Guidare l’impegno degli Stati Uniti nel campo della missilistica ipersonica e delle tecnologie spaziali. È la ragione che ha spinto Lockheed Martin, primo contractor del Pentagono, all’acquisizione di Aerojet Rocketdyne, azienda californiana specializzata nella propulsione spaziale. L’operazione vale 4,4 miliardi di dollari, è stata annunciata a fine dicembre e si chiuderà nella seconda metà del 2021, pronta a inaugurare una nuova fase per il mercato americano.Con base a Sacramento, in California, Aerojet Rocketdyne

ha registrato ricavi per due miliardi di dollari nel 2019. È già parte della catena di fornitura di Lockheed Martin (come di Boeing), ad esempio per componenti deputate alle propulsione nella proposta rivolta alla Missile defense agency per la prossima generazione di missili intercettori. L’azienda fornisce anche l’upper stage ai razzi Atlas 5 e Delta 4 della United launch alliance, la joint venture tra Lockheed Martin e Boeing.“L’acquisizione di Aerojet Rocketdyne preserverà e rafforzerà una componente essenziale della base industriale della difesa

nazionale e ridurrà i costi per i nostri clienti e per i contributori americani”, ha spiegato agli investitori Jim Taiclet, presidente e ceo di Lockheed Martin. L’operazione, ha aggiunto, rafforzerà il supporto del colosso “alle missioni di sicurezza critiche degli Stati Uniti e degli alleati, mantenendo la leadership nazionale nello spazio e nella tecnologia ipersonica”, tra i settori in cui il dipartimento della Difesa ha chiesto più impegno in ricerca e sviluppo al comparto nazionale.All’operazione servirà comunque l’approvazione del Pentagono. Taiclet si è

detto fiducioso, anche considerando le altre grandi acquisizioni degli ultimi anni. Nel 2018 Northrop Grumman acquisì Orbital Atk, anch’essa impegnata in sistemi di propulsione e munizioni. Dello stesso anno è la fusione tra L3 e Harris, mentre più recente (conclusa lo scorso aprile) quella tra Raytheon e Utc, nata con la specifica di “sistemi missilistici del futuro e ipersonici” tra i primi prodotti sui quali puntare.

Lockheed Martin punta sull’ipersonico e acquisisce Aerojet

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*senatrice, giornalista e scrittrice, ufficiale dell’Esercito (Ris. Sel.)

La percezione della sicurezza

alle esigenze sempre più dinamiche e meno statiche dei servizi e alle necessità di impiego di assetti specialistici. Con la diffusione della pandemia Covid-19 il personale è stato chiamato a svolgere, accanto ai tradizionali compiti previsti dal dispositivo, anche una serie di attività finalizzate a fronteggiare l’emergenza e al contenimento della diffusione del virus. A tale scopo il contingente è stato incrementato (nel marzo 2020 e, con ulteriore proroga, fino al 31 gennaio del 2021) di un’aliquota aggiuntiva di 753 unità di personale militare. La tempestività d’intervento e i risultati operativi di Strade sicure sono eccellenti, sia nell’espletamento dei compiti tradizionali di prevenzione e di contrasto a criminalità e terrorismo, sia in quelli di ordine pubblico e speciali, legati a circostanze di pubblica calamità e nei casi di straordinaria necessità e urgenza, nonché tutti i diversi impieghi richiesti dall’emergenza epidemiologica. E non sono solo i dati a confermare e raccontare una storia di impegno e contributo significativi, distribuito su tutto il territorio nazionale, ma anche la nostra immediata percezione della sicurezza, della tutela del bene comune e della vita di ognuno di noi.

È dal 4 agosto del 2008 che vediamo in numerose città italiane (e ci sentiamo rassicurati) i nostri soldati impegnati nell’operazione “Strade sicure”, ovvero da quando la legge 125 ha previsto l’impiego di personale militare appartenente alle Forze armate per specifiche ed eccezionali esigenze di prevenzione della criminalità nelle aree metropolitane. Nel corso del tempo l’operazione è stata rinnovata e prorogata, assumendo maggiore importanza. Con successive disposizioni legislative è aumentata la consistenza numerica del personale impiegato, sono state modificate le regole di ingaggio ed è stata prevista la collaborazione delle Forze armate nei servizi di controllo del territorio a tutela degli obiettivi sensibili e nei compiti di prevenzione e contrasto del terrorismo. In questo crescendo dal 2008 a oggi, Strade sicure (svolta in massima parte dall’Esercito, con il contributo della Marina, dell’Aeronautica e dei Carabinieri) è arrivata a rappresentare l’impegno più consistente delle Forze armate in termini di impiego di personale, di utilizzo di mezzi e di materiali. Dall’impiego del primo contingente (circa tremila unità) nei servizi di vigilanza a siti e obiettivi sensibili, e con compiti di perlustrazione e pattugliamento, l’operazione si è svolta in concorso e congiuntamente alle

Forze di polizia. I militari in servizio per Strade sicure sono qualificati come agenti di pubblica sicurezza e devono seguire un iter addestrativo, teorico-pratico, finalizzato a garantire una pronta risposta operativa alle varie circostanze, comprese quelle di primo soccorso. Gli oltre settemila militari impiegati attualmente nell’operazione garantiscono una presenza costante e capillare sul territorio nazionale, vigilando porti, aeroporti, stazioni ferroviarie e della metropolitana, ma anche siti istituzionali e diplomatici, luoghi artistici e di culto, siti di interesse religioso, nonché valichi di frontiera. A questo si deve aggiungere il compito di controllo nella cosiddetta “terra dei fuochi” e il presidio in aree evacuate a seguito di eventi sismici e calamitosi o in zone colpite da particolari situazioni emergenziali. Come non ricordare, tra gli altri, i compiti di pattugliamento e vigilanza degli obiettivi sensibili nella “zona rossa” dei comuni di Amatrice e Accumoli, area di responsabilità del raggruppamento “Lazio-Abruzzo” dell’operazione Strade sicure, ora guidato dalla brigata Granatieri di Sardegna di stanza a Roma, subentrata nel comando all’Artiglieria controaerei di Sabaudia (Latina). Inoltre, negli ultimi due anni, l’addestramento del personale impiegato in Strade sicure è stato riconfigurato in base

di ISABELLA RAUTI*

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AL 1° POSTO INITALIA IN RICERCAE SVILUPPO.ANCHE DI SOGNI.L’eccellenza tecnologica è una nostra priorità, da sempre. Investiamo 1,5 miliardi per cercare sempre nuove soluzioni all’avanguardia, per migliorare i prodotti esistenti e, soprattutto, per diffondere innovazione.

Perché c’è un futuro da inventare.

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Opportunità sistemiche per lo Spazio italianoArtemis sarà fondamentale sia per le grandi aziende italiane già coinvolte, sia per Pmi, start up e università, chiamate a lavorare in sincronia per cogliere le opportunità legate alla realizzazione di tecnologie, prodotti e servizi. L’esplorazione della superficie richiederà infatti tante nuove soluzioni, a partire dall’utilizzazione delle risorse in situ

ANGELO VALLERANIpresidente del Lombardia Aerospace Cluster

Spazio

Il 2020 è stato un anno diverso per tutti gli aspetti legati alla nostra vita, privata e lavorativa. Il settore spaziale non ha fortunatamente subìto ripercussioni immediate, vantando programmi di ampio respiro e lunga durata. Oltre le difficoltà contingenti per mantenere l’operatività, le aziende del comparto non hanno dunque avuto impatti al momento misurabili. D’altra parte, la pandemia ha permesso alle aziende di riflettere sulle proprie modalità operative, accelerando e introducendo processi che sicuramente conserveremo anche dopo l’emergenza sanitaria. Il 2021 sarà pure per questo un anno di grandi cambiamenti, sia per il programma lunare che viene dall’America, sia per la Space economy, contraddistinta da prospettive a forte impatto per il settore. Fortunatamente in Italia lo spazio gode al momento di un’elevata attenzione da parte della politica. Il risultato è una congiuntura favorevole che, come sovente accade, trasforma momenti di difficoltà in opportunità. Anche perché lo spazio è stato correttamente interpretato dal decisore politico come uno dei comparti sui quali basare il rilancio economico del Paese. Tale riconoscimento, sommato alle competenze industriali e di ricerca che l’Italia può vantare, offre tutti gli ingredienti per far sì che il settore spaziale sia un asset per fornire

slancio alla ripresa. D’altra parte per impostare la ripartenza servono competenze e idee, e lo spazio italiano ne ha molte. Se unite ai finanziamenti, garantiscono ricadute sull’intero sistema economico.Lo dimostrano i cospicui investimenti privati che si muovono oltreoceano, dove i capitali privati aumentano nella consapevolezza di poter allargare i benefici ben oltre il settore spaziale e consentono di produrre tecnologie trasversali a tanti altri ambiti. È la “cross contamination” che contraddistingue la cosiddetta New space economy. All’epoca della prima corsa allo spazio si svilupparono tecnologie e prodotti poi riversati in altri settori e nella nostra vita quotidiana (il goretex è l’esempio più citato, ma ce ne sono innumerevoli). Ora le ricadute vanno nell’altro senso: le tecnologie nate in altri ambiti entrano nello spazio. Da qui il fermento per coinvolgere le realtà tradizionalmente estranee a questo settore nelle prossime avventure oltre l’atmosfera, con opportunità notevolissime soprattutto per piccole aziende e start up. La Space economy italiana ha per questo imboccato da tempo la giusta strada delle partnership pubblico-private (Ppp). Una scelta che presuppone un interesse radicato a portare avanti il progetto da parte del privato, il quale si espone investendo e assume

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dunque maggiore responsabilità. In questo modo, rispetto agli investimenti a pioggia del passato, si evita di arrivare a programmi arenati, tecnologie non maturate o scelte avventate. La Ppp implica così che l’investitore privato spinga per arrivare a un risultato concreto in tempi brevi, e dunque agevola la realizzazione di tecnologie innovative.Tutto questo si lega all’enorme opportunità di Artemis, il programma lunare promosso dagli Stati Uniti. Un’opportunità che non dobbiamo farci scappare e che vede l’Italia prima firmataria di un’intesa con Washington, riconoscimento importante per le competenze nazionali e per le scelte fatte negli anni passati dall’industria, dall’Asi e dal governo. Tali scelte, dallo SpaceLab ai moduli pressurizzati per la Stazione spaziale internazionale, hanno permesso all’Italia di accreditarsi come partner credibile, il primo al quale la Nasa ha guardato per la nuova corsa alla Luna, pur in un momento di rinnovati giochi di forza con Russia e Cina. È per noi un ottimo segnale per procedere e portare avanti capacità e competenze. Artemis sarà infatti fondamentale sia per le grandi aziende già coinvolte, sia per Pmi, start up e università, chiamate a lavorare in sincronia per cogliere tutte le opportunità legate alla realizzazione di tecnologie,

prodotti e servizi. L’esplorazione della superficie richiederà infatti tante nuove soluzioni, a partire dall’utilizzazione delle risorse in situ, per cui il mondo della ricerca italiano potrà mettere a frutto diverse tecnologie che stanno maturando. Ohb Italia e il Politecnico di Milano stanno ad esempio sviluppando un reattore per estrarre ossigeno dalla regolite. È solo un caso fra tanti, a dimostrazione della moltitudine di stimoli che il programma offre. La colonizzazione della Luna (e poi di Marte) caratterizzerà i prossimi decenni dell’esplorazione spaziale. È improbabile che la nuova amministrazione americana cambi questa direzione. Con Joe Biden alla Casa Bianca ci potranno essere ritardi (considerando che la data del 2024 è molto politica, imposta dall’amministrazione uscente), ma il programma andrà avanti, sospinto dagli interessi delle grandi aziende che hanno investito e che attendono, oltre ai contratti, ampie ricadute tecnologiche. Un simile volàno non si potrà fermare. L’esplorazione, intesa come espansione della conoscenza, è insita nell’essere umano. E se ciò non bastasse per opporsi ai detrattori degli investimenti nello spazio, basterà ricordare che molte delle tecnologie utilizzate nella vita di tutti i giorni sono il prodotto dei salti che solo i grandi programmi spaziali possono offrire.

