“diritto dei migranti” - unical

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0 “Diritto dei migranti” (Prof.ssa Donatella Loprieno) Seconda dispensa A.A. 2011-2012 1. La condizione giuridica dello straniero nell’ordinamento italiano precostituzionale___________________________________1 2. La normativa italiana sugli stranieri prima del 1998_____________________________________________________4 2.a. La legge Martelli________________________________5 3. La legge Turco-Napolitano (l.n. 40/1998)__________________8 3.a. Il primo obiettivo _______________________________9 3.b. Il secondo obiettivo ____________________________13 3.c. Il terzo obiettivo _______________________________16 4. Dalla Legge Bossi-Fini del 2002 ai pacchetti sicurezza ______19 5. La stratificazione dei diritti degli stranieri ______________31

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“Diritto dei migranti” (Prof.ssa Donatella Loprieno)

Seconda dispensa A.A. 2011-2012

1. La condizione giuridica dello straniero nell’ordinamento italiano precostituzionale___________________________________1

2. La normativa italiana sugli stranieri prima del 1998_____________________________________________________4

2.a. La legge Martelli________________________________5 3. La legge Turco-Napolitano (l.n. 40/1998)__________________8 3.a. Il primo obiettivo _______________________________9 3.b. Il secondo obiettivo ____________________________13 3.c. Il terzo obiettivo _______________________________16

4. Dalla Legge Bossi-Fini del 2002 ai pacchetti sicurezza ______19 5. La stratificazione dei diritti degli stranieri ______________31

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1. La condizione giuridica dello straniero nell’ordinamento italiano preco-stituzionale

Preliminarmente all’analisi delle linee guida della riforma legislativa operata

nel 1998, occorre ricordare come prima della legge n. 943 del 1986, la materia dell’immigrazione era regolata dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica sicurezza (TULPS) del 1931 che, data l’ideologia prevalente dell’epoca della sua adozione, si occupava degli stranieri in maniera generica ed avendo come esclusiva finalità la tu-tela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale.

Va detto che l’atteggiamento manifestato da parte dello Stato italiano nei ri-guardi degli immigrati stranieri è stato molto discontinuo, risentendo dei diversi at-teggiamenti culturali dei rispettivi periodi storici, delle politiche estere e delle politi-che economiche interne.

Già prima dell’unificazione territoriale, legislativa ed amministrativa, gli Stati italiani preunitari contenevano ampi riferimenti alla condizione degli stranieri, in ra-gione dell’incidenza, rispettivamente, del codice francese e di quello austriaco, entra-ti in vigore in alcune province sin dal 1816. A fronte di un generalizzato riconosci-mento del principio di eguaglianza formale, le normative degli Stati preunitari subor-dinavano tale prerogativa alla verifica della condizione di reciprocità. Gli stranieri, in definitiva, nell’ipotesi di insussistenza di tale condizione erano sprovvisti della titola-rità di gran parte dei diritti civili.

Dopo l’unificazione, si registrarono una serie di miglioramenti soprattutto gra-zie all’emanazione del Codice civile del 1865 (c.d. Codice Pisanelli); l’art. 3 di tale normativa stabiliva, infatti, che lo straniero era ammesso “a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini”, senza tener conto quindi dell’esistenza delle medesime prero-gative a favore del cittadino nel paese di provenienza dello straniero stesso1. Attra-verso tale disposizione si intese respingere, dunque, il modello di riferimento di ma-trice napoleonica introducendo, come si disse allora, «un’ardita e stupenda novità», ossia «quanto di più largo e liberale la scienza ha concepito e si augurò la dottrina» (D’Orazio). Per la prima volta, infatti, lo straniero poté acquisire ed usufruire di tutti i mezzi offerti dalle leggi civili (contratti, acquisti immobiliari, esercizio di lavoro autonomo). Unica preclusione rimaneva quella relativa ai diritti politici, la cui titola-rità rimase ancorata al “diritto di incolato”, notoriamente riconosciuto al solo cittadi-no.

Certamente, però, la situazione era tutt’altro che uniforme dato che il trattamen-to riservato agli stranieri dipendeva dalla classe sociale di appartenenza piuttosto che dalla sola nazionalità. In tempi tranquilli, ovvero di pace e senza crisi internazionali,

1 Il principio di reciprocità nei rapporti fra gli Stati significa che agli stranieri è riservato un trattamen-to giuridico uguale a quello che i rispettivi Stati di appartenenza riservano ai cittadini dello Stato ospi-tante.

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lo Stato liberale italiano concentrava”sorveglianza e punizione” soprattutto sulle classi lavoratrici, sui sovversivi e sugli anarchici. Altra categoria oggetto di attenzio-ne e di speciale sorveglianza speciale dello Stato erano i nomadi.

Sul finire del sec. XIX, il r.d. 30 giugno 1889, n. 6144, inquadrò la normativa sugli stranieri nel titolo relativo alle “classi pericolose per la società”, disciplinando-ne i due aspetti, per così dire, patologici: l’espulsione ed il rimpatrio. Dunque, an-che gli stranieri, al pari dei mendicanti, degli ammoniti e delle persone scarcerate, erano considerati come una potenziale turbativa per l’ordine pubblico, specie se sprovvisti di mezzi di sussistenza e non in grado di fornire sufficienti ragguagli in ordine alla propria identità. Una delle maggiori novità introdotte dal r.d. del 1889 fu, senza dubbio, l’introduzione della dichiarazione di soggiorno che, poi, divenne uno dei capisaldi del TULPS del 1931. Quest’ultimo, in realtà, non prevedeva un vero e proprio permesso di soggiorno, ma piuttosto un obbligo per lo straniero di “dare con-tezza di sé” alla autorità di pubblica sicurezza entro tre giorni dall’arrivo in Italia. Quest’ultima normativa, al pari delle disposizioni preliminari al codice civile del 1942, fece segnare un sensibile passo indietro rispetto al passato, riportando l’ordinamento italiano, limitatamente al trattamento degli stranieri, allo stesso livello del previgente e restrittivo codice napoleonico.

È chiaro che le disposizioni fortemente limitative della libertà di circolazione e soggiorno previste dal TULPS, nonché la stessa reintroduzione della verifica della condizione di reciprocità relativamente al godimento dei diritti civili (art. 16 delle preleggi, Cod. Civ.), altro non riflettevano se non gli atteggiamenti delle dottrine na-zionalistiche e xenofobe dell’epoca fascista. Il periodo delle Grandi guerre e delle dittature (1914-45), infatti, comportò un forte rafforzamento delle norme di polizia, del controllo del territorio e della diffidenza nei confronti degli stranieri.

Ciò che desta stupore è che l’impostazione che relegava lo straniero tra i poten-ziali nemici dello Stato e, quindi, tra i pericoli per l’ordine pubblico e per la sicurezza nazionale, ha continuato a caratterizzare la disciplina della condizione dello straniero ben oltre l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Anzi, fino al 1986, gran parte delle normative applicabili allo straniero erano proprio quelle contenute nel TULPS. Quest’ultimo, nel quadro delle norme relative all’ordine ed alla sicurezza pubblica, dedicava agli stranieri un apposito titolo articolato in due diversi capi (art. 142-152): da una parte, le disposizioni relative al soggiorno e, dall’altra, quelle rela-tive all’espulsione, all’allontanamento e agli altri provvedimenti adottabili dalle auto-rità di pubblica sicurezza. Le norme relative al soggiorno erano assai rigorose e pre-vedevano un penetrante controllo di polizia. Oltre ad essere previste espulsioni di ca-rattere giurisdizionale, erano previste anche espulsioni come misura di polizia per chi, ad esempio, contravveniva alle regole del soggiorno oppure per motivi di ordine pubblico. Contro questo tipo di espulsioni, emesse dal Ministro o dal Prefetto, non si poteva esercitare il diritto di ricorso di fronte all’autorità giudiziaria. Si ricorreva

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ampiamente anche all’istituto del respingimento alla frontiera per tutti quegli stranie-ri che non riuscivano a dare contezza di sé, sprovvisti di mezzi ovvero esercitanti mestieri dissimulanti l’ozio, il vagabondaggio o la questua.

Chiaramente tale obsoleta normativa non era ‘in armonia’ con quanto previsto, a proposito della condizione giuridica degli stranieri, dall’art. 10, comma 2, della Cost. che mira a garantire lo straniero rispetto all’esercizio di poteri discrezionali del Governo, ad escludere la possibilità di interventi discriminatori di carattere polizie-sco rimessi al solo arbitrio del potere esecutivo. La previsione di una riserva di legge rinforzata (in quanto vincolata alla normativa internazionale in materia) fa sì che il diritto degli stranieri si configuri in maniera assai particolare. Da una parte, anche nel nostro ordinamento, il diritto degli stranieri è un diritto le cui norme si applicano sol-tanto a persone presenti nello Stato ma che ad esso non sono legate per il tramite del-la cittadinanza, e che non sono titolari di un diritto soggettivo perfetto all’ingresso, alla circolazione ed al soggiorno nel territorio italiano. Si tratta di un insieme norma-tivo che è coessenziale alla sovranità stessa dello Stato e che, però, è un diritto “de-rogatorio” rispetto alle comuni norme vigenti per i cittadini ed è spesso connotato da margini, più o meno ampi, di discrezionalità lasciata alle autorità amministrative pre-poste alle verifiche delle condizioni di ingresso, soggiorno ed allontanamento. Il di-ritto degli stranieri si configura, così, come un diritto che sottopone il non cittadino ad obblighi più numerosi, più stringenti e più specifici rispetto a quelli previsti per il cittadino e come un diritto maggiormente repressivo nei riguardi delle violazioni compiute dagli stranieri. Tuttavia, il diritto degli stranieri non può limitarsi ad essere un diritto speciale di tipo poliziesco, in quanto il legislatore è tenuto costituzional-mente, nel disciplinare la condizione giuridica dello straniero, al rispetto dei vincoli costituzionali, internazionali e comunitari. Perciò devono far parte del diritto degli stranieri, oltre alle norme strumentali alla preservazione della sovranità statale e che si sostanziano prevalentemente nelle variegate misure di controllo e poliziesche, an-che quelle norme ispirate alla riaffermazione dell’efficacia universale dei diritti fon-damentali della persona umana (stranieri regolari, irregolari o clandestini) e che pre-vedono diritti civili, sociali e forme di partecipazione politica degli stranieri regolar-mente soggiornanti. Una parte rilevante del diritto degli stranieri, dunque, deve esse-re preordinata a favorire percorsi di integrazione degli stranieri.

Da quanto detto emerge chiaramente come, nella disciplina giuridica dello stra-niero, debbano “convivere” due opposti sistemi di princìpi (o due anime): le preroga-tive della statualità/sovranità con il connesso problema del controllo del territorio e dell’ordine pubblico ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana. La prima esigenza non può prevalere completamente sull’altra, svuotandola di senso e di contenuto. Nella maggioranza dei casi, però, i due opposti princìpi finiscono per en-trare in conflitto. Il legislatore italiano, come vedremo, sempre più tende a far preva-lere le norme di natura derogatoria e repressiva, riducendo al “minimo” le norme sul

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trattamento dello straniero finalizzate alla tutela dei diritti fondamentali della persona umana.

2. La normativa italiana sugli stranieri prima del 1998 La normativa del TU, arricchita da una copiosa mole di circolari che rifletteva-

no le tendenze politiche del momento, ha “resistito” fino alla metà degli anni ’80, epoca in cui il fenomeno migratorio ormai aveva assunto dimensioni tali da richiede-re ben altri interventi2.

Nel 1981, con la l. n. 158/1981, si ratificava la Convenzione n. 143/1975 dell’OIL per sopprimere le immigrazioni clandestine e l’occupazione illegale di lavo-ratori migranti e per promuovere l’uguaglianza di opportunità e di trattamento in ma-teria di occupazione e di qualifiche. Tuttavia, occorre aspettare il 1986 per ritrovare un intervento normativo degno di rilievo ossia la legge 30 dicembre 1986, n. 943, (c.d. Legge Foschi) emanata a disciplina del trattamento e collocamento dei lavora-tori extracomunitari e per attuare la Convenzione Oil 143/1975 (espressamente ri-chiamata dall’art. 1 della legge in esame). Pur riconoscendo alcuni importanti diritti (ricongiungimento familiare, uso dei servizi sociali e sanitari, mantenimento dell’identità culturale, accesso all’istruzione ed alla abitazione), la legge Foschi non prevedeva nessun elemento di programmazione, ma soprattutto era basata su una vi-sione semplicistica del mercato del lavoro degli immigrati e su una serie di meccani-smi complessi e farraginosi. La parte più importante della legge fu la sanatoria delle posizioni degli stranieri già presenti in Italia illegalmente o irregolarmente che, evi-dentemente, mirava a dare una prima risposta al problema del lavoro sommerso. Im-migrati (occupati e disoccupati) e datori di lavoro dovevano dichiarare entro tre mesi presenza ed attività per poter essere regolarizzati ed evitare l’espulsione (per gli stra-nieri) e le nuove sanzioni penali (per il datore di lavoro che sarebbe stato punito, nel futuro, con la reclusione da tre mesi ad un anno, o da uno a cinque anni in caso di sfruttamento).

Nel periodo 1986-1990, la crescita media del Pil al 3% creò molte più opportu-nità di occupazione anche per gli stranieri. La nuova legge e la sanatoria, inoltre, avevano cominciato a collocare l’Italia nella mappa delle destinazioni migratorie da parte dei migranti dei paesi in via di sviluppo. Però, aumentavano anche il lavoro ne-ro e l’irregolarità della presenza straniera a testimonianza di un cattivo funzionamen-

2 In questo lungo arco di tempo, un ruolo quasi di supplenza è stato svolto soprattutto dai sindacati e dall’associazionismo cattolico (in primis, dalla Fondazione Migrantes e dalla Caritas).

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to della legge. L’immigrazione diveniva più visibile provocando episodi xenofobi talvolta anche molto violenti3.

Non bisogna dimenticare che il 1989 fu un anno di profondissimi cambiamenti sia nella scena politica internazionale che in quelle interna. La caduta del regime so-vietico, infatti, rimosse il principale ostacolo all’emigrazione di cittadini dell’Europa centrale ed orientale, cambiando progressivamente la composizione della popolazio-ne immigrata in Italia. Si innescò un processo di riduzione del peso relativo dei paesi africani a vantaggio di Albania, Romania, Ucraina, Polonia e dei paesi della ex Jugo-slavia. Sulla scena politico-partitica nazionale, invece, fecero il loro ingresso gli “imprenditori populisti della xenofobia”, ossia le leghe ostili sia all’immigrazione in-terna proveniente dal mezzogiorno che all’immigrazione straniera.

In sintesi, può dunque dirsi che in questi anni (ed in quelli a seguire) il principa-le terreno di discussione per le autorità pubbliche furono il controllo della presenza degli immigrati e le questioni legate alla sicurezza piuttosto che le tematiche inerenti le condizioni lavorative degli immigrati e più in generale lo status dei diritti e dei do-veri degli stranieri.

