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Vocation and Vocational “Crisis”: a Study on Italian Former Priests Giuseppe Giordan Per quanto possa sembrare strano, in Italia non ci sono studi scientifici aggiornati sul fenomeno dell’abbandono del sacerdozio cattolico da parte di uomini che si erano consacrati in maniera definitiva a tale tipo di ministero all’interno della chiesa: un’assenza ancora più strana, e per certi aspetti culturalmente intrigante, se si pensa che in questo paese i former priests sono circa ottomila 1 . Gli unici contributi su questo argomento sono di Silvano Burgalassi (1970a, 1970b), e risalgono alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta. Un approccio, quello di Burgalassi, molto legato a una “sociologia religiosa” tutta centrata sull’istituzione della gerarchia cattolica, e segnato della normatività dei concetti teologici 2 . L’interesse degli studiosi in Italia, in particolare degli storici e dei sociologi della religione, si è soffermato più volte negli ultimi anni sulla figura del prete cattolico, mettendone in luce il ruolo particolare sia in relazione all’istituzione della chiesa cattolica, sia in rapporto alla società italiana in generale 3 . Non sono mancati, inoltre, dei contributi che hanno analizzato la percezione che il prete ha di se stesso, cogliendone tanto gli elementi di realizzazione e di soddisfazione quanto gli aspetti più problematici di difficoltà e talvolta di sofferenza (Garelli 2003). Riflettendo sull’identità del prete, Enzo Pace (2003: 276) 1 Per quanto riguarda i dati precisi sui former priests in Italia, non ci sono cifre ufficiliali: tuttavia, secondo stime comunemente riportate come attendibili, il numero più accreditato è quello di ottomila (si veda, ad esempio, quanto riportato nella rivista Jesus nel numero di agosto del 2006 a pagina 9). 2 A dire la verità, gli studi su tale argomento non sono molto sviluppati neppure in altri paesi, anche se ci sono delle ricerche che hanno affrontato la questione in maniera scientifica. Molto significativo, sia per i dati raccolti che per la dettagliata bibliografia, ci sembra il recente lavoro di Anthony J. Blasi e Joseph F. Zimmerman (2004); si vedano anche i contributi di Oviedo (2004), Schoenherr (2002) e Louden and Francis (2003). 3 La letteratura italiana su questo argomento, sia sul versante storico che su quello sociologico, è abbastanza vasta: per quanto concerne l’approccio sociologico ci limitiamo a rimandare allo studio di Marcello Offi (1998) dove si possono trovare i riferimenti bibliografici dei contributi scientifici più interessanti; per quanto riguarda l’aspetto storico segnaliamo i lavori di Maurilio Guasco (1986, 1990 and 1997). 1

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Vocation and Vocational “Crisis”: a Study on Italian Former Priests

Giuseppe Giordan

Per quanto possa sembrare strano, in Italia non ci sono studi scientifici aggiornati sul fenomeno dell’abbandono del sacerdozio cattolico da parte di uomini che si erano consacrati in maniera definitiva a tale tipo di ministero all’interno della chiesa: un’assenza ancora più strana, e per certi aspetti culturalmente intrigante, se si pensa che in questo paese i former priests sono circa ottomila1. Gli unici contributi su questo argomento sono di Silvano Burgalassi (1970a, 1970b), e risalgono alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta. Un approccio, quello di Burgalassi, molto legato a una “sociologia religiosa” tutta centrata sull’istituzione della gerarchia cattolica, e segnato della normatività dei concetti teologici2. L’interesse degli studiosi in Italia, in particolare degli storici e dei sociologi della religione, si è soffermato più volte negli ultimi anni sulla figura del prete cattolico, mettendone in luce il ruolo particolare sia in relazione all’istituzione della chiesa cattolica, sia in rapporto alla società italiana in generale3. Non sono mancati, inoltre, dei contributi che hanno analizzato la percezione che il prete ha di se stesso, cogliendone tanto gli elementi di realizzazione e di soddisfazione quanto gli aspetti più problematici di difficoltà e talvolta di sofferenza (Garelli 2003). Riflettendo sull’identità del prete, Enzo Pace (2003: 276) mette in evidenza come ci possa essere una tensione non sempre ben integrata fra la funzione che lui deve svolgere in sintonia con l’organizzazione religiosa a cui appartiene, e il proprio carisma personale: “Se è scontato pensare che un prete senta di far parte della chiesa e da questo sentimento ricavi il senso di responsabilità dei compiti che deve svolgere, non è altrettanto evidente come egli si sforzi di conciliare le sue personali, soggettive aspettative spirituali con le mete oggettive che l’istituzione cui appartiene gli pone di fronte”.Da un punto di vista più propriamente pastorale si sono moltiplicati anche gli studi che approfondiscono la spinosa questione della scarsità di vocazioni al sacerdozio, e quindi il ruolo del prete viene studiato in funzione di una programmazione più equilibrata da parte dei vescovi e della gerarchia. Da molti anni, a tal proposito, sono disponibili dati sulla consistenza quantitativa del personale ecclesiastico italiano (Brunetta 1991; Dalla Zuanna and Ronzoni 2003; Diotallevi 2005); la problematica che viene considerata, in questo contesto, riguarda la capacità di assicurare a tutte le parrocchie la presenza di un prete: considerato da un lato il numero sempre più ridotto di vocazioni al sacerdozio e dall’altro il progressivo invecchiamento del clero in servizio, si procede spesso nella direzione di ridurre il numero di parrocchie, chiudendone alcune, o affidando allo stesso prete la cura di più comunità.Nonostante diversi elementi di difficoltà tipici del ruolo del prete cattolico celibe all’interno della società contemporanea siano messi in evidenza all’interno degli studi sopra citati, nessuno si sofferma ad analizzare il fenomeno dell’abbandono del ministero da parte dei preti cattolici. Come è facile intuire, tale silenzio dice molto sulla particolarità di una scelta che, per quanto marginale, non è di certo irrilevante nel panorama del clero cattolico italiano. I motivi di tale silenzio, del resto, sono molteplici, e vanno ricercati soprattutto nella particolarità della figura del prete cattolico in

1 Per quanto riguarda i dati precisi sui former priests in Italia, non ci sono cifre ufficiliali: tuttavia, secondo stime comunemente riportate come attendibili, il numero più accreditato è quello di ottomila (si veda, ad esempio, quanto riportato nella rivista Jesus nel numero di agosto del 2006 a pagina 9).2 A dire la verità, gli studi su tale argomento non sono molto sviluppati neppure in altri paesi, anche se ci sono delle ricerche che hanno affrontato la questione in maniera scientifica. Molto significativo, sia per i dati raccolti che per la dettagliata bibliografia, ci sembra il recente lavoro di Anthony J. Blasi e Joseph F. Zimmerman (2004); si vedano anche i contributi di Oviedo (2004), Schoenherr (2002) e Louden and Francis (2003).3 La letteratura italiana su questo argomento, sia sul versante storico che su quello sociologico, è abbastanza vasta: per quanto concerne l’approccio sociologico ci limitiamo a rimandare allo studio di Marcello Offi (1998) dove si possono trovare i riferimenti bibliografici dei contributi scientifici più interessanti; per quanto riguarda l’aspetto storico segnaliamo i lavori di Maurilio Guasco (1986, 1990 and 1997).