La politicaIn Italia lo spazio gode al momento di un’elevata attenzione da parte della politica. Ciò facilita una congiuntura favorevole che, come sovente accade, trasforma momenti di difficoltà in opportunità. Anche perché lo spazio è stato correttamente interpretato dal decisore politico come uno dei comparti sui quali basare il rilancio economico del Paese.

Nuove economieLa “cross contamination” contraddistingue la New space economy. All’epoca della prima corsa allo spazio si svilupparono tecnologie e prodotti poi riversati in altri settori e nella nostra vita quotidiana. Ora le ricadute vanno nell’altro senso: le tecnologie nate in altri ambiti entrano nello spazio.

La LunaArtemis sarà fondamentale sia per le grandi aziende, sia per Pmi, start up e università. L’esplorazione della superficie lunare richiederà infatti tante nuove soluzioni, a partire dall’utilizzazione delle risorse in situ, per cui il mondo della ricerca italiano potrà mettere a frutto diverse tecnologie che stanno maturando.

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Un drone per ArtemisTra i contributi che l’Italia potrà dare al programma lunare Artemis c’è anche LuNaDrone, il progetto per una navicella spaziale che dovrà studiare particolari strutture geologiche lunari conosciute come “lava tubes”. Ecco l’obiettivo della missione e i risultati dello studio preliminare

PAOLO MAGGIOREprofessore di Impianti e sistemi aerospaziali al Politecnico di Torino

PIERO MESSIDOROingegnere, docente a contratto presso il Politecnico di Torino

ROBERTO VITTORIastronauta dell’Esa, generale dell’Aeronautica militare

Spazio

La nuova dichiarazione di intenti tra Italia e Stati Uniti sul programma Artemis si concentra sul possibile contributo dell’Italia allo sviluppo dei moduli abitati, delle telecomunicazioni e delle tecnologie abilitanti in relazione alle future attività sulla superficie lunare. Tra queste tecnologie per l’esplorazione c’è il progetto per una navicella spaziale, denominata LuNaDrone (Lunar nano drone), il cui scopo è studiare particolari strutture geologiche lunari conosciute come “lava tubes”. Il progetto si basa sul concetto strategico, già applicato ai cubesat, di sviluppare una piccola navicella spaziale a massa ridotta che impiega metriche standardizzate, realizzata a basso costo da università, start up e Pmi, facile da lanciare e operare nello spazio. Com’è successo nell’ultimo decennio per le attività satellitari, si ritiene che tale tipologia di piccoli sistemi sviluppati a costi e tempi ridotti possa efficacemente completare le “grandi” missioni sulla superficie lunare. L’obiettivo della Nasa è creare una presenza umana a lungo termine sulla Luna. A questo proposito Nasa ed Esa, come altre agenzie, stanno immaginando la possibilità di sfruttare i “lava tubes” come potenziale sito a supporto delle attività umane lunari. Infatti, fin dal 2009, i dati forniti dalla sonda Selene della Jaxa indicavano la presenza di tre enormi pozzi sulla superficie della Luna, di particolare interesse poiché possibili aperture per

l’ispezione di canali di lava sotterranei. È probabile che la regione dove sono stati trovati, Marius hills, sia il sito di future missioni lunari e persino il luogo in cui localizzare un habitat lunare. Questo è il motivo che ha permesso di definire l’obiettivo della missione di LuNaDrone: esplorare l’interno di una di queste grotte lunari. In tale contesto molte scelte progettuali saranno inevitabilmente influenzate dalla necessità di adottare, ove possibile, tecnologie italiane al fine di adempiere alla missione in tempi e costi ragionevoli. Oltre a uno studio preliminare sulle caratteristiche generali della missione si è proceduto con l’analisi di quattro questioni specifiche: primo, lo sviluppo di un modello fisico in grado di simulare la missione e il consumo di propellente associato alle varie fasi di volo che LuNaDrone dovrà eseguire, per consentire il dimensionamento dei principali sottosistemi di bordo e valutare la fattibilità della missione stessa; secondo, la definizione del sistema propulsivo; terzo, l’identificazione del sistema di accumulo di energia più adatto; quarto, la definizione dei sistemi utilizzati per la navigazione autonoma in un ambiente senza copertura Gps e in mancanza di illuminazione. La missione si basa sul presupposto che un lander e/o un rover possano rilasciare LuNaDrone in prossimità del pozzo selezionato, sul punto da dove inizierà la fase

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esplorativa. Successivamente la navicella sarà in grado di condurre almeno un volo autonomo che consiste in diverse fasi: decollo, salita, volo stazionario, traslazione orizzontale per raggiungere il pozzo, discesa nel cratere lunare e ritorno al punto iniziale. Il volo inizierà e terminerà all’interno di un’area esterna, sicura in termini di ostacoli e pendenza del terreno. Durante il volo stazionario, LuNaDrone deve essere in grado di affrontare i disturbi del volo e mantenere la sua stabilità, in particolare durante l’acquisizione delle immagini per la quale avrà necessità di illuminare lo scenario nella banda del visibile. LuNaDrone deve essere in grado di memorizzare e inoltrare le immagini al rover o lander per successive elaborazioni e trasmissioni sulla Luna e a Terra. Per acquisire immagini dell’interno del “lava tube” ci sarà un sistema di telecamere delle quali si dovrà discutere il numero, la risoluzione e il posizionamento per trovare la migliore soluzione in termini di massa, volume e compatibilità con gli altri sottosistemi. Il sistema propulsivo include un razzo monopropellente al perossido di idrogeno come motore principale e almeno altri otto per il controllo d’assetto. I propulsori sono stati individuati tra quelli disponibili sul mercato o in fase di sviluppo, privilegiando articoli Cots possibilmente nazionali. Il veicolo spaziale otterrà l’energia elettrica necessaria da batterie primarie al

litio. I suddetti sottosistemi sono fortemente legati allo sviluppo del profilo di volo, che può analizzare quanto siano efficienti una manovra e l’angolo di inclinazione della navicella per i suoi movimenti, che a sua volta fornisce nuovamente informazioni alla progettazione dei sistemi di navigazione e propulsione. Per quanto riguarda il sistema avionico, si è proceduto alla ricerca dei componenti necessari alla navigazione autonoma. In particolare, i due metodi scelti (navigazione visiva e Lidar), concentrandosi sui problemi di massima velocità di acquisizione e illuminazione, sono stati poi confrontati in termini di prestazioni, massa, dimensioni e consumo energetico. Infine è stata sviluppata la geometria 3D dei singoli componenti che andranno a comporre il drone e proposta una possibile configurazione. Si ritiene che a questa fase di studio preliminare possa seguire una fase di realizzazione che permetta l’affiancarsi di questa missione e del concetto tecnologico innovativo del LuNaDrone ai grandi progetti nazionali nell’ambito della collaborazione internazionale per il programma Artemis.

Gli autori ringraziano gli ingegneri S. Pescaglia, G. Podestà e G. Latiro per l’importante contributo nello svolgimento dello studio culminato con la tesi di laurea magistrale presso il Politecnico di Torino.

Il 25 settembre 2020 il sottosegretario Riccardo Fraccaro e l’amministratore della Nasa Jim Bridenstine hanno firmato una dichiarazione congiunta di intenti per la cooperazione al programma Artemis. Il nuovo capitolo dell’esplorazione della Nasa ha la finalità non solo di ritornare sulla Luna, con presenza umana a lungo termine sulla superficie e in orbita, ma anche di costituire una base di preparazione per missioni umane, sempre più complesse, verso Marte. Gli Stati Uniti e l’Italia hanno una lunga storia di cooperazione di successo nella scienza e nell’esplorazione dello spazio per usi pacifici. Tutto iniziò nel 1962, anno dell’accordo di cooperazione

che consentì due anni dopo di lanciare dagli Usa, con un lanciatore Scout, il satellite San Marco 1, primo prodotto italiano in orbita. Più recentemente, l’accordo per la fornitura di moduli pressurizzati per lo Space shuttle e la Stazione spaziale internazionale (Iss) ha dato all’Italia un accesso privilegiato (per astronauti ed esperimenti) all’avamposto orbitante. Ora la nuova dichiarazione d’intenti apre nuove opportunità per la Penisola.

I rapporti tra Italia e Usa

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Geopolitica delle terre rare (sulla Luna)L’attenzione rivolta alla disponibilità di terre rare, le conseguenze economiche e geopolitiche della distribuzione e la necessità – per la realizzazione di una base lunare – di disporre in loco di tali materiali dimostrano l’importanza e l’utilità di verificare la presenza eventuale di bacini minerari sulla Luna

PAOLO GAUDENZIdirettore del dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale (Dima) dell’Università La Sapienza

CHIARA TELLIstudentessa del corso di laurea in Ingegneria spaziale e astronautica presso La Sapienza

Spazio

Lo sviluppo tecnologico di un Paese è strettamente collegato alle risorse minerarie di cui dispone. Le terre rare (quei famosi 17 elementi della tavola periodica) rappresentano delle risorse fondamentali per la realizzazione di tecnologie di base e avanzate. Il loro utilizzo è pervasivo e interessa tutti i settori produttivi. In particolare sono indispensabili nel settore dell’elettronica di consumo e per realizzare magneti, batterie e celle solari per la produzione di energia.Con una produzione attuale di circa 200mila tonnellate l’anno e un mercato che, secondo le stime, raggiungerà i 19,8 miliardi di dollari entro il 2026, l’attenzione verso questi materiali cresce esponenzialmente e con essa aumentano le preoccupazioni relative al grave impatto ambientale dovuto a estrazione e lavorazione (allarmanti i dati di contaminazione delle acque e produzione di rifiuti radioattivi), mentre si acuiscono le tensioni geopolitiche causate da un notevole squilibrio tra Paesi esportatori e importatori.La scarsità dei bacini minerari, presenti solo in alcuni Paesi, e le regolamentazioni imposte a causa dell’impatto ambientale hanno consentito alla Cina di realizzare un monopolio di terre rare. Questo Paese è responsabile del 96% della produzione e possiede l’89% dei bacini minerari. Lo studio dei minerali presenti sul suolo lunare si inserisce in questo quadro economico,

politico e ambientale come una plausibile parziale alternativa alla dipendenza dal commercio cinese.I recenti accordi promossi a livello politico e industriale dal governo, dall’Asi e dalle industrie italiane sul programma Artemis hanno infatti richiamato sulla Luna un interesse che non è mai stato così evidente negli ultimi anni. Si assiste quindi a un ritorno di interesse per missioni di osservazione lunare a supporto delle prossime attività di esplorazione e permanenza sul satellite naturale. Emerge la necessità di una maggiore conoscenza della presenza e della distribuzione di minerali sulla superficie lunare, tra i quali proprio le terre rare. L’eventuale disponibilità in loco di questi materiali potrebbe peraltro essere utilizzata come risorsa strategica per il rifornimento energetico in vista della missione Artemis e dei suoi futuri sviluppi.Le teorie sulla formazione della Luna e gli impatti con meteoriti suggeriscono infatti una maggiore densità di terre rare rispetto alle quantità presenti sulla Terra, soprattutto in prossimità dei crateri lunari. I dati attuali ne testimoniano la presenza, in particolare sotto forma di Kreep, materiale roccioso contenente tracce di potassio, terre rare e fosforo. La missione Smart-1 dell’Esa (2004) ne ha suggerito la distribuzione nel cratere Oceanus Procellarum e nel mare Imbrium, zone che si stima contengano una quantità in volume di