2.a. La legge Martelli La legge n. 39/1990 (c.d. Legge Martelli) fu il risultato di una lunga gestazione

e di lunghe dispute all’interno delle aule parlamentari. Tale normativa, pur se disor-ganicamente, rivisitava tutta la disciplina in materia di asilo politico, ingresso, sog-giorno, respingimento ed espulsione del cittadino extracomunitario, secondo un’ottica di rigoroso controllo dell’immigrazione.

La prima figura chiamata in causa dalla suddetta legge è quella del rifugiato po-litico. L’art. 1, infatti, richiamando la Convenzione di Ginevra del 1951, aboliva, an-zitutto, la riserva geografica per i richiedenti asilo non europei4, stabilendo anche la disciplina del riconoscimento dello status di rifugiato.

Dal punto di vista delle politiche migratorie, la legge 39/90 inaugurava (senza molto successo) la politica della programmazione dei flussi migratori, strumento at-traverso cui realizzare, almeno in teoria, un controllo preventivo capace di garantire un assorbimento graduale degli stranieri, funzionale alla loro possibilità di integra-zione sociale e lavorativa.

Tra i principali aspetti della normativa in esame possiamo ricordare i seguenti: a) introduzione di alcuni nuovi tipi di permesso di soggiorno (per lavoro auto-

nomo, per commercianti ambulanti stranieri, per turismo e per motivi di culto); 3 Tra tutti ricordiamo l’omicidio Masso, nel 1989 a Villa Literno. Jerry Masslo era un rifugiato suda-fricano ed era una figura molto nota nel mondo dell’associazionismo e dei sindacati. 4 Tale riserva geografica prevedeva, per l’Italia, la possibilità di concedere lo status di rifugiato esclu-sivamente ai cittadini di paesi europei e per eventi precedenti alla data del primo gennaio 1951.

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b) assegnazione al giudice amministrativo della competenza per tutti i ricorsi at-tinenti i diritti degli immigrati;

c) costituzione dei centri di prima accoglienza; d) riconoscimento delle associazioni degli immigrati e delle associazioni ope-

ranti sul versante dell’immigrazione; e) introduzione dell’istituto dell’espulsione del cittadino extracomunitario. In realtà, gli istituti più dibattuti (e criticati) negli anni immediatamente succes-

sivi all’emanazione della Legge Martelli sono stati l’espulsione, il riaccompagna-mento alla frontiera, i limiti al diritto di difesa e di ricorso giurisdizionale contro questi provvedimenti. In linea generale, si prevedeva la notifica in una lingua com-prensibile allo straniero di tutti gli atti di diniego dello status di rifugiato, di espulsio-ne o di ritiro del permesso di soggiorno, insieme alle informazioni su come poter ri-correre al Tar (ricorso che come effetto aveva la sospensione dell’espulsione). L’espulsione era prevista per coloro che erano condannati per reati gravi o per viola-zione delle disposizioni in materia di ingresso e di soggiorno. Come regola generale, però, l’espulsione avveniva solo per intimazione ossia con la notifica (per iscritto) alla straniero di lasciare il paese di propria iniziativa entro 15 giorni. Cosa che nella maggior parte dei casi non avveniva. L’espulsione con accompagnamento alle fron-tiere tramite la forza pubblica era l’eccezione in quanto riservata alle decisioni straordinarie del Ministro degli Interni per motivi di ordini pubblico o di sicurezza dello Stato oppure agli espulsi che non avevano ottemperato all’intimazione di ab-bandonare l’Italia ed erano stati nuovamente fermati dalla polizia (recidiva). La de-bolezza di tale procedura di espulsione dipendeva sostanzialmente da due fattori: da una parte, la scarsità delle risorse e, dall’altra, dall’opposizione di molte forze politi-che e sociali alle espulsioni forzate, considerate lesive della libertà individuale e della tradizione giuridica italiana.

Nella legge Martelli mancavano quasi completamente le misure per l’effettiva integrazione sociale degli immigrati che si prevedeva di introdurre con altri provve-dimenti che, però, non conclusero il proprio iter a causa del cambiamento del conte-sto politico/partitico.

In sintesi, la legge Martelli ha sicuramente rappresentato un miglioramento del-la situazione normativa dei lavoratori stranieri, dei loro familiari e dei richiedenti asi-li, abrogando molte delle misure del TULPS del 1931 e creando utili strumenti di ge-stione (visti, permessi, programmazione dei flussi). La regolarizzazione in essa pre-vista funzionava, però, anche da richiamo per chi era all’estero e vi intravedeva una opportunità di regolarizzazione. Inoltre, la debolezza delle procedure di espulsione e le scarsissime sanzioni nei riguardi dei datori di lavoro irregolari hanno comportato un ulteriore flusso di immigrazione illegale di manodopera attratta, soprattutto, dalla possibilità pratica di trovare lavoro anche se in condizioni illegali. È importante ri-cordare, infatti, che l’immigrazione irregolare sarebbe molto limitata se i migranti

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non avessero possibilità alcuna (o anche solo bassissima) di trovare una qualche for-ma di occupazione e se accanto alla disponibilità a migrare non vi fosse anche una domanda di lavoratori immigrati illegalmente nei paesi di destinazione. La clandesti-

nizzazione contribuisce a inserire i migranti nel mercato del lavoro come soggetti

più vulnerabili di altri. Fino al 1998, i pubblici poteri non sono stati in grado di predisporre seri stru-

menti di gestione dei flussi migratori: non un effettivo e controllato aumento delle possibilità legali di ingresso di stranieri per lavoro (scelta impopolare in periodi di disoccupazione5), né un aumento del contrasto del lavoro nero (su cui si basavano molti settori produttivi italiani) e della lotta alla criminalità internazionale che gestiva (con profitti molto alti) i traffici dei clandestini.

La disciplina legislativa sull’immigrazione e gli interventi dei pubblici poteri in merito sono stati, dunque, dal 1990 al 1998, disorganici, incompleti e frammentari in quanto (spesso) ‘ispirati’ dalla esigenza di risolvere i problemi posti dall’immigrazione illegale e/o per “tamponare” emergenze e/o crisi internazionali6.

Nel 1995, ad esempio, veniva emanato il decreto legge 489 reiterato per ben cinque volte senza essere, tuttavia, convertito in legge ordinaria. Tale decreto tentava di portare a termine una limitata revisione della Legge Martelli regolamentando di-versamente la disciplina delle espulsioni e dei reati collegabili alla presenza di stra-nieri irregolari; prevedendo norme sulla programmazione dei flussi e sul lavoro sta-gionale, sulla previdenza e sull’assistenza e sui ricongiungimenti familiari; introdu-cendo diverse ipotesi di espulsione di competenza del giudice penale (espulsione giudiziaria); facendo diventare reato la mancata esibizione del documento (o la sua distruzione), imponendo agli espulsi il divieto di poter legalmente fare rientro in Ita-lia per sette anni e facendo divenire reato il reingresso illegale.

Tuttavia, la parte più conosciuta (anche perché l’unica ad essere effettivamente applicata) della normativa appena ricordata è stata quella relativa alla (quinta) regola-

5 Dopo l’introduzione dei visti nel 1990, si sono parallelamente anche sviluppate una serie di tecniche di contrabbando di esseri umani, la produzione di documenti amministrativi falsi per permettere il passaggio alla frontiera o anche la simulazione di situazioni oggettive false (ad esempio: i matrimoni di comodo per acquisire permessi e cittadina italiana). Un effetto secondario dell’inasprimento delle misure di controllo è, infatti, proprio la nascita di una forte industria del crimine organizzato altamente specializzato. 6 A tal proposito, ricordiamo gli esiti della crisi albanese del 1991 ed i relativi sbarchi di massa sulle coste italiane. Le reazioni allo sbarco dell’agosto 1991 furono molto diverse rispetto a quelle del mar-zo dello stesso anno. Il 9 agosto 1991, infatti, a Bari, attraccò il mercantile Vlora, carico di 10.000-12.000 persone, stipate fino all’inverosimile. Il governo dell’epoca, cavalcando la paura di massa di essere invasi dagli albanesi, decise di non accogliere i nuovi immigrati che furono ricevuti come clan-destini, dissetati con getti di acqua, poi trasferiti nello stadio Della Vittoria dove il cibo veniva distri-buito con gli elicotteri. Vennero poi quasi tutti rimpatriati, dal 17 agosto in poi, con i traghetti. Invero, tra gli effetti di quell’operazione (da cui l’Italia non usciva molto bene) vi fu anche l’avvio di una po-litica di contenimento dei flussi irregolari nel paese di origine tramite una Intesa con Tirana finalizzata alla lotta contro il traffico di droga, la criminalità, il contrabbando e l’immigrazione clandestina.

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rizzazione degli stranieri irregolari. Pur essendo ispirate a ragioni latamente umanita-rie, le sanatorie succedutesi negli anni 1987-1997 sono state determinate tanto dall’incapacità del legislatore ad emanare una riforma della materia quanto dall’impossibilità pratica di allontanare decine di migliaia di stranieri in posizione ir-regolare nel nostro Paese, salvo procedere ad espulsioni di massa (vietate dal diritto internazionale).

Il recepimento delle convenzioni internazionali (prime fra tutte la convenzione OIL n. 143), una serie di sentenze della Corte costituzionale (sul diritto al ricongiun-gimento ed all’unità familiare e sulla parità di trattamento tra lavoratori italiani e la-voratori stranieri), la progressiva assunzione a livello comunitario di competenze in materia di visto, asilo ed immigrazione hanno contribuito a rendere massimamente urgente una riforma organica della legislazione sulla condizione giuridica dello stra-niero in linea con quanto previsto dall’art. 10 della Costituzione.

3. La legge Turco-Napolitano (l.n. 40/1998) Il Governo Prodi (vincente alle elezioni dell’aprile 1996) si era impegnato ad

elaborare una nuova normativa sull’immigrazione che trattasse finalmente i temi di ingresso, lavoro, integrazione, controllo del territorio, espulsioni e cooperazione in-ternazionale (attesi, soprattutto, i vincoli rappresentati dalla politica comunitaria in materia). La nuova normativa, approvata nel 1998 e nota come Legge Turco-Napolitano (l. n. 40/1998) è stata poi tradotta in un Testo Unico, il d. lgs. del 25 lu-glio 1988, n. 286 (d’ora in avanti TUI) e completata da un regolamento di attuazione (D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394). Si trattava di una normativa estremamente comples-sa che prevedeva, per la sua entrata a regime, oltre 60 adempimenti fra regolamenti, decreti ministeriali, interministeriali, costituzioni di comitati e di commissioni, spes-so tra loro concatenati in un insieme definito (più o meno compiutamente) solo dopo più di due anni dall’approvazione della legge.

Il legislatore del 1998 muoveva dalla constatazione che l’immigrazione stranie-ra costituiva ormai un fenomeno ordinario in Italia (ed in Europa) da disciplinare in maniera organica e coerente in tutti i suoi molteplici aspetti. In altre parole, si perce-piva, finalmente, che l’immigrazione era un fenomeno ordinario, complesso e globa-le da governare mediante strumenti ordinari e di lungo periodo e non semplicemente ignorato o meramente represso. Si avvertiva, dunque, come non più prorogabile una normativa organica in grado di contemperare la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica con il bisogno insoddisfatto di alcuni tipi di manodopera, con il forte calo demografico italiano e con l’aumento delle spinte migratorie da molti paesi. Il tutto senza perdere di vista il corpus di diritti da riconoscere al migrante.

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La normativa si articolava (e si articola nonostante le numerosissime modifiche a cui è andata incontro7) intorno ai seguenti temi:

- le modalità di ingresso e dei controlli alle frontiere; - la disciplina dell’accesso al lavoro; - la regolamentazione del lavoro autonomo e di quello stagiona-

le; - le norme penali e processuali finalizzate al contrasto delle or-

ganizzazioni criminali che gestiscono l’immigrazione clandestina; - le garanzie, in termini di diritti civili, sociali e latamente politi-

ci, per l’immigrato regolarmente soggiornante. La legge Napolitano-Turco appariva ispirata sostanzialmente ad una logica “bi-

naria”: tenere distinte l’immigrazione regolare per motivi di lavoro (da favorire col-legandola anche alla progressiva integrazione sociale dei lavoratori) dall’immigrazione clandestina (da limitare, prevenire e reprimere).

Gli obiettivi perseguiti possono essere così sintetizzati: � Realizzare una politica di ingressi legali, limitati, programmati e regolati at-

traverso una più efficace programmazione dei flussi di ingresso per lavoro; � Contrastare l’immigrazione clandestina e lo sfruttamento criminale dei flussi

migratori attraverso misure di prevenzione e repressione; � Avviare realistici, ma effettivi, percorsi di integrazione per i nuovi immigrati

e per gli stranieri già regolarmente soggiornanti in Italia attraverso, soprattutto, il ri-conoscimento e la piena fruibilità di un insieme compiuto di diritti.

Questi tre obiettivi che costituivano, potrebbe dirsi, l’architrave della legisla-zione del 1998 erano così strettamente interconnessi da dover essere necessariamente realizzati insieme: sarebbe stato sufficiente la mancata o parziale realizzazione di an-che uno solo di essi, per inficiare la possibilità di realizzare anche gli altri.

3.a. Il primo obiettivo La legge 40/98 adottava, in materia di lavoro degli stranieri, un approccio inno-

vativo sia rispetto agli orientamenti seguiti negli altri paesi europei, sia rispetto alla precedente normativa italiana. Si abbandonava, infatti, il criterio in base al quale, dal 1974 (e, di nuovo, a partire dal 2002), in Italia si era tentato di “governare” il feno-meno della immigrazione extracomunitaria: limitare i nuovi ingressi di lavoro ai soli casi in cui vi fosse una richiesta nominativa di lavoro e per il quale non vi erano altri disoccupati (italiani o stranieri) iscritti nelle liste di collocamento. 7 Il TUI si compone, in particolare, da 49 articoli suddivisi in 6 Titoli: Principi generali; Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stati; Disciplina del lavoro; Diritto all’unità familiare e tutela dei minori; Disposizioni in materia sanitaria, nonché di istruzione, alloggio, partecipazione alla vita pubblica e integrazione sociale; Norme finali.

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La legislazione in vigore dal 1998 al 2002 prevedeva che, nell’ambito delle quote di ingresso di stranieri individuate ogni anno, potessero essere rilasciati diver-si tipi di ingresso. Così, nell’ambito delle quote per lavoro subordinato si prevedeva la chiamata nominativa da parte del datore di lavoro italiano ma con la soppressione della verifica caso per caso dell’indisponibilità di altri lavoratori italiani o stranieri già residenti. Si introduceva una disciplina speciale degli ingressi per lavoro stagio-nale, con la previsione dell’obbligo di rientro in patria allo scadere del permesso di soggiorno. Spiccava, poi, l’ingresso per inserimento nel mercato del lavoro, mediante l’autorizzazione all’ingresso rilasciata in Italia, previa verifica della garanzia a favore dello straniero; si trattava del c.d. meccanismo dello sponsor che riconosceva allo straniero, dietro prestazione di garanzia da parte di privati o di associazioni (relati-vamente all’alloggio, al sostentamento ed all’assistenza sanitaria), la possibilità di entrare e soggiornare in Italia, per un anno, alla ricerca di lavoro. Dunque, si abban-donava il principio che subordinava l’ammissione in Italia di nuovi lavoratori alla preventiva verifica, caso per caso, dell’indisponibilità di altri lavoratori italiani o stranieri già iscritti nelle liste di collocamento (meccanismo il cui funzionamento era reso difficilissimo dalla vischiosità del mercato del lavoro e dalla inefficienza del si-stema del collocamento pubblico).