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rapporto al ruolo di quasi-monopolio della religione cattolica nel contesto sociale e culturale italiano.Un silenzio che, in ultima analisi, va ricondotto all’articolato processo di stigmatizzazione che ancora segna profondamente la scelta di abbandonare il sacerdozio cattolico: una scelta percepita negativamente tanto dall’istituzione religiosa come anche da una parte, più o meno estesa a seconda dei diversi contesti sociali e culturali, della società all’interno della quale il soggetto si trova a vivere. Come vedremo tra breve, il sacerdozio cattolico si trova al centro di una complessa rete di relazioni che chiamano in causa l’individuo e l’organizzazione di appartenenza, l’identità personale e il ruolo che si è chiamati a svolgere, la vita pubblica e la vita privata, la dimensione cognitiva e gli aspetti emotivi e affettivi dell’esistenza, il rapporto con il sacro e l’organizzazione del potere.Proprio a causa di tale intreccio di relazioni e di dimensioni non è facile indagare i motivi profondi che spingono una persona a compiere una scelta così “sconveniente”, soprattutto in un contesto come quello italiano in cui le indicazioni della chiesa cattolica sono un riferimento culturale “diffuso”; e inoltre non è facile nemmeno indagare la percezione che ne ha la società. D’altro canto, uno studio approfondito sull’abbandono del ministero sacerdotale potrebbe senz’altro offrire delle indicazioni importanti sul cambiamento che sta coinvolgendo la chiesa e la società in Italia, e mostrare come la diversa percezione di tale comportamento indichi delle linee di evoluzione che ridefiniscono il rapporto tra la religione e la cultura all’interno di tale contesto sociale4.Il contributo che presentiamo vorrebbe essere il primo passo per uno studio più ampio e approfondito sul fenomeno dell’abbandono del ministero da parte dei preti cattolici in Italia. La nostra ricerca si basa su in-depth interviews condotte con 25 preti diocesani che hanno lasciato il ministero5 dall’inizio degli anni Sessanta fino ad oggi. Le aree indagate sono state molteplici, e hanno toccato gli ambiti più diversi delle motivazioni che hanno portato a tale scelta; nello specifico è stato chiesto se la scelta di abbandonare il ministero sacerdotale sia riconducibile all’impossibilità di essere fedeli al celibato, o se invece si sia trattato di un disagio più complesso, legato al nuovo contesto sociale e culturale che ridefinisce il ruolo del prete; uno sguardo particolare è stato dedicato alla pertinenza della formazione ricevuta in seminario, soprattutto in relazione alla visione del mondo che veniva offerta e al ruolo che avrebbe dovuto essere ricoperto dal prete; si sono indagate poi le principali difficoltà incontrate nella ridefinizione della propria identità, tanto sul versante personale quanto su quello sociale, dopo aver scelto di abbandonare il ministero sacerdotale; il rapporto con il contesto circostante, la gestione dello stigma e il suo superamento, con l’eventuale possibilità di una nuova integrazione nella comunità cristiana. Le storie di questi former priests sono spesso storie di sofferenza, ma nello stesso tempo rivelano anche un approccio inedito nella comprensione delle loro “nuove” identità. Non è stato facile innanzi tutto conquistare la loro fiducia, e creare uno spazio affidabile che consentisse loro di ripercorrere un cammino che, soprattutto psicologicamente, è costato molta fatica; inoltre non è risultato immediato nemmeno entrare in sintonia con le loro esperienze, anche per il particolare riserbo che caratterizza la loro condizione. Tra le storie che abbiamo raccolto, com’è facile intuire, non c’è una storia uguale a un’altra; ci sono, tuttavia, dei tratti comuni che ritornano con una certa regolarità in maniera trasversale alle varie esperienze. Il tema che abbiamo seguito con particolare attenzione riguarda l’idea di “vocazione”, strettamente legata a quella di “volontà di Dio”: la scelta di abbandonare il ministero è segnata da una “crisi

4 La particolare funzione della religione cattolica all’interno della società italiana è stata approfondita da diversi sociologi: si vedano gli studi di Roberto Cipriani (1988), Franco Garelli (1986 and 2005), Arnaldo Nesti (1985), e Luca Diotallevi (2001). Di particolare interesse, in quanto analizza la funzione del prete all’interno del contesto sociale e culturale italiano, è il contributo di Enzo Pace (2003).5 Non è qui possibile riportare per esteso il contenuto completo delle interviste; ci limiteremo pertanto a soffermarci su quegli aspetti che più ci sembrano significativi per offrire una panoramica delle problematiche che caratterizzano la scelta di lasciare il sacerdozio. Il campione dei 25 former priests è stato scelto tenendo conto delle diverse età, per cui 8 sono stati ordinati prima del Concilio Vaticano II, e i rimanenti 17 sono stati ordinati dopo; le interviste si sono svolte nel secondo semestre dell’anno 2005 e sono state effettuate a former priests residenti nel nord Italia.

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vocazionale”, e questa non porta per tutti gli intervistati alla semplice negazione della “vocazione”, ma può condurre ad una sua “reinterpretazione”. Proprio in questo passaggio ci è sembrato di leggere un cambiamento alquanto interessante fra l’epoca tradizionale, nella quale la vocazione era una realtà immutabile e stabile, all’epoca moderna e contemporanea, nella quale la vocazione è frutto di una continua ricerca, aperta alla molteplici esperienze della vita. Quanto è emerso costituisce senz’altro una traccia che potrà essere utilizzata per una ulteriore indagine su tale fenomeno: se da un lato ci è impossibile riportare tutti i pezzi del puzzle, dall’altro quanto segue ci sembra rappresenti le linee più importanti della “big picture”.

Il prete e la sua immaginePace (1997: 542) definisce i sacerdoti come le persone che sono specializzate nel trattare con la sfera del sacro e vengono incaricati dalle autorità competenti e dalla collettività a “svolgere un compito che non tutti i comuni mortali possono legittimamente assolvere; perciò i sacerdoti godono della stessa proprietà che caratterizza il sacro: la condizione di separazione dalla sfera profana. Proprio perché hanno a che fare con un ambito ritenuto radicalmente differente da quello terreno, dalla vita quotidiana e ordinaria, anch’essi partecipano di questo stato di separazione, sottolineandolo con particolari segni esteriori”. Nell’ambito del sacerdozio cattolico, è la teologia a dettare i contorni del ruolo che caratterizza tale figura all’interno dell’istituzione ecclesiastica. E’ interessante notare la specificità delle caratteristiche “teologiche” del ruolo del prete, in quanto sono proprio queste a fare emergere uno scarto alquanto problematico tra le aspettative “angeliche” di tale ruolo e la concretezza della vita quotidiana. Infatti, mentre la visione teologica tratteggia un’immagine del prete completamente staccata dalle occupazioni e dalle preoccupazioni terrene, quasi paradossalmente nel contesto sociale e culturale italiano il suo ruolo è ben più pratico e concreto: si tratta di una figura a cui ci si può rivolgere per i motivi più disparati, dalla questioni propriamente religiose ai problemi più mondani come trovare un posto di lavoro o una raccomandazione per un particolare affare. Marco, il più anziano tra i former priests intervistati, ordinato alla fine degli anni Cinquanta, quando ancora si celebrava la messa in latino ed era obbligatorio indossare la tonaca, esprime questa situazione in maniera molto chiara:

“In quei tempi era piuttosto diffusa l’idea che la società fosse come un piramide, e che i preti fossero al vertice e i fedeli alla base, in una posizione di sudditanza. Noi preti, inoltre, spiegavamo ai fedeli che tale struttura era voluta da Dio, e questo non poteva far altro che aumentare il nostro prestigio sociale. Quando fui ordinato, a 24 anni, ero rispettato come il sindaco del mio paese e come il medico dell’ospedale… anzi, le mie opinioni erano più considerate delle loro”.

