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9 MICHELE BOSCO SCHIAVITÙ E CONVERSIONI RELIGIOSE NEL MEDITERRANEO MODERNO. UN BILANCIO STORIOGRAFICO ABSTRACT - In the centuries of the Modern age thousands of people were taken into slavery as a result of the corsairs warfare and the piracy between the two banks of the Mediterranean, and experienced the cap- tivity in the lands of «infidels». «Redeemer» religious Orders - above all Mercedarians and Trinitarians - and a number of laical institutes or con- fraternities took care of the ransom of prisoners of Christian faith, asking alms to the faithful or employing in this activity several pious legacies. Nevertheless, when the ransom was slow to come, it could happen that a prisoner decided to deny the Christian faith and convert to Islam, to avoid the harsh living conditions of the slavery or in the hope of escap- ing. But the reasons to abjure could be various and not always imposed by the need: the present contribution gives an overview on the current status of studies about religious conversions in modern Mediterranean, highlighting the connections of this phenomenon with the practice of slavery between the two banks and the need for a comprehensive ap- proach to the study of the same, which aims to investigate the role of the different actors (including the renegades) in the practices of redemptions and to shed light on the still outstanding issues. Alle origini di un interesse storiografico La storia del Mediterraneo, inteso non solo (e non tanto) come luogo geografico ma piuttosto come spazio di incontro e di ibridazio- ne di popoli, civiltà e culture, vanta una tradizione di studi illustre e ormai consolidata: a partire dal sempre citato - e a buon diritto - Medi- terraneo di Fernand Braudel, vera opera pioniera in questo senso, le vicende di uomini e donne che si trovarono a vivere sulle sponde del «mare interno» hanno catturato in modo via via crescente l’attenzione degli studiosi. Da qui il fiorire di una grande quantità di studi, alcuni di ampio respiro, come quelli di Mathiex (1954), Tenenti (1958) o Aymard (1973); altri riguardanti temi più circoscritti, come i fenome- ni della guerra da corsa, della schiavitù e del riscatto dei captivi tra le due sponde del Mediterraneo. Tra questi ultimi, vere opere di riferi- DAEDALUS 5/2014 - ISSN 1970-2175 SAGGI

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__________________ Schiavitù e conversioni religiose nel Mediterraneo moderno

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MICHELE BOSCO

SCHIAVITÙ E CONVERSIONI RELIGIOSE NEL MEDITERRANEO MODERNO. UN BILANCIO STORIOGRAFICO

ABSTRACT - In the centuries of the Modern age thousands of people were taken into slavery as a result of the corsairs warfare and the piracy between the two banks of the Mediterranean, and experienced the cap-tivity in the lands of «infidels». «Redeemer» religious Orders - above all Mercedarians and Trinitarians - and a number of laical institutes or con-fraternities took care of the ransom of prisoners of Christian faith, asking alms to the faithful or employing in this activity several pious legacies. Nevertheless, when the ransom was slow to come, it could happen that a prisoner decided to deny the Christian faith and convert to Islam, to avoid the harsh living conditions of the slavery or in the hope of escap-ing. But the reasons to abjure could be various and not always imposed by the need: the present contribution gives an overview on the current status of studies about religious conversions in modern Mediterranean, highlighting the connections of this phenomenon with the practice of slavery between the two banks and the need for a comprehensive ap-proach to the study of the same, which aims to investigate the role of the different actors (including the renegades) in the practices of redemptions and to shed light on the still outstanding issues.

Alle origini di un interesse storiografico

La storia del Mediterraneo, inteso non solo (e non tanto) come

luogo geografico ma piuttosto come spazio di incontro e di ibridazio-ne di popoli, civiltà e culture, vanta una tradizione di studi illustre e ormai consolidata: a partire dal sempre citato - e a buon diritto - Medi-terraneo di Fernand Braudel, vera opera pioniera in questo senso, le vicende di uomini e donne che si trovarono a vivere sulle sponde del «mare interno» hanno catturato in modo via via crescente l’attenzione degli studiosi. Da qui il fiorire di una grande quantità di studi, alcuni di ampio respiro, come quelli di Mathiex (1954), Tenenti (1958) o Aymard (1973); altri riguardanti temi più circoscritti, come i fenome-ni della guerra da corsa, della schiavitù e del riscatto dei captivi tra le due sponde del Mediterraneo. Tra questi ultimi, vere opere di riferi-

DAEDALUS 5/2014 - ISSN 1970-2175 SAGGI

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mento sono diventate, negli anni, i lavori di Salvatore Bono, Ellen G. Friedman, Bartolomé e Lucile Bennassar e, più recentemente, di Wol-fgang Kaiser, Bernard Vincent, Giovanna Fiume, per citare solo alcu-ni. Inoltre, il tema delle interazioni e degli scambi tra i diversi gruppi umani che popolavano lo spazio Mediterraneo è stato oggetto di stu-dio non soltanto da parte di storici, ma di anche antropologi, economi-sti, storici delle religioni e del diritto. Dai contributi di Ciro Manca (1982) sull’economia delle Reggenze barbaresche vassalle dell’Impero Ottomano in età moderna, alle ricerche di Salvatore Vac-ca e Roser Salicrú i Lluch sul rapporto tra religione, schiavitù e apo-stasia, fino al recente studio di Felicita Tramontana sul rapporto tra diritto musulmano e schiavitù, il livello di conoscenza intorno ai temi dell’incontro di civiltà e del dialogo interreligioso nel Mediterraneo moderno si è - senza dubbio - enormemente arricchito.

Uno dei temi di maggiore interesse, che in qualche modo risaltano all’interno del vasto panorama di studi sul mondo mediterraneo in età moderna, è certamente quello relativo alle conversioni da una religio-ne ad un’altra e alle vicende di quegli uomini e donne che, per motivi diversi e a volte sorprendenti, decidevano di abbandonare la propria confessione religiosa e passare a dalla parte degli odiati infedeli. Av-vertendo il bisogno di discostarci da una tradizione per certi versi an-cora eurocentrica o, se vogliamo, cristiano-centrica, nelle pagine se-guenti ci riferiremo a questi individui con il termine generico di rin-negati (renegados). Tale termine, nelle fonti cristiane dell’epoca, era usato per indicare i cristiani convertiti all’Islam (o, più raramente, all’ebraismo), mentre se ad abiurare la fede avita era un musulmano (o un ebreo), che decideva di abbracciare la fede cristiana, le fonti parlano, significativamente, non di rinnegati ma di neofiti o convertiti (conversos). Come vedremo tra breve, la stragrande maggioranza dei casi che si conoscono e che sono stati oggetto di studio nei decenni passati è costituita da uomini o donne europei, di fede cristiana (quasi sempre cattolici, più raramente protestanti), che si convertivano all’Islam durante la loro permanenza forzosa come captivi nelle reg-genze barbaresche (soprattutto nelle città di Algeri, Tripoli, Tunisi, Sfax, Biserta) e a Istanbul. Intorno ad essi disponiamo, oggi, di una quantità di notizie molto maggiore - rispetto ai casi di conversioni al cristianesimo - perché accadeva spesso che questi individui, che ave-vano rinnegato la loro fede in terra di «Turchi» (come allora si dice-va), se avessero avuto la fortuna di venire riscattati, una volta tornati in patria avrebbero dovuto sottoporsi a un processo intentato nei loro

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confronti dal Tribunale del Sant’Uffizio spagnolo, al fine di accertare che essi avessero mantenuto, in realtà, una intima fedeltà alla Santa Fé Catholica e che la loro conversione, quindi, non fosse stata altro che una pura simulazione. Ma, come diremo tra breve, a parlarci di rinnegati non sono soltanto le fonti inquisitoriali, bensì una serie di lettere, memoriali, richieste di riscatto, ma anche trattati di teologia scritti da religiosi degli Ordini redentori, in particolare dai Mercedari.

Obiettivo di queste poche pagine è fornire un quadro dello stato at-tuale degli studi sull’argomento, a cominciare da lavori antesignani di-venuti ormai classici, come Les Chrétiens d’Allah, dei già citati Barto-lomé e Lucile Bennassar (1989), passando per alcuni dei numerosi contributi della storiografia iberica (su tutti, citiamo quelli di Miguel Angel de Bunes Ibarra e di Maximiliano Barrio Gozalo), per finire ad alcune tra le pubblicazioni più recenti. Naturalmente, da parte di chi scrive non vi è alcuna pretesa di esaustività, non essendo immaginabile - oltretutto in uno spazio limitato - dare conto di tutte le ricerche e de-gli articoli pubblicati, in Europa e altrove, né di analizzarli uno per uno. Si vogliono, invece, portare all’attenzione alcuni punti chiave, che emergono dall’insieme delle ricerche e che ci sembrano significativi in quanto pongono delle questioni di natura metodologica e interpretati-va, lasciando così aperta la strada ad ulteriori indagini, in attesa di veri-ficare o smentire le conclusioni attualmente raggiunte dalla storiogra-fia internazionale. Prima di iniziare questa breve rassegna ci sembra utile, però, spendere qualche parola sul contesto storico di cui ci occu-piamo, che, sebbene ben noto, costituisce pur sempre la cornice di rife-rimento dei fenomeni e delle vicende che ci apprestiamo a esporre.

