il disturbo da stress post-traumatico negli operatori
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ASSOCIAZIONE ITALIANA PSICOLOGIA GIURIDICA
Corso di formazione
PSICOLOGIA GIURIDICA, PSICOPATOLOGIA E PSICODIAGNOSTICA FORENSE
Il Disturbo da stress post-traumatico negli operatori
esposti a situazioni critiche.
Valutazione del danno alla persona
A cura di Marco Tineri
Anno, 2014-2015
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INDICE
Capitolo Primo
IL DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO, EVOLUZIONE E
DEFINIZIONE
1. Storia evolutiva del Disturbo da stress post-traumatico (DPTS)……………….. 3
2. Il trauma……………………………………………………………………………… 7
3. Il Disturbo da stress post traumatico…………...…………………………………. 13
Capitolo Secondo
EVENTO TRAUMATICO E DANNO
1. Rapporto tra operatori esposti a situazioni critiche e DPTS…………………… 18
2. Quantificazione del danno………………………………………………………… 19
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE……………………………………………...… 23
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Capitolo Primo
IL DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO, EVOLUZIONE E
DEFINIZIONE
All’interno del capitolo si desidera affrontare il disturbo da stress post traumatico a
partire dalla sua storia scegliendo di approfondire il concetto di trauma per poi concludere
con la definizione dello stesso. Aver strutturato il capitolo secondo questi punti permette di
accedere alla seconda parte in cui si entrerà nello specifico del danno alla persona che
opera in contesti critici e alla sua valutazione.
1. Storia evolutiva del Disturbo da stress post-traumatico (DPTS)
Obiettivo del capitolo è quello di offrire una chiave di lettura del trauma
psicologico e del disturbo da stress post traumatico.
Parlando di trauma psicologico è implicito il riferimento a due parole di origine
greca, ovvero psiche (anima) e trauma (ferita). il trauma è a tutti gli effetti una vera e
propria “ferita dell’anima”, fatta di sconvolgenti stratificazioni di dolore, in grado di
lacerare il senso del Sé del soggetto.
La letteratura e la mitologia forniscono una ricca mole di riferimenti rispetto a
questa tematica e alle conseguenze dirette e indirette del confronto con esperienze di vita
stravolgenti. Si possono ritrovare descrizioni di esperienze di spavento e sogni traumatici
già nei racconti dell’Iliade di Omero; Ippocrate narra gli incubi provocati nel sonno
dall’essere impegnati in azioni di lotta durante il giorno, e anche Lucrezio dedica
all’argomento diverse pagine nel suo De rerum natura (Crocq, 2012).
Nel 1888 il neurologo Oppenheim utilizzò il termine di nevrosi traumatica, per
spiegare una serie di reazioni psicologiche e fisiche quali paralisi e amnesie, in relazione ai
numerosi incidenti ferroviari che si verificavano a quell’epoca contraddistinti dall’avvento
dei trasporti di massa. Nacque cosi il concetto di “railway spine” (Erichsen , 1866), ovvero
lesioni spinali ferroviarie.
All’incirca nello stesso periodo, tuttavia, il neurologo francese Charcot non
concordò con il termine di nevrosi traumatica, sostenendo che la “railway spine” era in
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realtà solo isteria. Lavorando con giovani donne affette da isteria, Charcot dimostrò che
tali pazienti non sviluppavano i sintomi come conseguenze fisiche legate al trauma, ma a
causa dell’idea che avevano di esso. In altri termini, sarebbe la memoria repressa
dell’evento traumatico a causare la paralisi elicitandosi sotto forma di sintomi, in quanto
troppo dolorosa per essere riconosciuta.
Sarà sulla base di questi studi che Freud svilupperà le sue teorie sul trauma
concependone due diverse visioni, connesse a diverse fasi del suo pensiero. Il primo
modello di trauma in Freud (1895) è in linea con le ipotesi di Charcot e compare negli
Studi sull’isteria, in cui ipotizza l’origine traumatica in un evento realmente accaduto,
riconducibile ad abusi sessuali databili nella lontana infanzia. Secondo questa visione, la
mente verrebbe sopraffatta dalla percezione dell’evento non al momento stesso ma
successivamente, quando è rivissuto come ricordo. Il trauma, quindi, sarebbe determinato
dalla rottura di quella barriera protettiva predisposta, di norma, a respingere efficacemente
gli stimoli dannosi e come risultato vi sarebbe l’attivazione di misure difensive (rimozione)
miranti proprio a evitare il ricordo doloroso. Il sintomo isterico è quindi il risultato dei
ricordi rimossi.