Ma cosa si intende per sistema delle quote?

La formula originaria dell’art. 3, co. 4, TUI, prevedeva che ogni anno il Presi-dente del Consiglio dei Ministri, sulla base dei princìpi e dei criteri generali formulati nel Documento programmatico e previo parere delle Commissioni parlamentari, del-la Conferenza Stato-Regioni e Stato-Città, determinasse con uno o più decreti la pro-grammazione delle quote di ingresso per lavoro subordinato, stagionale e lavoro au-tonomo nell’ambito dei quali venivano rilasciati i relativi visti di ingresso e permessi di soggiorno. Onde evitare eventuali ritardi si prevedeva che, in caso di mancata emanazione del decreto annuale, le quote si intendessero determinate secondo le me-desime disposizioni del decreto emanato l’anno precedente. Non si prevedeva un termine dell’anno entro il quale il Governo doveva provvedere all’emanazione del decreto. Il testo dell’art. 3, comma 4 TUI, attualmente in vigore e riscritto dalla suc-cessiva legge 189/2002, prevede che con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti il Comitato per il coordinamento e monitoraggio delle disposizioni del TUI, la Conferenza Stato-Città e autonomie locali e le competenti commissioni parlamentari, vengono annualmente definite, entro il termine del 30 novembre dell’anno precedente a quello di riferimento del decreto e sulla base dei criteri gene-rali del Documento programmatico, le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato, per lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagio-nale, e per lavoro autonomo, tenuto conto dei ricongiungimenti familiari e delle mi-sure di protezione temporanea eventualmente disposte ai sensi dell’art. 20 TUI. Non

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è obbligatorio per legge definire annualmente le quote; in caso di mancata pubblica-zione del decreto di programmazione annuale, il Presidente del Consiglio dei ministri può provvedere in via transitoria, con proprio decreto (e, quindi, senza sentire nessu-na delle commissioni prima citate) ma nel limite delle quote stabilite per l’anno pre-cedente. Ove se ne ravvisi l’opportunità ulteriori decreti possono essere emanati du-rante l’anno. I visti di ingresso ed i permessi di soggiorno per lavoro subordinato, an-che per esigenze di carattere stagionale, e per lavoro autonomo, sono rilasciati entro il limite di tali quote.

Sulla base di quali parametri si stabiliscono le quote di stranieri da ammettere

sul territorio?

Innanzitutto, i criteri generali per la definizione dei flussi di ingresso devono essere individuati dal Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato8. L’art. 21, comma 1, TUI (come modificato dalla legge 189/2002) prevede poi misure di sfavore e misure di favore. Le misure di sfavore consistono nella previsione secondo cui, nello stabili-re le quote, i decreti prevedono restrizioni numeriche all’ingresso di lavoratori di Sta-ti che non collaborano adeguatamente nel contrasto all’immigrazione clandestina o nella riammissione di propri cittadini destinatari di provvedimenti di rimpatrio. Le misure di favore consistono nella previsione che, tra le quote preferenziali di ingresso per lavoro, si devono espressamente indicare le quote riservate ai «lavoratori di ori-gine italiana per parte di almeno uno dei genitori fino al terzo grado in linea retta di ascendenza, residenti in Paesi non comunitari, che chiedano di essere inseriti in un apposito elenco, costituito presso le rappresentanze diplomatico e consolari, conte-nente le qualifiche professionali dei lavoratori stessi». Quote preferenziali possono essere previste anche nei confronti di quegli Stati (non appartenenti all’Unione euro-pea) con i quali il Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro dell’interno e il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, abbia concluso accordi finalizzati alla regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione». Nell’ambito di tali intese, possono essere definiti appositi accordi in materia di flussi per lavoro stagionale con le corrispondenti autorità nazionali responsabili delle poli-tiche del mercato del lavoro dei paesi di provenienza.

I decreti annuali, secondo quanto recita l’art. 21, comma 4, TUI «devono tener conto delle indicazioni fornite, in modo articolato per qualifiche o mansioni, dal Mi-nistero del Lavoro e delle politiche sociali sull’andamento dell’occupazione e dei tas-

8 Il Documento de qua è predisposto, a norma dell’art. 3, comma 1, TUI, dal Presidente del Consiglio dei Ministri (sentiti i ministri interessati, il CNEL, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Sta-to, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, la Conferenza Stato–città ed autonomie lo-cali, gli enti e le associazioni nazionali maggiormente attivi nell’assistenza e nell’integrazione degli immigrati e le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative sul piano nazionale) ogni tre anni, salva la necessità di un termine più breve.

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si di disoccupazione a livello nazionale e regionale, nonché sul numero dei cittadini stranieri non appartenenti all’Unione europea iscritti nelle liste di collocamento». Il decreto annuale (e, se del caso, quelli infra annuali) devono essere predisposti in base ai dati sulla effettiva richiesta di lavoro, suddivisi per regioni e per bacini provinciali di utenza ed elaborati dall’anagrafe informatizzata del Ministero del Lavoro. In mate-ria, le regioni potranno trasmettere alla Presidenza del Consiglio, entro il 30 novem-bre di ogni anno, un rapporto sulla presenza e sulla condizione degli immigrati non comunitari nel territorio regionale, contenente anche le indicazioni previsionali rela-tive ai flussi sostenibili nel triennio successivo in rapporto alla capacità di assorbi-mento del tessuto sociale e produttivo. Le quote vengono suddivise tra le varie regio-ni e, all’interno delle regioni, tra le varie province.

Alcune circostanze testimoniano, però, che la realizzazione dell’obiettivo di una puntuale e realistica politica di regolazione dei nuovi flussi migratori (aumentando le possibilità di ingresso legale per lavoro e contrastando l’ingresso e la permanenza il-legale degli stranieri) non è stata perseguita, già dal legislatore del 1998, in maniera sufficientemente chiara e precisa (e ciò è anche all’origine delle modifiche che di lì a poco sarebbero state introdotte dalla legge Bossi-Fini). Innanzitutto, le disposizioni adottate nel 1998 lasciavano al Governo una quasi assoluta discrezionalità nell’individuazione di tempi, modalità e criteri attraverso i quali giungere alla deter-minazione delle quote. Le scelte eccessivamente prudenti (quote troppo esigue rispet-to al fabbisogno di manodopera) e adottate con ritardo, non hanno scoraggiato nel primo triennio l’immigrazione clandestina costantemente attratta dal fabbisogno di manodopera (evidentemente insoddisfatto). In secondo luogo, le norme adottate nel 1998 ed aventi come fine quello di prevenire e reprimere il lavoro irregolare degli stranieri regolarmente soggiornanti, si sono rivelate inadeguate a scoraggiare questo fenomeno e, spesso, sono rimaste inapplicate a causa dello scarso numero di verifi-che da parte dei competenti organi.

L’eccessiva restrizione degli ingressi regolari (anche a fronte di un fabbisogno reale di lavoratori stranieri) ha incentivato l’ingresso irregolare di stranieri e d’altra parte è bene ricordare quanto segue. In teoria, il decreto flussi dovrebbe essere riser-vato agli stranieri che si trovano ancora nel loro paese di origine. In pratica, invece, la maggioranza dei beneficiari è costituita da migranti irregolarmente presenti in Ita-lia che non avendo altro modo per regolarizzare la loro presenza, utilizzano l’escamotage dei flussi. Gli stranieri ‘irregolari’ fingono di essere ancora nei rispetti-vi paesi di origine, inoltrano la domanda (o meglio la fanno inoltrare dai loro datori di lavoro), ottengono l’autorizzazione a entrare in Italia e tornano nel loro paese di origine per chiedere il visto di ingresso all’ambasciata italiana. Nella sede dell’ambasciata fingono di essere rimasti nel loro paese esibendo l’invito del datore di lavoro italiano assieme all’autorizzazione della Prefettura. Ciò consente loro di ot-

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tenere il visto di ingresso, istituto grazie al quale possono rientrare in Italia da “rego-lari”.

L’attuale disciplina della programmazione dei flussi ha suscitato una serie di ri-serve per l’ampia discrezionalità riconosciuta al Governo, in contrasto sia con la ri-serva di legge rinforzata dell’art. 10, comma 2, Cost. sia con i principi di buon anda-mento ed imparzialità dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost. D’altra parte, i flussi tentano di governare la domanda ma non l’offerta di lavoro che continua ad alimentare un mercato del lavoro irregolare e sommerso. O meglio, il sistema dei flussi potrebbe anche governare l’offerta di lavoro ma alla sola condizione di un mercato del lavoro strutturato con un realistico ed effettivo intervento di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro9 (Pezzini).

3.b. Il secondo obiettivo Per perseguire una più efficace prevenzione e repressione dell’immigrazione il-

legale, la legislazione del 1998 ha riformato completamente gli strumenti di polizia degli stranieri operando delle scelte chiaramente volte a rendere più restrittiva la di-sciplina dettata precedentemente dalla Legge Martelli, ritenuta troppo favorevole e troppo permissiva.

Per prevenire e contrastare efficacemente gli ingressi ed i soggiorni clandestini, il legislatore del 1998 si soffermava sulle misure contro le organizzazioni criminali e contro i datori di lavoro “nero” prevedendo, ad esempio, i reati di favoreggiamento e di sfruttamento dell’immigrazione clandestina10. Ma norme repressive erano previste anche nei riguardi dell’immigrato irregolarmente soggiornante prevedendosi per es-so, nella gran parte dei casi, l’effettivo e celere allontanamento dal territorio dello Stato. Il problema dell’espulsione si intersecava inevitabilmente con quello della identificazione degli stranieri: per poter espellere un cittadino straniero ed accompa-gnarlo alla frontiera occorre prima identificarla ed appurare la sua cittadinanza. La pratica dei paesi di origine di riammettere i propri connazionali espulsi muniti di do-

9 Il VI Rapporto CNEL sull’integrazione ha confermato che la questione che, a monte, condiziona ne-gativamente la regolarità e la qualità dell’inserimento lavorativo consiste nelle carenze dei Servizi per l’impiego pubblici e delle politiche di formazione professionale. La nettissima prevalenza (poco più del 90%) dei percorsi informali (catene migratorie soprattutto) per far incontrare domanda ed offerta di lavoro, determina condizioni favorevoli a rapporti di lavoro irregolari ed in nero (soprattutto ove combinata con la rigidità dei titoli di soggiorno per lavoro, la c.d. non convertibilità). 10 Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è realizzato da chiunque promuove, diri-ge, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadino o non ha titolo di residenza permanente. Oggi tale reato è punito con la re-clusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona (sono anche previste del-le aggravanti). Più grave del reato di favoreggiamento è quello dello sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Nello sfruttamento il fine dell’azione, infatti, è sempre quello di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero.

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cumenti (o anche solo identificati) aveva consolidato tra i clandestini la pratica di di-struggere o occultare i documenti e l’uso delle identità multiple fittizie. Il mancato accertamento della vera identità, inoltre, consentiva allo straniero di eludere le con-seguenze della recidiva. Chi veniva colto in posizione irregolare riceveva l’intimazione a lasciare l’Italia; ove rintracciato nuovamente, nella stessa condizione, doveva essere allontanato dalle forze dell’ordine e per ulteriori rientri si poteva esse-re puniti fino a sei mesi di carcere.

Allo scopo di impedire la fuga durante le operazioni di identificazione e di rim-patrio forzato, la legge Napolitano-Turco ha previsto l’istituto della c.d. detenzione amministrativa in appositi luoghi denominati Centri di Permanenza e di Assisten-za temporanei (CPTA) poi ridenominati Centri di identificazione e di espulsione (CIE) nel 2008. Con tutta evidenza, si tratta di un diritto speciale che sanziona gli immigrati irregolari con una forma di detenzione caratterizzata dalla discrezionalità dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali ed urgenti in cui questo è consenti-to in base all’art. 13 della Costituzione, che stabilisce limiti precisi per la detenzione amministrativa, precisando che, in mancanza di un atto dell’autorità giudiziaria nei soli casi previsti dalla legge, può essere adottata “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge” con provvedimenti che devono essere comunicati al giudice entro 48 ore e convalidati entro 96 ore “dall’autorità giudizia-ria”.

In linea generale, le misure in materia di prevenzione e repressione originaria-mente previste dalla Napolitano-Turco così possono essere sintetizzate:

� aumento della tipologia e dell’effettività dei provvedimenti di respingimento e di espulsione degli stranieri irregolarmente presenti;

� potenziamento delle misure di controllo e dei collegamenti telematici tra le pubbliche amministrazioni e tra le diverse forze di polizia;

� stipula di accordi bilaterali di riammissione con i Paesi di provenienza degli stranieri per rendere più celeri le procedure di identificazione ed il rimpatrio degli stranieri da espellere o da respingere e per coinvolgere i Governi dei paesi di prove-nienza nella regolazione dei flussi e nel contrasto dell’immigrazione illegale;

� istituzione di un provvedimento di trattenimento fino a 30 giorni in uno spe-ciale Centro di permanenza temporaneo e assistenza sotto il controllo delle forze di polizia (provvedimento da adottarsi nei confronti dello straniero per il quale vi siano ostacoli nell’esecuzione immediata del respingimento o dell’espulsione);

� attenuazione delle garanzie di difesa contro i provvedimenti di respingimen-to o di espulsione e drastico sveltimento dei procedimenti giudiziari relativi ai ricorsi contro i provvedimenti amministrativi di espulsione.

Molti degli aspetti qualificanti della disciplina legislativa del 1998 in materia di

ingresso, soggiorno, espulsione e respingimento presentavano elementi di dubbia le-

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gittimità costituzionale, specie se letti alla luce della proclamata parità di cittadini e stranieri (comunque presenti sul territorio) in ordine alla tutela giurisdizionale dei di-ritti soggettivi e degli interessi legittimi. L’art. 2 del TUI, dopo aver previsto al primo comma che allo straniero «comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Sta-to» sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana (previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti), aggiunge (al quinto comma) che allo stra-niero è riconosciuta altresì la «parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi». Il diritto alla difesa e la garanzia della riserva di giurisdizione, come più in generale la tutela giurisdizionale, dunque, rientrano sicuramente nel novero delle garanzie costituzionali di cui lo stra-niero, a prescindere dalla legalità o meno del suo soggiorno, è titolare.