Il quadro storico: qualche cenno

Non occorre soffermarsi sulla straordinaria vivacità e sul dinami-

smo dei traffici che caratterizza la storia del Mediterraneo, da sempre luogo di incontro, di scambi, di intrecci di culture millenarie; eppure, per secoli, quel luogo fu anche scenario di conflitto, di scontro più o meno aperto tra le due sponde, quella cristiana e quella musulmana. Com’è noto, infatti, nella fase centrale del XVI secolo l’antico Mare Nostrum dei Romani si andava trasformando progressivamente in un «lago turco», parte integrante del dar-al-islam, dominato dalla «talas-socrazia di Costantinopoli» (Martínez Torres 2004, p. 152; Mafrici 1995, pp. 46-47); alla potenza navale ottomana teneva testa, ormai, soltanto l’impero spagnolo, vista l’evidente decadenza della Repub-

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blica di Venezia e l’inadeguatezza, in termini numerici e di risorse, delle altre marine europee. Nella lunga e serrata lotta che oppose i due blocchi per il predominio (navale e politico) sul Mediterraneo, vero e proprio spartiacque è considerato, da una storiografia ormai consoli-data, la battaglia che ebbe luogo a Lepanto nel 1571 e dalla quale la flotta cristiana uscì vittoriosa su quella ottomana, sebbene al prezzo di imponenti perdite. Un decennio più tardi (1580-81) una tregua ufficia-le sanciva la conclusione - almeno sulla carta - della guerra per il pre-dominio dei mari tra le due parti contendenti. Tuttavia, come osservò già Braudel, quella tregua poneva fine non alla guerra tout court, ma soltanto a una sua fase, che egli chiamò «eroica», e ne apriva un’altra, che per contrapposizione alla prima chiamò fase «mercantile», ossia una sorta di guerra minore, strisciante, ma non per questo meno fero-ce: la guerra da corsa. Essa, insieme al suo succedaneo, la pirateria, produssero, tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Settecento, una enorme quantità di captivi sull’una e l’altra sponda, prigionieri cristiani in mano musulmana e prigionieri musulmani in terra cristia-na. Le fonti del tempo indicano questi uomini e donne con il termine «schiavi», eppure solo una minoranza di captivi veniva venduta a pa-droni privati, mentre sappiamo che la maggioranza di essi veniva de-stinata al riscatto: ciò li fa sembrare, ai nostri occhi, assai più simili ai prigionieri di guerra, insomma, dei veri e propri ostaggi. Altra conse-guenza della guerra da corsa - oltre alla riduzione in schiavitù - per quei soggetti catturati in mare e razziati in terra era proprio la loro «frequente conversione forzosa alla religione dei padroni»: natural-mente, gli schiavi cristiani alla religione islamica e gli schiavi mori o africani al cristianesimo. Vista in quest’ottica, quella guerra fra Stati non si combatteva solo sul piano della politica e dell’economia, ma anche - e, forse, soprattutto - sul piano religioso ed era, in un certo senso, una guerra tra privati: la conversione all’una o all’altra religio-ne appare, infatti, come una «vittoria personale di chi possiede uno schiavo e può vantarsi di averlo convertito» (Messana 2012 [postu-mo], p. 169). In questo contesto di duro scontro fra culture e religioni diverse e di contrasto di interessi economici, pubblici e privati, un ruolo di primaria importanza spetta alla Sicilia, non solo per la sua posizione geografica che ne faceva terra di frontiera fra i due schie-ramenti, ma anche perché l’isola, allora viceregno spagnolo, era sede

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di uno dei più severi tribunali distrettuali dell’Inquisizione spagnola, particolarmente attivo proprio contro i rinnegati cristiani che vi giun-gevano dall’Africa1. Insieme ad essa, la Sardegna, Maiorca, le Cana-rie, dotate anch’esse di tribunali del Sant’Uffizio, e così Siviglia, Gra-nada, Murcia, Lisbona, Napoli, Venezia ci avrebbero consegnato il loro contingente di rinnegati.

Primi studi sulle conversioni

Alcuni dei casi giudiziari discussi nei tribunali inquisitoriali sopra

ricordati erano già noti a Bartolomé e Lucile Bennassar, che nel loro libro Les Chrétiens d’Allah ricostruiscono minuziosamente sei storie di rinnegati, a partire da altrettanti processi intentati contro di essi e, suc-cessivamente, mettono insieme i dati relativi a 1.550 individui prove-nienti da quasi tutta l’Europa, offrendo così il primo serio corpus attor-no a cui fosse possibile tentare un’interpretazione del fenomeno. Le sto-rie raccontate dai due storici sono «sei destini personali, scelti perché suggestivi», ma che non pretendevano fossero, in senso stretto, esem-plari (Bennassar 1989, pp. 8-10). Tra queste, la vicenda di un rinnegato ferrarese, Francesco Guicciardo, detto Alì del Mar Nero, processato a Palermo tra il 1624 e il 1627 e condannato inizialmente al braccio seco-lare (ovvero ad essere bruciato sul rogo in un autodafé pubblico), poi al carcere perpetuo; o quella di Simon Gonzálves, mulatto portoghese bat-tezzato cristiano, poi convertitosi all’Islam e infine catturato in seguito a un assalto corsaro finito male. Quest’ultimo, in particolare, appare come un vero «uomo di frontiera, frutto di un incontro fra Europa e Africa […] figlio di quei luoghi pericolosi dove la linea di frontiera era incerta - frontiera geografica, militare, religiosa, fra Islam e Cristiani-tà». Dalle dichiarazioni da lui rese nel processo intentatogli a metà Cin-quecento in quanto cristiano rinnegato, emerge con tutta evidenza una questione di fondo, che ritorna in molti altri casi, ovvero: «non era sempre lo stesso Dio, quel Dio unico che veniva adorato da una parte e dall’altra dello stretto ed era chiamato e pregato con parole differenti?» (Bennassar 1989, p. 300). Non solo, taluni rinnegati mostrano, in quegli interrogatori, i segni di un certo sincretismo cristo-islamico: «Credo in

1 Sebbene il detto tribunale operasse in dipendenza da quello centrale della Su-

prema e Generale Inquisizione di Madrid, esso aveva tuttavia «una notevole auto-nomia [proprio] nel giudicare e punire i rinnegati cristiani e nel convincere “gli infe-deli” ad abiurare» (Messana 2012 [postumo], p. 169).

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Dio e in Maometto che è seduto alla destra di Dio», oppure «Maometto resusciterà», o ancora «Maometto è il figlio di Nostro Signore» o addi-rittura, con folgoranti identità, «Maometto è Allah, e la ilaha illa [tra-slitterazione della la Sha’hāda, la formula di fede islamica, su cui ritor-neremo] significa Gloria Patri et Filio». Queste sono alcune delle di-chiarazioni fatte da taluni rinnegati sottoposti a processo in merito alla loro adesione alla fede islamica, con le quali essi mostravano (o forse fingevano) di non aver mai capito cosa realmente avessero affermato all’atto della loro formale conversione. Ma c’è anche chi mostra di non avere capito nulla, come un rinnegato portoghese che dichiarò «C’è un solo Dio e Maometto è più grande di lui»; o un altro che commise un errore madornale, affermando: «Maometto è il dio più grande che vi sia in cielo» (Bennassar 1989, pp. 300-303).