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Kreep dell’ordine di centinaia di milioni di chilometri cubici. Tali informazioni non sono purtroppo sufficienti per verificare l’effettiva concentrazione di terre rare e procedere con uno studio sistematico del problema di estrazione. La ricerca scientifica, tuttavia, è già intenta ad affrontare la questione, come evidenzia il recente progetto Esa BioRock sull’estrazione di terre rare attraverso l’utilizzo di microrganismi, esperimento verificato sull’Iss da Luca Parmitano.Come per ghiaccio e altre risorse basilari per stabilire una presenza umana sulla Luna, conoscere l’effettiva disponibilità dei materiali rappresenta un’esigenza largamente sentita anche per trovare i siti ottimali per la realizzazione di una base. Il progetto preliminare di missione Mreef (Moon rare-Earth elements finder), realizzato dagli studenti di Ingegneria spaziale dell’Università Sapienza di Roma, vuole rispondere a questa esigenza di dati e propone una missione di osservazione dell’intera superficie lunare che individui le regioni a maggior concentrazione di terre rare, grazie all’utilizzo di sensori (nei quali eccelle la tecnologia italiana). Fissata un’orbita lunare di cento chilometri di quota e un’inclinazione di 92 gradi, la missione effettua una mappatura dei materiali esposti tramite l’utilizzo di un payload di tre strumenti scientifici a produzione italiana: il sensore iperspettrale Prisma o sue evoluzioni,

una camera pancromatica e uno spettrometro a raggi gamma (per rilevare torio e uranio, indici di presenza di terre rare). L’attenzione rivolta alla disponibilità di terre rare, le conseguenze economiche e geopolitiche della distribuzione, i possibili avanzamenti tecnologici e la necessità – per la realizzazione di una base lunare – di disporre in loco di tali materiali, sono solo alcuni dei fattori di interesse che dimostrano l’importanza e l’utilità di verificare la presenza eventuale di bacini minerari sulla Luna. Indipendentemente dalla realizzazione effettiva della missione, per la quale è necessario ricorrere a studi di natura economica per una valutazione accurata della sostenibilità del progetto, l’interesse strategico sulle terre rare e altri materiali esposti è elevato e non trascurabile. L’esistenza stessa di una miniera lunare potrebbe essere determinante per produrre un cambiamento significativo degli attuali equilibri e rapporti di forza nel settore specifico, con importanti ripercussioni nell’ambito delle prospettive di indirizzo politico.

Si ringraziano tutti i membri del team Mreef del corso di Costruzioni spaziali dell’Università di Roma La Sapienza: Catello Leonardo Matonti, Gabriele Montesi, Vincenzo Romano, Filippo Stentella, Alessandro Latini, Giulia Moretti, Paul Danca, Chiara Pazzelli, Angela Trombetta e Giammarco Malandruccolo

Sarà l’Italia a guidare il nuovo impegno europeo per verificare dallo spazio i movimenti del terreno, sia quelli causati da fenomeni naturali, sia quelli frutto di attività antropica. Il progetto si chiama Egms (acronimo per European ground motion service) e rappresenterà un’ulteriore applicazione del servizio già esistente di Copernicus, il sistema europeo di osservazione della Terra, per il monitoraggio dei terreni (Clms). È gestito dall’Agenzia europea per l’ambiente (Eea), che ha assegnato il contratto di sviluppo a Original, un

consorzio guidato dall’italiana eGeos, joint venture tra Telespazio e Asi. Ha una durata di quattro anni e un valore di sei milioni di euro.L’Egms fornirà informazioni dettagliate sul movimento del suolo in quasi tutto il continente europeo grazie all’analisi interferometrica effettuata sui dati generati dai satelliti radar Sentinel-1 di Copernicus. Il servizio sarà in grado di identificare e monitorare i movimenti del terreno a breve e lungo termine, nonché quelli di infrastrutture, ad esempio i ponti.“Original mette insieme competenze, esperienze

ed eccellenze uniche nel panorama europeo della geo-informazione”, ha spiegato Paolo Minciacchi, ad di eGeos e responsabile della linea di business Geoinformazione di Telespazio. “Il servizio Egms – ha aggiunto – va a integrare i servizi di land monitoring di Copernicus e conferma il ruolo fondamentale del programma europeo nel fornire servizi a vantaggio di tutti i cittadini europei”.Tra soggetti norvegesi, tedeschi, olandesi, inglesi e ungheresi, al consorzio partecipa anche l’italiana Nhazca, spin-off dell’Università Sapienza di Roma. Come già

avviene per la maggior parte dei prodotti Copernicus, i dati generati da Egms saranno consultabili da cittadini e organizzazioni di tutto il mondo tramite un’interfaccia utente di facile utilizzo e potranno così fornire informazioni cruciali per migliorare la comprensione dei rischi legati al movimento del suolo su scala locale, regionale ed europea.

I movimenti del terreno si monitorano dalle orbite

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A dicembre è stato votato il budget dell’Unione europea per il 2021-2027. Il commissario al Mercato interno, Thierry Breton, ha subito dato un’accelerazione al progetto spaziale per una nuova costellazione di satelliti per comunicazioni governative sicure e Internet a banda larga per tutti i cittadini europei. Poco prima di Natale infatti, la Commissione ha assegnato un contratto da sette milioni di euro a un team di nove aziende – in pratica tutte le principali industrie aerospaziali del continente – per uno studio di fattibilità di un anno che elabori i requisiti e il piano di sviluppo della futura costellazione satellitare. Secondo il quotidiano francese Les Echos il costo complessivo del progetto potrebbe ammontare a oltre sei miliardi di euro.A luglio il deputato francese Jean-Christophe Lagarde aveva presentato all’Assemblea nazionale una proposta di risoluzione (la numero 3129) in cui chiedeva al governo di far valutare alla Commissione se non fosse il caso di rilevare la costellazione OneWeb, che aveva dichiarato fallimento pur avendo già avviato la produzione di oltre 600 satelliti e avendone già lanciati in orbita

varie decine. Tuttavia, sebbene da oltre un anno rilasciasse dichiarazioni pubbliche sulla necessità per l’Europa di avere un programma spaziale similare, Breton aveva di fatto rigettato la proposta, ritenendo quei satelliti tecnicamente non idonei ai requisiti strategici europei. La sua posizione deve essere stata politicamente supportata quantomeno dal governo di Parigi, e così OneWeb è stata acquistata per un miliardo di euro dal governo inglese fresco di Brexit e da un’azienda indiana di telecomunicazioni, con l’obiettivo di fornire i primi servizi commerciali già dal 2023.L’ambizione di Breton è quella di realizzare entro il 2027 una costellazione satellitare in grado di combinare Internet ad alta velocità con i sistemi di navigazione e di osservazione della Terra, Galileo e Copernicus. È questa la vera sfida tecnologica che l’Europa vorrebbe portare a Stati Uniti e Cina: realizzare una rete di centinaia di satelliti, geostazionari e in orbite Leo, dotata di sistemi crittografati e di tecnologie quantistiche. Breton non è un commissario “politico” nel senso letterale del termine; è un manager d’industria con grande esperienza ed è stato ceo di Atos, una

Le mosse di Bruxelles oltre l’atmosferaA luglio era stata presentata all’Assemblea nazionale di Parigi una proposta per chiedere alla Commissione europea di prendere in considerazione l’opportunità di acquistare la costellazione satellitare OneWeb, che aveva appena dichiarato fallimento. L’iniziativa è passata in secondo piano, mentre Bruxelles ha avviato un nuovo progetto spaziale da sei miliardi di euro

MARCELLO SPAGNULOingegnere aeronautico e esperto aerospaziale

Spazio

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delle più grandi società europee di information technology che fattura 12 miliardi di euro l’anno e impiega 110mila dipendenti tra 73 Paesi. Ovvio che quando parla di sfide che riguardano l’autonomia strategica, la sovranità tecnologica, la padronanza dell’informazione, dell’economia e delle infrastrutture digitali, occorre prestare particolare attenzione non solo per la sua credibilità, ma anche perché i concetti sono espressi in una linea di politica industriale concordata con le principali capitali europee, Parigi in primis.L’Ue ha tutte le competenze industriali per realizzare questo nuovo sistema satellitare, e infatti la Commissione ha incaricato un team che comprende tutte le principali aziende aerospaziali del continente, che sono poi le stesse già impegnate in Galileo e Copernicus. E come da prassi, questi dodici mesi di studio iniziale serviranno non solo a definire i requisiti tecnologici, ma soprattutto a delineare la ripartizione industriale delle attività tra le varie aziende. Il nuovo programma spaziale va infatti inquadrato in un contesto globale in cui l’industria manifatturiera europea dei satelliti e dei lanciatori ha assoluto bisogno

di un sostegno governativo per assicurare la propria continuità esistenziale. Il mercato in cui le aziende hanno operato negli ultimi quarant’anni si è definitivamente trasformato. Arianespace non domina più da anni il settore dei lanciatori e quindi tutte le industrie a essa collegate rischiano di costruire sempre meno vettori di lancio. Inoltre la domanda di grandi satelliti di comunicazione è ormai di poche unità l’anno (nel 2018 furono solo nove) insufficienti a mantenere la forza lavoro europea.Non ci voleva un oracolo per prevedere questa situazione, sarebbe bastato vedere i progressi di SpaceX, che vendeva i propri razzi alla metà del prezzo di Ariane, e la crescita di piattaforme come Netflix per capire che i broadcaster tradizionali sarebbero stati presto messi in crisi. Ma in realtà, l’Europa questo lo aveva capito bene. In un’intervista al Financial times il direttore generale uscente dell’Esa, Jan Woerner, aveva dichiarato che la necessità di una riorganizzazione del settore era chiara sin dal 2014, ma anche che metterla in pratica avrebbe richiesto anni, e che quindi era stato deciso di sviluppare un nuovo Ariane 6 senza

Il contesto

Il nuovo programma spaziale va inquadrato in un contesto globale in cui l’industria manifatturiera europea dei satelliti e dei lanciatori ha assoluto bisogno di un sostegno governativo per assicurare la propria continuità esistenziale. Il mercato in cui le aziende hanno operato negli ultimi quarant’anni si è definitivamente trasformato. Arianespace non domina più da anni il settore dei lanciatori e quindi tutte le industrie a essa collegate rischiano di costruire sempre meno vettori di lancio.

E l’Esa?

A oggi l’Agenzia spaziale europea (Esa) è ancora un utile aggregatore di risorse finanziarie da quasi cinque miliardi di euro l’anno, ma la sua rilevanza potrebbe presto divenire ridondante vis-a-vis della Euspa e soprattutto di un conglomerato industriale che dovesse consolidarsi intorno ad Ariane Group. Di fatto la scelta di nominare quale nuovo direttore generale dell’Esa un rappresentante di un Paese, l’Austria, che contribuisce con l’1% al budget dell’agenzia, non fa che confermare i dubbi circa una sua concreta assertività rispetto alla politica industriale dettata da Bruxelles e sviluppata da una grande azienda continentale.