Quanto alla tutela giurisdizionale, già in questa prima normativa del 1998, non esisteva tanto un problema di titolarità formale in capo allo straniero quanto piuttosto di effettivo godimento. La distinzione tra l’astratta titolarità e l’effettivo godimento della tutela giurisdizionale finiva per differenziare profondamente la condizione dello straniero rispetto al cittadino. Una tale discriminazione non trovava giustificazione né nella Costituzione né nella normativa internazionale richiamata ma esclusivamen-te sul piano della politica del diritto dell’immigrazione. Come è stato notato, “la complessa stratificazione normativa che caratterizza l’ordinamento di polizia degli immigrati, infatti, risponde ad un fine che tutto concepisce ed ha una fine che tutto ricomprende: assicurare l’allontanamento dello straniero (irregolare o clandestino) dal territorio statale, il prima possibile e preferibilmente in forma coattiva” (Pugiot-to).

Uno degli argomenti più al centro della contesa politica, negli anni immediata-mente successivi all’approvazione della legge Napoletano-Turco, è stato proprio quello inerente la presenza e la gestione sul territorio degli stranieri irregolarmente presenti. Il governo del tempo aveva inaugurato una politica fortemente innovativa (ma non per questo meno criticabile) stringendo una serie di accordi con i paesi di provenienza dei migranti per contrastare le organizzazioni criminali dedite al traffico ed al contrabbando delle persone e per facilitare (con appositi accordi di riammissio-ne) il rimpatrio dei clandestini nei paesi di origine o di transito11. Si trattava di una sorta di politica di esternalizzazione dei controlli migratori coinvolgente attori non istituzionali o Stati esteri dalla dubbia qualificazione democratica. Molto spesso gli accordi bilaterali comportavano, sul versante italiano, un insieme di contropartite non sempre formalizzate (o formalizzabili) e sempre diverso a seconda del paese in que-stione e che poteva includere la concessione di quote privilegiate, assistenza tecnica e 11 Già nell’estate del 1998, Italia e Tunisia firmarono un accordo bilaterale con cui l’Italia forniva as-sistenza tecnica e materiale alla Tunisia, alcune motovedette per il pattugliamento delle coste e quote privilegiate di immigrazione legale. Successivamente però è divenuta la Libia il principale terminale dei flussi di clandestini africani in direzione europea.

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finanziaria per la costruzione di infrastrutture, dono di attrezzature per il controllo delle frontiere, aiuti per la cooperazione allo sviluppo. In cambio, l’Italia cosa chie-deva? Si pretendeva, ad esempio, piena collaborazione nella prevenzione e nella re-pressione della clandestinità (tramite accordi di riammissione dei clandestini), il con-trollo (eventualmente congiunto) nei porti di partenza, la cooperazione dei consolati dei paesi esteri per l’identificazione dei connazionali trattenuti nei CPTA12.

Una misura importante e innovativa per combattere la tratta internazionale degli esseri umani è stata quella di prevedere una specifica tutela per le vittime della schiavitù e dello sfruttamento. La Legge Napoletano-Turco, infatti, ha introdotto il “soggiorno per motivi di protezione sociale” (art. 18, TUI) che permette di rilasciare un permesso di soggiorno a stranieri sottoposti a situazioni di violenza o di grave sfruttamento e che vogliono “sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell’organizzazione criminale” e partecipare ad un programma di assistenza ed inte-grazione sociale”.

Complessivamente e paradossalmente, il potenziamento delle politiche di con-trollo e la maggiore efficacia repressiva non hanno determinato una consistente di-minuzione delle migrazioni irregolari dovute a moltissimi fattori tra cui la struttura della domanda di lavoro espressa dall’economia italiana. La generalizzata sensazione di un aumento della presenza di stranieri irregolarmente presenti (o regolarmente presenti, formalmente disoccupati e materialmente occupati in nero) ha fornito alle opposizioni politiche del momento un obiettivo intorno a cui coalizzarsi13 e le que-stioni legate all’immigrazione ed alla sicurezza pubbliche hanno finito per diventare tema di forte mobilitazione dell’elettorato.

3.c. Il terzo obiettivo Al di là dei meccanismi di ingresso, del lavoro, del controllo delle frontiere e

della lotta alla criminalità, si avvertiva anche tutta la necessità di predisporre stru-menti ai fini dell’inserimento/integrazione degli migranti. Quest’area delle politiche pubbliche era (e rimane) sicuramente la più magmatica e la più difficile da realizzare in quanto l’integrazione è questione complessa e non esistono soluzioni ottimali pre-confezionate. Tanto per cominciare, non era (e non è) affatto facile e/o scontato tro-vare il necessario consenso sul modello di integrazione da perseguire. La stessa paro-

12 Non sempre si riesce a stipulare un accordo o il loro rispetto prolungato nel tempo. Può accadere, infatti, che i per i Paesi di partenza non vi è nessun interesse ad ostacolare l’immigrazione clandestina. Gli emigranti, ancorché clandestini, costituiscono una risorsa per i paesi di origine per le loro rimesse ma anche ma anche perché alleggeriscono la pressione sul mercato del lavoro. 13 La Lega, ad esempio, riavviò con più slancio le proprie iniziative provocatorie. Al proposito, Guolo sostiene che «agitando il tema dell’Islam come nemico, il Carroccio, spalanca davanti a sé un vasto spazio nel mercato politico. Il nuovo nemico è simbolicamente più efficace e politicamente più spen-dibile dei precedenti, di volta in volta “Roma ladrona” o il “Sud assistito”.

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la “integrazione” era osteggiata da una parte delle forze politiche (e dalla cultura sot-tostante) che vi intravedeva una certa volontà di prevaricazione e di imposizione di un modello eurocentrico. Il dibattito sul modello di integrazione vedeva astrattamen-te coinvolti il modello «assimilazionista» alla francese, il modello «multiculturale» di matrice anglosassone e quello basato sulla presenza temporanea dell’immigrato, sperimentato soprattutto in Germania. Sinteticamente può dirsi che nel modello as-similazionista si richiede al cittadino straniero di adeguarsi ai comportamenti, ai va-lori ed alla lingua del paese di accoglienza in nome dei principi repubblicani univer-sali (eguaglianza di fronte alla legge, neutralità e laicità dello Stato). Il modello mul-ticulturale, che si differenzia molto da esperienza ad esperienza, tende invece a valo-rizzare e difendere le differenze. Nel dibattito culturale e politico italiano ed in fili-grana anche nella normativa è emerso un favor per una sorta di modello di integra-zione ibrido definito interculturale da sperimentare soprattutto nell’ambito educati-vo e scolastico.

Sinteticamente, può dirsi che l’obiettivo di rafforzare le misure di integrazione sociale degli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio della Repubblica avrebbe dovuto essere raggiunto attraverso:

� la previsione di un quadro sistematico di diritti e doveri dello straniero; � un ampliamento ed un progressivo rafforzamento dei diritti fondamentali

dello straniero regolarmente soggiornante (specie per quelli lungo residenti); � la promozione dell’associazionismo straniero e delle occasioni di scambio

culturale tra italiani e stranieri (artt. 42 TUI); � l’aumento della prevenzione e della repressione degli atti di discriminazione

razzista e xenofoba, anche nei rapporti interprivati (artt. 43 3 44 TUI). Indicazioni importanti quanto alle concrete modalità di integrazione dei cittadi-

ni stranieri dovrebbero essere contenute nel Documento programmatico. In esso, in-fatti, sono delineati gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri nella nostra comunità nazionale, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone (purché non confliggenti con l’ordinamento giuridico) prevedendo, altresì, ogni possibile strumento per un positivo reinserimento nei paesi di origine. Per coadiuvare il Go-verno nella delicatissima e complessa materia della integrazione, la legge Napolita-no-Turco ha previsto l’istituzione di una Commissione per le politiche di integra-zione14. La prima Commissione insediata (presieduta da Giovanna Zincone, esperta

14 I cui compiti sono: predisporre per il Governo, anche ai fini dell’obbligo di riferire in Parlamento, il rapporto annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l’integrazione degli immigrati; di formu-lare proposte di intervento di adeguamento di tali politiche nonché fornire risposta ai quesiti posti dal Governo concernenti le politiche per l’immigrazione, interculturali e gli interventi contro il razzismo. Un altro organismo che avrebbe dovuto svolgere un ruolo rilevante è la Consulta per i problemi de-

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in materia) aveva elaborato un concetto di integrazione fatto immediatamente pro-prio dal Governo del momento. Nel Documento programmatico 1998-200015 si leg-geva che, nell’ordinamento italiano, “integrazione” deve significare «un processo di non discriminazione e di inclusione delle differenze, quindi di contaminazione e di sperimentazione di nuove forme di rapporti e comportamenti, nel costante e quoti-diano tentativo di tenere insieme princìpi universali e particolarismi. Essa dovrebbe quindi prevenire situazioni di emarginazione, frammentazione e ghettizzazione, che minacciano l’equilibrio e la coesione sociale e affermare princìpi universali come il valore della vita umana, della dignità della persona, il riconoscimento della libertà femminile, la valorizzazione e la tutela dell’infanzia, sui quali non si possono conce-dere deroghe, neppure in nome della differenza». Secondo quanto specificato, poi, nel Documento programmatico 2001-2003, «i principali obiettivi da perseguire sono la tutela dell’integrità della persona e la costruzione di una interazione a basso con-flitto tra immigrati e cittadini, tra nazionali e nuove minoranze. Le politiche di inte-grazione devono essere, dirette, da una parte, ad assicurare agli stranieri presenti nel nostro paese basi di partenza nell’accesso a beni e servizi e, più in generale, condi-zioni di vita decorose. Un’interazione a basso conflitto implica che le politiche di in-tegrazione si rivolgono anche e soprattutto ai cittadini italiani e non agli stranieri che vivono e lavorano in Italia».

Tutti pregevolissimi obiettivi che, tuttavia, non sono stati realizzati e su cui ha profondamente inciso la nuova politica dell’immigrazione inaugurata nel 2002. Al proposito pare sufficiente riportare alcuni stralci del Documento programmatico rela-tivo al periodo 2004-2006 che dedica il cap. 4 alle politiche di integrazione: «L’integrazione della popolazione immigrata consiste in un processo bidirezionale basato sul rispetto di diritti e doveri reciproci e di un processo interculturale. Da una parte, il cittadino straniero deve adeguarsi alle regole e riconoscere i valori della so-

cietà italiana, dall’altra deve avere accesso a beni e servizi che gli garantiscano una dignitosa qualità della vita»; «l’elaborazione di politiche di integrazione deve tener conto dell’evoluzione della progettualità migratoria verso la ricerca di una maggiore stabilità, che si esprime, tra le altre cose, attraverso una crescente stabilità occupa-zionale, una migliore padronanza della lingua italiana, un aumento dei ricongiungi-menti familiari e una maggiore partecipazione scolastica».

Il Documento programmatico relativo alla politica dell’Immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato per il triennio 2007-2009 non ha visto la luce a cau-

gli stranieri immigrati e delle loro famiglie (analogamente le Regioni hanno la possibilità di istituire le Consulte regionali per i problemi dei lavoratori extracomunitari e delle loro famiglie) . 15 Il primo Documento programmatico riconosceva la natura strutturale del fenomeno migratorio in Italia che «per essere effettivamente ricondotto a dimensioni non esasperate e patologiche richiede la graduale, autentica maturazione di una cultura dell’integrazione, fortemente ispirata ai principi di soli-darietà ed ancorata al rispetto dei diritti umani fondamentali». In realtà, il primo documento program-matico, non essendo ancora completati gli adempimenti per la piena effettività della nuova legge, ebbe più che altro la funzione di lanciare un messaggio culturale e programmatico.

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sa dello scioglimento anticipato delle Camere e ad oggi non pare siano stati adottati ulteriori documenti programmatici. Il modello italiano di integrazione, tutto astratta-mente giocato sulla interculturalità, è stato via via indebolito dalle modifiche intro-dotte a partire dalla legge 189/2002, dalla progressiva riduzione dei fondi destinati alla integrazione (fino al suo completo azzeramento) per culminare, infine nel 2009, nel c.d. “Accordo di integrazione” (cui è strettamente legato il Piano per

l’integrazione nella sicurezza: Identità del 2010 che “individua le principali linee di azione e gli strumenti da adottare al fine di promuovere un efficace percorso di inte-grazione delle persone immigrate, in grado di coniugare accoglienza e sicurezza”).

4. Dalla Legge Bossi-Fini del 2002 ai c.d. pacchetti sicurezza Le politiche in materia di immigrazione del successivo governo di centro-destra

hanno, sicuramente, voluto rappresentare una forte discontinuità rispetto al recentis-simo passato specie in materia di controllo, repressione e espulsione. Il legislatore del 2002 ha, infatti, ripensato e rimodulato gli strumenti legislativi in vigore e specie quelli finalizzati a regolare il fenomeno migratorio e a prevenire e reprimere l’immigrazione clandestina. Tale ripensamento, tuttavia, non si è mosso nella dire-zione di migliorare l’applicazione degli strumenti esistenti ma in quella di una loro quasi totale riformulazione. In altri termini, il legislatore della Bossi-Fini ha ritenuto che proprio gli istituti introdotti per la prima volta nell’ordinamento italiano dalla legge 40/98 per regolare i nuovi ingressi di lavoro, fossero i principali “responsabili” della presenza di stranieri regolarmente soggiornanti, formalmente disoccupati ma spesso sostanzialmente occupati nel lavoro nero.

Per tali motivi, la legge 189/2002 (composta da 38 articoli) può dirsi essere sta-ta mossa principalmente da due finalità: ridurre o rendere difficili le possibilità di in-gresso regolare di stranieri per lavoro e collegare strettamente la durata e la validità del permesso di soggiorno per lavoro subordinato all’esistenza effettiva di un regola-re rapporto di lavoro. Non si diminuisce la discrezionalità del Governo circa la pro-grammazione dei nuovi ingressi per lavoro (tanto che la stessa determinazione an-nuale delle quote di ingresso per lavoro non è più obbligatoria ma facoltativa); si reintroduce la verifica preventiva dell’indisponibilità di altri lavoratori italiani o co-munitari quale condizione per autorizzare l’ingresso di nuovi lavoratori stranieri; si rende ancora più precaria la condizione dello straniero regolarmente soggiornante per lavoro; si istituisce il “contratto di soggiorno” il quale, mediante procedure assai complicate rispetto alle esigenze del mercato del lavoro, sposta dai pubblici poteri ai datori di lavoro gli oneri concernenti le esigenze alloggiative dei lavoratori stranieri.