Nello stesso anno, un altro importante studio offre invece una lettu-ra del fenomeno dell’abiura più spostata sul versante antropologico: i rinnegati vi sono presentati come «un grupo completamente heterogé-neo, que se puede definir como un híbrido entre las dos culturas en li-za» (Bunes Ibarra 1989, p. 184). Se, per le cronache del tempo, essi erano il frutto «de los apresamientos y las malas condiciones de vida que tenían que soportar los cautivos en tierra de moros y turcos», le cose erano in realtà un po’ più complesse. È innegabile che un gran numero di essi veniva da cristiani che erano stati captivi, ma vi erano anche uomini e donne che viaggiavano verso la Barberia e la Turchia con l’unico fine di abbracciare l’Islam. Rinnegati erano, allora, non soltanto quei cristiani che, caduti in schiavitù per mano dei corsari mu-sulmani, si convertivano all’Islam nella speranza di migliorare la pro-pria condizione servile, ma, assai più in generale, tutti coloro che ab-bandonavano la loro fede e la loro cultura «por una decisión personal, de una forma voluntaria y consciente» (Bunes Ibarra 1989, p. 186). I rinnegati appaiono allora come l’elemento che fa da ponte, per certi aspetti, tra mondo musulmano e mondo cristiano, «como se demuestra en la lengua que se habla en muchas de las ciudades del Norte de Afri-ca que se dedican al corso»: la «lengua franca», come era chiamata, la quale aggregava vocaboli di tutte le lingue dei paesi mediterranei ed era usata comunemente da pirati e corsari. È stato notato come, più che un traditore, il rinnegato possa considerarsi «un intermediario tra due culture, tra due mondi tanto differenti», davvero una specie di «media-tore culturale», sebbene, naturalmente, non sia possibile generalizzare (Mafrici 1995, p. 153; Fiume 2001, p. 326). Spesso, infatti, le cause che portavano i captivi cristiani ad apostatare erano proprio in relazio-

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ne col maggiore o minore loro grado di integrazione nella società mu-sulmana: da quelli che si convertivano all’Islam per salvare la propria vita o uscire dagli orrori del remo, fino a coloro che lo facevano per una scelta cosciente e non forzata, vi era un ampio margine in cui «es posible encontrar de todo» (Bunes Ibarra 1989, pp. 184-189). Diffusione e influenza del fenomeno

Ma quale fu il ruolo dei rinnegati all’interno delle società barbare-

sche? Possiamo pensare che, probabilmente, senza la complicità dei mercanti europei e senza l’apporto di manodopera qualificata e parti-colarmente addestrata nei mestieri del mare, la Barberia non sarebbe stata «tecnologicamente in grado di arrecare danni alla cristianità» (Mafrici 1995, p. 30). In questo senso, il ruolo dei rinnegati risulta fondamentale: essi, infatti, erano molto richiesti grazie alla loro espe-rienza e soprattutto alla conoscenza che essi avevano dei luoghi della sponda cristiana. Spesso, anzi, era proprio grazie al loro apporto che i barbareschi riuscivano a sferrare con successo i loro attacchi, magari aspettando nascosti all’interno di qualche insenatura il passaggio dell’imbarcazione da predare (Bono 1997, pp. 12, 133). Ciò è parti-colarmente evidente nel caso di Algeri, che durante la prima metà del secolo XVI si andò trasformando in un vero e proprio «bastione della guerra santa» tra l’Impero ottomano e i paesi cristiani del Mediterra-neo (Cresti 2001, p. 432). L’importanza di quella città come base strategica per la pirateria barbaresca andò sempre crescendo, tanto che nel 1588 nel suo porto erano attraccati trentacinque galeoni, mol-ti dei quali capitanati, per l’appunto, da rinnegati spagnoli, portoghe-si, francesi, italiani, greci (Martínez Torres 2004, p. 82). Dei trenta-cinque corsari elencati da Diego de Haedo nella celebre Topographia di Algeri, ben ventiquattro erano i rinnegati, oltre a due ebrei e nove turchi «de nación» (Haedo 1612, p. 18r). Il caso di Algeri, comun-que, seppure il più evidente, non era l’unico; diverse altre città della Barberia e del Levante presentavano una situazione analoga: città come Tunisi, Tripoli, Sfax, Biserta e, naturalmente, Istanbul si pre-sentavano, proprio grazie alla grande quantità di rinnegati che vi abi-tavano, come centri marcatamente cosmopoliti.

Gli storici sono concordi nell’affermare che la pratica dell’apostasia fosse un fenomeno abbastanza diffuso tra i cristiani captivi (Scaraffia 1993; Mafrici 1995; Bono 1997), sebbene le fonti non ci consentano di ricostruirne l’effettiva entità. A questo proposito, è stato giustamente

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osservato come uno studio approfondito sul tema risulti particolarmente difficile a causa della stessa natura della conversione religiosa, un fatto intimo e personale, che lo rende forse «inattingibile alla ricerca storica» (Fiume 2009, pp. 68-70). In molti casi, probabilmente, non si trattava di una conversione reale, autentica: molti cristiani captivi decidevano di abiurare e di «farsi turchi», come allora si diceva (Rostagno 1983), più per convenienza che per convinzione, come è facile immaginare. Va detto che la conversione all’Islam non determinava automaticamente la liberazione: il captivo che decideva di rinnegare rimaneva comunque schiavo del suo padrone (o, se era di proprietà pubblica, del bey). Le sue condizioni di vita, però, indubbiamente miglioravano: per prima cosa gli venivano tolte le catene e non veniva più tenuto rinchiuso nei bagni, mentre i più intraprendenti potevano anche ambire a cariche pubbliche nella Reggenza o ancora diventare ufficiali dell’esercito o capi corsari. Vi era una certa mobilità sociale nelle città barbaresche, contrariamente a quanto avveniva sulla sponda cristiana del Mediterra-neo, dove chi nasceva in una famiglia umile difficilmente poteva spera-re di migliorare la sua condizione, né tanto meno entrare a corte; po-tremmo dire, prendendo a prestito una felice espressione, che nei secoli dell’età moderna «il turco apre le porte, mentre il cristiano chiude le sue» (Fiume 2009, pp. 77-78).

Non è facile, dunque, sapere quante di quelle conversioni fossero autentiche; da un punto di vista formale, per altro, l’abiura non com-portava particolari difficoltà: per aderire al nuovo credo bastava pro-nunciare la formula di rito, la Sha’hāda («Non vi è altro dio che Dio [Allah] e Maometto è il suo profeta») e rivolgere verso il cielo l’indice della mano destra. Per tutte queste ragioni, non era raro che una stessa persona rinnegasse due volte, prima nel tentativo di mi-gliorare la propria condizione di schiavo in terra d’Islam, e poi di nuovo una volta tornata in patria dopo il riscatto. In questo caso, lo abbiamo visto, il “doppio rinnegato” era sottoposto a un processo ad opera del Santo Uffizio, che ne doveva accertare l’ortodossia e capire per quale ragione avesse abiurato, se per timore di perdere la vita o per pura convenienza. Spesso erano gli stessi rinnegati a presentarsi spontaneamente davanti il tribunale (per questo indicati come sponte comparentes), ben conoscendo il rischio che correvano se fossero stati scoperti, grazie magari a una segnalazione anonima. Nel corso degli interrogatori i rinnegati tendevano a spiegare le cause del pas-saggio all’Islam (indigenza, sfruttamento, fuga, speranza del rientro), ma anche la modalità formali della conversione e dichiaravano

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l’eventuale «osservanza di pratiche rituali o di costumi e tradizioni etniche (adorazione di Maometto, recita di orazioni nelle moschee, frequenza dei bagni, l’uso di abiti alla turca, l’astinenza dalle carni nei giorni proibiti etc.)» (Mafrici 1995, p. 162). Spesso gli imputati dell’Inquisizione presentavano la propria come un’apostasia «estorta, che non presupponeva un esplicito rifiuto del cristianesimo». Ciascun rinnegato sosteneva che la propria adesione all’Islam era stata «in-completa», perché cristiana era rimasta in lui la parte più importante, il cuore; si trattava, dunque, più che altro, di una simulazione, consi-derata da molti cristiani captivi in terra musulmana né più e né meno che «un mezzo di sopravvivenza» (Mafrici 1995, pp. 153-164; Mes-sana 2001; 2007). Non solo: a giudicare dalle dichiarazioni rese negli interrogatori, negli imputati sembri esserci «una sorta di indifferenza o freddezza religiosa e, in alcuni casi, una specie di miscuglio delle due religioni, in fondo considerate equivalenti» (Barrio Gozalo 2008, pp. 130-131; Fiume 2009, p. 73; Bennassar 1989, pp. 302-303). Conversioni sincere o strumentali? Un problema interpretativo

Ma ecco che qui emerge una prima questione: davvero la conver-

sione all’Islam era «estorta» dai musulmani? Dobbiamo credere alle dichiarazioni rese dai rinnegati nei processi inquisitoriali, nelle quali essi affermano di essere stati indotti ad abiurare dagli stessi loro pa-droni, di aver subito minacce, di essere stati perfino maltrattati e fu-stigati con l’obiettivo di ottenerne la conversione? In effetti, se i ma-ghrebini avessero provato ad obbligare tutti o anche solo una buona parte degli schiavi cristiani a rinnegare la propria religione e avessero davvero avuto successo nel loro intento, la guerra da corsa «non avrebbe avuto ragione di esistere» o, piuttosto, si sarebbe trasformata in una specie di guerra religiosa, mentre è innegabile il suo carattere commerciale ed economico. In tal caso, potremmo chiederci, che vantaggio avrebbero avuto dall’esercizio della corsa se non avessero avuto prigionieri per i quali chiedere un riscatto? (Barrio Gozalo 2008, pp. 130-131). Al contrario, il danno economico per il padrone, in caso di conversione dello schiavo all’Islam, era evidente: se è vero che la conversione non mutava lo status giuridico di schiavo, senza dubbio, da quel momento, il padrone non poteva più venderlo ai cri-stiani, mentre questo era il fine principale della guerra da corsa. Oc-corre ricordare, infatti, che la distinzione tra musulmani e non mu-sulmani ha un ruolo fondamentale nella regolamentazione della