Più che con motivi di carattere teologico e spirituale, Marco motiva la sua scelta di diventare prete facendo riferimento all’ottima istruzione che era impartita in seminario, un livello di istruzione che a quel tempo, fuori dal seminario, potevano permettersi solo i più ricchi. E accanto all’istruzione aggiunge il senso di soddisfazione che derivava dall’essere in grado di poter aiutare gli altri, sia spiritualmente che materialmente. Certo, all’inizio si sentiva chiamato da Dio, e quindi “aveva la vocazione”, ma con il passare degli anni, dopo l’ordinazione, questo ruolo gli sembrava come “un vestito che non gli andava più bene”.L’esperienza di Marco, da questo punto di vista, è molto simile a quella di Enrico, ordinato prete all’inizio degli anni Sessanta: anche per lui l’idea di poter aiutare gli altri è stata il motore che lo ha spinto a consacrarsi a Dio, ma per entrambi tale prospettiva non è stata sufficiente a mantenere salda e duratura la scelta vocazionale. Procurare la gioia degli altri, in definitiva, o il riconoscimento sociale per il proprio ruolo, non garantiva il raggiungimento della realizzazione personale, e anzi faceva sentire il bisogno di qualcosa di più profondo che l’essere prete non riusciva ad assicurare.Tuttavia la questione del ruolo non va ricondotta semplicemente alla posizione sociale o alle “cose da fare”, ma tocca più in profondità l’essere stesso del prete. Secondo la teologia cattolica la persona consacrata agisce, per opera dello Spirito Santo, come se fosse lo stesso Cristo ad agire; il prete, nella sua esperienza più intima e nel suo vissuto più profondo, appartiene completamente a Cristo, ed è continuamente chiamato a configurarsi a lui: qui si fonda la necessità di rinunciare ai

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propri punti di vista, alle proprie aspirazioni, a vivere i propri sentimenti e le proprie emozioni; un principio, questo, che rimane immutato nel tempo nonostante siano cambiati i modelli formativi e le tecniche educative (Guasco 1986 and 1990). Per Giovanni, ordinato alla fine degli anni Settanta, questa impostazione portava in definitiva a negare la propria libertà:

“A un certo punto mi sono accorto di vivere in una struttura che antepone i bisogni del gruppo a quelli della persona, l’obbligo di obbedire alle esigenze di libera espressione delle proprie idee e dei propri sentimenti: agire come strumento di una chiamata soprannaturale mi ha portato a perdere il senso della mia identità… non sapevo più cosa volevo, cosa piaceva a me, cosa io ritenevo giusto, e cosa invece mi era stato insegnato essere giusto pensare e volere”.

Secondo la prospettiva teologica, la rinuncia alla propria soggettività per una conformazione più piena con Cristo viene compensata con la certezza dell’oggettività del ruolo che il prete è chiamato a ricoprire: una “trasfigurazione” che tuttavia, come abbiamo appena visto, non sempre è adeguatamente interiorizzata6. E la legge del celibato, centrale nella comprensione del sacerdozio cattolico7, si fonda proprio su tale imitazione di Cristo: una forma di identificazione che spesso ha portato a scindere l’elemento corporeo da quello spirituale, proponendo modelli che, consapevolmente o meno, subordinavano la dimensione della fisicità a quella della mente e dell’anima, fino a considerare il corpo come una possibile causa di tentazione e di peccato. Dalle esperienze riportate dagli intervistati sulla loro formazione in seminario si può tracciare, per quanto concerne il tema del celibato, una certa evoluzione. Se negli anni Cinquanta si sottolineava l’aspetto di “lotta” contro le tentazioni della carne, a partire dagli anni Sessanta vengono proposte strategie di razionalizzazione più rispettose sia della donna (non più vista come il demonio tentatore) che del proprio corpo, fino all’utilizzo, negli ultimi anni sempre più rilevante, delle conoscenze psicologiche, al fine di riconoscere le dinamiche emotive profonde e i bisogni più rilevanti del soggetto. La differenza tra la formazione in seminario e la concretezza della vita nel mondo è un tratto comune a tutte le esperienze che abbiamo raccolto: tutti gli intervistati, in altre parole, hanno avvertito lo scarto tra l’immagine del prete in qualche modo idealizzata negli anni della formazione e nella mentalità comune, e la realtà della vita quotidiana, provocando come conseguenza una notevole quantità di aspettative deluse. Andrea, uno degli intervistati più giovani, è stato ordinato a metà degli anni Novanta, e riconosce che la formazione ricevuta in seminario è stata “aperta” al mondo; ciononostante rileva che proprio tale formazione è stata inadeguata ad affrontare i problemi concreti della vita quotidiana:

“Quando sono uscito dal seminario pensavo di sapere come affrontare il ministero: avevo studiato la Bibbia e la morale, e questo mi faceva sentire sicuro, pronto a insegnare che cosa i fedeli dovevano fare. L’impatto con la realtà, però, è stato molto duro: i gruppi in parrocchia erano sempre meno, e spesso non erano disposti ad ascoltare o a mettere in pratica quello che io avevo imparato… Le idee “chiare e distinte” che avevo studiato in seminario mi sembravano impotenti di fronte alla complessità della vita delle persone. Per non parlare delle cose vecchie da portare avanti anche se nessuno ci crede più: le novene, le processioni ai santi, le benedizioni a tutto, le messe da celebrare a ripetizione”.

Per Giorgio, ordinato come Andrea negli anni Novanta, il passaggio dal seminario alla vita concreta è stato segnato da altre caratteristiche problematiche:

“L’aspetto più problematico della formazione in seminario è stato l’incapacità a vivere relazioni serie e profonde: quando si era insieme c’era sempre un clima festoso, quasi da amiconi o da camerati in caserma, con scarsa capacità ad approfondire gli aspetti più personali della vita; una volta uscito dal seminario mi sono trovato solo, perché i rapporti con gli altri preti sono sempre formali, e quando ci si trova insieme si parla sempre di problemi pastorali, e mai della nostra vita e delle nostre esigenze concrete… Inoltre mi sono accorto che la mentalità dell’obbedienza mi aveva tenuto

6 Ovviamente la questione non si riduce alla semplice interiorizzazione, ma chiama in causa anche i cambiamenti sociali e culturali che ridefiniscono il ruolo stesso del prete.7 Anche se, come è noto, la legge ecclesiastica del celibato, obbligatoria per i preti cattolici di rito latino, è opzionale per i preti cattolici di rito orientale: la chiesa cattolica, quindi, prevede già al proprio interno la presenza di preti sposati.

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sostanzialmente un bambino, disposto a dire di sì per avere in cambio qualche piccolo favore. Il ruolo che mi era stato insegnato mi stava sempre più stretto, tanto che spesso mi è capitato di sentirmi un burattino in mano di altri”.

Un’educazione ad ascoltare i bisogni e le necessità degli altri, e a mettere in secondo piano le proprie: secondo gli intervistati, proprio questo “dimenticare se stessi” a un certo punto porta a perdere anche la propria identità e a non sapere più di preciso qual è il senso della propria vita; porta inoltre a non saper leggere con chiarezza dentro di sé, e a nascondere a sé stessi la propria verità profonda.Un progressivo sgretolamento dell’immagine idealizzata del prete, inculcata negli anni di seminario e poi difesa con più o meno forza nei primi anni di ministero, porta tutti gli intervistati a interrogarsi sulla questione di fondo che tocca il senso della loro vita all’interno della struttura ecclesiastica. Una questione personale che si inserisce tuttavia nella più complessa dinamica dell’epoca moderna di radicale messa in discussione di tutte le figure di autorità che vogliono imporre un comando o una verità. Se il contesto del mondo tradizionale poteva in qualche maniera fare da supporto a una visione mitizzata del prete, la condizione dell’epoca moderna e postmoderna sembra metterne in risalto le fragilità e le inconsistenze. Come a dire che nell’epoca contemporanea il complesso intreccio tra conformità a un ruolo dato e legittime esigenze di esprimere liberamente la propria soggettività porta spesso a una situazione di crisi, la quale può trovare gli sbocchi più diversi, da una nuova presa di coscienza, più creativa, della propria vocazione, alla decisione di lasciare il ministero. In ogni caso sembra essere in gioco la sfida a ridefinire la propria identità, in un contesto sociale e culturale che “demitizza” il ruolo angelico del prete, e che sembra non capire o non apprezzare più di tanto la sua scelta radicale di essere celibe.