Il “cuore” delle modificazioni introdotte dal legislatore del 2002 si concentrava, così «nelle politiche per il lavoro, al fine di assicurare l’equivalenza tra ingresso nel

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territorio dello Stato e lavoro legale, basata su di un corretto rapporto con il datore

di lavoro e con lo Stato, che includa il versamento di imposte e contributi sociali, la

disponibilità di un alloggio adeguato, una idonea formazione professionale e

l’opportunità di una piena integrazione nella società italiana. Il “contratto di sog-

giorno” assicura che all’ingresso in Italia per motivi di lavoro corrisponda realmen-

te lo svolgimento di un lavoro legale, strumento chiave di integrazione»16. La legge Bossi-Fini, in materia di accesso al lavoro reintroduce – tra le altre co-

se – la verifica preventiva dell’indisponibilità di altri lavoratori, italiani o comunitari, a ricoprire il posto di lavoro oggetto della richiesta da parte del datore di lavoro (le possibilità di ingresso regolare degli stranieri per motivi di lavoro si basano, dunque, soltanto sulla preventiva chiamata nominativa del datore di lavoro); abolisce, poi, il meccanismo dello sponsor, sostituendolo con i titoli di prelazione (art. 23 TUI), ossia privilegiando nel collocamento i lavoratori stranieri che abbiano svolto un percorso formativo nei loro paesi di origine, sulla base di programmi di istruzione professiona-le organizzati da enti e pubbliche amministrazioni italiane e finalizzati all’inserimento lavorativo mirato nei settori produttivi italiani che operano all’interno dello Stato o nei Paesi di origine.

Per compensare l’appesantimento burocratico derivante dalle diverse misure previste dalla legge, viene prevista l’istituzione dello Sportello unico per l’immigrazione (presso la Prefettura) che avrebbe dovuto centralizzare e coordinare le numerose pratiche ed i rapporti con gli utenti. Tali sportelli, però, sono stati avviati solo nel 2005-2006 entrando pienamente in funzione solo con il decreto flussi 2006.

La possibilità di nuovi ingressi regolari per lavoro, ancor più di quanto previsto nel 1998, viene lasciata alla piena discrezionalità del governo, che può decidere di non disporre la programmazione annuale, di penalizzare gli stranieri provenienti da Paesi i cui governi non collaborano alla riammissione dei clandestini espulsi17 e, vi-ceversa, “premiare” gli stranieri provenienti da Stati “collaborativi” e coi quali siano stati stipulati accordi bilaterali.

La novella legislativa del 2002 era figlia di un sostrato politico ideologico rias-sumibile con l’espressione “tolleranza zero”. Dunque, nessuna meraviglia di fronte alla numerose norme tese ad aumentare l’efficacia delle misure di prevenzione e di repressione dell’immigrazione illegale attraverso forme di penalizzazione esplicita per i lavoratori dei Paesi che non collaborano alla riammissione dei clandestini e nuove norme penali contro le diverse ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione 16 Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato per il 2004-2006. 17 Il riferimento è all’art. 21, comma 1, del Testo Unico laddove prevede «restrizioni numeriche all’ingresso di lavoratori di Stati che non collaborano adeguatamente nel contrasto dell’immigrazione clandestina o nella riammissione dei propri cittadini destinatari di provvedimenti di rimpatrio». In tal modo si collocano gli Stati (e non le persone) al centro del problema migratorio e si finisce per far pa-gare doppiamente allo straniero la “sventura delle proprie origini” (Pepino).

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illegale e contro i datori di lavoro nero. Si assiste ad un forte inasprimento delle mi-sure penali ed amministrative nei confronti dello straniero irregolarmente presente. A tale proposito si prevedono, infatti, ad esempio:

1) l’istituzione della espulsione dello straniero clandestino quale misura alterna-tiva alla pena detentiva (entro il limite di due anni);

2) lo sveltimento del rilascio del nulla osta dell’autorità giudiziaria all’esecuzione dei provvedimenti amministrativi di espulsione;

3) il raddoppio del periodo massimo consentito (da 30 a 60 giorni complessivi) di trattenimento nei CTPA;

4) l’esecuzione immediata con accompagnamento alla frontiera di quasi tutti i provvedimenti amministrativi di espulsione senza un effettivo rispetto della riserva di giurisdizione e del diritto di difesa da parte dello straniero (elevazione a regola della esecuzione delle espulsioni con accompagnamento coattivo alla frontiera);

5) il raddoppio da 5 a 10 anni del periodo di divieto di rientro nel territorio na-zionale dello straniero espulso;

6) l’inasprimento delle sanzioni per i reati di reingresso illegale degli stranieri espulsi e l’introduzione dell’obbligo di sottoporre gli stranieri a rilievi fotodattilo-scopici.

L’inasprimento delle misure di contrasto e repressione di clandestinità ed irre-golarità ha prodotto un irrigidimento teorico del sistema “diritto degli stranieri” che ha finito per colpire duramente l’immigrato in condizioni di irregolarità senza discer-nere alla luce delle condizioni personali e dell’effettivo grado di minaccia rappresen-tato dai singoli migranti.

Le nuove norme introdotte dalla legge 189/2002, peraltro, hanno segnato un secco indebolimento delle misure di integrazione sociale degli stranieri regolarmente soggiornanti anche sotto altri profili in quanto:

� il periodo di validità dei rinnovi dei permessi di soggiorno di lungo periodo è ridotto da quattro a due anni;

� è stato anticipato fino a tre mesi prima della scadenza il termine entro il qua-le lo straniero deve presentare domanda di rinnovo dei permessi di soggiorno di lun-go periodo;

���� è stato ridotto da 12 mesi a 6 mesi il termine minimo che deve essere co-munque consentito ai titolari di permesso di soggiorno per lavoro subordinato per trovarsi un nuovo lavoro regolare (ma durante tale periodo essi perdono la possibilità di accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica);

� il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato so-no strettamente condizionati dall’avvenuta stipula del “contratto di soggiorno” (art. 5-bis);

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� la mera condanna in primo grado per un reato medio-grave è configurata come causa ostativa all’ingresso e come causa di revoca o divieto di rinnovo del permesso di soggiorno;

���� è portato da 5 a 6 anni il termine di soggiorno regolare ininterrotto che costi-tuisce uno dei presupposti per il rilascio della carta di soggiorno (ridenominata, a partire dal 2007, Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e rila-sciabile allo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggior-no in corso di validità, art. 9 TUI).

���� sono state modificate le norme in materia di diritto all’unità familiare, in par-ticolare, eliminando la possibilità per lo straniero di ricorrere all’istituto del ricon-giungimento familiare per i parenti entro il terzo grado;

����è stata prevista la revoca del permesso di soggiorno nelle ipotesi di matrimo-nio simulato con il cittadino italiano, in quanto finalizzato unicamente ad ottenere la possibilità di soggiornare in Italia.

La Corte costituzionale italiana, con due sentenze in particolare (la 222 e la 223

del 2004), ha “ricordato” al legislatore che lo straniero gode della libertà personale e del diritto di difesa, quantomeno nel suo nucleo incomprimibile. Per dare seguito a tali sentenze, con decreto legge n. 241/2004 (conv. in legge n. 271/2004) viene modi-ficata la disciplina delle espulsioni degli stranieri irregolarmente soggiornanti in ma-niera da assicurare un maggiore godimento delle garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione anche per gli stranieri “accompagnati alla frontiera”. La competenza in materia di convalida dei periodi di trattenimento viene attribuita al Giudice di pace prevedendosi, contestualmente, misure per assicurare la massima celerità dei provve-dimenti di convalida e di esecuzione delle espulsioni.

Sempre nel 2004 e per dare attuazione alle modifiche introdotte dalla legge Bossi-Fini, con d.P.R. 334 del 2004 viene modificato il regolamento di attuazione della normativa sugli stranieri.

Il nuovo governo di centro sinistra, scaturito dalle elezioni di metà 2006, ha do-vuto sin da subito apportare una serie consistente di modifiche alla normativa vigente per non incorrere nelle procedure di infrazione dell’Unione europea per il mancato recepimento di importantissime direttive comunitarie18. Si pensi alla Direttiva 2003/109/Ce relativa allo status dei cittadini dei paesi terzi che siano soggiornanti di

18 Invero, all’inizio del marzo 2007 il governo Prodi aveva presentato un disegno di legge-delega per modificare, migliorandola, la disciplina in materia di immigrazione (si prevedeva persino di rimuovere la clausola eccettuativa al Capitolo C della Convenzione di Strasburgo). Di assoluto rilievo è stata l’istituzione di una speciale commissione di ispezione, voluta dal Ministro degli Interni Amato, per verificare le condizioni all’interno dei Centri di permanenza temporanea, la loro efficienza, efficacia ed economicità e per elaborare proposte di riforma. La presidenza della Commissione venne affidata a Staffan De Mistura, direttore del Centro alti studi delle nazioni unite. Il Rapporto della Commissione fu presentato a fine gennaio 2007 e tra le conclusioni vi era quella di un necessario progressivo svuo-tamento dei CPTA.

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lungo periodo (istitutiva del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo che sostituisce la vecchia carta di soggiorno) recepita con d.lgs. n. 3 del 2007 (con un anno di ritardo). O alla Direttiva 2003/86/Ce relativa al diritto al ricongiungimento familiare cui è stata data esecuzione con il d.lgs. n. 5 del 2007 (che modifica l’art. 29 del TUI e inserisce un nuovo articolo in materia di ricongiungimento familiare dei rifugiati).

Il successivo governo di destra, a partire dal maggio 2008, ha costantemente operato nella direzione di ridurre le già esigue garanzie a tutela dei diritti dei migran-ti, siano essi ‘clandestini’ o ‘regolari’ e dunque proseguendo nell’opera di crimina-lizzazione della irregolarità migratoria già avviata con la legge Bossi-Fini del 2002. Agitando lo spettro della pubblica sicurezza e della impellente necessità di ripulire il territorio italiano dalla presenza dei clandestini, già con la l. n. 125/200819 si introdu-ceva la c.d. “circostanza aggravante di clandestinità” che di lì a poco sarebbe stata ritenuta incostituzionale dal Giudice delle leggi. La disposizione in esame (art. 61, n. 11-bis, cod.pen.) prevedeva che il reato perpetrato da uno straniero irregolarmente presente sul territorio dovesse essere punito con una pena aumentata fino ad un terzo rispetto allo stesso reato commesso da un cittadino italiano e da uno straniero legal-mente presente. L’aggravante non si fondava su un effettivo nesso di causalità tra la condizione di clandestino ed il reato commesso dallo straniero; essa, infatti, si appli-cava indipendentemente da una valutazione di pericolosità sociale soggettiva dando vita ad una irragionevole disparità di trattamento tra colpevoli dello stesso crimine: a rilevare era unicamente una condizione personale del reo senza chiedersi come tale condizione avesse reso possibile o facilitato la commissione del reato20.

La legge 125/2008, oltre ad aggravare le pene per favoreggiamento e sfrutta-mento della immigrazione clandestina, ha previsto un nuovo tipo di reato compiuto da chi (salvo che il fatto non costituisca più grave reato) a titolo oneroso e al fine di trarne profitto, di alloggio ad uno straniero, privo di titolo di soggiorno, in un immo-bile di cui abbia la disponibilità (ovvero lo cede anche a locazione).

Modifiche, sempre di natura restrittiva, vengono poi introdotte dai d.lgs. 159/2008 (“Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 recante attuazione della direttiva 2005/85/CE relativa alle norme minime per le pro-cedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello

19 Trattasi della legge di conversione del decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e facente parte del c.d. Primo pacchetto sicurezza. 20 Chiaramente i profili di illegittimità costituzionale della aggravante di clandestinità sono stati sin da subito sottolineati dalla dottrina. A voler tacer d’altro, la norma accomunava sotto una unica etichetta (l’irregolare) situazioni ben diverse tra di loro: spessissimo l’immigrato si trova a versare in condizio-ne di irregolarità non già ab initio ma in seguito alla cessazione di validità del titolo che ne legittimava la permanenza in Italia (trattasi dei c.d. overstayers). Sarà la Corte costituzionale, con la sentenza n. 249 del 2010, a ripristinare il sistema delle sanzioni nei riguardi degli stranieri adeguandolo a quanto prevede la Costituzione. Altrimenti detto, con tale sentenza la Corte costituzionale ha ritenuto contra-ria alla Costituzione (artt. 3, I comma e 25, II comma) l’aggravante di clandestinità espungendola dal nostro ordinamento giuridico.

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status di rifugiato) e 160/2008 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5, recante attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto al ricongiungimento familiare).

Le modifiche più consistenti e più di impatto mediatico in materia di condizione

giuridica dello straniero verranno, però, con la legge del 15 luglio 2009, n. 94 recan-te Disposizioni in materia di pubblica sicurezza (e facente parte del secondo pacchet-to sicurezza) istitutiva anche del c.d. “reato di clandestinità” . La legge 94/2009, approvata al termine di un percorso irto di polemiche ed asprissimi confronti anche tra ampi settori della società civile, si caratterizza per inserirsi appieno nella scia del discutibile binomio tra immigrazione e sicurezza21 e per operare un intervento parti-colarmente restrittivo ed anche repressivo nei confronti dell’immigrazione, soprattut-to irregolare, nell’intento di migliorare gli standard di sicurezza pubblica. Piuttosto che interrogarsi in profondità sulle cause del diffuso senso di insicurezza e su quanto essa dipenda dalla crisi economica globale e da profonde difficoltà sociali, si è prefe-rito ancora una volta addossare ogni colpa alla presenza degli immigrati fomentando la rischiosa confusione tra immigrazione e criminalità.

È un dato piuttosto condiviso che l’elefantiasi del corpus di norme incrimina-trici costituisce un punto di debolezza lungo la strada della sicurezza e della legalità. Inoltre, la bulimia nel ricorso alla misura della espulsione in tutte le sue possibili ed immaginabili variabili giuridiche contribuiscono a far sì che la criminalità organizza-ta decida di investire risorse sempre più ingenti nella gestione illegale dei flussi mi-gratori (c.d. smuggling of migrants): il divieto di ingresso regolare oltre un determi-nato numero prefissato di stranieri viene aggirato attraverso l’attivazione di strategie da parte di singoli ed organizzazioni criminali su come superare gli ostacoli normati-vi.

La sicurezza pubblica di cui alla legge 94/2009, in realtà, appare il collante solo nominale di un pacchetto che esprime un uso simbolico e distorto del diritto penale, mettendo insieme numerose e varie disposizioni su tematiche assai varie: modifiche al codice penale e di procedura penale, alla legge sulla cittadinanza, al codice della strada solo per citarne alcune. Ovviamente in questa sede saranno esaminati solo gli

21 Quanto sia fuorviante l’equazione immigrazione e criminalità è stato di recente ribadito addirittura dal rapporto del CNEL sugli indici di integrazione degli immigrati in Italia, presentato il 20 febbraio 2009. Rileva il CNEL senza mezzi termini che : “lo stesso dibattito politico nazionale sull’immigrazione acuisce queste difficoltà. Alimenta un clima di diffidenza e paura reciproca tra ita-liani e immigrati ed anche tra gli stessi immigrati. Enfatizza un’emergenza invasione inesistente e mi-stifica l’equazione tra immigrazione e criminalità. Esso è condizionato da iniziative identitarie sul piano elettorale contro diritti sociali e civili fondamentali riconosciuti agli immigrati dal nostro ordi-namento, la cui negazione segna un arretramento di civiltà del nostro Paese. Tutto questo non ha al-cuna incidenza sulla lotta alla clandestinità, che è un problema reale e su cui i cittadini giustamente chiedono risultati tangibili. La persecuzione del clandestino già presente nel nostro Paese, fuggito dalla fame, dalla guerra, dalla persecuzione, serve solo a suscitare gli istinti di una subcultura xeno-foba, che mette a rischio una ordinata convivenza civile”.