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schiavitù: più precisamente, «dalla confessionalità del sistema e dalla superiorità che viene riconosciuta, in tutti gli ambiti giuridici, ai mu-sulmani, rispetto a coloro che appartengono ad altre religioni, deriva il divieto per i non musulmani di avere come schiavi dei musulmani» (nella pratica, tuttavia, il divieto non veniva sempre rispettato, come dimostrano le numerose cause intentate nelle corti sharaitiche) (Tra-montana 2008, p. 67). Da ciò seguiva, tra l’altro, che nel caso in cui a convertirsi fossero gli schiavi appartenenti a cristiani o ebrei, in virtù del detto divieto lo schiavo convertito doveva essere liberato. Inoltre, il Corano raccomandava l’affrancamento dello schiavo musulmano come opera meritoria2 oppure incoraggiava i musulmani, padroni di schiavi correligionari, a praticare nei loro confronti l’affrancamento contrattuale (mukataba): si dava, cioè, allo schiavo la possibilità di riacquistare autonomamente la propria libertà, pagando al padrone una cifra convenuta (Tramontana 2008, pp. 68-69; Boubaker 2008, pp. 25-37). È per questo motivo che il prezzo del prigioniero, per il solo fatto di avere rinnegato, si abbassava notevolmente, facendo perdere al padrone la possibilità di venderlo a condizioni vantaggio-se. Dunque, riassumendo: i rinnegati potevano essere venduti soltan-to a dei musulmani, ma il Corano ne raccomandava l’affrancamento, gratuito o dietro modesto compenso. Naturalmente, per gli stessi mo-tivi per i quali il padrone desiderava vendere il proprio schiavo rin-negato, nessuno desiderava comprarlo; così, i prigionieri rinnegati erano praticamente invendibili e il padrone doveva farsene carico. In generale, possiamo affermare che la maggiore facilità con cui veni-vano affrancati gli schiavi musulmani sia stata uno dei fattori che contribuirono maggiormente a spingere gli schiavi alla conversione all’Islam (Tramontana 2008, pp. 68-69; Barrio Gozalo 2008, p. 131).

Ma, come abbiamo detto, le ragioni per abiurare e convertirsi all’Islam potevano essere diverse e non sempre esse erano dettate dalla necessità. Alcuni, è vero, decidevano di convertirsi per poter pianificare per tempo e minuziosamente il loro ritorno in patria, o magari, semplicemente, per mettere fine alle vessazioni e alla dura condizione di servitù, ma vi era anche chi lo faceva per ragioni di convenienza, per un puro calcolo opportunistico. Qualcuno, ad esempio, poteva trovare conveniente aderire al nuovo credo «para

2 Sura della Luce (Surat An-Nūr), XXIV, 33. I versetti che suggeriscono l’affrancamento come opera meritoria sono, però, assai numerosi: cfr. Corano IV, 92; V, 89; LVIII, 3; XC, 13; II, 177; IX, 60; XLVII, 4.

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acceder a la riqueza y al poder que se les negaba en Europa», altri la-sciavano il mondo cristiano per fuggire «de las calamidades de la mi-licia, de los acreedores o de la justicia» (Martínez Torres 2004, pp. 120-121). Del resto, come abbiamo visto, per convertirsi all’Islam era sufficiente recitare, in presenza di due testimoni, la già ricordata professione di fede, primo dei cinque pilastri della fede islamica: in questa maniera, molti dei rinnegati processati dal Sant’Uffizio spa-gnolo dichiaravano di essersi fatti musulmani «de boca y no de cora-zón». Tuttavia, la cerimonia di apostasia variava di molto a seconda della condizione sociale del captivo: infatti, i captivi di alto rango so-ciale (nobili, baroni, ufficiali dell’esercito, funzionari statali) erano gli unici per cui veniva organizzata una cerimonia di conversione pubblica, solenne e festiva, simile a quella che si faceva per quei cri-stiani che non erano stati catturati ma decidevano volontariamente di trasferirsi nel Maghreb e convertirsi all’Islam. Tali cerimonie erano caratterizzate da musica, cavalcate, banchetti, abluzioni pubbliche e spettacoli a cui partecipava tutta la popolazione. Riguardo la circon-cisione, raccomandata dai fedeli musulmani in ottemperanza alle istruzioni del Profeta, va detto che essa non era obbligatoria per i neofiti, ma veniva praticata solo per i fanciulli catturati in tenera età, nel caso in cui fossero stati venduti a privati, oppure nel caso di con-versioni volontarie, dunque di cristiani che non erano captivi. Come abbiamo visto, una volta tornati in patria i rinnegati dovevano subire un processo per dimostrare che la loro era stata una abiura «de boca, y no de corazón» e, di nuovo, i numeri di tale fenomeno appaiono as-solutamente rilevanti: tra il 1540 e il 1700 i tribunali inquisitoriali di Castiglia e Aragona istruirono 10.798 cause per «mahometanismo» (Martínez Torres 2004, p. 123).

Storie di conversioni, storie di vita

Vogliamo ora riportare, a mo’ di esempio, tre storie di altrettanti

rinnegati, vissuti tra la seconda metà del ‘500 e la prima metà del se-colo successivo: le loro vicende (e quelle di molti altri) mostrano come la conversione all’Islam in terra di «turchi» fosse generalmente giudicata con una certa clemenza dagli inquisitori, consapevoli del fatto che essa veniva utilizzata di frequente come mezzo per tentare di tornare in libertà.

Il primo di loro, il soldato Lucas Sevilla, era stato catturato men-tre era di stanza in uno dei presidi spagnoli del Nord Africa e succes-

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sivamente venduto a un turco che «no paraba de insultarlo y darle pa-lizas para que renegara del cristianismo en el que había sido educado desde niño». Il fatto di sapere che non sarebbe mai stato riscattato fe-ce sì che abiurasse pochi giorni dopo essere stato comprato; da quel momento, visse ad Algeri per venticinque anni, partecipando a tutte le cerimonie religiose e condividendo le usanze dei mori, finché non incontrò un sacerdote anch’egli captivo. Questi, oltre ad istruirlo nuovamente sul cattolicesimo, ormai dimenticato, lo incoraggiò a fuggire in Spagna e a presentarsi spontaneamente al tribunale inquisi-toriale di Toledo, dove lo assicurò che «usarían misericordia con él». E, in effetti, Lucas Sevilla fu «reconciliado en forma», fu obbligato a trascorrere due mesi in un monastero della città e, infine, a ripresen-tarsi dinanzi al medesimo tribunale «por dar buenas muestras y exe-mplo de su conversión al catolicismo» (Martínez Torres 2004, pp. 124-125).

Il secondo caso riguarda una donna, Marquesa Dezcano, origina-ria della Sardegna e fatta schiava dai turchi alla fine del Cinquecento. Dopo i primi tre anni passati in schiavitù ad Algeri, al servizio di un padrone severo «que la maltrataba y la obligaba a escribir cartas a su esposo pidiéndole cuantiosas sumas de dinero por su inmediata libe-ración», la giovane, vedendo che il marito non riusciva a trovare il denaro necessario a riscattarla, decise di rinnegare e convertirsi all’Islam, con l’intento, inizialmente, di tentare la fuga. Tuttavia, la strada verso la libertà non era affatto agevole per le donne, soprattut-to per quelle catturate in giovane età: esse, infatti, dopo la conversio-ne all’Islam cambiavano nome e venivano spesso date in sposa a un nuovo marito. Così accadde anche a Marquesa, che per otto anni (dal 1595 al 1603) prese il nome di Fátima, vestì abiti alla turca, si sposò con un rinnegato italiano ed ebbe un figlio con lui. Ella raccontò, poi, agli inquisitori di non aver mai partecipato, però, alle cerimonie reli-giose dei musulmani e di aver fatto «siempre lo que había podido por conservar la sancta fe católica, ayunando y reçando las oraciones que sabía»; anche lei, insomma, si definiva «mora de boca y christiana de coraçon». Non sappiamo come la donna sia riuscita a fare ritorno sul-la costa spagnola nel 1603, anche se probabilmente la sua condizione di rinnegata poteva facilitarle le operazioni per permetterle di arruo-larsi in una nave commerciale. In ogni caso, il Santo Uffizio fu cle-mente nei suoi riguardi, così come lo era con molte delle donne che rinnegavano la fede cattolica nella speranza di fuggire dalla schiavi-tù; ciò che importava agli inquisitori era “riguadagnare” al cattolice-

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simo le poche donne che riuscivano a fare ritorno in patria, più che condannarle per i comportamenti (inclusa l’involontaria bigamia) avuti durante la cattività. Così, Marquesa e suo figlio furono assolti ad cautelam e obbligati ad assolvere alcune penitenze spirituali pri-ma di poter tornare in Sardegna (Martínez Torres 2004, pp. 125-126).