A un certo puntoTutti gli intervistati, nel raccontare la storia della loro vocazione, ricorrono a una espressione identica anche nella formulazione lessicale per dire il momento in cui hanno seriamente preso in considerazione la possibilità di lasciare il loro ministero: “A un certo punto”. In un momento preciso, che tutti ricordano con chiarezza, anche se la sua rievocazione costa fatica e in qualche caso scopre una ferita ancora non del tutto perfettamente guarita, le difficoltà non sono più state un motivo per rinvigorire la lotta alle “tentazioni” contro la vita consacrata ma, molto più realisticamente, hanno costituito un ostacolo insormontabile di fronte al quale scendere a patti. Contrariamente a quanto capita per un qualsiasi altro tipo di lavoro, cambiare la professione di prete comporta delle difficoltà che non si riducono alla ricerca di un nuovo posto di lavoro. Quanto illustrato più sopra ha messo in luce le diverse componenti, di ordine simbolico e valoriale oltre che di aspettative sia personali che sociali, che vengono chiamate in causa nella costruzione di una identità presbiterale.Proprio tale complessità di elementi rende la scelta di abbandonare il ministero particolarmente dura e sofferta: ad essere messa radicalmente in discussione non è semplicemente una professione, ma molto più profondamente l’identità di una persona, la sua accettabilità sociale, il suo relazionarsi con se stessa e con gli altri, oltre ovviamente la questione della sussistenza materiale. Spogliarsi dell’abito talare, per il prete cattolico significa perdere in un certo senso tutto: non solo il prestigio e il riconoscimento che direttamente o indirettamente gli venivano attribuiti svaniscono, ma essi cambiano addirittura di segno, diventando spesso esclusione e biasimo per una scelta che all’interno del mondo ecclesiastico non è accettata. Prima di arrivare “a un certo punto”, tuttavia, il prete in crisi attraversa un periodo di travaglio interiore in cui le singole considerazioni possono essere valutate come positive o negative a seconda della prospettiva nella quale ci si pone: lasciare il ministero o continuare nella fedeltà alla scelta di consacrazione. Un periodo di estrema incertezza, in cui la prima reazione è stata, per tutti gli intervistati, “resistere, resistere, resistere!”. In tutte le esperienze che abbiamo raccolto, però, arriva prima o poi il momento in cui la preghiera più intensa o semplicemente il prendere tempo non bastano più. Il prete “in crisi” si confronta di solito con i superiori e con alcuni confratelli di fiducia, ma le indicazioni che gli vengono date sono quasi sempre di perseverare, di “tener duro”, anche per

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evitare lo scandalo che la scelta di abbandonare provocherebbe nella comunità cristiana. La sensazione che tutti gli intervistati hanno di tale tipo di “aiuto” è che l’istituzione cerchi di salvare se stessa, e che non riesca a capire come la vita di una persona possa svilupparsi anche “oltre le promesse fatte a 24 anni di età” (Carlo, ordinato a fine anni Ottanta). Emerge qui la relazione tra l’istituzione ecclesiastica, nella quale il principio di fondo è la stabilità, e le esigenze sempre mutevoli dell’individuo: se per la chiesa è il riferimento alla tradizione a dire che cosa si deve fare e che cosa invece va evitato, “per le persone – ci spiega Giovanni, ordinato nei primi anni Settanta – le cose vanno diversamente: non è il passato a regolare il presente, ma i fatti che capitano nella quotidianità sono il metro con cui misurarsi e confrontarsi. Una persona concreta, e non studiata sui libri, è viva, cresce, cambia punto di vista… non può restare immobile e fossilizzarsi, altrimenti è costretta a morire”.Altro punto che accomuna tutti i former priests che abbiamo intervistato è la ricerca della “vera” volontà di Dio. Nel momento della difficoltà e della crisi riemerge un meccanismo che li ha accompagnati lungo tutti gli anni della formazione in seminario (e anche prima di entrare in seminario), e con il quale hanno risolto le piccole (o grandi) crisi della vita dei primi anni da prete. Ma come far funzionare questo criterio di giudizio nella situazione concreta di chi vuole smettere di essere prete? Ancora una volta, come abbiamo già detto più sopra, bisogna fare i conti con la particolarità di questa “professione”, in cui il sacro e il profano sono strettamente intrecciati. Non c’è dubbio, o almeno così si pensa comunemente, che diventare prete significhi seguire “la volontà di Dio”; di conseguenza, decidere di lasciare il ministero ordinato significherebbe automaticamente, a rigor di logica, collocarsi fuori di tale volontà. Questo tipo di ragionamento era quello ufficialmente proposto dalla gerarchia ecclesiastica fino a non molti anni fa. Nel caso dei nostri intervistati, chiamati a decidere se lasciare o no l’essere prete, è chiaro che tale applicazione del principio “volontà di Dio” era ed è alquanto inquietante e anche ambiguo. Dietro a questa ricerca del volere divino si nasconde tutto il dramma che accompagna i preti che intendono lasciare il ministero, un percorso che li ha portati a sperimentare un duro travaglio interiore, spesso drammatico, e che in diversi casi è sfociato nella depressione (17 dei 25 intervistati ne hanno fatto l’esperienza)8. Essere prete significa essere una persona aperta alla trascendenza, e nel caso del prete cattolico questa relazione con Dio si traduce in una fitta serie di precetti e regole di vita che strutturano ogni minimo particolare della giornata, dalla preghiera alla preparazione dell’omelia, dalle visite agli ammalati alla messa quotidiana fino alle varie attività sociali e assistenziali. Lasciare questa situazione apre un vuoto che ha bisogno di essere sostenuto e riempito da una fonte di legittimità che, sembra quasi scontato dirlo, può essere ricercata nella “volontà di Dio”.I preti che hanno lasciato il ministero negli anni Cinquanta (nessuno di questi compare tra i nostri intervistati), si sono portati nella coscienza il peso di avere agito contro la volontà di Dio, con il senso di colpa che ne deriva e con tutto ciò che questo significa nel complesso rapporto con il sacro all’interno della morale cattolica. Tra le persone che abbiamo intervistato vanno registrati degli interessanti tentativi di “interpretazione” di questo principio, il quale non perde la sua validità a patto che venga compreso “correttamente”, e quindi “aggiornato”. Tra i più anziani degli intervistati, e cioè quelli ordinati dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Settanta, si è affermata la convinzione che era proprio la volontà di Dio a chiamarli a smettere di essere preti: la scelta di essersi consacrati si presenta quindi, in questa rilettura della propria esperienza, come un errore, commesso per i motivi più diversi. E per quanto questo possa sembrare paradossale, nel loro travaglio interiore fare la volontà di Dio non consisteva più nel perseverare nella scelta di essere preti, ma significava abbandonare quella condizione, nella quale si erano trovati per errore, per entrare in una vita normale che rappresentava la “vera” volontà di Dio. Se comunemente si pensa che essere prete voglia dire seguire la volontà di Dio, e abbandonare questa condizione significa

8 Nei former priests che abbiamo intervistato il periodo di “ripensamento” e di “discernimento” prima dell’abbandono del ministero è durato mediamente due anni e mezzo, con una tendenza ad allungarsi per i preti più giovani: proprio tra questi la depressione è più frequente, e questo con tutta probabilità è spiegabile per il maggior dispendio di energie psichiche impiegate nel processo decisionale.

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esserne fuori, secondo questa visione è vero il contrario: se un uomo si trova ad essere prete “per errore”, la volontà di Dio consiste per lui nell’abbandonare il ministero. Ma c’è anche un’altra interpretazione, più recente, che Matteo, il più giovane fra gli intervistati, ordinato alla fine degli anni Novanta, esprime in questi termini:

“Sinceramente non capisco perché bisogna opporre un periodo della propria vita a un altro… non capisco perché quando si era nel sacerdozio si era nella volontà di Dio e poi quando si lascia non lo si è più, oppure viceversa prima non lo si era e poi lo si è… secondo me queste sono visioni troppo semplicistiche, ristrette, poco rispettose del misterioso progetto che Dio ha su ogni essere umano… vorrei dire che si tratta di due visioni manichee, dove tutto il bene sta da una parte e tutto il male sta dall’altra. Con tutta sincerità io mi sono sempre sforzato di seguire la volontà di Dio, e questo è stato vero prima quando ero prete, ed è vero ora che non lo sono più. Anzi, se dovessi proprio dire come sono andate per me le cose, ho fatto molta più fatica a seguire il volere di Dio dopo aver lasciato il sacerdozio che prima”.