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aspetti legati più immediatamente alla disciplina del fenomeno migratorio ed al fatto che gli ingranaggi processuali escogitati segnano il primato dell’interesse al conte-nimento delle presenze irregolari sino al punto da negare o ostacolare all’immigrato irregolare l’esercizio di veri e propri diritti fondamentali. In una parola, tutto concor-re a fare “terra bruciata” attorno all’immigrato irregolare ed a rendere assai difficile la vita a quello regolarmente presente sul nostro territorio.

La legge in esame introduce modifiche sostanziali in materia di cittadinanza ita-liana. Prima della sua entrata in vigore, il coniuge straniero di cittadino italiano pote-va presentare la richiesta di cittadinanza per matrimonio decorsi almeno sei mesi di residenza legale dalla data di celebrazione del matrimonio. Inoltre, se successiva-mente interveniva la separazione dei coniugi, il riconoscimento della cittadinanza re-stava comunque salvo, poiché era sufficiente essere in possesso dei requisiti al mo-mento della presentazione della domanda. La legge 94/2009, invece, ha prolungato il tempo necessario per poter presentare la richiesta di cittadinanza per un matrimonio da parte di cittadino straniero coniugato con un italiano: da sei mesi si passa a due anni di residenza legale (ridotti ad un anno in presenza di figli anche adottivi). Se dopo la presentazione dell’istanza di riconoscimento della cittadinanza alla compe-tente Prefettura interviene lo scioglimento del matrimonio o la separazione dei co-niugi, l’istanza sarà rigettata poiché si stabilisce che il rapporto di coniugio deve permanere fino all’adozione del provvedimento di riconoscimento da parte del Mini-stero dell’Interno. Sempre in tema di matrimonio, per potersi sposare con un italiano ora lo straniero deve esibire all’ufficiale di stato civile, oltre al nulla osta del paese di provenienza, anche il permesso di soggiorno. Anche questa nuova disposizione pare presentare profili di dubbia costituzionalità ove si ponga mente che il diritto a con-trarre matrimonio ed a formare una famiglia sono diritti fondamentali riconosciuti a livello costituzionale, comunitario ed internazionale. Non sarà più possibile autocer-tificare lo stato di famiglia, la residenza e il possesso dei requisiti ma tutta la docu-mentazione dovrà essere allegata a supporto della richiesta (ciò vale anche per i cit-tadini comunitari). Ed ancora: gli agenti che prestano servizi di money transfer devo-no segnalare (entro 12 ore) l’eventuale irregolarità del cittadino straniero.

La permanenza nei CIE viene prolungata da 60 giorni a sei mesi (art. 14, com-ma 5, TUI). In caso di mancata cooperazione al rimpatrio da parte del paese terzo in-teressato o in caso di ritardi per acquisire la documentazione necessaria, il questore può, infatti, chiedere una prima proroga di 60 giorni cui ne può aggiungere una se-conda. Come è stato notato tale misura è utile per “centrare tre bersagli con un colpo solo: costringere per sfinimento lo straniero a declinare le proprie generalità necessa-rie al suo allontanamento, assicurarsi la disponibilità fisica del trattenuto per tutto il tempo necessario ad ottenere la documentazione indispensabile alla sua espulsione,

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preservare l’effettività dell’allontanamento differito” 22 (Pugiotto). La legge in com-mento, peraltro, ha previsto l’efficacia retroattiva del prolungamento del trattenimen-to amministrativo nei Centri di Identificazione ed Espulsione: chi era già trattenuto ha visto allungarsi il periodo di detenzione da due a sei mesi23.

Tra le innovazioni che hanno suscitato maggiore clamore anche mediatico vi è però la previsione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato (c.d. reato di clandestinità). All’art. 10 del TUI se ne aggiunge un altro, l’art.10-bis,

che punisce, con la pena dell’ammenda da 5.000 a 10.000 euro (ma per la quale non è possibile l’oblazione24), salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle dispo-sizioni del testo unico nonché di quelle di cui all’art. 1 della legge n. 68/2007 che ri-guarda i soggiorni per breve durata per visite, affari, turismo e studio. La condotta sanzionata, dunque, si riferisce all’ingresso o al trattenimento nel territorio italiano in mancanza di un titolo di legittimazione. I clandestini sono sottoposti a processo da-vanti al giudice di pace con espulsione per direttissima (si prevede, infatti, per tale caso l'applicazione della sanzione sostitutiva dell'espulsione). Sin da subito si è dubi-tato che una sanzione del genere (una pena pecuniaria non oblabile comminata a chi spesso non solo versa in condizioni di povertà ma soprattutto non ha nulla da perde-re) potesse avere una qualche efficacia generalpreventiva e/o fungere da deterrente contro la migrazione “clandestina”. Inoltre, già prima della introduzione del reato di clandestinità la libertà personale di chi veniva trovato in condizioni di irregolarità veniva fortemente limitata dai provvedimenti di trattenimento e di espulsione e le statistiche mostrano come la minaccia della detenzione non sembri spaventare troppo i migranti irregolari (come testimoniata dai bassissimi livelli di ottemperanza all’ordine di espulsione del questore)25.

22 Lo stesso ministro Maroni, sul punto, così si è espresso: «Voi ricorderete che quando i CIE sono stati introdotti dall’allora Ministro dell’Interno Giorgio Napolitano la permanenza era limitata ad un mese, quando è stata raddoppiata sono più che raddoppiati i casi di identificazione. Ciò è avvenuto perché se si ha la prospettiva di dover rimanere nei centri un mese si resiste, due mesi è già più diffici-le, mentre credo che nessuno possa pensare di non farsi riconoscere e resistere per 18 mesi» (XVI Legislatura, Resoconto stenografico del Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, Audizione del 15 ottobre 2008) 23 L’istituto del trattenimento amministrativo (con tutto ciò che intorno ad esso orbita) viene fatta ri-cadere nell’alveo del diritto amministrativo e non di quello penale. Ciò spiega come sia possibile la retroattività del prolungamento dei tempi della detenzione.

24 L'oblazione è una causa di estinzione del reato limitata alle contravvenzioni, prevista agli articoli 162 e 162bis del codice penale italiano.

25 Il sospetto di incostituzionalità della fattispecie in esame si è subito tradotto in due incidenti di co-stituzionalità sollevati dai giudici di pace di Lecco e Torino. La Corte costituzionale (sent. 250 del 2010), differentemente dalla pronuncia sull’aggravante di clandestinità, non ha ritenuto sussistente il vulnus alla Costituzione. In particolare, non ha ritenuto che il reato in esame penalizzasse una mera

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Diamo un veloce sguardo alle altre nuove norme penali introdotte da questa legge. Si amplia la fattispecie dell’art. 5, comma 8-bis (contraffazione o alterazione della documentazione attestante la regolarità del soggiorno) con l’inserimento dell’utilizzazione di uno dei documenti contraffatti o alterati come condotta sanzio-nata (il reato di falso identitario e la stretta sanzionatoria mirano a prevenire condotte diffuse tra i migranti clandestini che ostacolano il perfezionarsi delle relative proce-dure espulsive). Si riformula l’art. 6, comma 3, TUI (Facoltà ed obblighi inerenti al soggiorno) a norma del quale “lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro docu-mento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2000”. Vengono aggravate le pene per il favoreggiamento della clandestinità.

Per quanto riguarda il profilo della emersione dei soggetti vulnerabili, il legisla-tore del 2009 ha abbandonato, dopo molti tentativi, l’idea di rendere obbligatoria l’esibizione del permesso di soggiorno da parte degli immigrati agli esercenti le pro-fessioni sanitarie. La modifica dell’art. 6, comma 2 del d.lgs 286/1998 concernente le eccezioni all’obbligo della esibizione dei documenti, dovuta alla sostituzione della frase “e per quelli inerenti agli atti di stato civile o all’accesso a pubblici servizi” con “quelli inerenti all’accesso alle prestazioni sanitarie di cui all’art. 35 e per quelli atti-nenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie” sembrerebbe aver scongiurato il ri-schio paventato dagli esercenti le professioni sanitarie di dover denunciare irregolari e clandestini.

Viene, poi, introdotta una tassa di soggiorno: gli immigrati dovranno pagare un contributo di soggiorno il cui l’importo va da un minimo di 80 ad un massimo di 200 euro. Sono escluse da questo versamento solo le domande di rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno per asilo, per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari; pertanto sarà richiesto tale versamento anche per le domande di ri-lascio e rinnovo dei permessi di soggiorno per minori stranieri, con conseguente ag-gravio della spesa delle loro famiglie, oppure degli enti e affidatari che se ne occupa-no.

Dulcis in fundo, la legge 94 del 2009, ha inserito l’art. 4-bis titolandolo “Accor-do di integrazione”. A norma del primo comma di tale articolo, devesi intendere per integrazione “quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini ita-liani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della so-cietà”. Per realizzare tale integrazione, il legislatore del 2009 ha previsto uno stru-mento davvero bizzarro: l’accordo di integrazione che lo straniero dovrà sottoscrive-

condizione personale o sociale (quale quella di clandestino) e che oggetto della incriminazione non fosse un modo di essere della persona ma un comportamento trasgressivo di norme vigenti.

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re, contestualmente alla presentazione di domanda di rilascio del permesso di sog-giorno. Tale accordo, articolato per crediti, impegna lo straniero a sottoscrivere spe-cifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno. La stipula del contratto di integrazione assurge a condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno e la perdita integrale dei crediti determina la revoca del permesso di soggiorno e l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, eseguita dal questore secondo le modalità previste dall’art. 13, comma 4 (ac-compagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica) ad eccezione dello stra-niero titolare del permesso di soggiorno per protezione internazionale, per motivi familiari, di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, di carta di soggiorno per familiare straniero di cittadino dell’Unione europea, nonché dello stra-niero titolare di altro permesso di soggiorno che ha esercitato il diritto al ricongiun-gimento familiare. Criteri e modalità per la sottoscrizione e la struttura dell’accordo sono rimandati ad un regolamento governativo da adottarsi entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge (e di cui ancora oggi nulla si sa).

Come si è osservato, l’accordo di integrazione trasforma i diritti sociali in ob-blighi pesantemente sanzionati a carico dello straniero (attese le conseguenze sul permesso di soggiorno) e scarica sullo straniero “tutti gli oneri del processo di inte-grazione posto che, per l’attuazione del sistema dell’accordo di integrazione, si dovrà provvedere nell’ambito delle risorse umane strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Nella de-finizione di integrazione, contenuta nel primo comma dell’art. 4-bis non vi è traccia della prospettiva dinamica e bi-direzionale che invece è una parte di fondamentale importanza ai fini della integrazione che è «questione complessa nella quale sono de-terminanti i fattori soggettivi, le aspettative ed i vissuti della esperienza immigratoria, lo stesso sentire dei cittadini, la qualità dei rapporti tra questi e gli immigrati»26. La nuova norma espressamente vieta ai soggetti pubblici l’incremento di risorse finan-ziarie, strutturali e personali e traduce l’impegno di integrazione in un sistema di de-biti/crediti legati alla sottoscrizione obbligatoria di un impegno che individui obietti-vi di integrazione da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno.

A spiegare la “guerra all’immigrazione clandestina” lanciata dal Ministro degli

interni Maroni e la conseguente introduzione di aggravante e reato di clandestinità (insieme ovviamente alla pletora di altre fattispecie tutte miranti ad indebolire la po-sizione dello straniero sia regolarmente che irregolarmente presente) hanno contri-buito i dividendi elettorali che, in contesti di insicurezza diffusa e di crisi economi-ca, il legislatore (specie nella sua versione padana) punta a raccogliere ricorrendo ap-punto ad ostentazioni di risolutezza (tanto urlate quanta inefficaci). In molti hanno

26 VI Rapporto sugli Indici di integrazione degli immigrati in Italia (2009) del CNEL.

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sottolineato come, in realtà, la previsione del reato di clandestinità era funzionale alla elusione della c.d. “Direttiva rimpatri” del 16 dicembre 2006, recante norme e pro-cedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. La direttiva ora richiamata, che avrebbe dovuto essere re-cepita entro il 24 dicembre 2010, mirava ad armonizzare i sistemi nazionali cercando di bilanciare due opposte esigenze: da un lato, assicurare l’effettività dei meccanismi di rimpatrio degli immigrati irregolarmente presenti e, dall’altro, tutelare la libertà personale dell’immigrato fissando una serie di limiti agli Stati parte. L’art. 7 della Direttiva, ad esempio, di fronte al soggiorno irregolare di uno straniero impone che il rimpatrio avvenga prioritariamente con partenza volontaria. Tuttavia, la stessa Diret-tiva prevede che le sue disposizioni possano non applicarsi agli stranieri “sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in con-formità della legislazione nazionale”. È su questa possibile deroga che - estendendo la platea dei soggetti che possono ricadere in tale ipotesi e facendo conseguentemen-te della eccezione la regola – puntava il nuovo reato di clandestinità.

Il legislatore italiano ha, come ben può intuirsi, lasciato passare il termine ulti-mo concesso per recepire ed attuare l’importante Direttiva Rimpatri. Tale inerzia ha generato uno dei contrasti dottrinali e giurisprudenziali più accesi degli ultimi anni in ordine alla sorte dei reati configurabili durante la procedura di espulsione, in parti-colar modo sul delitto di cui all’art. 14, comma 5 ter (reclusione da uno a quattro an-ni per lo straniero che senza giustificato motivo permane illegalmente sul territorio dello Stato dopo essere stato intimato ad abbandonarlo entro il termine di 5 giorni). Occorre ricordare, infatti, che i giudici hanno l’obbligo di interpretare il diritto inter-no in modo comunitariamente orientato in maniera tale da garantire il conseguimento dei risultati e degli scopo perseguiti dalle direttive. Qualora, poi, sia impossibile pro-cedere ad una interpretazione conforme, al giudice non resta che disapplicare il dirit-to interno senza che ciò comporti anche una sostituzione con la normativa comunita-ria e purché quest’ultima abbia un effetto diretto. Se quest’ultimo dovesse mancare o fosse di dubbia configurazione, al giudice deve rispettivamente sollevare la questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. oppure promuovere il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Una volta scaduto il termine per dare attuazione alla direttiva rimpatri, un orientamento prevalente le ha riconosciuto efficacia self executing con la conseguenza di applicare direttamente le norme europee ritenute avere efficacia diretta. Per l’orientamento op-posto, invece, la Direttiva rimpatri non sarebbe stata incidente sulle norme incrimina-trici del TUI. È stata la sentenza della Corte di Giustizia del 28 aprile 2011, El Dridi,

a sciogliere alcuni nodi interpretativi derivanti dal mancato recepimento della diretti-va. In particolare, nella sentenza si sostiene che la previsione della sanzione penale di cui all’art. 14, comma 5 ter, in ragione anche delle sue condizioni e modalità di ap-plicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla

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direttiva ossia l’introduzione di una efficace politica di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini dei paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare.