Il terzo e ultimo caso è quello del rinnegato valenciano Jerónimo Beltrán, che, fatto prigioniero dai barbareschi in tenera età, si conver-tì presto all’Islam, apprendendo bene la lingua araba. Tuttavia, stan-do a quanto egli raccontò, poi, agli inquisitori, una volta compiuti 18 anni finse davanti ai corsari algerini di voler guidare un attacco sulla costa spagnola (siamo negli anni ’20 del Seicento). Una volta sbarca-to, Jerónimo si recò, in abiti da turco, da un sacerdote, dicendo di es-sere cristiano e di essere fuggito dalla Barberia; tradotto in carcere in via precauzionale, dovette dimostrare quanto sostenuto e convincere gli inquisitori che «si viví y vestí come moro fue para procurar la li-bertad». La sua conoscenza delle principali preghiere cristiane con-tribuì a rassicurare i giudici, che lo riconciliarono senza nemmeno assegnargli le consuete penitenze spirituali (Martínez Torres 2004, pp. 126-127).

Le conversioni dall’Islam al Cristianesimo

Ma, come abbiamo detto, il fenomeno dell’abiura era presente

sulle due sponde, si poteva verificare in un verso come nell’altro: an-che presso gli schiavi musulmani (ed ebrei) si verificavano, infatti, fenomeni di conversione al cristianesimo, spesso incentivati dagli stessi padroni. Uno dei primi studiosi a far notare la reciprocità del fenomeno delle conversioni tra le due sponde mediterranee fu, già negli anni ’80 dell’Ottocento, il demologo siracusano Corrado Avo-lio: questi, con riferimento alla Sicilia, ebbe a sostenere che «il so-verchio zelo religioso di quei tempi, onde si credeva maledetta da Dio quella casa dove ci fossero uomini di credenze eterodosse […], il merito presso Dio, che ogni cattolico zelante crede[va] d’acquistare, salvando un’anima, erano stimoli forti perché un padrone inducesse colle buone o costringesse colle brutte quei poveri musulmani ad ab-bracciare il cattolicesimo» (Avolio 1885, pp. 51-52; Marrone 1972; Gaudioso 1979). Spesso, in effetti, i padroni cristiani favorivano la conversione dei loro schiavi musulmani o ebrei, mentre i padroni musulmani, specialmente ad Algeri, generalmente si opponevano all’abiura dei loro schiavi cristiani, poiché - come abbiamo visto - in

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questo modo perdevano la possibilità di lucrarvi, anche se non erano tenuti a liberarli (Barrio Gozalo 2008, pp. 129-130). È appena il caso di ricordare, infine, come il fenomeno delle conversioni dall’Islam al Cristianesimo non abbia riguardato esclusivamente le città costiere del Sud Italia: si ha notizia, ad esempio, di casi (pochi, per la verità) di rinnegati musulmani nella città e diocesi di Bologna, tra Cinque e Settecento (Sarti 2001, pp. 437-473). In generale, in area italiana nei confronti degli schiavi privati prevaleva un atteggiamento «conver-sionista», mentre nei riguardi degli schiavi pubblici (soprattutto dei rematori nelle galere) prevaleva l’atteggiamento opposto, per cui le conversioni erano per lo più disincentivate, a causa del migliore trat-tamento che generalmente i convertiti ricevevano.

Una ricerca dottorale attualmente in corso da parte di una giova-ne studiosa ha infine permesso di mettere in luce un fenomeno che, per quanto appaia di modesta entità sul piano numerico, ci sembra tuttavia di grande interesse e per certi versi sorprendente: la conces-sione di pensioni militari e di altre forme di rendita, da parte della monarchia spagnola, tra la fine del ’500 e i primi del ’600, a tutti quei musulmani «que de su propia voluntad hubieren venido de Berbería a convertirse». In particolare, tale studio verte su «los con-versos que recibieron ventajas o entretenimientos en el ejército por parte de la Corona durante el periodo comprendido entre 1574 y 1609. Evidentemente, el ejército no fue más que uno de los destinos posibles de los conversos. No obstante, hemos podido comprobar que se trató de un destino muy frecuente» (Tarruell 2013, pp. 550-551). In quei decenni i sovrani spagnoli utilizzarono la concessione di pensioni pagate nell’esercito come un mezzo di sostentamento per questi uomini e donne, altrimenti in condizioni di difficoltà e di di-pendenza economica. Per strano che possa sembrare, le pensioni mi-litari erano concesse anche alle donne: «la razón principal que justi-ficaba esta concesión era su propia conversión y no se les pedía que realizaran un verdadero servicio de armas (aunque ello no fue óbice para que algunos desarrollaran carreras militares destacadas)» (Ta-rruell 2013, p. 551).

Tale fenomeno riteniamo sia meritevole di attenzione in quanto ci obbliga in qualche modo a un ripensamento delle categorie di «con-fine» e di «comunità» in Antico Regime, perfino in un periodo di ac-ceso scontro religioso come era quello che precedette Lepanto (ma, come abbiamo visto, un clima di forte contrapposizione, tanto sul piano religioso quanto su quello paramilitare, con la guerra da corsa,

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dovette mantenersi almeno fino alla metà del Settecento). Il confine tra quei due mondi, Cristianità e Islam, non può essere pensato come una linea di demarcazione forte, netta, come le fonti coeve si sforza-no di presentarlo: così nella retorica degli Ordini religiosi, redentori e non; così nella propaganda utilizzata dalle monarchie europee e delle corti vicereali che, nella condizione di strutturale scarsità di risorse finanziarie, all’atto di imporre nuove tasse o di ripartire i donativi re-gi - così si chiamavano generalmente, nei viceregni spagnoli, i trasfe-rimenti di denaro dalla periferia al centro - ricorrevano sovente al vecchio ideale di crociata contro l’infedele e, in ogni caso, alla «mi-naccia turca» per giustificare il nuovo aggravio di spesa. Eppure, come si è appena visto, quell’idea di confine non regge alla prova dei documenti, che ci parlano invece di una osmosi tutt’altro che episo-dica o casuale, anzi ben codificata e addirittura incoraggiata dalla stessa Monarchia spagnola, che permetteva l’ingresso di musulmani convertiti in seno all’esercito, ossia proprio all’interno di quella isti-tuzione che doveva avere il compito di difenderli, quei confini. E al-lora, se anche l’esercito, che doveva essere l’elemento di maggior forza nella lotta all’infedele, la «punta della lancia» in quella contesa, era invece permeabile all’immigrazione di barbareschi e ottomani, seppur in seguito alla loro conversione al cristianesimo, forse il con-cetto di confine come lo abbiamo costruito non funziona più o co-munque va ripensato fortemente alla luce delle testimonianze di que-sta contaminazione. Certo, così facendo la Monarchia spagnola in-tendeva assicurarsi la fedeltà di questi immigrati alla causa religiosa e «nazionale» (o meglio imperiale) del proprio Stato, uno Stato che si ergeva a baluardo della fede cattolica contro tutte le eresie (si pensi allo straordinario sviluppo del tribunale del Santo Uffizio negli stessi decenni) e contro «il pericolo turco»; ma la conseguenza non poteva che essere una contaminazione, all’interno stesso dell’esercito, di va-lori, pratiche, idee, il cui impatto nel lungo periodo è difficile deter-minare.