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garanzia di competitività per assicurare continuità alle aziende. Ora questa riorganizzazione sembra improcrastinabile ed ecco che la Commissione avvia due iniziative: lancia un progetto satellitare da sei miliardi di euro per dare respiro e prospettiva all’industria manifatturiera e nel contempo completa la trasformazione della Galileo supervisory authority nella nuova European union space programmes agency (Euspa) il cui banco di prova sarà proprio la gestione del prossimo progetto satellitare, di fatto relegando l’Esa ad altro ruolo.Non è tutto. Ci sarà con tutta probabilità un terzo step, quello del consolidamento industriale. Proprio Thierry Breton aveva attribuito alla frammentazione e alla complessità della governance europea uno dei motivi dell’incidente che nel 2019 aveva interrotto i servizi di Galileo per sei giorni, e verosimilmente non vorrà ripetere la medesima configurazione anche per il progetto che sta mettendo in cantiere. Pertanto, con la Euspa che si avvia a essere il baricentro dei programmi spaziali e l’industria che potrebbe essere chiamata a breve a un consolidamento (cioè fusioni e ottimizzazione di risorse), cosa farà l’Esa? A oggi l’agenzia è ancora

un utile aggregatore di risorse finanziarie da quasi cinque miliardi di euro l’anno, ma la sua rilevanza potrebbe presto divenire ridondante vis-a-vis della Euspa e soprattutto di un conglomerato industriale che dovesse consolidarsi intorno ad Ariane Group. Di fatto la scelta di nominare quale nuovo direttore generale dell’Esa un rappresentante di un Paese, l’Austria, che contribuisce con l’1% al budget dell’agenzia, non fa che confermare i dubbi circa una sua concreta assertività rispetto alla politica industriale dettata da Bruxelles e sviluppata da una grande azienda continentale. Il punto è che mentre in Esa i finanziamenti seguono la logica del giusto ritorno che garantisce contratti a ogni Paese in base ai contributi versati, la Euspa opererà le sue scelte sulla base della competitività industriale dell’offerta. Per il nostro Paese, che ha deciso di contribuire all’Esa nei prossimi tre anni con 2,2 miliardi di euro (la cifra più alta mai stanziata dall’Italia), ciò dovrebbe far suonare più di un campanello di allarme.

Dopo osservazione della Terra e navigazione satellitare, l’Europa si appresta a lanciare il suo terzo grande programma spaziale. Si chiama GovSatCom e punta a garantire comunicazioni sicure per i governi, gli operatori istituzionali e per la gestione delle emergenze. Poco prima di Natale la Commissione europea ha selezionato il consorzio di aziende che si occuperanno dello studio di fattibilità, assegnando loro un contratto da 7,1 milioni di euro per un anno. Ci sono i big del Vecchio continente, tra cui le due joint venture di Leonardo, Thales Alenia Space

e Telespazio. Insieme a loro ci sono Airbus, Arianespace, Eutelsat, Hispasat, Ohb, Orange e Ses, così da avere tutte le competenze richieste tra aziende che realizzano satelliti, operatori e fornitori di servizi satellitari, realtà specializzate nell’accesso allo spazio. Dovranno valutare la fattibilità di una nuova iniziativa volta “a rafforzare la sovranità digitale europea e fornire connettività sicura per i cittadini, le imprese e le istituzioni pubbliche, oltre a garantire una copertura globale per le aree rurali e attualmente non servite”. Con il via libera del prossimo Programma spaziale europeo, GovSatCom diventerà

il terzo grande progetto dell’Ue oltre l’atmosfera. A guidare l’impegno c’è la Commissione, e in particolare la direzione Difesa, industria e spazio che rientra nelle competenze del commissario al Mercato interno, il francese Thierry Breton. Si punta alla condivisione di servizi satellitari che garantiscano un elevato livello di affidabilità, resilienza e sicurezza. Per ora lo studio di un anno dovrà definire i requisiti del sistema e le relative stime sui costi, valutando altresì quale formula sarà la più idonea a sostenere il progetto, a partire da partnership pubblico-private. Dal trasporto stradale al controllo del traffico aereo, dalla mobilità

autonoma all’Internet delle cose, il campo di applicazione possibile è svariato. Risale al dicembre 2013 il via del Consiglio europeo su GovSatCom, immaginato come un programma di “forte cooperazione” tra Stati membri, Commissione e Agenzia spaziale europea (Esa). Nel 2016, all’interno della Strategia globale dell’Ue, il progetto figurava tra quelli volti a contribuire al potenziamento nella postura internazionale dell’Unione, in particolare nella risposta alle minacce ibride, nel supporto alla strategia marittima e alla politica artica.

I passi dell’Ue per lanciare GovSatCom

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I voli sulla Crew Dragon per gli astronauti europei

tecnologia è unica al mondo ma questo non ha accontentato il fondatore Elon Musk, che già guarda non uno, ma dieci passi in avanti. Starship è un razzo gigantesco che potrà trasportare fino a cento persone ed essere completamente riutilizzabile, proprio come un aereo. A dicembre l’esemplare Sn 8 è decollato da Boca Chica, in Texas, raggiungendo l’altezza di quindici chilometri. In soli 34 giorni SpaceX è stata pronta con un altro esemplare in rampa di lancio, la navetta Sn 9, dimostrando una rapidità nella produzione di prototipi assolutamente impensabile finora. Sembra proprio che a breve il problema della scarsa disponibilità di voli per gli astronauti sarà un lontano ricordo. Dobbiamo però aspettare (e sperare) che SpaceX abbia successo.

L’Agenzia spaziale europea (Esa) sta definendo in queste settimane la sequenza degli astronauti europei che avranno la fortuna e il privilegio di essere i primi a volare a bordo della navetta Crew Dragon. Grazie a SpaceX, infatti, gli Stati Uniti hanno ottenuto di nuovo accesso autonomo allo spazio, raggiungendo e superando la capacità della russa Soyuz. Raggiungendo, perché la Dragon ha la possibilità di eseguire pressoché lo stesso numero di voli ogni anno; e superando, perché dai tre posti della Soyuz permette di ospitare al momento quattro astronauti, con la possibilità di salire poi fino a sette.Aumenteranno le possibilità di volo per gli americani e, con essi, per gli europei. Tuttavia coglie un poco di sorpresa che il primo astronauta a volare sulla Crew Dragon non sarà un italiano (come dopo la ministeriale Esa di Siviglia del 2019 ci si sarebbe potuti attendere), ma il francese Thomas Pesquet. Tra l’altro è ironico osservare la coincidenza: proprio in questi giorni varie autorità francesi invocano a gran voce la (presunta) concorrenza sleale di SpaceX nel settore dei lanciatori, quando per mandare nello spazio il loro astronauta hanno bisogno proprio dell’azienda di Elon Musk.Thomas sarà quindi il primo

astronauta europeo a volare a bordo del Crew Dragon. Purtroppo non sarà italiano neanche il secondo, in quanto il posto è stato assegnato al tedesco Matthias Maurer, il cui nome non è così familiare. La selezione del 2009 infatti includeva solamente Alexander Gerst, oggi affiancato da un nuovo astronauta tedesco, Maurer per l’appunto. Gerst ha volato due volte in quota Esa e con l’assegnazione di Maurer sono ben tre i voli assegnati alla Germania (cui fanno seguito i due voli della Francia di Thomas Pesquet). L’Italia, dal 2009, di voli in quota Esa ne ha avuto solamente uno, malgrado investimenti estremamente significativi. Chi scrive è ovviamente in parziale conflitto di interessi, essendo assegnabile e avendo dato interesse e disponibilità a volare. Eppure, i numeri dei voli in quota Esa sono oggettivi: tre alla Germania, due alla Francia e a oggi solamente uno all’Italia.Per fortuna la disponibilità numerica di posti potrebbe a breve non essere più un problema. Mentre scriviamo si è aperta la finestra di lancio per l’esemplare numero 9 di Starship, altro prodotto di SpaceX. La Crew Dragon è una capsula, poco più grande della Soyuz, lanciata dal lanciatore Falcon 9, famoso razzo a primo stadio riutilizzabile. Tale *astronauta Esa

di ROBERTO VITTORI*

Contropensieri spaziali

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Tra industria e politica, quale futuro per l’Italia? Mai come negli ultimi anni le tematiche spaziali hanno occupato pagine di giornali e discussioni politiche. Da tematica spesso trascurata, lo spazio è così diventato ciò che doveva essere da tempo: diplomazia, ricerca e sviluppo, difesa, telecomunicazioni, sicurezza, navigazione e così via. Ma non è tutto oro ciò che luccica

STEFANO GUALANDRISgià consigliere del sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio

Spazio

È iniziato il 2021, e siamo ormai a tre anni dall’entrata in vigore della legge numero 7/2018 per il coordinamento e riordino delle politiche spaziali in Italia. Con suddetta norma è stato istituito il Comitato interministeriale per le politiche relative allo spazio e alla ricerca aerospaziale (Comint), entrato nella sua piena operatività con il primo governo Conte. Oggi, dopo un primo periodo di rodaggio e dopo una ministeriale dell’Esa sembra possibile trarre le prime somme sulla riforma e sul futuro dello spazio italiano. Il cambiamento è stato certamente epocale: sono state cancellate consuetudini e regole di ingaggio che prima esistevano tra politica, industria, università e Asi. Finalmente, con il Comint, i politici sono tornati a fare “il loro lavoro”, ossia l’indirizzo e il coordinamento (assumendosi in prima persona le responsabilità delle scelte) e l’Asi è diventata chiaramente l’illustre propositore e mediatore “tecnico” tra politica e industria. La politica ai politici, e la parte tecnica torna ai tecnici. Ha funzionato? A mio avviso sì, e la sua vicinanza strutturale al National space council (Nsc) americano ne ha certificato la valenza strategica. Dal Conte 1 al Conte2 lo spazio non è più stato tema di nicchia per burocrati di singoli ministeri ed diventato un tema-chiave,

multi-ministeriale. Mai come negli ultimi anni le tematiche spaziali hanno occupato pagine di giornali e discussioni di governo. Da argomento spesso trascurato, perché non interessante “in termini elettorali”, lo spazio è diventato ciò che doveva essere da tempo: diplomazia, ricerca e sviluppo, difesa, telecomunicazioni, sicurezza, navigazione e così via. In sintesi, oggi, ogni attuale o futura tecnologia è legata all’aerospazio. Il Comint ha dunque oggi permesso all’Italia di comprendere quell’importanza dello spazio che nazioni come Stati Uniti, Francia, Cina o Germania avevano già compreso. In questi anni, dalla ministeriale Esa ai singoli programmi, l’ufficio della segreteria del Comint, nella persona dell’ammiraglio Carlo Massagli, è stata ed è il veloce e chiaro riferimento per il comparto. Industria o accademia, da lì si deve passare. Ma negli ultimi mesi e adesso? Quale futuro ci si aspetta per lo spazio italiano? Alcune gravi recenti sconfitte italiane, a mio avviso, nascono fondamentalmente dalla progressiva perdita di autorevolezza che ha subìto il Comint. Non è qui sterile polemica politica – lo scrivente ricorda infatti che sta lodando una legge promulgata dal governo Gentiloni – ma constatazione dei fatti. L’accentramento negli ultimi mesi delle politiche spaziali a poche persone, a rischio dello