Durante l’intervista Matteo ha sottolineato con particolare enfasi questo punto, perché secondo lui sarebbe molto più facile fare scelte come la sua se si avesse di Dio un’idea un po’ più “giovane”, “reale” e, sempre con le sue parole, “meno funzionale al potere dell’istituzione e più vicina a chi con fatica cerca la propria strada nella vita”.Queste considerazioni sulla “volontà di Dio” aprono una dimensione che andrebbe approfondita con una ricerca specifica sul rapporto tra queste persone che decidono di lasciare il ministero ed il sacro. Per quanto possa sembrare strano, nonostante tutti abbiano sperimentato, anche se a intensità diverse, la durezza e l’aridità dell’istituzione ecclesiastica nell’affrontare la loro decisione, per tutti è stato importante sentirsi “nella volontà di Dio”, e nonostante chi detiene ufficialmente il potere di discernere tale volontà ritenesse che così non era, il giudizio personale ha sostenuto e legittimato la loro decisione di cambiare vita. Anzi, proprio il rapporto personale con il sacro ha sciolto ogni dubbio o resistenza residui.Così, “a un certo punto”, tutti gli intervistati dicono di aver capito che per quanto l’abbandono del ministero fosse una scelta dura, essa era l’unica scelta possibile per loro in quel momento: le cause potevano essere le più svariate, ma la conclusione era unica. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, il problema del celibato non sembra essere la causa più importante: tra i nostri intervistati prima dell’amore per una donna il motivo più ricorrente per lasciare la vita da prete è l’incomprensione con la gerarchia ecclesiastica (di solito il vescovo o il proprio parroco) o difficoltà di ordine spirituale; tra gli intervistati più giovani ha una rilevanza particolare anche la scomparsa del ruolo del prete, così come è concepito nel cattolicesimo, sia all’interno della società contemporanea che all’interno della chiesa9.Normalmente, ed è stato così per tutti gli intervistati, il momento cruciale va identificato con l’incontro con il proprio vescovo, al quale viene comunicata la scelta di lasciare il sacerdozio: la quasi totalità degli intervistati afferma di essere stata trattata in maniera fredda e impersonale, con un linguaggio che quasi sempre ricorre a termini quali “traditore”, “scandalo”, “vergogna”, “sprovveduto”, “pagano”. In alcuni casi si è registrata pure una certa aggressività da parte del vescovo, il quale dimostrava di sentirsi personalmente offeso da una scelta di questo tipo. In tre casi il vescovo si è dimostrato aperto e comprensivo, rispettoso della decisione di lasciare il ministero. Tutti i former priests che abbiamo intervistato, comunque, riferiscono che l’incontro di “addio” è stato liberatorio un po’ come “un parto” (quest’espressione è stata ripetuta da ben 16 intervistati, con uguale frequenza tra i giovani come tra quelli che hanno lasciato negli anni Sessanta). Matteo sintetizza con un’immagine l’uscita dall’ufficio del vescovo: “E’ stato come la punta di uno spillo che fa esplodere una bolla di sapone: mi sono reso conto che il mondo in cui vivevo era completamente isolato, un mondo fuori dal mondo”. Nessuno degli intervistati, comunque, dichiara

9 Le cause di abbandono sono per molti aspetti simili a quelle rilevate da Burgalassi (1970b) quasi quarant’anni fa: in ordine di importanza decrescente troviamo le difficoltà di ordine spirituale, le difficoltà con la chiesa, l’urto con i superiori, problemi con il celibato, lo scandalo morale, la scomparsa del ruolo del prete e, per quanto possa sembrare strano, da ultimo, la mancanza di vocazione.

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di essersene andato “sbattendo la porta”, anche se qualcuno, visto l’atteggiamento di chiusura del vescovo, ricorda di aver sentito una forte tentazione a farlo.Prima di analizzare che cosa significa per un former priest abbandonare il “mondo protetto” della chiesa per entrare nella “normalità del mondo”, è importante approfondire un aspetto che fa da cerniera tra questi “due mondi”: la dimensione affettiva o, come spesso si dice in maniera alquanto stereotipata, il problema della “solitudine del prete”. Delle 25 persone intervistate, 15 hanno lasciato il ministero per sposarsi qualche mese dopo l’abbandono, mentre i rimanenti si sono sposati entro cinque anni. Se da un lato sarebbe banale ridurre il problema della crisi dei preti alla questione del celibato, e quindi della solitudine, dall’altro la dimensione affettiva costituisce un elemento di primaria importanza che gioca un ruolo decisivo nella decisione di lasciare il ministero. Come ha fatto osservare Pace (2003: 295-96) a proposito di un campione di preti in servizio nelle parrocchie italiane, il fenomeno della solitudine del prete non va sovraccaricato di significati, anche perché si tratta di un fatto che comprende diverse dimensioni, e nello specifico l’autore ne ricorda tre: “Il primo tipo di solitudine individua l’eventuale disagio che un sacerdote può provare non solo perché, visto il vincolo del celibato, non gli è stato possibile formarsi una famiglia, ma anche, più semplicemente, per il venir meno di legami familiari, dovuto o alla lontananza dai propri cari o alla scomparsa di familiari che convivevano con lui. Con il secondo tipo siamo di fronte a una forma di solitudine involontaria, che un sacerdote vive perché la sua azione pastorale si svolge in un ambiente sociale segnato dall’indifferenza. Il terzo tipo di solitudine mette insieme i primi due, e accentua in modo significativo come per una parte dei preti italiani l’esperienza della solitudine sia spesso globale: può riguardare la carenza di relazioni affettive e allo stesso tempo la mancanza di relazioni sociali intense”. A questi tipi di solitudine può essere aggiunta la solitudine “appresa” negli anni di seminario: il prete è formato ed educato a non affezionarsi, a non stringere relazioni troppo durature, e la sua formazione è centrata sull’aiutare gli altri senza accettare di ricevere qualcosa in cambio.La dimensione affettiva, connessa alla legge canonica del celibato, ha avuto un ruolo molto importante nel processo che ha condotto i 25 intervistati ad abbandonare il loro essere prete. In tutte le interviste viene lamentata la carenza, se non l’assoluta mancanza, di educazione affettiva negli anni del seminario: un contesto nel quale per tutto il Novecento, nonostante ripetuti tentativi di riforma, venivano privilegiati la dimensione intellettuale, la razionalità, lo studio, l’approfondimento teorico, e poco spazio era lasciato alla conoscenza profonda di sé, alle emozioni e ai sentimenti. Nelle varie “ratio studiorum” e nei regolamenti dei seminari gli educatori appaiono come figure che concentrano il loro sforzo educativo sul “dover essere” dei seminaristi, più che sull’analisi del loro concreto “essere” di giovani del tutto simili ai giovani fuori dal seminario. Del resto è oggi innegabile che non si possano costruire delle identità forti e credibili se non viene adeguatamente integrata la parte emotiva della persona, affrontandone le dinamiche talvolta difficili da decifrare se non addirittura contraddittorie. Difficoltà questa ancora più evidente per quegli intervistati (19) entrati in seminario negli anni delle scuole medie, e quindi in quell’età, che va dagli 11 ai 14 anni, nella quale le pulsioni adolescenziali rimettono in moto una nuova dinamica identitaria, complessa e poco disponibile a semplificazioni di tipo ascetico.L’esperienza di Mauro, ordinato a fine anni Ottanta, è a tal proposito paradigmatica:

“Sono entrato in seminario minore a 11 anni, quando ero ancora un bambino, e ne sono uscito a 25, uomo maturo per quanto riguarda la mia formazione culturale, ma purtroppo ancora bambino sul piano degli affetti e delle emozioni. Ovviamente a 11 anni non sapevo che cosa volesse dire “celibato”, e non capivo concretamente che cosa volesse dire non potersi sposare. Una volta cresciuto, e capito teoricamente il significato di che cosa volesse dire una vita da celibe, ho iniziato a sentire dei sentimenti che mi sembravano mi portassero in un’altra direzione… mi confrontavo con i miei superiori, ma mi venivano date risposte generiche, ed ero invitato a razionalizzare i bisogni che con l’adolescenza si facevano sentire sempre più forti… mi veniva ripetuto che se Dio aveva un progetto su di me questi problemi si sarebbero risolti da soli… ma così non è stato”.