Conversioni a e dall’Ebraismo

Fino ad ora, dunque, abbiamo visto il caso di prigionieri cristiani

che abbracciavano la religione musulmana e, viceversa, di musulma-ni che si convertivano al cristianesimo (ossia, per usare il linguaggio delle fonti cristiane dell’epoca, di «rinnegati» e di «convertiti») (Bar-rio Gozalo 2008, pp. 129-130). In realtà, il cambio di religione pote-

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va riguardare anche gli ebrei: sappiamo, infatti, che un certo numero di ebrei tra Cinque e Seicento decisero di abbracciare la fede islamica e, al di là di quanto ci si potesse attendere, furono anch’essi presi di mira dal Sant’Uffizio romano. Un recente studio permesso di rico-struire, ad esempio, le vicende di quattro rinnegati ebrei che si erano convertiti all’Islam e che furono processati in virtù dei poteri affidati all’Inquisizione da papa Gregorio XIII nel 1581, con la bolla Antiqua Iudaerum Improbitas. Grazie a tale disposizione, infatti, la giurisdi-zione inquisitoriale fu estesa anche agli ebrei italiani (ovvero gli ebrei che in Italia abitavano), allo scopo di conservare e proteggere quei principi di fede «quae sunt communia» tra ebraismo e cristiane-simo. Così, la Congregazione del Sant’Uffizio romano, formalmente investita di pieni poteri di controllo sugli ebrei, prese a sorvegliare ogni spostamento sospetto di ebrei nei territori dell’Impero ottomano e, ovviamente, ogni loro conversione all’Islam: «anche l’apostasia dall’ebraismo, infatti, venne considerata un tradimento di quei prin-cipi» (Di Nepi 2012, pp. 769-789). Tra i casi ivi riportati vale la pena menzionare quello del portoghese Isaac Fernandez Diaz, ebreo co-stretto all’esilio dalla penisola iberica a seguito dei noti provvedi-menti di espulsione ma che, a causa dei suoi affari e del commercio di tessuti che la sua famiglia aveva impiantato, era dovuto tornare a Lisbona dove, però, gli ebrei non erano accettati. Su consiglio di due amici cristiani, allora, egli inscenò una storia che gli avrebbe permes-so di aggirare l’ostacolo: presentatosi dinanzi al tribunale del Sant’Uffizio di Lisbona, raccontò di essere nato a Siviglia da genitori conversos, di aver ricevuto il battesimo in fasce e di essere cresciuto cristianamente in terra spagnola, per poi ritrovarsi, dopo la fuga della famiglia a Livorno, «a vivere da ebreo in una fede empia». Era venu-to, quindi, a chiedere che ora, «finalmente lontano dai parenti aposta-ti, gli fosse permesso di abbandonare il giudaismo e di rientrare nel gregge di Cristo con l’aiuto della Chiesa».

La storia, costruita a tavolino da Isaac per allietare le orecchie di un inquisitore portoghese, centrò il proprio obiettivo, grazie anche alla complicità di alcuni testimoni cristiani conniventi e, così, il “fal-so rinnegato” iniziò da quel momento a farsi credere cristiano (Di Nepi 2012, pp. 773-776).

Va detto, comunque, che i casi finora noti di conversioni all’ebraismo sono assai meno frequenti di quelli verso il Cristianesi-mo e l’Islam. Ciò può dipendere, in certa misura, da una lacuna negli studi, almeno allo stato attuale, ma siamo convinti che tale dismisura

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sia stata determinata per lo più da ragioni intrinseche: in effetti, su entrambe le sponde del Mediterraneo «esser riconosciuti come ebrei poteva rappresentare un problema e per questo, tra i mille travesti-menti in cui ci si poteva imbattere in quel mondo dai confini per-meabili (finti cristiani e finti musulmani di ogni provenienza), diffi-cilmente si sarebbe trovato un falso ebreo. A chi mai, del resto, sa-rebbe convenuto spacciarsi per un esponente dell’unica minoranza che nessuno si preoccupava di proteggere e che, da una parte come dall’altra, tutti avrebbero voluto vedere omologata alla maggioranza di turno?» (Di Nepi 2012, p. 782). Eppure, l’eccezione che conferma la regola capitò nel 1617 quando un «turco», in catena nelle galere di Napoli, si finse ebreo per essere rilasciato grazie alla mediazione di due ebrei romani, salvo poi raccontare ai giudici che questi ultimi, incuranti della sua fede, lo avevano liberato proprio per «mandarlo a Venetia a farsi ebreo» (Di Nepi 2012, pp. 782-784).

E qua emerge la seconda questione: ha senso studiare fenomeni complessi come questo, relativo alle conversioni da una religione a un’altra, sulla base di testimonianze rese dagli imputati nei processi a loro carico, che potevano essere anche del tutto inventate? O prestare fede alle dichiarazioni rese da testimoni che potevano essere - come nel caso citato - conniventi e complici degli imputati stessi? Per il momento, lasciamo aperta la questione e torniamo, invece, ai rinne-gati cristiani presenti in Barberia tra Cinque e Settecento.

Lo sguardo dei contemporanei

Come vedevano il fenomeno delle conversioni all’Islam gli osser-

vatori contemporanei? Che cosa pensavano gli europei di quei cri-stiani che decidevano di rinnegare la «Santa Vera Fede» per entrare nella maledetta «setta maomettana» e cosa pensavano del mondo islamico in generale? Provare a rispondere a queste domande può aiutarci a cogliere i mutamenti (lenti, ma continui) dell’immaginario europeo sull’«altro», sul «diverso», in questo caso sul mondo mu-sulmano, un mondo che allora appariva, se non geograficamente, di certo culturalmente lontano e, forse, inconciliabile con quello euro-peo.

Un acuto osservatore del tempo, l’abate benedettino Diego de Haedo, «redentore» di captivi ad Algeri alla fine del Cinquecento, scriveva che gli abitanti di quella città si distinguevano in tre gruppi, «moros, turcos y judíos», oltre ai cristiani, che peraltro costituivano

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una parte rilevante della popolazione, seppure con le ovvie distinzio-ni3. Secondo Haedo, i turchi erano «de dos maneras»: accanto ai tur-chi «di natura», così chiamati perché nati da genitori turchi o perché venuti essi stessi dalla Turchia, il frate benedettino parla di turchi «di professione», ossia, appunto, i rinnegati. Egli utilizza nei loro confronti parole molto dure, mostrando come essi «siendo de sangre, y de padres christianos, de su libre voluntad se hizieron turcos, rene-gando impiamente, y despreciando a su Dios y Criador». I rinnegati, con i loro figli, erano ad Algeri più numerosi di tutti gli altri, mori, turchi naturali ed ebrei, giacché in quella città «no hay nación de christianos en el mundo, de la qual no aya renegado, y renegados» (Haedo 1612, p. 9v)4. E rinnegati erano, come sappiamo, la grande maggioranza dei corsari algerini (Haedo 1612, p. 15v): tra essi, ri-cordiamo il greco Khair-ad-Din (più noto in Occidente come il Bar-barossa), Dragut (Turghud ‘Alī) o ancora il rinnegato calabrese Uc-cialì (‘Ulūj ‘Alī), rimasti leggendari per la spietatezza delle loro azioni.

La mescolanza di culture e l’ibridazione etnico-linguistica erano, in quella città, quanto mai evidenti. Vi si parlavano, allora, tre diver-se lingue: oltre alla «turchesca» e alla «morisca» (la più diffusa, quest’ultima, in quanto pressoché comune a tutti i barbareschi), si parlava anche la già ricordata lingua «franca», ossia cristiana, «una mezcla de varias lenguas christianas, y de bocabolos, que por la ma-yor parte son Italianos, y Españoles, y algunos Portugueses». Sembra che l’«hablar franco» fosse piuttosto diffuso, soprattutto ad Algeri, dove, ad esempio, i figli dei rinnegati, avendolo imparato fin da pic-colissimi, lo utilizzavano molto bene, «como si en España, o Italia fueran nacidos» (Haedo 1612, pp. 23v-26r).

L’opera di Haedo, sebbene sia una delle più note - e, oltretutto, una delle più ricche di notizie - non è certo l’unica composta in quel periodo per illustrare al pubblico colto europeo il mondo di quei

3 Vi era, infatti, «una infinidad de ellos [christianos] de toda suerte y nación»

(all’incirca 25.000, tra quelli a terra e quelli che remavano nelle galere). Oltre ai cri-stiani captivi, si trovava nella città un gran numero di mercanti, che però in genere si fermavano lì poco tempo, poiché «vendidas su mercaderias, se [volvía] cada uno a su tierra» (Haedo 1612, p. 8r).

4 L’autore vi riporta infatti un lungo elenco di nazionalità dei rinnegati, che ha fatto parlare Bartolomé Bennassar dell’«incredibile popolo di Algeri» (Bennassar 1989, p. 147).

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«barbari infedeli». Sottolinea il ruolo dei rinnegati, ad esempio, an-che il mercedario Ignacio Vidondo, in un celebre trattato pubblicato nel 1658: secondo il redentore spagnolo, «si no huviesse renegados, no saldrian con tanto denuedo los Turcos, y Moros, a ser Piratas en el mar». L’elevato numero di incursioni corsare, dunque, si spiegava principalmente con «la muchedumbre de renegados, que como mas expertos tienen todo el mando, y discreción de las armas» (Vidondo 1658, libro XI, cap. XVI, p. 465).