“noi consideriamo i sintomi isterici come effetti e
residui di eccitamenti che hanno agito sul sistema nervoso
come traumi. Tali residui non permangono quando
l’eccitamento originario è stato scaricato mediante
abreazione o lavoro mentale. Non si può qui non tener conto
di un fattore quantitativo (anche se non misurabile),
concependo il processo come se una somma di eccitamento
interessante il sistema nervoso si trasformasse in sintomi
permanenti, nella misura in cui non è stata impiegata per
l’azione verso l’esterno. Siamo però abituati a trovare
nell’isteria che una parte rilevante della somma di
eccitamento del trauma si trasforma in sintomi puramente
somatici.” (Freud, 1895, 84).
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L’idea di una realtà traumatica verrà abbandonata da Freud nella seconda fase del
suo pensiero quando rimaneggiò la sua teoria sul trauma in modo da adattarla alla sua
nuova visione della mente tripartita (modello strutturale). La teoria del trauma sessuale
viene sostituita dalla teoria del conflitto, mentre l’evento esterno diventa meno rilevante.
Più che una situazione traumatica realmente vissuta ed esperita dal soggetto, l’autore
sostiene che alla base del trauma vi sarebbe una fissazione su un evento traumatico del
passato, per il quale il soggetto realizza una regressione psicologica.
Sulla base di queste intuizioni, si sono sviluppati, e ancora mai arrestati, studi e
ricerche, ciò ha comportato la nascita di uno specifico approccio: la psicotraumatologia.
Vengono studiate le conseguenze psichiche di eventi di intensità straordinaria, Janet
(1909) propone una chiara definizione del concetto di trauma psicologico. La stimolazione
emotiva estrema, produrrebbe un’incapacità ad assimilare e integrare i ricordi traumatici
che vengono quindi dissociati dallo stato cosciente; le tracce mnemoniche del trauma
rimangono latenti sotto forma di idee fisse che interferiscono con le capacità personali del
soggetto e non possono essere abbandonate fin quando non vengono trasformate in una
narrazione personale.
Negli anni successivi alla morte di Freud, alla prospettiva pulsionale freudiana si
andrà aggiungendo un riferimento costante al campo relazionale che attribuirà un
particolare valore traumatico alle forme precoci di perdita o agli assetti patologici e
fallimentari nella cura del bambino (Lingiardi, 2004). Greenberg e Mitchell (1986)
sostengono che:
“per i teorici del modello pulsionale è proprio il concetto di
pulsione che spiega l’intenso attaccamento agli altri […]. Nel
modello relazionale, la pura ricerca del piacere e la rabbia pura
non sono considerate come forze primarie, che acquistano forma
e oggetto solo in un secondo momento, ma come reazioni ai
fallimenti oggettuali”.
In modi diversi furono gli psicoanalisti Ferenczi, Winnicott e Bowlby, per citarne
alcuni tra i più rappresentativi, a spostare l’attenzione dal singolo evento traumatico alla
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comprensione delle esperienze traumatiche in relazione ai primi rapporti oggettuali.
Ferenczi (1932) considerò il trauma come il risultato di ricorsive esperienze di non curanza
vissute dal bambino nel proprio ambiente familiare; Winnicott (1958) lo riporta a una
carenza ambientale da parte dei caregiver incapaci di holding; Bowlby (1969) con la teoria
dell’attaccamento sottolinea l’importanza del sentimento di sicurezza e protezione dal
pericolo trasmesso da un legame di attaccamento sicuro (Zennaro, 2011). In questo senso,
risultano importanti anche gli studi di Stern (2009) che individua l’origine del trauma nelle
interazioni reali in cui vi è un fallimento della sintonizzazione affettiva del sistema
caregiver-bambino, ossia di quella “danza emotiva” che crea il vissuto di intimità,
sicurezza, calore e comprensione.
Sarà durante la prima Guerra Mondiale, studiando le reazioni dei soldati di leva,
che si fecero enormi passi avanti nella comprensione degli effetti degli stress traumatici.
Shell shock o Shock da granata erano i termini utilizzati dalla comunità psichiatrica per
definire le nevrosi traumatiche. Tuttavia, proprio in questo momento, nonostante
l’evidenza schiacciante delle conseguenze traumatiche tra i combattenti, a causa di fattori
di natura politica, vi sarà un progressivo decadimento dell’interesse per i traumi psicologici
e un’unanime sottovalutazione del momento traumatico.