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sfruttamento delle potenzialità del “confronto” interno al Comint, ha comportato la visione dello spazio come mero strumento della politica e non dello sviluppo del sistema-Italia. Per sua natura un programma spaziale ha tempi e visioni che non si possono conciliare coi tempi di una legislatura, scelte su cordate imprenditoriali o persone non possono essere legate alla politica, altrimenti il fallimento è assicurato. Lo spazio non può accettare il “tirare la giacchetta” al singolo ministero. La mediazione tra maggioranza e opposizione, e tra gli stessi ministeri e regioni, era all’interno del Comint lo strumento per una visione a medio-lungo termine, per politiche strategiche e non tatticismi del momento. Questo è mancato recentemente: il dialogo, il confronto. Con la nuova strutturazione post-legge 7/2018, un’Asi senza “una politica che fa sistema-Paese” a guidarla è un’agenzia zoppa. Non si può pretendere che supplisca alle mancanze d’indirizzo nazionale. E può essere forte solo se con le spalle coperte da chi, a prescindere dalle parti, amministra la nazione. Non può funzionare l’Esa senza il supporto di Bruxelles, e non si può chiedere all’Asi di funzionare se Roma non c’è. L’agenzia nazionale appare oggi un Leviatano in via di riorganizzazione, con tanto cuore (dall’interno) ma totalmente priva di un

cervello che la guidi. Non c’è futuro oggi per lo spazio italiano se non si comprende questo. Germania e Francia si stanno spartendo ruoli e contratti. Le nostre imprese chiedono aiuto e la politica sta a guardare. Si è tanto fatto per i prossimi programmi bilaterali per lo spazio con gli Stati Uniti (Artemis in primis), nati proprio in seno al Comint. Eppure nulla si sta facendo oggi per prevenire la ovvia e futura svolta che si avrà con la presidenza Biden, ossia il privilegiare l’Europa e l’Esa a discapito dei bilaterali. E l’Europa poco considera una litigiosa Italia che non sa fare nemmeno squadra al suo interno (si veda la doppia candidatura per il vertice dell’Esa). Il Comint, oggi più che mai, è il prestigioso tavolo dove concertare una linea d’azione sull’agenzia europea come sulla Nasa, dove decidere con chi e come stare, perché se gli Usa ti invitano al “ballo”, non puoi permetterti che qualche ministro faccia imbucare qualche amico non gradito, magari da Pechino. Il futuro dello spazio italiano è purtroppo incerto e si addensano nere nubi all’orizzonte, solo andando oltre ai personalismi e alla politica di parte si potrà volare al di sopra. Perché lo spazio italiano, i nostri atenei e le nostre imprese, non hanno bisogno della paghetta da crisi Covid-19, ma di progettualità, programmi, idee chiare, certe e condivise.

L’Agenzia spaziale europea (Esa) è alla ricerca di nuovi astronauti. L’annuncio ufficiale è arrivato il 14 gennaio nel corso della consueta conferenza stampa di inizio anno del direttore generale. Per l’occasione, Jan Woerner è stato affiancato da Josef Aschbacher, che ne prenderà il posto probabilmente dal prossimo primo marzo invece che da giugno, come inizialmente previsto. È stato lo stesso Woerner a presentare

richiesta al Consiglio dell’Esa di accelerare la procedura di transizione, così da consentire all’agenzia di affrontare al meglio le sfide dell’anno appena iniziato, dai colloqui con gli Stati Uniti per il programma lunare Artemis, ai negoziati con l’Ue per la nuova governance spaziale del Vecchio continente.Nel frattempo, il 16 febbraio, partirà il primo step di selezione per altri astronauti da inserire nel corpo dell’Esa; si apriranno

le application e si conosceranno i dettagli su calendario e iter. Sarà la seconda classe di astronauti europei dopo quella del 2009 in cui figurano tuttora Luca Parmitano e Samantha Cristoforetti.Per AstroSamantha, nel frattempo, un nuovo lancio verso la Stazione spaziale internazionale (Iss) potrebbe esserci il prossimo anno, almeno secondo quanto spiegato dal presidente

dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) Giorgio Saccoccia. “Sono convinto – ha detto – che gli impegni presi alla ministeriale di Siviglia saranno rispettati con la garanzia di avere la nostra Samantha tornare a breve sulla stazione spaziale”. Quest’anno saranno due i voli targati Esa verso la Iss, rispettivamente per il francese Thomas Pesquet e il tedesco Matthias Maurer.

L’Esa cerca nuovi astronauti

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alla Bea, i casi di interpretazione creativa iniziarono quasi prima che l’inchiostro fosse asciutto. Certo, i concorrenti si lamentavano, ma poi chiudevano un occhio. Purché non si esagerasse, come aveva fatto la compagnia scandinava andandosi a vantare della superiorità del cibo che serviva in volo. La lettera commerciale passò all’ufficio legale della Twa, che pur non essendo citata per nome si ritenne diffamata e passò al contrattacco con due diverse azioni in sede civile e presso la Iata. Se le cronache non tramandano l’esito della querela per diffamazione, la Iata multò Sas di 20mila dollari, pari a circa 150mila euro di oggi. La vera risposta fu però sul piano delle regole, perché – come raccontò l’Associated press, ripresa dalla stampa quotidiana – una riunione appositamente indetta s’incaricò di definire con esattezza cosa fosse un sandwich per la Iata: qualcosa di “freddo, composto principalmente di pane o qualcosa di simile, spoglio, auto-contenuto, e non comprendente tra i ripieni caviale, ostriche, aragoste o simili”. Finiva così la guerra dei sandwich, uno degli episodi più strani dell’epoca in cui la stabilità dell’industria del trasporto aereo era assicurata innanzitutto dalla ragnatela di norme anti-competitive. Per il cambiamento sarebbe stato necessario attendere altri vent’anni.

“Sui nostri aerei non troverete cose gommose indigeribili avvolte nel cellophane”. Quando il dirigente della Twa lesse la lettera che la direzione commerciale della Sas aveva indirizzato ai potenziali clienti d’affari, fece un sobbalzo sulla sedia. Era un colpo basso. Correva l’anno 1958. Quantità e qualità del cibo servito a bordo degli aerei erano ben definiti dagli accordi interni della International airline transport association (Iata), l’organizzazione mondiale delle compagnie di linea, siglati sette anni prima, in modo che nessuno potesse avvantaggiarsi offrendo menù sontuosi. Certo, c’era sempre chi cercava di aggirare le regole, lavorando sull’originalità dei piatti, sull’eleganza della presentazione e su ogni altro aspetto possibile. In un’epoca in cui l’Atlantico si traversava ancora con aerei a elica, con uno o più scali, la Sas pensò quindi di puntare sulla qualità del servizio per indurre i viaggiatori diretti in Europa a passare da Stoccolma o Copenaghen. Fu così che i miseri sandwich si trasformarono in un fantastico smorgasbord svedese, con una sfilata di salmone, aragoste, caviale, gamberetti e così via, ma rigorosamente spalmate sul pane. Non mancava nemmeno l’acquavite di accompagnamento. Tutto molto ai limiti, ma non era la prima volta che capitava. Dalla Klm

La guerra dei sandwich

e FRANCESCA GARELLOdi GREGORY ALEGI

SMÖRGÅSBORD (TARTINE SVEDESI)

INGREDIENTI PER 4 PERSONE8 fette di pane di segale200 gr di filetti di aringa o salmone affumicato a fette150 gr di formaggio fresco cremoso (tipo Philadelphia)4 cucchiai di maioneseun cucchiaio di succo di limoneolio evo q.b.sale finopepe nero

PREPARAZIONEMescolare a crema il formaggio con la maionese, il succo di limone, sale e pepe. Tagliare ogni fetta di pane a metà ottenendo delle tartine quadrate. Spalmare su ogni tartina un generoso strato di crema, poi adagiarvi il pesce a scelta. Condire con un filo d’olio, una spolverata di pepe, qualche goccia di limone. Servire come antipasto o, secondo tradizione, come parte di una tipica colazione svedese.

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Come si chiama quell’aeroporto?

Roma ha l’aeroporto Leonardo da Vinci, Parigi lo scalo Charles De Gaulle e Genova quello intitolato a Cristoforo Colombo. Tuttavia, non tutte le città hanno la fortuna di potersi associare ai grandi nomi della storia, comprese quelle che già in partenza si trovano in difficoltà. Cosa dire, per esempio, di Deadhorse airport, che serve l’omonimo insediamento artico sulla baia di Prudhoe, in Alaska, base per i lavorati dei pozzi petroliferi. Sostituire il nome con qualcosa di più invitante, per sviluppare il turismo? Ma no, sarebbe come abbattere un cavallo morto. Forse più invitante è Love Field, che non si trova in qualche paradiso balneare tropicale, ma piuttosto a Dallas, in Texas. Fu il principale scalo della città fino all’apertura di Dallas Fort Worth, ma a tutt’oggi svolge il suo ruolo a fianco al grande Dfw, come Linate rispetto a Malpensa. Che dire poi dello scalo Will Rogers a Oklahoma City, che formalmente si chiama nientepopodimeno che Will Rogers world airport? Ma chi è Will Rogers? Fu un cowboy, nativo americano, uomo di spettacolo, comico, editorialista e osservatore sociale, con oltre venti film. Personaggio poliedrico, nacque in una ricca famiglia della nazione Cherokee in territorio indiano. Fra i suoi tanti talenti, era capace di azioni prodigiose con i cavalli. Dando il suo nome all’aeroporto, Oklahoma City ha onorato un nativo americano autoctono. Rogers è morto nel 1935 in un incidente aereo, insieme al grande pilota Wiley Post, che aveva compiuto il primo volo in solitaria intorno al mondo due anni prima. Parlando di personaggi dello spettacolo, non dimentichiamo l’aeroporto John Wayne nell’Orange county (Los Angeles). Ma ci sono anche grandi e grandissimi aeroporti che portano il nome di qualcuno che la grande maggioranza dei passeggeri che transitano nello scalo non ha nessuna idea di chi sia. Per buona parte degli ultimi settant’anni l’aeroporto O’Hare di Chicago è stato il primo nel mondo per numero

di passeggeri. In seguito alla veloce crescita del trasporto aereo in Cina e nel Medio Oriente è sceso un pochino, ma è pur sempre sesto nel mondo. Collega direttamente più destinazioni di qualsiasi altro aeroporto. Il 19 settembre 1949, l’aeroporto Chicago-area Orchard Depot è stato rinominato O’Hare International Airport. Eppure ha un nome insignificante per buona parte degli ottanta milioni di passeggeri annui che transitano nello scalo, sebbene commemori un grande personaggio dell’aviazione: Edward Henry O’Hare, aviatore, primo asso della Marina militare americana, che il 20 febbraio 1942 decollò da solo per attaccare una formazione di nove bombardieri pesanti giapponesi in avvicinamento alla sua portaerei. Seppur dotato di munizioni limitate, ebbe il merito di abbattere cinque dei bombardieri nemici e divenne il primo aviatore navale a ricevere la medaglia d’onore nella Seconda guerra mondiale. Morì meno di due anni dopo, a bordo del suo Grumman F6F Hellcat, guidando il primo attacco notturno di caccia della Marina militare degli Stati Uniti lanciato da una portaerei, abbattuto da un gruppo di siluranti giapponesi. Nel terminal 2 è esposto un Wildcat con la stessa livrea dell’aereo di O’Hare. Ma la storia non finisce qui, anzi. L’eroico combattente era il figlio di Edward J. O’Hare – detto Easy Eddy – avvocato difensore e stretto consigliere di Al Capone, fino a quando non passò dalla parte della giustizia, aiutando le autorità a ottenere la condanna del boss, poi incarcerato ad Alcatraz. La criminalità organizzata agì rapidamente e O’Hare fu ammazzato mentre guidava la sua macchina. Infine c’è la Grande mela, che fa eccezione. Jfk è forse il più noto nome aeroportuale a livello mondiale, mentre lo scalo La Guardia commemora con un grande newyorkese, Fiorello La Guardia, primo italo-americano eletto al Congresso degli Stati Uniti, per molti anni sindaco di New York.