Più in generale, osserviamo come il consolidamento della cultura post tridentina «pose le premesse per una capillare penetrazione mis-sionaria tra gli infedeli a fini di conversione»; come conseguenza di ciò, proprio alla seconda metà del secolo XVI risalgono numerose opere, a stampa e manoscritte, dedicate ai racconti di viaggi in Orien-te (Formica 2010, p. 968). Sovente, in tali opere, quello turco è de-scritto come un popolo «vano e superstizioso», ma anche ozioso, fal-so e soprattutto violento nel tentativo di indurre i cristiani ad abiurare la loro fede (Formica 2008, pp. 5-53). Scrive, ad esempio, il senatore veneto Benedetto Ramberti a fine ‘500: «gli Turchi adorano un Dio solo: ma quale egli si sia non sanno e quando possono ottenere, che uno cristiano si faccia Turco, gli pare di haver fatto uno gran guada-gno, & percio oltra gl’inganni & artefici, che spesso usano per con-quistarne alcuno, fanno anco mote violenza» (Ramberti 1539, cit. in Formica 2010, p. 964).

Il commercio dei captivi: tra guerra religiosa e interesse economico

Vogliamo ora spostare l’attenzione su un tema, quello della capti-

vitas, ossia la schiavitù da riscatto, che è intimamente legato alle conversioni religiose e che anzi, come si è detto, ne costituì in molti casi lo sfondo e a volte la principale causa. Abbiamo già detto di co-me l’abiura non venisse in realtà estorta ai captivi cristiani, poiché così facendo i corsari non avrebbero potuto più lucrarvi. Malgrado ciò, nelle numerose lettere che i captivi cristiani indirizzavano, nella speranza di essere liberati, ai loro familiari e alle varie deputazioni votate al riscatto, il pericolo dell’abiura è quasi sempre evocato e co-stituisce quasi un topos nella retorica di questo genere letterario. La ragione di ciò è evidente: «l’insistance envers les religieux de la Ré-demption ou des institutions liées aux paroisses et ordres, sur la per-dition de l’âme est une forme de pression plus forte que le risque de perdre la vie. Ainsi, on retrouve toujours dans les lettres l’évocation

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du danger de l’abjuration, mais nous ne devons pas toujours y croire: le Coran interdit la conversion forcée et la conversion de tous les es-claves aurait détruit, de toute évidence, une activité très lucrative non seulement pour les corsaires et les autorités barbaresques, mais aussi pour les nombreux bailleurs de fonds et médiateurs du rachat. Faire abjurer tous les esclaves aurait été comme tuer la poule aux œufs d’or…» (Fiume 2013, p. 244).

Malgrado ciò, non si può escludere che alcuni padroni, per zelo re-ligioso o per ragioni pratiche, esercitassero pressioni fisiche o morali per indurre i loro schiavi ad abbandonare il cristianesimo; questo acca-deva soprattutto per quei captivi che esercitavano mestieri ritenuti utili dai musulmani (marinai, artigiani, operai specializzati nella coibenta-zione delle navi, carpentieri, soldati). I maltrattamenti, dunque, non erano necessariamente un’invenzione dei religiosi o delle deputazioni votate al riscatto dei captivi cristiani, né erano riservati esclusivamente ai giovani e alle donne, bensì agli adulti con una preparazione tecnica, per i quali il padrone considerava conveniente la conversione (Barrio Gozalo 2008, pp. 129-162). È il caso, ad esempio, del palermitano Onofrio Scherma, che si dice stremato da «tant de barbarie […] et de plus quand ces barbares ont su que je suis un artilleur - écrit-il au ré-dempteur - chaque jours ils s’emploient à me faire renier notre Sainte Foi» (Archivio di Stato di Palermo, Arciconfraternita per la redenzio-ne dei captivi di Santa Maria la Nova, vol. 254, s. n., Algeri 16 feb-braio 1783, cit. in Fiume 2013, p. 244). Lo stesso valeva per gli arti-giani che costruivano imbarcazioni, per i marinai esperti nella naviga-zione o per i rematori nelle galere. Giovanna Fiume ha studiato in par-ticolare le lettere, i memoriali e le suppliche scritte dagli stessi captivi, finiti sotto il giogo dei corsari barbareschi e indirizzate alla Deputazio-ne palermitana che si occupava del loro riscatto.5 Si tratta di una fonte di grande interesse, osserva la storica, poiché - oltre a rappresentare una miniera di informazioni preziose sulla schiavitù nelle città corsare dal XVI al XIX secolo - ci permette di «raconter l’esclavage à travers les mots de qui l’a subi, sans oublier dans quel but elles ont été écrites ce qui en influence la rhétorique». Anche far giungere le lettere a de-stinazione non era cosa semplice e richiedeva il concorso di più attori (i captivi, i loro padroni, le autorità barbaresche), interessati, per moti-

5 Sull’istituzione palermitana si rimanda, tra gli altri, a Bonaffini 1983 e Romano

2005. Le lettere, suppliche e memoriali sono tutti conservati nel fondo sopra citato.

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vi diversi, allo stesso obiettivo, ossia il buon esito della corrispondenza al fine dell’ottenimento del riscatto, che se per questi ultimi significava denaro (a volte tantissimo denaro), per i primi significava libertà, si-gnificava la fine di un incubo: «écrites malgré les difficultés dès l’arrivée en Barbarie, par des compagnons de captivité qui savent écrire, ou par l’écrivain du bagne, ou par qui se propose en tant que médiateur et garant (un marchand, un consul, un frère franciscain, un autre captif), les missives sont confiées aux marins ou aux marchands qui prennent la mer (une felouque pour Naples, un patron de barque qui rentre à Gênes), à un consul, à un père rédempteur; parfois, c’est un captif affranchi qui porte au pays les nouvelles et les documents d’un compagnon de prison. Mais les captifs continuent à écrire par la suite pour informer de leurs déplacements (Constantinople, Tripoli, Alger ou Vlorë), pour avertir qu’ils vont en mer pendant les mois de course avec l’équipage du patron, que la flotte corsaire hiverne à Tunis et à la belle saison, d'avril à octobre, se déplace à Bizerte. Ainsi, la condition préalable indispensable à l’affranchissement est celle de «lo-caliser» le captif» (Fiume 2013, p. 233).

Naturalmente, poiché intendevano suscitare la pietà e la solidarie-tà di familiari e redentori, le lettere dei captivi erano spesso commo-venti, persuasive e in esse - come detto - si minacciava quasi sempre l’incombente pericolo dell’abiura. Non sapremo mai - né ci interessa, in fondo - quanti di quei captivi, dietro quelle minacce, nascondesse-ro il reale intento di rinnegare e convertirsi all’Islam; in ogni caso, sta di fatto che molti prigionieri, disperati perché non venivano ri-scattati, decidevano di rinnegare di fronte al rifiuto del padrone a venderli. Le abiure «tardive» erano in genere frutto dell’«esau-rimento fisico e psicologico degli schiavi senza speranza di riscatto» (Barrio Gozalo 2008, pp. 132-133).

Schiavitù, conversioni, riscatti: temi inscindibilmente connessi

Le considerazioni fin qui fatte ci portano, prima di concludere, ad accennare brevemente ai temi inerenti il riscatto dei captivi nel Medi-terraneo nei secoli dell’età moderna. Infatti, da quanto detto fin qui emerge chiaramente come il fenomeno dei rinnegati sia strettamente connesso con quello della guerra da corsa e del commercio dei captivi che ne derivava. Tale commercio, a ben guardare, non vide tanto op-posti cristiani e musulmani, schierati su due fronti e pronti a darsi bat-taglia l’un l’altro, quanto piuttosto mercanti di schiavi e affaristi senza

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scrupoli da una parte, e pescatori, marinai, gente comune, ma anche nobili, ufficiali o religiosi dall’altra, vittime questi ultimi, loro mal-grado, della guerra da corsa e della pirateria tra le due sponde del Me-diterraneo. I mercanti di schiavi compravano e vendevano spesso cri-stiani e musulmani indifferentemente (pecunia non olet), entravano nel lucroso affare prestando denaro a interesse o anticipando le som-me necessarie per i riscatti, per rivalersi poi con gli istituti locali che si occupavano della liberazione dei loro “connazionali”, genovesi, na-poletani, siciliani, veneziani. Diverso il caso degli Ordini religiosi co-siddetti «redentori», i Mercedari e i Trinitari soprattutto, i quali sem-bra si siano recati sempre personalmente in Barberia o nel Levante per riscattare i cristiani prigionieri in terra d’Islam, grazie alle elemosine dei fedeli e ai pii legati ricevuti a tal effetto. Addirittura, qualora il denaro non fosse stato sufficiente a riscattare tutti, i Mercedari si im-pegnavano per espresso voto a restare prigionieri essi stessi al posto di quei captivi che fossero in pericolo di perdere la fede. Ciò non signifi-ca, tuttavia, che i religiosi fossero del tutto estranei alle logiche eco-nomiche sottese al complicato meccanismo dei riscatti: in più di un’occasione, anzi, furono gli stessi redentori a lamentare il rischio di «commistione fra negozio spirituale e negozio commerciale», a causa anche degli scarsi margini di manovra che spesso quei frati avevano per portare a termine le operazioni senza contravvenire, anche solo in parte, alle norme della redenzione (Cabibbo - Lupi 2012, p. 89).