Comunque gli orrori e le conseguenze emotive del secondo conflitto Mondiale
finirono per costringere psichiatri e psicologi, e le autorità militari e civili, ad occuparsi
delle esperienze traumatiche tanto che sarà proprio in questo momento che nasceranno le
più recenti teorie sul trauma.
Kardiner, in collaborazione con Spiegel, nel lavoro pubblicato nel 1947 intitolato
War, Stress and Neurosis, riprendendo le idee sul trauma di Janet, gettò le basi per le
moderne categorie diagnostiche dei disturbi post-traumatici e indicò le prime linee guida
per la loro terapia (Liotti – Farina, 2011).
Solo dalla tragedia della guerra nel Vietnam i disturbi post traumatici ottennero il
pieno riconoscimento da parte della comunità scientifica. Il numero sempre maggiore di
veterani di guerra che al ritorno presentavano disturbi psicosomatici e difficoltà di
reinserimento nella vita sociale costrinse, infatti, a riconoscere non soltanto gli effetti a
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breve termine dell’esposizione agli orrori della guerra, ma anche le conseguenze a lungo
termine sulla personalità e l’adattamento.
Solo nel 1983 nella terza edizione del DSM, l’American Psychiatric Association
(APA) introdurrà la diagnosi di Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS).
2. Il trauma
I traumi non sono tutti uguali, ne tantomeno uguali per tutti (Hughes – Shin, 2011).
Nonostante la ricerca e i notevoli progressi nell’ambito della psicotraumatologia dai primi
del 900 a oggi, la comprensione del concetto di trauma è comunque ancora in divenire. La
definizione stessa di che cosa considerare traumatico risulta di difficile individuazione,
probabilmente anche dal suo essere stato mutuato dall’ambito medico, in cui l’organo
traumatizzato è quello che riporta una lesione a opera di un agente esterno, che ne inficia il
normale funzionamento (Zennaro, 2011).
La trasposizione in ambito psicologico, tuttavia, ha indotto a considerare un grado
di soggettività insito nell’esperienza traumatica che rende necessario tener conto delle
risposte individuali, del grado di vulnerabilità e di resilienza dell’individuo, per cui un
qualsivoglia evento può rivelarsi disturbante nel vissuto di una persona, mentre essere
innocuo per altre persone. Con ciò si vuole porre l’attenzione all’importanza del vissuto
soggettivo dell’esperienza nel determinare gli esisti futuri.
Esiste a tal proposito un dibattito storico tra chi accentua il ruolo giocato dagli
eventi della realtà esterna e chi enfatizza quello svolto da uno specifico assetto
intrapsichico (Lingiardi, 2004). Gli attuali modelli multifattoriali non attribuiscono valore
solo all’aspetto soggettivo o alle caratteristiche dell’evento, ma spiegano la risposta post-
traumatica considerando molteplici fattori tra cui il tipo di evento stressante, le variabili
della vittima, la risposta soggettiva all’evento e la presenza di supporto e risorse sociali.
Herman (2005, 51) lo descrive come “il dolore degli impotenti. Nel momento del
trauma la vittima è resa inerme da una forza soverchiante”. In questa definizione
l’elemento di percepita impotenza appare di cruciale importanza, poiché maggiore sarà il
sentimento di vulnerabilità percepita, maggiore sarà la portata traumatica del vissuto.
Zennaro (2011, 347) la definisce come un’esperienza che “si colloca nell’extra-ordinario,
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poiché con essa vengono meno i cardini comuni dell’esistenza, minacciando lo sviluppo e
l’assetto della personalità”. In questo caso, invece, si mette in rilievo come nella
situazione traumatica ad essere minacciato e sfidato non è solo il Sé, ma l’intera teoria del
mondo del soggetto. Questa necessita di essere rielaborata e ripensata nelle sue assunzioni
fondamentali affinché l’esperienza possa integrarsi nella propria costruzione autobiografica.
Molto esaustiva è anche la spiegazione del termine proposta da Giannantonio
(2009) che spiega il trauma come un’esperienza di particolare gravità che compromette il
senso di stabilità, continuità fisica e psichica di una persona.
Ulteriore aspetto interessante su cui riflettere è se considerare traumatico un evento
esterno violento, unico e tale da costituirsi in sé quale agente patogeno o piuttosto un
insieme di traumi parziali, che si accumulano silenziosamente nel corso del processo di
sviluppo e sono in grado di esercitare il loro effetto per via di sommazione. A tal proposito
Khan (1963) parla di “trauma cumulativo” riferendosi alle varie tensioni provate dal
bambino nel contesto di dipendenza del suo Io dalla madre, eventi o situazioni non
eclatanti, che potrebbero però aumentare la possibilità che il bambino sperimenti shock
traumatici nelle sue varie esperienze se vengono considerati retrospettivamente.