*direttore di Interazione srl

di NICK BROUGH*

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“Resilienza” e “trasformazione” sono i due punti-chiave della ricerca che il Cluster tecnologico nazionale dell’aerospazio (Ctna) ha realizzato per analizzare l’impatto del Covid-19 sul settore aeronautico, descrivere gli interventi più urgenti e delineare la strategia per affrontare la sfida tecnologica della de-carbonizzazione del trasporto aereo che nei prossimi anni trasformerà l’industria aeronautica.La ricerca – che si è avvalsa delle indicazioni di un comitato scientifico industria-università e di un sondaggio somministrato online con la collaborazione dei dodici distretti tecnologici dell’aerospazio – scaturisce dalla constatazione di come la crisi globale abbia impattato in particolare l’aviazione civile, uno dei settori più qualificati sotto il profilo tecnologico e un abilitante fondamentale della crescita economica globale.

Quello aeronautico è un settore strategico a livello mondiale per la competitività dei Paesi, espressione di competenze tecnologiche e professionalità di altissimo livello e con rilevanti ricadute sull’economia delle nazioni, sui mercati adiacenti e sulla società nel suo complesso. Nel 2019 le compagnie aeree hanno trasportato oltre 4,5 miliardi di passeggeri per 8.329 miliardi di passeggeri/chilometro e 64 milioni di tonnellate di merci, pari a un terzo del commercio mondiale per valore. Storicamente il mercato aeronautico è raddoppiato ogni 15 anni, dimostrando resilienza a lungo termine di fronte alle crisi e la stima attuale di Boeing per i prossimi vent’anni prevede un mercato del valore di oltre 15mila miliardi di dollari tra nuovi aerei e servizi collegati a livello globale.Con oltre dieci miliardi di euro, oltre 180mila addetti in tutta la filiera e

quasi il 100% di export per i suoi prodotti civili, l’industria aeronautica italiana opera in un mercato globale e nel suo complesso è quarta in Europa e settima nel mondo per dimensioni, con posizioni di leadership negli elicotteri civili, negli aerei regionali e nella propulsione.Complessivamente le aziende italiane occupano importanti posizioni sul mercato, sia autonomamente sia nel quadro delle principali cooperazioni internazionali e controllano tecnologie critiche, funzionali anche alle esigenze della sicurezza nazionale. L’Italia è tra i pochi Paesi al mondo che vantano una catena del valore completa e una solida e articolata filiera produttiva di lunga tradizione, grazie alla presenza di un fitto tessuto di Pmi, di grandi imprese multinazionali e di provider di servizi e tecnologie, a fianco dei quali convivono centri di ricerca e poli universitari di eccellenza.

Paper.

Aviazione civile, come evitare la crisia cura di CRISTINA LEONEpresidente del Cluster tecnologico nazionale dell’aerospazio, Ctna

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Le aziende, università e centri di ricerca italiani partecipano attivamente ai programmi di ricerca europei nell’ambito di Horizon 2020 e prossimamente Horizon Europe, così come in quelli nazionali e regionali, i cui obiettivi per l’aeronautica sono sostenibilità, eco-compatibilità e digitalizzazione.Il settore è tra i più colpiti dal Covid-19, con riverberi negativi soprattutto per le Pmi, imprese flessibili e dinamiche ma, in questa fase, in difficoltà a causa delle proprie limitate dimensioni, capitalizzazione e struttura. A livello globale la contrazione registrata nei primi nove mesi del 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019 indica volumi di consegne in forte calo in tutti i segmenti: -61% regionali e turboelica; -59% wide body; -46% narrow body; -35% elicotteri. Inoltre, la contrazione della domanda per servizi di Maintenance, repair and

overhaul (Mro) è stata superiore al 50%. Le prospettive di ritorno ai livelli pre-pandemia traguardano ormai il 2024-2025 e si stima che nel decennio si accumulerà una perdita di fatturato del 23% rispetto alle previsioni pre-Covid.Tutto ciò sta colpendo l’occupazione e l’organizzazione delle attività, come evidenziato dalle drastiche misure di efficientamento dei maggiori costruttori mondiali, con importanti riduzioni di personale e razionalizzazioni di siti produttivi. Al calo non sono sfuggiti i programmi più significativi per l’industria italiana, alla cui realizzazione concorrono le grandi aziende quali Leonardo e Avio Aero e che, attraverso di loro, alimentano gran parte della filiera nazionale. Nell’immediato le aziende hanno reagito al Covid-19 con smart working (laddove possibile), cassa integrazione, diversificazione

produttiva, strategie finanziarie (revisione investimenti, tempi di incasso/pagamento, eccetera).Per fronteggiare l’emergenza, le aziende (in particolare le Pmi) hanno immediata necessità di provvedimenti di carattere settoriale, quali incentivi e appalti pubblici per l’acquisto di beni off the shelf, uniti ad altri di carattere generale, tra i quali la riduzione della pressione fiscale e del costo del lavoro, l’accesso al credito, lo snellimento di normative e procedure, agevolazioni per gli investimenti in sostenibilità, incentivi alle aggregazioni, fusioni e concentrazioni di Pmi.Oltre il 40% delle risposte al questionario indica la capacità delle piccole e medie imprese di contenere gli effetti della crisi spostando parte della produzione verso nuovi servizi e prodotti. Tra queste, più dell’80% sono imprese con meno di cento dipendenti. Ciò conferma

Il settore è tra i più colpiti dal Covid-19, con riverberi negativi soprattutto per le Pmi, imprese flessibili e dinamiche ma, in questa fase, in difficoltà a causa delle proprie limitate dimensioni, capitalizzazione e struttura. Ecco le misure necessarie per evitare la crisi

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una notevole flessibilità e capacità tecnico-organizzativa delle piccole imprese. In termine di trasferimento intersettoriale, il 20% delle imprese aerospaziali rispondenti ha realizzato prodotti medicali o Dpi, con utilizzo di tecniche di stampa 3D o addirittura brevettando nuovi apparati. Affinché queste operazioni non restino isolate ed emergenziali ma contribuiscano in maniera sostenibile a mettere in sicurezza la filiera, è auspicabile un intervento agevolativo al di là di quello già previsto per la produzione di prodotti medicali o dispositivi di protezione individuale, per esempio sotto forma di aiuti alla conversione, alla modernizzazione e all’adozione di sistemi di produzione flessibili e digitalizzati.Tutte le aziende rispondenti hanno fatto ricorso in misura più o meno ampia a strumenti digitali quali: digitalizzazione della catena di fornitura attraverso l’adozione di

sistemi Enterprise resource planning (Erp), Manufacturing execution systems (Mes) e Product lifecycle management (Plm) per una visione in tempo reale di domanda e offerta; aumento dell’automazione nei processi produttivi; gestione autonoma della manutenzione degli impianti; formazione e aggiornamento del personale. Tale scelta contribuirà a promuoverne la competitività in termini di efficienza dei processi produttivi e della capacità di relazionarsi con i propri clienti.La gravità della situazione creata dal Covid-19 non deve mettere a repentaglio questo settore di eccellenza né influire sulle sue capacità di rimbalzo in vista della prossima fase di accelerazione della transizione tecnologica. Per fare questo è necessario investire in competenze, know how, innovazione e miglioramento della competitività

della filiera. È opportuno, sotto ogni profilo, che il settore aeronautico sia riconosciuto come strategico, come premessa a una serie di azioni strutturali.In generale è necessario aumentare le risorse del “Fondo d’investimento per lo sviluppo delle Pmi del settore aeronautico e della green economy”, che nella legge di bilancio 2021 è inadeguato al punto di rischiare di pregiudicare la continuità di molte imprese. Il Ctna stima in 500 milioni di euro nel triennio 2021-2023 il fabbisogno del Fondo per lo sviluppo delle Pmi del settore aeronautico.La risposta alla crisi innescata dalla pandemia potrebbe però essere indirizzata verso l’accelerazione del percorso di innovazione e trasformazione del settore, resa comunque necessaria dalla sfida globale della decarbonizzazione del traffico aereo. Se affrontato con una strategia di sistema-Paese, tale

Lo studio

Il paper rappresenta un estratto dello studio “L’industria aeronautica italiana e il Covid tra resilienza e trasformazione”, pubblicato a dicembre dal Cluster tecnologico nazionale dell’aerospazio (Ctna). La ricerca si è avvalsa delle indicazioni di un comitato scientifico industria-università e di un sondaggio somministrato online con la collaborazione dei dodici distretti tecnologici dell’aerospazio.

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scenario costituisce l’opportunità per un nuovo posizionamento dell’industria aeronautica italiana. Investendo nella transizione tecnologica verso un nuovo sistema di aviazione con velivoli, motori e sistemi verdi e in processi industriali digitalizzati, il comparto italiano potrà inserirsi tra i più avanzati nelle tecnologie green e acquisire un vantaggio competitivo abilitante per partecipare da protagonista ai prodotti e servizi che domineranno il mercato aeronautico per i prossimi decenni.È necessario che siano riconosciuti la natura strategica del settore e l’esigenza di un piano mirato di finanziamento pubblico. È inoltre necessario ammodernare il regolamento attuativo della legge 808/85 e allineare l’arco temporale di programmazione delle risorse a quello dei principali programmi europei di riferimento. È poi

opportuno avviare un’iniziativa strategica di ricerca e sviluppo, finalizzata a preservare e rilanciare competenze e know how, maturare tecnologie per l’aeronautica civile del futuro e stimolare il trasferimento tecnologico tra imprese, università e centri di ricerca.La gestione di questa iniziativa strategica nel campo dell’innovazione tecnologica potrà essere affidata a un partenariato pubblico-privato tra il Mise e il Ctna, sul modello dei joint undertaking europei per la gestione di programmi di innovazione e secondo una roadmap di sviluppo coerente con il percorso europeo e globale.Il Ctna stima in un miliardo di euro nel periodo 2021-2026 il fabbisogno della nuova iniziativa strategica Aviazione sostenibile per le attività di sviluppo di tecnologie abilitanti, studi di fattibilità e dimostratori tecnologici, cifra comparabile in rapporto alla dimensione del

comparto con quanto stanziato in altri Paesi di riferimento. Si tratta, in sostanza, di cogliere lo spirito di Next generation Eu, andando oltre la mera continuità per riposizionare il settore aeronautico italiano tra quelli più avanzati nelle tecnologie green e promuovere competenze distintive in vista della prossima fase di accelerazione del passaggio verso una nuova generazione di prodotti a ridotto impatto ambientale. I Paesi europei con settori aeronautici sviluppati hanno lanciato notevoli investimenti con obiettivi simili e, per salvaguardare le proprie imprese, l’Italia deve fronteggiare adeguatamente la situazione.

Spagna

Madrid ha dichiarato di aver concordato con Airbus di investire 185 milioni di euro per rafforzare il proprio settore aerospaziale e ridurre al minimo i tagli di posti di lavoro da parte del produttore europeo di aerei nel Paese per proteggere e sviluppare competenze, know how e capacità chiave. Il piano di investimenti sarà finanziato dal Next generation Eu.

Regno Unito

Londra ha scelto di concentrarsi sullo sviluppo di tecnologie per la neutralità climatica del trasporto aereo. Attraverso la costituzione una cabina di regia pubblico-privata per il settore (JetZero), l’avvio di uno studio di fattibilità interamente pagato dallo Stato con il coinvolgimento di cento persone distaccate dalle aziende partecipanti (FlyZero) e lo stanziamento di 400 milioni di sterline per lo sviluppo di nuove tecnologie.

Francia

Parigi ha stanziato inizialmente 15 miliardi di euro per il settore aeronautico, includendo garanzie sui prestiti, sussidi salariali per i lavoratori licenziati e un fondo di investimento per le piccole e medie imprese. Inoltre ha adottato come strumento di sostegno l’anticipazione o accelerazione di ordini già pianificati. Recentemente ha stanziato ulteriori 1,5 miliardi di euro per la ricerca aeronautica, puntando con forza sulla propulsione a idrogeno.