Dopo una serie di tentennamenti e scomposte reazioni del Governo italiano, alla presa peraltro con gli ingenti sbarchi di cittadini e cittadine provenienti dai paesi nor-dafricani coinvolti nella c.d Primavera araba, il 23 giugno viene adottato un decreto legge recante “Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della diret-tiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della Direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari”. Il suddetto decreto legge è stato convertito, con modificazioni, con Legge 2 agosto 2011, n. 129. Anche questa volta, il legislatore italiano non ha saputo approfittare della situazione per avviare un vero e proprio disegno riformatore adeguato a preve-dere un insieme di norme capaci di assicurare un efficace governo del fenomeno mi-gratorio nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone27. Piuttosto, e rimandando la puntuale disamina delle novità in materia di espulsione e di rimpatrio alla Terza dispensa, giova qui ricordare che la qualità e la quantità di situazioni in cui il prov-vedimento amministrativo di espulsione è immediatamente eseguito con accompa-gnamento alla frontiera (art. 13, comma 4, TUI) sono tanti e tali ed i limiti alla par-tenza volontaria sono così tanti che le ipotesi residuali in cui sarebbe concessa la par-tenza volontaria appaiono delle mere concessioni e delle mere eccezioni. Detto in al-tri termini, la direttiva 115/2008 si fonda sul principio della partenza volontaria ed agevolata degli stranieri in condizioni di irregolarità; ciò non impedisce eventuali al-lontanamenti forzati e/o trattenimenti in quei casi (eccezionali) in cui sussistano con-creti pericoli di fuga, in quanto la direttiva configura la coercizione ed il trattenimen-to come i rimedi estremi. Persino il ricorso al trattenimento, secondo la logica della Direttiva rimpatri, deve essere regolamentato “allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei Paesi terzi (…): il principio di propor-zionalità esige che il trattenimento di una persona sottoposta a procedura di espulsio-ne o di estradizione non si protragga oltre un termine ragionevole, cioè non superi il tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito. Secondo tale principio, il trat-tenimento ai fini dell’allontanamento deve essere quanto più breve possibile”. Il legi-slatore italiano, per tutta risposta (e capovolgendo il significato e la portata di quanto previsto dalla Direttiva) ha riformulato l’art.14, comma 5, TUI prevedendo che la du-rata del trattenimento nel CIE possa protrarsi fino a un massimo di 18 mesi (in luogo dei previgenti sei mesi). Quando il trattenimento non sia possibile o non sia più con-sentito, il Questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro 7 giorni (in luogo dei previgenti 5 giorni). La violazione per inottemperanza all’ordine di allontanamento del Questore, salvo che sussiste giustificato motivo, comporta in 27 Giova ricordare che è scaduto nel luglio 2011 il termine ultimo per recepire l’importantissima diret-tiva 2009/52/ce del parlamento europeo e del consiglio del 18 giugno 2009 che introduce norme mi-nime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.

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prima battuta l’irrogazione di una multa ed a seguire misure via via più incidenti sul-la libertà personale ma non fino alla reclusione in carcere.

5. La “stratificazione” dei diritti degli stranieri ne ll’ordinamento giuri-dico italiano

L’attuale normativa italiana in materia di condizione giuridica dello straniero

conferma come le posizioni giuridiche soggettive di cui è titolare lo straniero sono configurate con una ampiezza progressivamente crescente in dipendenza dell’appartenenza dello straniero stesso ad una delle diverse categorie, per le quali la legge prevede una posizione – progressivamente più rafforzata – di regolarità di sog-giorno nel territorio dello Stato. L’idea di base è che una certa durata delle perma-nenza rivela certamente un rapporto strutturato con il territorio ed un grado crescente di inserimento e integrazione nello Stato.

Sia le condizioni di regolarità (collocabili su un continuum che vede agli oppo-sti un rapporto meramente occasionale fino all’acquisizione della cittadinanza) che di irregolarità (che può riguardare l’ingresso o le condizioni di soggiorno o entrambe28) sono ulteriormente differenziabili con particolare rilievo nel qualificare la posizione dello straniero in relazione alla fruizione dei diritti fondamentali.

Diritti e doveri dello straniero possono, così, essere graduati secondo il seguen-te schema:

A) Alcune situazioni giuridiche soggettive sono attribuite agli stranieri pre-

senti alla frontiera o comunque presenti sul territorio, siano essi o meno in rego-la con le norme sull’ingresso e sul soggiorno

I soggetti rientranti in tale categoria godono, ex art. 2, co. 1, TU, dei diritti fon-damentali della persona umana previsti dalle norme interne, dalle convenzioni inter-nazionali e dai princìpi di diritto internazionale generalmente riconosciuti. Allo stra-niero deve applicarsi il principio di eguaglianza col cittadino previsto dall’art. 3 Cost., per quanto riguarda la titolarità dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’art. 2, Cost. (e che devono, comunque, essere assicurati allo straniero anche sulla base delle convenzioni internazionali in materia).

28 Le condizioni di regolarità sono definite sulla base della durata del visto e/o del permesso di sog-giorno e si distinguono tra soggiorni di breve durata (inferiori ai 90 giorni), permessi rinnovabili con scansioni temporali diverse (9 mesi/1 anno/2 anni). Dopo cinque anni si può acquisire (stanti certi re-quisiti) un permesso di soggiorno a tempo determinato (art. 9, TUI, permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo che ha sostituito la Carta di soggiorno che dopo sei anni consentiva il soggiorno a tempo indeterminato); dopo 10 anni maturano le condizioni per la concessione della citta-dinanza. A questo ultimo proposito, va notato che, in presenza delle condizioni che consentirebbero di accedere alla cittadinanza, non necessariamente e non sempre lo straniero vuole o può accedervi. Ne consegue che la condizione dei non cittadini stabilmente residenti conserva un suo autonomo rilievo.

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Un nucleo minimo di diritti fondamentali viene assicurato allo straniero co-munque presente sul territorio. Tra gli altri si ricordano: il diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza personale (salvo nel caso di arresto o detenzione legittima), il diritto di non essere ridotto in schiavitù o a lavori forzati o a pene, trattamenti disumani e crudeli; il diritto al rispetto della vita privata e personale (salvo le limitazioni che la legge può prevedere in virtù delle clausole di salvaguardia: sicurezza nazionale, sicu-rezza pubblica, benessere economico del paese, difesa dell’ordine, prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale); il diritto a manifestare il proprio pensie-ro; il diritto al riconoscimento della personalità o capacità giuridica; il diritto al ri-spetto del principio di legalità in materia penale (divieto di essere condannato per una azione che quando fu commessa non costituiva reato); il diritto alla libertà di riunio-ne pacifica ed alla libertà di associazione; il diritto di sposarsi e fondare una famiglia.

Di particolare rilevanza, a questo proposito, è la Convenzione sui diritti del fan-ciullo (Assemblea generale ONU 1989, ratificata dall’Italia nel 1991), con cui gli Stati membri si impegnano a garantire una completa ed effettiva protezione del mi-nore. Tale Convenzione, in particolare, prevede particolari forme di assistenza del bambino privo di famiglia ed adottabile o del minore rifugiato, riconoscendo che il minore non può essere separato dai genitori contro la sua volontà a meno che le auto-rità competenti dispongano in tal senso per il suo superiore interesse. Gli Stati con-traenti si sono impegnati a favorire il ricongiungimento familiare quando un membro della famiglia viva in uno Stato diverso da quello in cui vivono altri membri del nu-cleo familiare e a prendere tutte le misure nazionali adeguate per prevenire il rapi-mento, la vendita o il traffico di bambini con ogni fine e sotto ogni forma.

Al di là dei diritti fondamentali garantiti dalle norme costituzionali e dalle fonti internazionali, il legislatore italiano ha espressamente riconosciuto agli stranieri (an-che a quelli irregolari e clandestini) – si veda art. 2, co. 5, TUI – la parità di tratta-mento con il cittadino italiano per alcuni diritti fondamentali, nei limiti e nei modi previsti dalla legge. Trattasi, nello specifico, della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (diritto alla difesa; presunzione di non colpevolezza; diritto alla riparazione degli errori giudiziari; il diritto per lo straniero arrestato di avere la presenza di un interprete nel dibattimento e di ricevere comunicazioni scritte nella propria lingua; per lo straniero espulso il diritto di rientrare in Italia al solo fine e per il tempo necessario al dibattimento); dei rapporti con la pubblica amministrazione (estensione allo straniero delle norme vigenti in materia di procedimento amministra-tivo); dell’accesso ai pubblici servizi (riferimento assai generico che sembrerebbe al-ludere alla parità di condizioni tra cittadini e stranieri quanto all’accesso sia ai servizi di interesse economico generale, sia ai servizi sociali in senso lato).

Si tratta di un nucleo di diritti la cui effettività (specie riguardo al diritto di dife-sa ed alla libertà personale) è messa in dubbio dalla quasi totale precarietà della con-dizione giuridica soprattutto dei clandestini e degli irregolari, costantemente soggetti

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al potere discrezionale dell’amministrazione di disporne lo allontanamento, anche con la forza, dal territorio dello Stato. Siamo in presenza, dunque, di una netta distin-zione tra titolarità ed effettivo godimento rispetto, soprattutto, alle garanzie giurisdi-zionali che differenzia il maniera nettissima la condizione dello straniero rispetto a quella del cittadino. Ne costituisce un chiaro esempio la bulimia nel ricorso alla mi-sura dell’espulsione, declinata nel TUI in tutte le possibili varianti giuridiche.

In sintesi e non potendo scendere dei dettagli del diritto penale e di procedura penale, resta da dire, sulla scia di una dottrina quasi unanime, che la tutela giurisdi-zionale assicurata allo straniero irregolare o clandestino si è via via ridotta tanto da essere ritenuta «insufficiente nelle ipotesi di ricorso avverso i provvedimenti di espulsione ministeriale, di espulsione prefettizia immediata, di accompagnamento coattivo, di trattenimento» ed addirittura assente «in alcuni delicatissimi snodi ordi-namentali: l’espulsione per ragioni di contrasto al terrorismo, il respingimento diffe-rito, il respingimento in alto mare con immediato rimpatrio» (Pugiotto).

Tutto ciò premesso, resta quantomeno che allo straniero comunque presente nel territorio dello Stato sono riconosciuti alcuni fondamentali diritti sociali.

Quanto al diritto alla salute (riconosciuto dall’art. 32 Cost., come fondamenta-le diritto dell’individuo e interesse della collettività), l’art. 35, comma 3, TUI, assicu-ra ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme re-lative all’ingresso ed al soggiorno, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o co-munque essenziali, ancorché continuative, ospedaliere ed ambulatoriali per malattia e infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della sa-lute individuale e collettiva. Sono individuate alcune tipologie di prestazioni comun-que garantite: la tutela sociale della gravidanza e della maternità; la tutela della salute del minore; le vaccinazioni e la profilassi. Da notare che, nella disciplina del TUI, le prestazioni di cui sopra, sono erogate senza oneri a carico dei richiedenti qualora pri-vi di risorse economiche sufficienti. A garanzia dell’effettiva tutela della salute, l’art. 35, comma 5 TUI, dispone il divieto di segnalazione alle autorità dello straniero irre-golarmente presente sul territorio che acceda alle strutture sanitarie. Tale divieto è ora accompagnato dalla previsione dell’art. 6, comma 2 (per come modificato dalla l. n. 94/2009) che esclude espressamente la necessità di esibire il permesso di soggior-no per l’accesso alle prestazioni sanitarie urgenti ed essenziali29.

Con riguardo al fondamentale diritto all’istruzione , la disciplina del TUI con-tiene elementi particolarmente significativi di una attenzione all’effettività ed alla specificità della condizione e dei bisogni di istruzione dello straniero. L’art. 38, comma 1, TUI, si occupa del livello dell’istruzione definita dall’obbligo scolastico (attualmente esteso per almeno dieci anni) che viene ampiamente garantito ai minori 29 Nel corso dell’approvazione della l. n. 94 del 2009, invero, si era tentato di abrogare tale divieto di segnalazione poi reintrodotto nel testo definitivo anche per la significativa mobilitazione da parte di numerose associazioni e per le decise prese di posizione da parte delle federazioni dei professionisti sanitari.

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stranieri indipendentemente dal possesso di un titolo regolare di ingresso e di sog-giorno, assicurando loro l’applicazione di tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all’istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica. L’effettività di tale diritto è garantita dalla prescrizione di cui all’art. 6, comma 2 TUI che, anche dopo la sua riformulazione, esclude espressamen-te la necessità di esibire il permesso di soggiorno per l’accesso alle prestazioni scola-stiche obbligatorie (dalla scuola dell’infanzia fino al conseguimento del titolo secon-dario superiore o professionale comprensivo delle misure complementari al diritto allo studio). Altri aspetti significativi dell’effettività di tale diritto sono rinvenibili nell’art. 38, comma 2 (ove si vincolano Stato, regioni ed enti locali a garantire l’effettività con l’attivazione di corsi ed iniziative per l’apprendimento della lingua italiana, veicolo importantissimo per l’integrazione e per l’esercizio del diritto allo studio), comma 3 (che valorizza la dimensione interculturale come elemento di acco-glienza da parte della comunità scolastica), comma 7 (che prevede la formazione specifica del personale scolastico e l’adeguamento dei programmi, i criteri e le moda-lità di comunicazione con le famiglie anche con l’ausilio dei mediatori culturali, i cri-teri per l’iscrizione e l’inserimento nelle classi degli stranieri, per la ripartizione degli alunni stranieri nelle classi e per l’attivazione di specifiche attività di sostegno lin-guistico).

L’inserimento dei minori nel sistema scolastico, strumento principe ai fini di una vera integrazione, reclama tuttavia l’effettività di tutte le misure di contesto indi-viduate nel TUI ed in particolare di quelle rivolte al minore straniero. Tali misure di-pendono fortemente da flussi di finanziamento adeguati e certi che il sistema non sembra in grado di garantire. I mezzi sono deboli e largamente insufficienti. Come giustamente sostiene B. Pezzini, «non vi è alcun meccanismo di programmazione ne-cessaria, ancorché graduale o variabile nel tempi, né alcuna garanzia dell’attivazione delle attività formative così individuate, bensì solo una generica sollecitazione a promuoverle poste a carico delle istituzioni scolastiche nel quadro di una program-mazione territoriale ed anche mediante convenzioni con Regioni ed enti locali».