Per quanto concerne la maturazione spirituale e affettiva dei seminaristi, una figura importante all’interno dei seminari cattolici è quella del “padre spirituale”, con il quale i giovani in formazione

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verificano il loro cammino di maturazione e si confrontano sulle difficoltà incontrate. Se l’esperienza degli intervistati più anziani con la propria guida spirituale negli anni del seminario è stata prevalentemente negativa, per i più giovani le esperienze sono più diversificate: mentre i primi hanno trovato una chiusura pressoché totale sulle questioni di carattere affettivo, quelli ordinati negli anni Novanta hanno avuto modo di confrontarsi apertamente su tali problematiche, anche se le risposte ottenute sembravano far appello più al volontarismo e ai buoni propositi che a un accompagnamento di tipo psicologico. L’opinione diffusa tra gli intervistati è quella di essere stati abbandonati a loro stessi per quanto concerne l’educazione sentimentale e affettiva: le uniche indicazioni che in tale ambito venivano loro offerte concernevano i peccati da non commettere e i pensieri da evitare. “Non ci è stato permesso di sentire quello che davvero sentivamo – precisa Mauro – e ci risultava più facile far finta che i problemi non ci fossero, piuttosto che affrontarli davvero… ma prima o poi i problemi vengono a galla”. Il termine “alienazione” o “spersonalizzazione” ritorna spesso nelle interviste, e la decisione di cambiare vita viene interpretata come “fedeltà a se stessi”, in contrasto con “quanto gli altri si aspettano da te”. Tale fedeltà ha comunque un costo, tanto più alto quanto più in precedenza l’individuo ha investito, sia dal punto di vista concreto che dal punto di vista simbolico, in un altro tipo di fedeltà, la quale faceva riferimento, più che ai bisogni della propria persona, alle disposizioni e alle richieste di un’istituzione.

Lo stigmaNell’esatto momento in cui il prete comunica a un superiore, come abbiamo visto di solito al proprio vescovo, la decisione di lasciare il ministero, inizia un percorso esistenziale che lo accompagna per diversi anni, se non addirittura per tutta la vita, e che può essere descritto come il superamento di un processo di stigmatizzazione. Anche se il termine “stigma” compare in maniera esplicita nelle interviste che abbiamo effettuato solamente 4 volte, costante è il riferimento degli intervistati alla realtà cui tale concetto fa riferimento. Secondo la nota definizione di Erving Goffman (1963), lo stigma è quella situazione in cui l’individuo è escluso dalla piena accettazione sociale, e questo può accadere per i motivi più svariati, dalle deformazioni fisiche ai diversi tipi di comportamento deviante, fino alle discriminazioni legate alla razza, ai costumi tipici di un popolo o alla religione.E’ interessante notare come le varie dimensioni e le varie caratteristiche dello stigma illustrate da Goffman (1963) possano essere declinate nella concreta esperienza degli uomini che da una situazione “normale” di essere prete cattolico (in un ambiente, come quello italiano, fortemente connotato dal cattolicesimo culturale prima ancora che propriamente religioso) decidono di “deviare” e di lasciare tale posizione socialmente riconosciuta e legittimata per imboccare una strada che, come vedremo subito, presenta un alto costo in termini di accettabilità sociale. Diventare “ex” mette sullo stesso piano di tutte quelle categorie di persone che vengono definite proprio in base a un tratto solitamente deviante che ha caratterizzato nel passato la loro vita: ex-drogato, ex-carcerato, ex-prostituta, e anche ex-prete. Se l’essere prete, soprattutto nel contesto sociale e culturale italiano, viene associato a tutta una serie di caratteristiche socialmente accettate e spesso apprezzabili, l’abbandono di tale condizione comporta un profondo discredito che, inevitabilmente, non può non arrivare a toccare la percezione che la persona screditata ha di sé.La prima reazione di chi ha lasciato il ministero è quella di nascondere il proprio passato, pensando che se questo venisse scoperto potrebbe avere delle conseguenze pesanti: si teme di non venire più trattati come una persone “normali”, ma come tipi sospetti, da evitare, forse anche pericolosi; come sinteticamente afferma Goffman (1963), con lo svelamento del passato verrebbero ridotte le possibilità di vita dell’individuo. Tutti i 25 intervistati, appena abbandonato il ministero, hanno quindi cercato di trovare un’abitazione in un zona geografica diversa da dove erano vissuti fino a quel momento. Per alcuni (7) è stato sufficiente spostarsi di poche decine di chilometri, tanto quanto bastava per uscire dalla diocesi di appartenenza; per altri è stato necessario spostarsi per 100 o più chilometri: “A dire la verità – precisa Paolo, ordinato a fine anni Ottanta – non si trattava tanto di

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una distanza geografica, quanto di una distanza psicologica: per sentirsi al sicuro potevano bastare anche pochi chilometri da dove si era vissuto fino a non molto tempo prima… ma in qualche situazione non bastavano due o trecento chilometri! Appena lasciai il ministero il senso di vergogna era così forte che volevo scappare sulla luna…”.Nelle varie interviste l’espressione ricorrente che descrive tale situazione di rottura è “tagliare i ponti” con il proprio passato, con la vita di prima, per evitare di incontrare persone conosciute o, meglio, per evitare di essere riconosciuti. Una specie di fuga che garantisca l’anonimato, e quindi la possibilità di iniziare una nuova vita “normale”. Tuttavia, come è facile intuire, del proprio passato non è tanto facile sbarazzarsi, e il dispendio di energie necessario per non essere smascherati risulta davvero elevato. Dover continuamente controllare le informazioni che si danno alle persone incontrate nella vita quotidiana è uno degli elementi che tutti gli intervistati hanno sentito come più pesante: per quanto essi tentassero di parlare d’altro, appena si apriva uno spazio di confidenza nel dialogo con un compagno di lavoro, i riferimenti al passato emergevano quasi spontaneamente; controllare questi riferimenti ha significato per le persone che abbiamo intervistato dover rinunciare per diversi anni a potersi esprimere normalmente con spontaneità. Marco, il più anziano dei nostri intervistati, anche se sono passati quarant’anni da quel periodo, ricorda con precisione il disagio, a tratti difficilmente sopportabile, di questa radicale ambiguità nelle relazioni:

“Quando incontravo le persone non ricordavo esattamente che cosa avevo detto loro riguardo al mio passato: a qualcuno dicevo che avevo lavorato nei servizi sociali, ma poi quando intraprendevo una discussione utilizzando qualche termine ricercato o fuori dal comune precisavo che avevo anche studiato, e anche insegnato un po’ religione, e anche… beh, davvero a un certo punto il terrore di essere preso per bugiardo iniziò a pesarmi e a creare dentro di me una forte confusione”.

Ma se nel cercar casa o nelle relazioni con i compagni di lavoro è possibile anche imbrogliare circa il proprio passato, più difficile risulta per il former priest farlo con il proprio datore di lavoro: quando questi richiedeva di dichiarare le precedenti esperienze lavorative, metà degli intervistati ricordano di aver risposto, mentendo, che avevano provato diverse occupazioni, o che avevano studiato senza conseguire un titolo di studio; l’altra metà ha preferito non mentire, e questo ha innescato un processo che divideva il mondo in due, da una parte chi conosceva “il segreto”, e dall’altra chi ne era all’oscuro. Tuttavia, anche in questo secondo caso, l’ambiguità e l’incertezza erano elevate, in quanto l’individuo non poteva stabilire con precisione chi sapeva (e, più ancora, “che cosa” sapeva), e chi non sapeva.Questa ambiguità nella gestione dei rapporti interpersonali fa capire come il disagio di non potersi dire per quello che realmente uno è sia sì elevato, ma non a tal punto da giustificare le conseguenze di una aperta dichiarazione di identità: nei mesi immediatamente successivi l’abbandono del ministero (ma per qualcuno questo è stato vero per alcuni anni) il costo del dire di essere stato prete veniva valutato troppo alto, e quindi non sostenibile. Tutti gli intervistati condividono l’opinione che “è giusto essere conosciuti e giudicati per quello che si è nel presente, e non per quello che si è stati nel passato… il passato è passato!”.Con il passare degli anni, tuttavia, questo atteggiamento di custodia del “segreto” lascia spazio a un approccio meno rigido e più sostenibile, regolato dal principio “non mi sento obbligato a dirlo e non mi sento obbligato a nasconderlo”; addirittura, per i più giovani, la questione non si porrebbe più. Matteo testimonia come sia cambiata, nel giro di quarant’anni, la percezione che i former priests hanno di sé:

“Non dico che essere stato prete sia un motivo di vanto come essere stato un giocatore della nazionale di calcio, però non capisco perché debba essere un motivo di cui vergognarsi… mi sembrerebbe molto più ipocrita continuare a fare il prete e magari sentire dentro di mentire a se stessi, e quindi anche agli altri. No, io mi sento orgoglioso della scelta che ho fatto”.