Cosa fanno gli altri Paesi

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La Brexit sulle rotte europeeL’uscita del Regno Unito dall’Unione europea segna quella parallela dall’Easa, con impatti rilevanti su compagnie aeree e passeggeri. La separazione completa avverrà il 31 dicembre 2022, dopo due anni di “recognition period”, durante il quale le parti riconosceranno le certificazioni rilasciate dall’uno e dall’altro. Ma intanto?

GREGORY ALEGIgiornalista e storico

Aviazione

Dall’ultima presenza delle università inglesi nel programma Erasmus ai ritardi burocratici nell’esportazione del pesce verso l’Europa, nelle convulse settimane di dicembre la stampa si è spesso soffermata sulle conseguenze della Brexit. Come spesso accade tra gli aspetti meno citati vi è l’aviazione, soprattutto nei suoi aspetti tecnico-operativi legati alla parallela uscita dalla European aviation safety agency (Easa), l’agenzia creata nel 2002 per una regolamentazione unitaria e omogenea del volo, dalle licenze di pilotaggio all’omologazione dei velivoli, dalle organizzazioni di produzione alla manutenzione dei velivoli. Proprio questo è uno degli aspetti lasciati irrisolti dal ponderoso accordo di uscita raggiunto alla vigilia di Natale.Non è un discorso da poco. Gli aerei di linea hanno bisogno di una release to service (Crs) a ogni transito e dopo ogni ispezione giornaliera. Allungarne i tempi o non riuscire a farlo per motivi burocratico-organizzativi sarebbe un aggravio di costi per le compagnie, già sotto pressione per il calo di traffico e un disagio per i passeggeri, già preoccupati per il contagio e vittime del taglio

delle frequenze. Il disallineamento tra Easa e Civil aviation authority (Caa) è quindi fonte di una certa preoccupazione per i vettori aerei e le società di manutenzione.Dal punto di vista societario e dal punto di vista dell’Ue, la Brexit ha trasformato il Regno Unito in un Paese estraneo. Questo ha messo le compagnie aeree britanniche di fronte alla scelta di restare tali (e perdere dunque l’accesso al mercato interno comunitario, nel senso di non poter più operare rotte interne a un Paese Ue o tra due Paesi Ue diversi dal proprio) oppure diventare europee. British Airways ha scelto necessariamente la prima opzione, mentre Easyjet ha preferito la seconda, trasferendo parte della propria flotta di Airbus A320 sul registro austriaco: addio al prefisso G, benvenuto quello OE, che le permette di restare all’interno dell’ambiente normativo Easa nel quale ha operato finora.“Il cambio di targa porta con sé complicazioni logistiche e manutentive”, spiega l’ingegner Sergio Scalera, amministratore delegato di Nayak aircraft services Italy, società di manutenzione con sede a Malpensa e attiva su numerosi scali in Italia e

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nel resto d’Europa. Per gli aerei vale più o meno il principio sancito nel 1555 dalla pace di Augusta: cuius regio, eius religio. Fuor di metafora, dalla mezzanotte del 31 dicembre 2020 ai velivoli immatricolati nell’Ue si applicano i regolamenti Easa, con annesse certificazioni di imprese e personale; a quelli registrati G (“Golf”) si applicano invece quelli della Caa.Nello scenario post-Brexit, un’azienda di manutenzione italiana come Nayak potrà operare su aerei con immatricolazione comunitaria in base alla certificazione per la manutenzione (la cosiddetta Parte 145) rilasciata da Easa, ma dovrà avere una Part 145 Caa per intervenire su quelli con “targa” britannica. Poiché il Regno Unito ha fatto parte dell’Easa sin dalla nascita, al momento le due normative Part 145 sono assolutamente identiche, ma in futuro potrebbero disallinearsi. Proprio per questo alcune società, come Nayak, hanno chiesto e ottenuto la certificazione britannica, che peraltro consentirebbe loro anche di operare direttamente nel Regno Unito su aerei immatricolati G. Lo stesso vale per le licenze del personale tecnico.Nella realtà, a ben guardare, la recognition risolve

solo una parte del problema. Lo spostamento dei pezzi di ricambio, per esempio, avverrà a velocità diversa a seconda che il pezzo richiesto si sposti all’interno dell’Ue o debba attraversare la frontiera. “È già accaduto che un aereo britannico sia rimasto fermo per diversi giorni su un aeroporto spagnolo in attesa che i ricambi svolgessero i controlli doganali per uscire dal territorio britannico ed entrare in quello comunitario”, spiega Scalera. Di fatto al momento la situazione è ancora poco chiara, appena alleggerita dal minor numero di voli imposta dal Covid, che in questo caso paradossalmente aiuta.La separazione completa avverrà il 31 dicembre 2022, dopo due anni di “recognition period”, durante il quale le due parti riconosceranno appunto le certificazioni rilasciate dall’uno e dall’altro. In questo periodo coesisteranno un release statement normale per le aziende certificate britanniche e uno “speciale”, per le altre. Nei prossimi due anni Caa ed Easa dovranno quindi tentare di raggiungere un accordo bilaterale, simile a quelli già in essere con Paesi che vanno dagli Stati Uniti al Marocco, che sancisca un riconoscimento non più provvisorio. Poi, ciascuno per conto suo.

La sceltaDal punto di vista dell’Ue la Brexit ha trasformato il Regno Unito in un Paese estraneo. Questo ha messo le compagnie aeree britanniche di fronte alla scelta di restare tali (e perdere l’accesso al mercato interno comunitario) oppure diventare europee.

Il principioPer gli aerei vale più o meno il principio sancito nel 1555 dalla pace di Augusta: cuius regio, eius religio. Dalla mezzanotte del 31 dicembre 2020 ai velivoli immatricolati nell’Ue si applicano i regolamenti Easa; a quelli registrati G (“Golf”) quelli della Caa britannica.

I ricambiNella realtà, a ben guardare, la recognition risolve solo una parte del problema. Lo spostamento dei pezzi di ricambio, per esempio, avverrà a velocità diversa a seconda che il pezzo richiesto si sposti all’interno dell’Ue o debba attraversare la frontiera.

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Quanto sarà green il trasporto aereo?Per il settore aeronautico la crisi economica si intreccia all’attenzione per l’impatto ambientale, richiedendo con sempre più urgenza un cambio di rotta per una maggiore sostenibilità. Le iniziative sono molte, a livello internazionale e delle singole aziende e compagnie, alla ricerca di nuovi carburanti e modelli avanzati di velivoli e motori, per un’aviazione sempre più “verde”

MARCO BATTAGLIA

Aviazione

Il settore del trasporto aereo è responsabile da solo per il 2% del totale delle emissioni di anidride carbonica, superato esclusivamente dalle automobili, anche se con magnitudo differente. Difatti un aereo emette 285 grammi di CO2 a passeggero per ogni chilometro percorso, mentre per la stessa distanza un’automobile ne produce solo 42. L’aviazione inoltre ha una difficoltà strutturale a eliminare le sue emissioni di diossido di carbonio dovuta ai problemi inerenti alla costruzione di un velivolo e alle necessità energetiche di cui ha bisogno per muoversi. È evidente che il fabbisogno energetico di un’utilitaria sia diverso da quello di un qualsiasi aeromobile, e questo spiega la difficoltà intrinseca all’adozione di un diverso sistema di propulsione (inteso come combinazione di motore e carburante) per l’aeronautica, laddove invece la mobilità terrestre, soprattutto urbana, registra livelli di elettrificazione in netta crescita. In uno spietato circolo vizioso, inoltre, l’acuirsi della crisi climatica incide a sua volta negativamente sulle prestazioni stesse dei velivoli. Come spiega il Global environmental change (volume 65), il riscaldamento globale ha portato a una variazione dei venti e delle correnti aeree, per cui adesso gli apparecchi impiegano più tempo per percorrere le proprie rotte, restando in volo più a lungo e producendo di conseguenza ancora

più anidride carbonica. A tali problemi sistemici del settore si è aggiunta la drammatica crisi dovuta all’avvento della pandemia di Covid-19. Nel 2020 si sono persi oltre 118 miliardi di dollari di fatturato e quasi cinque milioni di posti di lavoro. La domanda è calata del 61% rispetto all’anno precedente e nel mese di aprile 2020, in un momento in cui i lockdown erano in vigore in gran parte del mondo, c’è stato un calo del 94,4% dei passeggeri rispetto allo stesso mese del 2019. La crisi è tutt’altro che superata e le previsioni più negative temono un ulteriore calo occupazionale potenziale del 51%, il che si traduce nella perdita del lavoro per 46 milioni di persone in tutto il mondo. Numeri impressionanti, soprattutto se paragonati alle prospettive pre-pandemia, che restituivano l’immagine di un’industria robusta e in costante crescita. La conversione sostenibile dell’aviazione diventa, dunque, non solo una necessità ambientale (pure importante), ma soprattutto un imperativo economico. Una migliore efficienza energetica significa una minore necessità di combustibile, con relativo calo dei costi. Inoltre, grazie ai progressi tecnici le risorse energetiche da fonti sostenibili diventano ogni giorno più convenienti rispetto alle corrispettive da fonti fossili. Gli obiettivi che l’industria si è posta per affrontare la duplice crisi, ecologica ed economica, sono diversi, diffusi sul breve,

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medio e lungo periodo. Per quanto riguarda le soluzioni nell’immediato, l’efficienza energetica è oggetto di un costante miglioramento grazie a nuove tecnologie, sia nella fabbricazione dei motori sia nella produzione dei combustibili. Inoltre, come nota “Aviation: Benefits Beyond Borders” (progetto del Air transport action group), è previsto l’acquisto complessivo di 12mila nuovi velivoli progettati tenendo a mente la sostenibilità ambientale, per una spesa totale di oltre mille miliardi di dollari. Per quanto riguarda il medio periodo, numerose compagnie aeree hanno adottato le linee guida tracciate dall’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao) nel “Carbon off-setting and reduction scheme for international aviation” (Corsia), ossia l’impiego di compensazioni economiche a fronte delle emissioni di CO2 non riducibili tramite innovazioni nelle tecnologie, nei carburanti, nelle operazioni o nelle infrastrutture. L’obiettivo di lungo periodo è quello di ridurre le emissioni di anidride carbonica ai livelli del 2005 entro il 2050 attraverso l’impiego sempre più massiccio e diffuso di carburanti sostenibili e di nuovi modelli di velivoli e motori. Al momento esistono globalmente oltre 200 progetti per la ricerca e sviluppo nel campo dell’elettrificazione del settore sia dei velivoli, sia delle operazioni annesse. Oltre a Corsia, l’Icao ha lanciato una serie di altri progetti per promuovere la sostenibilità

dell’aviazione: il “Sustainable aviation fuels” (Saf) per la produzione di carburanti sostenibili, nuovi strumenti per misurare le emissioni di CO2 e permettere un migliore management dell’energia e lo “State action plan and assistance” (Sapa) per spingere i governi a investire nelle iniziative dell’aviazione sostenibile nei propri Paesi, al quale hanno già aderito 119 Stati. Nel prossimo futuro è ipotizzabile un incremento di queste iniziative “green” a tutti i livelli, dalle singole compagnie aeree ai produttori, fino alle organizzazioni internazionali, nello sforzo complessivo di contenere e, auspicabilmente, eliminare il più possibile le emissioni di CO2 dei propri vettori. A settembre Airbus ha sorpreso il mondo annunciando la propria intenzione di mettere in produzione entro il 2035 il primo aereo completamente a idrogeno, sia in versione per il lungo raggio (120-200 posti) che per il medio-corto raggio (100 passeggeri). Fiore all’occhiello dell’iniziativa è il rivoluzionario Flying-V, un aereo tutto-ala da 200 posti i cui consumi di carburante saranno del 20% inferiori rispetto ai modelli tradizionali, previsto per il 2040. Anche l’Italia è inserita nella tendenza generale di migliorare la sostenibilità del comparto aeronautico e recentemente l’Enav ha annunciato il proprio obiettivo di raggiungere la neutralità da CO2 entro il 2022, anticipando di quasi un decennio gli obiettivi identificati dall’Ue.