B) Alcuni diritti sono attribuiti soltanto agli strani eri regolarmente sog-

giornanti Rientrano in tale categoria gli stranieri titolari del permesso di soggiorno Ce per

soggiornanti di lungo periodo o di altro permesso di soggiorno e i minori stranieri di età inferiore ai 14 anni iscritti nel permesso di soggiorno o nel permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo di stranieri maggiorenni. Anche in queste ipote-si, tuttavia, l’intensità della fruizione di tutta una serie di diritti è strettamente colle-gata alla tipologia ed alla durata del permesso di soggiorno poiché, in genere, ad un maggior consolidamento della permanenza nel nostro territorio corrispondono mag-giori diritti.

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Per gli stranieri regolarmente soggiornanti con un titolo non breve (superiore cioè ai nove mesi corrispondenti alla durata del permesso di soggiorno per lavoro stagionale), nonché per i familiari a loro carico, vi è l’obbligo di iscrizione al Servi-zio Sanitario Nazionale ed in questo modo viene garantita “parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e di doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene all’obbligo contributivo, all’assistenza erogata in Italia dal servizio sanitario naziona-le e alla sua validità temporale”. Per le altre categorie di stranieri regolarmente sog-giornanti, vi è l’obbligo individuale di garantirsi una adeguata copertura del rischio, stipulando una assicurazione privata ovvero tramite l’iscrizione volontaria al SSN.

Per quanto riguarda il diritto di istruzione, i bisogni formativi degli adulti (rego-larmente soggiornanti) sono presi in considerazione prevalentemente dall’art. 38 TUI ove si prevedono: corsi di alfabetizzazione nell’ambito della scuola dell’obbligo, cor-si per il conseguimento del titolo dell’obbligo, percorsi volti ad integrare gli studi già compiuti, corsi di formazione professionale (anche in base ad accordi internazionali di collaborazione). L’art. 39 TUI è, invece, dedicato all’istruzione universitaria assi-curando, come principio base di riferimento, la parità di trattamento tra lo straniero ed il cittadino nelle condizioni di accesso e negli interventi per il diritto allo studio, sia pure nei limiti previsti dalla stessa norma. Gli stranieri regolarmente soggiornati (titolari del permesso Ce per soggiornanti di lungo periodo, per lavoro subordinato o autonomo, per motivi familiari, per asilo politico, per asilo umanitario, o per motivi religiosi ovvero regolarmente soggiornanti in Italia in possesso del titolo di scuola superiore conseguito in Italia) hanno accesso, senza limiti, all’istruzione universita-ria. Gli altri stranieri che accedono nell’ambito delle quote annue determinate dal Ministro degli affari esteri di concerto con il MIUR e del Ministero degli Interni de-vono chiedere un visto di ingresso ed un permesso di soggiorno per motivi di studio, devono dimostrare la disponibilità di mezzi sufficienti di sostentamento e devono so-stenere un tot di esami all’anno. Il TUI contiene poi tutta una serie di ulteriori dispo-sizioni tese idealmente a soddisfare le specificità dei bisogni di istruzione dello stra-niero (tutela della lingua di origine, percorsi interculturali comuni e via dicendo) il cui potenziale di effettività, ancora una volta, si scontra con la genericità delle previ-sioni relative agli strumenti, l’assenza di garanzia di programmazione ma, soprattut-to, dalla mancanza di adeguate risorse finanziarie.

Particolarmente interessante è poi la posizione del non cittadino riguardo al di-ritto sociale dell’abitazione. Innanzitutto, occorre ricordare che la disponibilità di un alloggio adeguato (ovvero rispondente ai requisiti previsti dalla legge) costituisce, per lo straniero, una condizione indispensabile ai fini dell’ingresso e della permanen-za nel territorio dello Stato. Ciò accade per i casi di ingresso prevalenti che sono quelli dei permessi di lavoro subordinato ed autonomo, per ricongiungimento fami-liare, ma anche per ottenere il permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo e per i permessi di soggiorno per cure mediche. Evidentemente, dunque, il

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bene “abitazione” è per queste categorie di stranieri prima ancora che un diritto un vero e proprio onere.

Le prestazioni in merito all’accesso ed al godimento del bene “alloggio” sono poste a carico di soggetti privati e soggetti pubblici.

Per quanto concerne i soggetti privati, ricordiamo che la configurazione del “contratto di soggiorno” (art. 5-bis TUI) ha imposto al datore di lavoro di garantire al lavoratore la disponibilità di un alloggio avente i requisiti minimi previsti dalla legge sull’edilizia residenziale pubblica. In realtà, il datore di lavoro limita la sua attività al reperimento dell’alloggio e all’eventuale anticipazione delle spese che potrà recupe-rare successivamente trattenendo dalla retribuzione fino ad un terzo dell’ammontare mensile.

A carico dei soggetti pubblici, secondo quanto stabilito dal TUI, sono poste le prestazioni concernenti l’accoglienza di primo e secondo livello30 nonché l’integrazione socio-abitativa degli stranieri (art. 40, TUI). Quest’ultima è riservata, a parità di condizioni con i cittadini italiani, ai titolari di permesso Ce per soggiornanti di lungo periodo, agli stranieri che esercitano regolare attività di lavoro subordinato ed autonomo con permesso biennale e si concretizza nell’accesso agli alloggi di edi-lizia residenziale pubblica, al credito agevolato in materia edilizia, recupero e/o ac-quisto della prima abitazione. Questa (astratta) parità di trattamento viene rinforzata dalla previsione contenuta nell’art. 43, comma 2, lett. c) TUI che qualifica come di-scriminatorio l’atto di chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggio-se o si rifiuti di fornire l’accesso all’alloggio (oltre che all’occupazione, all’istruzione, alla formazione, ai servizi sociali ed ai servizi socio-assistenziali) allo straniero regolarmente soggiornante, solo in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una certa razza, religione, etnia o nazionalità. Molte norme re-gionali e locali, specie negli ultimi anni, invece, fanno ricorso al criterio della resi-denza o addirittura prevedendo punteggi aggiuntivi ai fini della graduatoria in ragio-ne esclusivamente della cittadinanza italiana del richiedente31.

30 Per quanto riguarda la prima accoglienza, titolari del diritto sono gli stranieri regolarmente soggior-nanti per motivi diversi dal turismo, temporaneamente impossibilitati a provvedere alle proprie esi-genze abitative e di sussistenza. Tale prestazione è posta a carico delle Regioni, anche in collabora-zione con gli enti locali e le associazioni di volontariato ed ha ad oggetto la predisposizione dei Centri di accoglienza aventi la finalità di provvedere alle immediate esigenze alloggiative ed alimentari per il tempo strettamente necessario al raggiungimento dell’autonomia. Tali centri di accoglienza sono evi-dentemente diversi dai CPA (Centri di prima accoglienza per gli immigrati irregolari, l. 563/1995), dai CARA (Centri di ricovero per richiedenti asilo,d. lgs. 25/2008) e dai CIE (Centri di identificazione e di espulsione, art. 14 TUI). La seconda accoglienza è invece affidata ai comuni di maggiore insedia-mento degli stranieri (ma anche ad associazioni, fondazioni, altri enti pubblici o provati) che predi-spongono strutture alloggiative miste (pensionati) per una sistemazione dignitosi ed a prezzi calmiera-ti. Destinatari della seconda accoglienza sono gli stranieri regolarmente soggiornanti. 31 Ci si riferisce al bando del Comune di Milano per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica che il Tribunale di Milano ha annullato in quanto integrava gli estremi del comportamento discriminatorio di cui all’art. 43 TUI (Trib. Milano, 21 marzo 2002). Ma questo è solo un esempio tra i tanti.

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Infine (ma solo con riferimento ai diritti sociali più rilevanti32) per quanto ri-guarda l’area delle prestazioni di assistenza sociale, il TUI prevede l’inclusione degli stranieri nel sistema complessivo degli istituti e dei servizi garantiti ai cittadini, a partire però da una condizione di relativa stabilità, durata e regolarità del soggiorno. L’art. 41 TUI stabilisce, infatti, che le prestazioni di assistenza sociale sono attribui-te ai titolari di permesso Ce di lungo soggiorno ed ai titolari di permesso di soggiorno non inferiore ad un anno i quali sono esplicitamente equiparati ai cittadini quanto alla fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza so-ciale (incluse quelle previste per quanti siano affetti da morbo di Hansen (la lebbra) o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indi-genti).

Certamente il principio della equiparazione strettamente legata ad una ragione-vole stabilità nel rapporto con il territorio appare coerente con la necessità di preve-dere quanti saranno i potenziali fruitori delle prestazioni sociali ed in base all’affermazione contenuta nel citato art. 41, tale principio, dovrebbe essere conside-rato come una sorta di punto fermo dello statuto giuridico dello straniero in tale ma-teria. La legislazione successiva, pur mantenendo formalmente invariato il tenore dell’art. 41 TUI, ha invece peggiorato incrementalmente le condizioni degli stranieri nell’accesso alle prestazioni sociali. Qualche esempio concreto potrà ritornarci utile. La legge finanziaria del 2001 (l. 388/2000) dispone che “l’assegno sociale e le prov-videnze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione in materia di servizi sociali” richiedono la carta di soggiorno (ora permesso Ce di lunga durata). La legge 133/2008 esclude direttamente i non cittadini dalla social card e prevede il requisito della residenza continuativa di 10 anni per il c.d. piano casa. Dal 1° gennaio del 2009, poi, fruisce dell’assegno sociale chi abbia soggiornato legal-mente, in via continuativa e per almeno dieci anni, nel territorio nazionale. Sempre nel 2009 sono stati stanziati due milioni di euro per il rimborso delle spese sostenute dalle famiglie a basso reddito per acquistare pannolini e latte artificiale per i neonati, fino a tre mesi, ma di cittadinanza italiana.

Per quanto riguarda l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, l’assicurazione per malattia e per maternità ed il diritto per le detrazio-ni per i figli a carico, residenti in Italia o nel paese di provenienza, non si riscontrano problemi rilevanti. Da ricordare che, invece, i lavoratori stagionali sono esclusi da qualunque prestazione di disoccupazione e dagli assegni per il nucleo familiare in quanto il relativo obbligo contributivo da parte del datore di lavoro è stato convertito in un contributo che viene destinato agli interventi di carattere socio-assistenziale a favore dei lavoratori di cui all’art. 45 TUI (Fondo nazionale per le politiche migrato-rie).

32 La spinosa tematica relativa al diritto all’unità familiare costituirà oggetto di una analisi più appro-fondita nella terza dispensa.

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Infine, qualche cenno in ordine ad un argomento già trattato nel corso della

prima dispensa ma che richiede un surplus di attenzione. Lo straniero regolarmente soggiornante ha il diritto di iscriversi nelle liste anagrafiche del comune di residenza e l’art. 2, co. 4 TU prevede che lo straniero regolarmente soggiornante possa parteci-pare alla vita pubblica locale. Si tratta, evidentemente, dell’attuazione della Con-venzione di Strasburgo (meglio, dei primi dei suoi primi due Capitoli). su cui pare necessario un ulteriore approfondimento anche per capire cosa debba intendersi per “partecipazione alla vita pubblica locale” in assenza del riconoscimento del diritto di voto.

Ma quali sono le effettive possibilità di partecipare alla vita pubblica locale di cui dispone lo straniero?

Innanzitutto, lo straniero partecipa alla vita pubblica, potendo indirettamente in-fluire sull’opinione pubblica a livello locale e nazionale, allorché esercita liberamen-te i diritti fondamentali di cui abbiamo già parlato (diritto di manifestare il proprio pensiero, di costituire e partecipare ad associazioni formate anche da italiani33, di co-stituire sindacati o di associarsi ad essi). In secondo luogo, lo straniero partecipa alla vita pubblica locale allorquando, direttamente o indirettamente, partecipa alla forma-zione o all’attività di organi di rappresentanza degli stranieri, aventi natura consulti-va, e che sono individuati dalle norme dello Stato o delle Regioni o dalle norme sta-tutarie o regolamentari approvate discrezionalmente dagli enti locali. In particolare, sono proprio gli enti locali la dimensione territoriale più a diretto contatto con le esi-genze della popolazione costituendo, dunque, il livello istituzionale più idoneo ad elaborare forme di intervento per il loro soddisfacimento. Non è casuale, in tal senso, che le amministrazioni comunali assolvano, in generale, un ruolo centrale nella ero-gazione dei servizi sociali e siano gli artefici principali delle politiche di accoglienza. Ad essi è, sostanzialmente, attribuito il compito di elaborare percorsi di integrazione delle comunità immigrate e la competenza a promuovere forme di partecipazione po-polari, che coinvolgano, oltre ai cittadini, anche gli stranieri regolarmente soggior-nanti nel loro territorio. Ancor prima della promulgazione del D.Lgs. n. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali) che ha accentuato i compiti di integrazione sociale affidati ai comuni, le amministrazioni locali, facendo riferimento a quanto previsto dalla l. 142/90, hanno favorito forme di partecipazione politica delle comunità immi-grate. Molti Consigli comunali, grazie all’autonomia statutaria loro riconosciuta dalla legge 142/90, hanno proceduto alla istituzione di Consulte di immigrati (organismi composti dai membri rappresentativi delle diverse comunità di stranieri ma che non può incidere direttamente sulle dinamiche interne al Consiglio comunale) e/o affian-cato al Consiglio comunale la figura del Consigliere comunale aggiunto (che affian-

33 Peraltro, il legislatore del 1998 ha previsto una serie di agevolazioni per la vita di queste associazio-ni (art. 42 TU – Misure di integrazione sociale – ).

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ca il Consiglio comunale nelle funzioni concernenti l’accoglienza degli stranieri). Ta-li forme di partecipazione politica in quanto limitate ad un livello meramente consul-tivo, nella gran parte dei casi, non hanno conseguito i risultati sperati così sollecitan-do i livelli di governo locale a riflettere sulla possibilità di individuare forme di par-tecipazione attiva. Il nuovo Testo Unico del 2000 (d. lgs. 267/2000) ha investito i Comuni del compito di specificare le forme di garanzia e di partecipazione delle mi-noranze (art. 6) ed allo Statuto è rimandata non solo la funzione di promuovere (co-me in passato) organismi di partecipazione popolare all’amministrazione locale, ma, più in particolare il compito di favorire forme di partecipazione alla vita pubblica lo-cale dei cittadini dell’Unione Europea e degli stranieri regolarmente soggiornanti, sulla base dei princìpi di cui alla legge 203/1994 (di ratifica della Convenzione di Strasburgo) e del d. lgs. 286/98 (art. 8, d. lgs. 267/2000).

In particolare, lo Statuto di ogni Comune deve prevedere forme di consultazio-ne della popolazione (art. 8, comma 3) e poiché per popolazione deve intendersi l’insieme delle persone legalmente residenti ed iscritte nelle liste anagrafiche del Comune di residenza, cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti devono inten-dersi equiparati all’accesso a tali generiche forme di consultazione (pubbliche as-semblee aventi ad oggetto un determinato tema di interesse collettivo, raccolta di opinioni su questionari, audizioni).