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La prospettiva di Matteo, tuttavia, ha richiesto diversi anni di maturazione, frutto anche di smascheramenti imprevisti e spesso imbarazzanti: sono stati proprio questi a far decidere a quasi tutti gli intervistati di non essere rigidi nel mantenimento del “segreto”. Non si registra più quindi l’imbarazzo degli anni Settanta e Ottanta, ma tuttavia permane una resistenza che, oltre a essere radicata nel contesto sociale e culturale, ha origine più in profondità, e cioè nell’accettazione della “nuova” identità da parte degli stessi former priests. Prova di quest’ultimo aspetto è la modalità attraverso la quale i figli vengono a sapere del passato del loro papà: in nessuno dei casi intervistati (tutti sposati e con figli), c’è stata una comunicazione diretta10. I figli solitamente vengono a conoscere il passato trovando delle foto in qualche album di famiglia, o trovando scritto il “don” davanti al nome del papà posto in qualche vecchio libro: a partire da questa scoperta si apre un dialogo più o meno aperto che però maschera sempre un certo imbarazzo. Da quanto ci è stato possibile capire nelle interviste, l’affermazione “ma no, per i miei figli non è assolutamente un problema, anzi hanno capito benissimo che non c’è nulla di cui vergognarsi” esprime con tutta probabilità più un desiderio che una constatazione di fatto. Per quanto lo stigma sia superato e non rappresenti più un motivo di condanna o di discredito, rimane un’ombra che nemmeno il tempo riesce a dissolvere completamente: se si può cancellare l’approccio negativo all’avere abbandonato il ministero, di fatto non si può cancellare l’essere stato prete.Una volta svelato il segreto, e cioè superata la vergogna di dire senza troppo imbarazzo il proprio passato dopo averne in qualche maniera accettata la realtà, si pone per i former priests la sfida di affrontare la normalità della vita quotidiana, interagendo senza complessi di inferiorità o senza sensi di esclusione. Decisivo, a tal proposito, sembra essere l’ambiente sociale e culturale in cui il former priest di volta in volta si inserisce. Gli intervistati più giovani affermano di non aver subito alcuna discriminazione dovuta al loro essere stati preti; gli intervistati più anziani ricordano che cercando lavoro, negli anni Sessanta e Settanta, hanno incontrato alcuni datori di lavoro che, proprio a causa del loro passato, si sono rifiutati di dare loro occupazione. Per entrambi i gruppi, però, le resistenze più forti sembrano essere venute dal mondo ecclesiastico, anche se negli ultimi anni la situazione risulta molto cambiata. La logica della chiesa ufficiale fino alla fine degli anni Ottanta è stata infatti quella di “isolare le mele marce”, e quindi di non dare alcun spazio ai former priests nelle varie attività che si svolgono nelle parrocchie, né in attività sociali e assistenziali, né nella catechesi o nella liturgia11.

RitornareProprio perché essere prete non è un’occupazione come un’altra, e quindi decidere di non esserlo più non è semplicemente come cambiare lavoro, è abbastanza prevedibile che la sensibilità e gli interessi che hanno accompagnato l’impegno degli anni giovanili non scompaiano improvvisamente. Quasi tutti gli intervistati (22 su 25) hanno manifestato il desiderio di poter partecipare alla vita della parrocchia in cui vivono, anche se questo richiede un lento processo di inserimento, e molto dipende dalla disponibilità all’accoglienza da parte del parroco. La possibilità di riprendere una vita “normale” all’interno della comunità cristiana, e cioè poter sposarsi in chiesa, poter fare la comunione quando si partecipa alla messa, o poter fare da testimone

10 Mancano completamente degli studi sulle famiglie dei preti sposati, come anche mancano studi sulle “donne” dei preti sposati: queste potrebbero offrire una prospettiva interessante dalla quale leggere il passaggio del proprio marito dal ministero alla vita matrimoniale; come pure andrebbe approfondita la percezione che i figli hanno della loro particolare situazione in rapporto ai diversi momenti di socializzazione.11 Non abbiamo modo di approfondire in questo saggio la questione dell’abbandono del ministero dalla prospettiva della chiesa istituzionale. Per quanto riguarda l’aspetto formale, la chiesa cattolica prevede un processo articolato per poter lasciare il ministero: questo processo consiste nella richiesta della “dispensa”, un documento che scioglie la persona dagli obblighi legati all’essere prete; la richiesta della “dispensa” è seguita da un processo canonico assai articolato che coinvolge il vescovo della diocesi dove il prete è stato ordinato, la Congregazione per il Culto divino a Roma, e infine il Papa che rilascia personalmente il documento con la risposta finale. Nella prassi comune, fino a non molti anni fa, e in molte diocesi anche oggi, l’atteggiamento ricorrente era quello di far passare sotto silenzio gli abbandoni: la tecnica di mascheramento più diffusa era quella di declassare la crisi del prete e il suo abbandono a “problemi di salute” o “momenti di stanchezza”.

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alle nozze di amici, è legata alla concessione della “dispensa” da parte dell’autorità ecclesiastica. Tale concessione richiede normalmente un periodo di tempo di attesa che varia, dal momento della richiesta, da un anno a più anni, e raramente viene negata12. Dopo un iniziale momento di sorpresa e di imbarazzo, generalmente i laici non manifestano particolari resistenze all’integrazione dei former priests nella vita della parrocchia. Per Giovanni, ordinato negli anni Settanta, il rientro alla vita della parrocchia come “prete sposato”, ovviamente dopo aver ricevuto la “dispensa”, è stato facilitato dal benvenuto del parroco, il quale gli ha dato l’incarico della catechesi; tuttavia, precisa,

“io sono stato da questo punto di vista molto fortunato, in quanto di solito sono proprio i preti a far problema e a non accogliere chi ha vissuto esperienze come la mia… sembra quasi che ci sia un clima di sospetto, di imbarazzo. Mentre per i laici è completamente diverso: sono più aperti e disponibili, e talvolta capiscono pure cosa può aver significato nella nostra vita il travaglio attraverso il quale siamo passati”.

Tutti gli intervistati hanno sottolineato questo particolare aspetto, e cioè come la loro condizione di preti sposati sia un problema per le persone che rappresentano l’istituzione ecclesiastica, e cioè per i preti e le suore, più che per i fedeli: questi non solo sono disposti a capire, ma si dimostrano anche disponibili ad aiutare in caso di difficoltà; i rappresentanti “ufficiali” dell’istituzione, invece, si dimostrano all’inizio più chiusi e questo, sempre secondo l’opinione di alcuni degli intervistati, perché la scelta dei preti sposati potrebbe costituire per loro una possibile “tentazione” o quantomeno un motivo di “inquietudine”. Andrea ci ha detto di continuare a studiare, a tenersi aggiornato sulle questioni teologiche, in particolare su quelle legate alla catechesi, anche se nella diocesi dove ora vive nessuno gli ha chiesto di prestare qualche servizio; solo un amico prete lo chiama qualche volta durante l’anno a tenere degli incontri per i fidanzati. Gli piacerebbe molto poter fare qualcosa in parrocchia, ma secondo lui

“la nostra chiesa è ancora molto clericale sia nelle strutture che nella mentalità… in ogni aspetto della vita della chiesa c’è a capo un prete, anche su questioni, come quelle economiche, dove non si capisce perché ci debba essere una persona consacrata. E dove c’è un prete si sa fin dall’inizio chi ha ragione e chi ha torto, chi può comandare e chi deve ubbidire”.