La tempesta perfetta

Già prima dell’avvento della pandemia da Covid-19 le preoccupazioni sulla crisi climatica avevano spinto il settore aeronautico a sperimentare nuove soluzioni per una maggiore sostenibilità ambientale dell’aviazione. La pandemia e i lockdown generalizzati hanno inferto un duro colpo all’industria del volo, portando alla perdita di miliardi di dollari e milioni di posti di lavoro.

Aviazione green

Nuovi bio-fuel prodotti dagli oli da cucina esausti, nuovi motori in grado di produrre energia meglio e con meno carburante, nuove strumentazioni in grado di monitorare costantemente il consumo energetico del velivolo, sono solo alcune delle soluzioni attualmente in fase avanzata di sperimentazione. L’aviazione si fa “verde” non solo per affrontare il climate change, ma anche per riprendersi dopo la drammatica crisi del settore dovuta alla pandemia.

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Addio al JumboBoeing ha venduto gli ultimi quattro 747. La linea chiuderà nel 2022, come annuciato lo scorso luglio. A segnare la fine della produzione della “Regina dei cieli” è il tramonto del modello operativo che aveva accompagnato la nascita dei widebody. Ma la fine della produzione non significa l’uscita di scena, perché continuerà a volare come cargo e Air force one

LIVIA FICHERA

Aviazione

Nell’anno più difficile per il trasporto aereo mondiale e nell’anno nero di Boeing, l’annuncio della vendita di quattro 747-8 è stata una buona notizia per il costruttore statunitense. A renderla dolce-amara è la consapevolezza che saranno gli ultimi esemplari della gloriosa famiglia del “Jumbo” a uscire dalla linea di montaggio di Everett, vicino Seattle. I quattro aerei non sono infatti un ordine nuovo, ma la vendita di macchine destinate originariamente al vettore specializzato Volga Dnepr, che ha poi cancellato la commessa. Nel 2022, a 53 anni dal primo volo, spetterà quindi alla compagnia merci Atlas Air, che ne impiega già 53, l’onore di metterli in linea.La decisione di chiudere la linea 747 è stata annunciata nel luglio 2020, ma era nell’aria da tempo. A segnare la fine della produzione della “Regina dei cieli” (come il 747 è chiamato tra le compagnie aeree) è il tramonto del modello operativo che aveva accompagnato la nascita dei widebody. Ben prima del drammatico crollo dei numeri di passeggeri a causa del Covid, l’evoluzione del trasporto aereo aveva condannato i quadrimotori, troppo grandi e costosi per sopravvivere sul mercato. Non a caso, le compagnie avevano guardato con scetticismo al lancio

dell’Airbus A380, le cui vendite si sono fermate a 251 esemplari, ma che, soprattutto, ha iniziato a essere ritirato dal servizio prima ancora che finissero le consegne.All’uscita di scena contribuisce senz’altro il costo dei quadrimotori, configurazione resa inutile dalla potenza e affidabilità dei motori aeronautici di nuova generazione, ma soprattutto l’affermarsi dei servizi da punto a punto. I bassi costi operativi del bimotore rendono infatti possibile servire qualsiasi località, senza scalo, con un numero di passeggeri relativamente basso: l’esatto opposto del modello hub and spoke per il quale il 747 e l’A380 erano stati concepiti, nel quale aerei più piccoli erano i raggi (spoke) che concentravano i passeggeri in pochi grandi aeroporti (hub) collegati ad altri hub, dai quali altri spoke li portavano alla destinazione finale.Quando il 747 irruppe sulla scena, nel 1969, era l’unico modo per abbassare i costi unitari. Il Jumbo lo fece talmente bene da abbassare anche quello dei biglietti, rendendo per la prima volta il trasporto aereo accessibile a tutti, e dunque in qualche modo “democratico” anche in un ambiente altamente regolamentato. Un modello efficiente, ma scomodo, perché allungava i tempi di viaggio, i ritardi, i disguidi. A mandarlo in pensione fu la

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nascita dei bireattori a lungo raggio, altra invenzione Boeing, che abbinando lunga autonomia, bassi costi operativi e capacità media, rendevano possibile collegare direttamente (poniamo) Manchester e Boston, Venezia e Philadelphia o altre coppie di città impossibili per i Jumbo.Al successo commerciale si aggiunse quello tecnico. Non solo in termini di sicurezza, ma di qualità del progetto concepito da Joe Sutter. Il rapporto tra volume, peso e carico utile del 747 resta ineguagliabile, spiegando bene perché abbia sempre trovato grande favore presso gli operatori cargo. L’A380, benché più moderno, era penalizzato dal peso della struttura necessaria per reggere il secondo ponte, soprattutto se esso doveva portare carichi pesanti. Airbus fu costretta a cancellarlo molto presto, lasciando Boeing a dominare il mercato cargo, tanto che oggi il 90% della capacità di tutto il cargo mondiale è costituita da aerei del costruttore americano. Cargolux, il gigante europeo del settore, fu il cliente di lancio della versione 747-8F, della quale impiega 14 esemplari, più altri 16 nella precedente versione 747-400F. Ne avrebbe voluti acquistare altri, ma la decisione di chiudere la produzione ha bloccato questa speranza.La fine della produzione non significa l’uscita di

scena. In oltre mezzo secolo i 747 costruiti sono stati 1.560, più di sei volte del concorrente europeo, al ritmo di circa uno ogni due settimane. Grazie al cargo, molti resteranno in servizio per i decenni a venire, alimentando l’economia mondiale. Soprattutto, continueranno a volare per almeno trent’anni i due 747-8 scelti dagli Stati Uniti per il ruolo di trasporto presidenziale, il leggendario “Air force one”, uno dei simboli più visibili del potere. I due VC-25B, per ironia della sorte ottenuti dalla trasformazioni di macchine ordinate dalla compagnia aerea russa Transaero, fallita nel 2015, sono entrati in lavorazione nel marzo 2020 a San Antonio, in Texas, e saranno consegnati nel dicembre 2024, quando Joe Biden sarà alla fine del proprio mandato. La regina è morta, lunga vita alla regina!

Le consegne di Boeing per il 2020

L’alleanza tra Covid e Max ha reso il 2020 un anno difficilissimo per il trasporto aereo. Per Boeing questo si è tradotto nel quasi azzeramento delle consegne della famiglia 737, tradizionale bestseller del costruttore americano. I dati sulle consegne 2020 diffusi il 12 gennaio mostrano un totale di 157 macchine, delle quali cinque Boeing 747, compresi tre nell’ultimo trimestre dell’anno. La famiglia 737 si è fermata a 43 unità, delle quali 31 negli ultimi tre mesi, grazie alla decisione della Federal aviation administration (Faa) di autorizzare il ritorno in servizio del Max. Il 767, alla cui

produzione Leonardo (allora Aeritalia) partecipa sin dal lancio negli anni Settanta, ha totalizzato trenta macchine (dieci nel trimestre). Il 787, altro programma cruciale per Leonardo che ne realizza sezioni di fusoliera e degli impennaggi, ha visto 53 consegne, delle quali solo quattro negli ultimi tre mesi, segno della brusca frenata che ha già portato Boeing a decidere di ridurre i siti di assemblaggio da due a uno. Il 777 ha visto 26 consegne, delle quali undici nell’ultimo trimestre di un 2020 che resterà tra gli anni più drammatici per il trasporto aereo.

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L’aviazione in mostra in IndiaTorna il consueto appuntamento di Air India, la mostra biennale dell’aviazione e dell’esposizione aeronautica che si tiene presso la base aeronautica di Yelahanka, a Bangalore. L’evento sarà organizzato dal ministero della Difesa di Nuova Delhi, dall’Aeronautica militare indiana, dall’Organizzazione per la ricerca e lo sviluppo della difesa (Drdo), il dipartimento dello Spazio, il ministero dell’Aviazione civile, con l’obiettivo di renderlo “il più grande show aereo dell’Asia e uno dei più importanti al mondo”.

Il master spaziale alla SioiRiparte il master in Istituzioni e politiche spaziali, organizzato dalla Società italiana per l’organizzazione internazionale (Sioi), l’Agenzia spaziale italiana (Asi) e l’Istituto di studi giuridici internazionali del Cnr. Giunto alla sua dodicesima edizione, il master punta a far acquisire una preparazione specialistica e una formazione pratico-professionale nel campo spaziale. Dall’esplorazione alle istituzioni, un focus particolare sarà rivolto ai programmi dell’Esa.

Thunderbirds su DaytonaIn occasione della “Daytona 500”, la gara automobilistica di 500 miglia della Nascar che si svolge ogni anno a Daytona Beach in Florida, si esibirà lo squadrone acrobatico dell’Aeronautica militare statunitense “Thunderbirds”. Durante la dimostrazione i piloti metteranno in mostra le massime capacità dei loro F-16 “Fighting Falcon”, il principale caccia multiruolo della Air force. L’evento segnerà anche il ritorno delle pattuglie acrobatiche nei cieli dopo la pausa imposta dall’emergenza di Covid-19.

La fiera degli EmiratiLe ultime tecnologie di difesa saranno in mostra nella capitale emiratina in occasione dell’International defence exhibition and conference (Idex), la biennale della difesa che copre l’intero arco dei tradizionali domini militari terrestre, marittimo e aereo. Compreso nell’evento ci sarà anche il Naval defence and maritime security (Navadex), esposizione specializzata nella tecnologia navale. Nel corso della rassegna saranno date dimostrazioni dal vivo di equipaggiamenti e mezzi, a terra e in mare.

Gli elicotteri militari via webL’International military helicopter è, ormai da diciannove anni, uno dei forum internazionali più autorevoli dedicati agli elicotteri militari. Quest’anno, date le restrizioni imposte dal Covid-19, l’evento si terrà completamente online. Oltre 200 esperti militari e dell’industria della difesa da più di trenta Paesi si incontreranno virtualmente per discutere di tre temi specifici: piattaforme, operazioni e disponibilità. Una serie di sessioni coprirà ogni argomento, dai velivoli unmanned al trasporto pesante, fino all’addestramento dei piloti.

I cento anni dell’Arma azzurraIn vista della ricorrenza per festeggiare il centenario della costituzione della Regia Aeronautica quale Forza armata indipendente, lo Stato maggiore dell’Aeronautica militare ha indetto una call for paper finalizzata alla pubblicazione di studi e ricerche che ne ripercorrano la storia e l’evoluzione. I progetti originali dovranno essere improntati alla ricerca storica dagli albori dell’aviazione nel 1919 alle operazioni odierne dell’Arma azzurra.

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Difesa

Un Consiglio di sicurezza nazionale per l’ItaliaLORENZO MESINI

Quanto sarà green il trasporto aereo?MARCO BATTAGLIA

AviazioneSpazio

Le mosse di Bruxelles tra satelliti e lanciatoriMARCELLO SPAGNULO

Mensile sulle politiche per l’aerospazio e la difesa

n. 118 - gennaio 2021

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Per un’Italia cyber-sicuraD. Benigni, M. Braccioli, S. Cont, E. Damiani, M. Mensi, T. Profeta, B. Scolart, A. Tofalo