Gli scambi si basavano sul calcolo e sulla fiducia, inevitabile, per quanto condizionata, sia nei confronti dei propri correligionari, sia degli «infedeli». Le lettere e le suppliche di cui abbiamo fatto cenno rappresentano lo strumento per eccellenza di questa circolazione di informazioni, intrecciano legami tra persone di «nationi» differenti e di diverse religioni: musulmani di diverso orientamento, ebrei, cri-stiani e, tra questi ultimi, cattolici, ortodossi, copti. L’Arcicon-fraternita romana del Gonfalone, ad esempio, organizzò una missione di riscatto di captivi ad Algeri, realizzata dai cappuccini nel 1585-1589, facendo affidamento su banchieri romani e lionesi e, per le trattative in loco, su mercanti marsigliesi, i loro agenti e il console francese (Fiume 2013, p. 248; Kaiser 2007, pp. 19-37).

Dunque, lo ribadiamo, la vera contrapposizione sembra essere sta-ta quella tra schiavi e mercanti di schiavi e non, semplicisticamente, tra cristiani e musulmani. In effetti, nei due decenni appena trascorsi si è assistito ad un progressivo spostamento della chiave interpretati-va tramite cui leggere il fenomeno della guerra corsara e del com-

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mercio dei captivi in età moderna: si è passati, cioè, da un’ottica pu-ramente antagonistica, legata alla dimensione dello scontro religioso, ad una più fluida, osmotica, dai confini più incerti, che sottolinea in-vece l’aspetto economico e privatistico della questione, un aspetto decisamente trasversale e transnazionale. Se, infatti, per il Medioevo e la prima età moderna si può parlare ancora con qualche certezza di scontro religioso e di dura contrapposizione ideologica tra i due fron-ti, dopo Lepanto e fino a tutto il Settecento sembra avere una rilevan-za sempre maggiore la dimensione utilitaristica e monetaria di quello che andava diventando un commercio assai redditizio, una opportuni-tà di guadagno molto attraente per trafficanti, creditori e mercanti di entrambe le parti. L’impressione che si ha, insomma, è che non ci troviamo di fronte a una dicotomia, ma piuttosto a una «escala de grises»: la frontiera tra Cristianità e Islam diventa, così, il luogo in cui i grandi ideali (teoricamente) incorruttibili «se difuminan por el contacto y el oportunismo pragmático» (Mora González 2012, p. 13), come testimonia, appunto, la presenza cospicua di rinnegati in alcune città maghrebine tra Cinque e Seicento.

È lecito affermare, dunque, che Cristianità e Islam, con le loro divi-sioni interne, non si comportavano come due blocchi omogenei, non seguivano una linea uniforme, ma agivano secondo «la mejor conve-niencia del momento» (Mora González 2012, p. 14) e il confine che separava i due mondi era, di fatto, assai permeabile. D’altronde, come è stato recentemente affermato, fu anche grazie alla schiavitù che i rapporti e i contatti tra i due mondi si mantennero «quotidiani e molto disinvolti» (Russo 2012, p. 143). Per fare solo un esempio, Francesco Russo, che ha studiato il fenomeno della schiavitù di musulmani ed ebrei a Malta tra Cinque e Settecento, mostra come, a seguito dei provvedimenti di espulsione per i non convertiti dai regni di Spagna (e, dunque, anche dalla Sicilia), la compresenza delle tre religioni medi-terranee nel piccolo arcipelago maltese sia stata garantita proprio dalla schiavitù (in effetti, fino all’inizio del XIX secolo a Malta e a Gozo continuarono a vivere ebrei e musulmani schiavi di padroni cristiani). La ricerca di Russo è incentrata su una documentazione estremamente specifica, quella relativa ai battesimi degli schiavi musulmani nell’isola. Ma non solo. Altra fonte preziosissima sono i testamenti, che in alcuni casi permettono di ricostruire i legami personali creatisi tra schivi e padroni: non era raro, infatti, che tra questi ultimi si instau-rasse, col tempo, un grande livello di confidenza e di fiducia, giacché essi, pur non condividendo lo stesso credo «passavano assieme la

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maggior parte della propria vita, se non tutta la loro esistenza» (Russo 2012, p. 143). Tale documentazione, conservata oggi presso archivi parrocchiali e notarili, non è stata finora studiata e consente di gettare sprazzi di luce sulla presenza servile all’interno del più discreto conte-sto della proprietà privata; un simile approccio, a mio avviso, potrebbe essere proficuamente esteso al di là del caso maltese, arricchendo un panorama di studi che, anche in altri contesti, appare ancora eccessi-vamente sbilanciato sulle vicende degli schiavi di proprietà pubblica.

A guisa di conclusione: nuove prospettive di ricerca

In conclusione, mi pare emergano alcune questioni da quanto so-

pra detto. In primo luogo, lo abbiamo già notato, ha un senso studiare fenomeni complessi come questo, relativo alle conversioni da una religione a un’altra, ben sapendo che esse erano spesso una pura si-mulazione e le dichiarazioni rese dai rinnegati nei processi erano a volte del tutto inventate? A mio parere, la risposta è sì, perché co-munque ciò che a noi interessa non è necessariamente la “verità” ma anche semplicemente le ragioni per cui si mentiva, oltre che lo spac-cato di società che emerge da quei racconti e da quelle vicende.

In secondo luogo, che ruolo giocò effettivamente la religione nel fenomeno delle redenzioni? Quale fu l’importanza dell’aspetto reli-gioso nell’indirizzare le strategie dei redentori? Essi davano realmente la priorità a quanti erano in pericolo di perdere la fede o erano per lo più ragioni economiche a guidare le scelte dei trafficanti di uomini e delle deputazioni votate al riscatto? E, da ultimo, può questa ambigui-tà di comportamenti, questa osmosi tra i due mondi, aver contribuito in qualche misura al cambiamento di approccio che l’Europa (soprat-tutto riformata) ebbe nei confronti dell’Islam? Un approccio, cioè, te-so a sottolineare sempre più gli aspetti in comune tra i due mondi, che non quelli di differenza? Questa idea, per altro, lungi dal riguardare soltanto la sfera dei rapporti tra Cristianesimo e Islam, ci permette in-vece di superare la tradizionale interpretazione che lega in modo forse troppo deterministico la costruzione dello spazio europeo a quel para-digma confessionale segnato dal «disciplinamento» (Prodi 1994; Headley, J. M. - Hillerbrand, H. J - Papalas, A. J. 2004, a cura di). È stato recentemente osservato come il mutato atteggiamento dei rifor-matori cinquecenteschi abbia agevolato un cambiamento di prospetti-va per cui alla demonizzazione religiosa dell’Islam fu sostituita la sua rappresentazione minacciosa sul piano politico: il Turco divenne, allo-

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ra, certamente la potenza militare antagonista, ma non fu più conside-rato come il male assoluto, non più come l’Anticristo, identificato in-vece da Lutero con il papato, reo della corruzione della cristianità sin dalle origini. Nell’Europa riformata «il bersaglio principale della lotta religiosa divenne la chiesa cattolica e la "guerra santa" contro i turchi apparve illegittima […]; il sepolcro da liberare era, secondo Lutero, la Sacra Scrittura, non Gerusalemme» (Felici 2011, p. 45).

Per quanto riguarda la prima questione, invece, ossia quali criteri determinassero la scelta dei prigionieri da riscattare, non siamo anco-ra in grado di dare una risposta certa: l’impressione, tuttavia, è che li si scegliesse piuttosto sulla base della loro origine geografica, del lo-ro rango sociale, della possibilità da parte delle loro famiglie di con-tribuire almeno in parte al riscatto, che non sulla base dell’«evidente pericolo» di perdere la fede, come invece sostenuto - e ribadito più volte - dai religiosi Mercedari.

Insomma, nonostante la ragguardevole diffusione di studi e ricer-che sulla schiavitù e le conversioni nel Mediterraneo, che ha caratte-rizzato almeno gli ultimi due decenni, delle questioni restano ancora aperte e rappresentano lo spazio di indagine per i futuri ricercatori sul tema. C’è da augurarsi, allora, che ulteriori scavi archivistici possano contribuire a gettarvi luce.

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