Il sentimento di emarginazione sperimentato all’interno della chiesa, e cioè all’interno di quell’istituzione nella quale hanno speso l’entusiasmo e l’impegno degli anni giovanili, è forse l’aspetto più difficile da accettare per i preti sposati:

“Pur non avendo fatto del male a nessuno, anzi avendo rischiato sulla mia pelle la fedeltà alla mia coscienza, mi trovo ora escluso da una chiesa che si definisce “madre”, e che accoglie i drogati, le prostitute, gli ammalati di Aids, ma che si chiude nei confronti di chi le ha donato gli anni più belli della vita… per me questo è semplicemente incomprensibile, e penso che lo sia anche per molti cristiani che vivono la loro fede secondo lo spirito del vangelo e non secondo le norme dell’istituzione”.

12 Mentre con papa Paolo VI era relativamente semplice e veloce ottenere la “dispensa”, papa Giovanni Paolo II, nel tentativo di frenare un’emorragia che a livello globale sembrava incontenibile, ha imposto regole più severe, per esempio quella di concederla normalmente solo a chi abbia compiuto i quarant’anni di età. Gli intervistati si sono mostrati molto critici e perplessi di fronte a queste regole e al procedimento canonico. Marco, il più anziano tra le persone che abbiamo intervistato, parlando degli aspetti di questo processo che secondo lui sono più deboli e criticabili, ha precisato che “tale procedura, ovviamente, è strutturata secondo criteri definiti dalla stessa istituzione, i quali spesso mettono chi ne fa ricorso nella prospettiva della “immaturità affettiva” e questo, a essere sinceri, è una motivazione assolutamente ridicola: evidentemente è tutto da dimostrare che chi lascia una condizione di celibe per potersi sposare sia veramente una persona immatura dal punto di vista affettivo”. Secondo Antonio, le contraddizioni di questo processo sono diverse: “Quand’ero in seminario non si è mai fatto ricorso alla psicologia, se non in momenti molto circoscritti, ed ora per dimostrare che non ero adatto per essere prete si fa ricorso proprio a principi di carattere psicologico… e poi non capisco perché la chiesa non da la “dispensa” prima dei quarant’anni, portando come motivazione che prima di quell’età un former priest non è pronto per sposarsi, mentre vengono ancora ordinati preti dei giovani di venticinque anni”.

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Queste considerazioni di Enrico, anche se con sfumature diverse, vengono riprese da tutte le persone che abbiamo intervistato.Proprio da questa difficoltà di inserimento pieno all’interno della chiesa, più o meno accentuata a seconda dei contesti sociali e culturali, e nel contempo dall’esigenza per i former priests di condividere le esperienze e le difficoltà della vita quotidiana, o magari di aiutare chi si trova nella difficile situazione della scelta, nascono diversi gruppi, più o meno formalizzati, che consentono ai former priests di ritrovarsi, anche con le mogli e i figli. Tre quarti delle persone che abbiamo intervistato frequentano con una certa assiduità tali gruppi; i rimanenti non li frequentano perché preferiscono vivere “normalmente” la loro vita, sentendo il gruppo di autoaiuto come un ghettizzarsi e un rinchiudersi negli schemi del proprio passato. In Italia praticamente ogni diocesi ha un suo piccolo gruppo di former priests, anche se a livello nazionale ci sono dei gruppi più grandi come “Vocatio”, “Hoc Facite”, “Amici del Cenacolo” e “Fraternità” che ne raggruppano alcune centinaia.Ultimamente la questione dei preti sposati è stata ufficialmente ripresa anche all’interno della chiesa ufficiale, in seguito a lettere pubblicate su riviste nazionali. Un caso particolare è rappresentato dalla diocesi di Verona, la quale ha inserito nel proprio sinodo locale del 2002 un accenno ai “preti che hanno ottenuto la dispensa”. Tale accenno è stato la conseguenza di una “lettera aperta” scritta al vescovo da un gruppo di former priests della zona di Verona, con l’intento di far percepire alla gerarchia che il prete sposato non è un problema per la comunità cristiana, ma potrebbe essere una risorsa da sfruttare nelle varie attività parrocchiali e diocesane. In questa lettera vengono messi in evidenza gli aspetti che solitamente sono visti con maggior sospetto da parte dell’istituzione ecclesiastica, i quali possono costituire invece un arricchimento per un possibile servizio pastorale: secondo gli estensori della lettera l’essere preti sposati, in altri termini, non fa perdere le competenze e le conoscenze accumulate lungo gli anni di ministero, ma semmai arricchisce di una esperienza nuova che può risultare molto utile sia per reinterpretare le conoscenze teologiche del passato, sia per le varie attività pastorali.

ConclusioneL’esperienza dei former priests che abbiamo sondato attraverso le in-depth interviews ha aperto varie piste di ricerca che andrebbero ulteriormente approfondite. A noi è interessato, in questo studio, mettere in evidenza come tale situazione rappresenti una sfida per la comprensione del senso della propria vita, decifrato in termini di “vocazione”.Che cosa significa il concetto di “vocazione” per i preti cattolici che hanno lasciato il loro ministero all’interno della chiesa? Per loro è una parola che ha ancora un significato, o piuttosto si tratta di una dimensione da cancellare dalla loro vita, tanto è stata motivo di sofferenza e di discriminazione? Oppure rappresenta ancora una categoria significativa attraverso la quale interpretare il senso della propria vita? Quanto ci è stato raccontato dai former priests che abbiamo intervistato sembra dare indicazioni che, se non proprio delle riposte, possono fornire almeno delle linee di tendenza che dovranno essere in futuro maggiormente indagate.Prima di tutto il concetto di “vocazione” interpretato in termini di “volontà di Dio” rappresenta ancora una sorgente di significato per coloro che hanno lasciato il ministero. Se l’istituzione ecclesiastica afferma che la loro scelta è stata di “tradimento” della loro vocazione, la convinzione che essi condividono è di aver “approfondito” la chiamata da parte di Dio: non una scelta di tradimento, quindi, ma un’assunzione di responsabilità ancora più impegnativa, contro-corrente e anche rischiosa. Secondo il parere degli intervistati, il passaggio dall’essere preti al non esserlo più non costituisce una rottura, ma piuttosto una continuità con un cammino di ricerca che li porta a superare le ristrettezze delle regole istituzionali. In tale contesto assistiamo a una reinterpretazione del concetto di “vocazione”, secondo una dinamica che privilegia il senso che l’attore sociale fornisce alle proprie azioni piuttosto che alle regole fissate dalla prospettiva istituzionale. Nonostante per ottenere la “dispensa” diversi di loro abbiano dichiarato di “non avere la vocazione” (questo è quanto l’istituzione vuole sentirsi dire per concedere lo scioglimento degli obblighi legati

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alla consacrazione sacerdotale), tutti sono convinti che il cammino che li ha portati a essere stigmatizzati fuori e, più ancora, dentro la chiesa cattolica, rappresenta una “fedele sequela” del progetto di Dio sulla loro vita. Ma c’è un altro aspetto, che approfondisce il precedente: se si può parlare di “cambiamento di vocazione” ciò è possibile perché la nuova situazione di preti sposati è una “nuova vocazione” che consente di dare un senso alle sofferenze che si devono attraversare all’interno della chiesa cattolica per passare dalla condizione di prete celibe a quella di prete sposato. Tale “nuova vocazione” consentirebbe di comprendere meglio le persone escluse ed emarginate, in quanto si è sperimentato sulla propria pelle quanto caratterizza la loro condizione di vergogna e di nascondimento. Quanto afferma Matteo è illuminante: “Se la chiesa ritiene che per un prete sia un motivo di vergogna lasciare il ministero per sposarsi, per me invece si tratta di un motivo di vanto, perché tale scelta mi consente di capire meglio le persone che si trovano nelle varie situazioni di discriminazione… mi sembra quasi di seguire meglio Gesù, ultimo fra gli ultimi”. Da motivo di stigma a fonte di privilegio: la reinterpretazione creativa della propria vocazione è ciò che sembra caratterizzare quindi il rapporto tra i former priests, soprattutto più giovani, e la fedeltà alla propria vocazione.

References

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