In accordo con quest’ultima definizione è stato proposto il concetto di microtrauma,
ossia tutte quelle situazioni soggettivamente dolorose ma che di per se nella maggior parte
dei casi non producono un trauma; traumatica potrebbe essere la costanza con cui
silenziosamente tali eventi si accumulano nel tempo per poi esplodere in una dimensione
traumatica estrema.
La parola “trauma” deriva dal greco τραυμα (perforare, danneggiare, ledere,
rovinare) e contiene il duplice riferimento a una ferita con lacerazione e agli effetti
dell’urto di uno shock violento sull’insieme dell’organismo. Ampiamente diffuso
nell’ambito delle discipline medico-chirurgiche durante il XVIII secolo, il termine è stato
adottato anche in Psichiatria e Psicologia clinica e indica la sopraffazione del soggetto da
parte di uno stimolo eccessivo che lo rende privo di difese e incapace di reagire (Van der
Kolk, 2004).
Il soggetto traumatizzato percepisce emozioni tumultuose e incontrollabili, quasi
sempre negative e dolorose, senso di disorientamento e perdita di controllo cui spesso
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segue una risposta istintiva che si concretizza con condotte disfunzionali come, ad esempio,
comportamenti di evitamento e fuga. Sono conseguenze che possono risolversi
autonomamente nel breve periodo, oppure scomparire in modo apparente continuando a
interferire nel comportamento e nella personalità dell’individuo; nei casi peggiori possono
diventare una fonte permanente di sofferenza e sintomatologia disfunzionale descritta dalla
categoria diagnostica del Disturbo da Stress Post-Traumatico o PTSD (APA, 2014).
Dal punto di vista psichico la forza traumatizzante di un’esperienza può essere
valutata solo tenendo conto di un insieme di variabili che comprende l’ampiezza,
l’intensità e la precocità del trauma, le caratteristiche temperamentali dell’individuo, la
personalità, le caratteristiche dello stile di attaccamento, gli aspetti di vulnerabilità e
resilienza e, infine, le capacità di contenimento e di elaborazione della rete di relazioni
affettive e sociali. La risposta al trauma è caratterizzata da una estrema variabilità
soggettiva e intrasoggettiva nelle diverse fasi di vita e modulata dalle competenze
mentalizzanti del soggetto.
Il concetto di trauma è considerato un’entità complessa e multifattoriale la cui
definizione è ancora in divenire e, appunto per questo, alcuni aspetti sollecitano e
attendono approfondimenti. Una delle problematiche aperte riguarda la relazione tra
esperienza traumatica ed esperienza stressante: il termine “evento stressante” o “stressor” è
generalmente utilizzato per indicare la proprietà dell’evento di provocare nell’individuo
una risposta sia biologica che comportamentale finalizzata a ristabilire l’omeostasi.
Un approccio basato sul senso comune ha spesso condotto a considerare il trauma
come estrema espressione di un evento stressante, ponendo quindi su un continum di
gravità questi due tipi di esperienze (Bellani, 2002). In realtà nella descrizione del PTSD
gli eventi traumatici sono stati distinti da quelli genericamente “stressanti”: la definizione
di trauma più recente riportata dal DSM 5 (2014) sostiene che per ravvedere l’esposizione
a un evento potenzialmente traumatico deve essere rispettata la presenza di almeno uno dei
seguenti scenari:
- essere vittime in prima persona dell’evento traumatico di morte, minaccia di
morte o gravi lesioni;
- essere testimoni diretti dell’evento di morte, lesioni gravi;
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- indirettamente, scoprire che un parente o un amico è stato esposto a un trauma
(con esplicito riferimento al trauma inteso come violento o accidentale);
- esposizione continuativa o estrema a scenari traumatizzanti (con riferimento alle
circostanze di esposizione professionale in cui i first responder sono in prima linea in
situazioni di emergenza).
Nella letteratura c’è consenso sul fatto che gli eventi traumatici sono tanto potenti
da influenzare il sistema protettivo della persona: un evento che esula dall’ambito delle
esperienze abituali, mette in discussione le capacità di fronteggiamento ed è
potenzialmente in grado di sopraffare meccanismi psicologici abituali di una persona (Jeff
Mitchell).
Gli elementi traumatogeni dello stress, cioè la sua indesiderabilità, intensità,
imprevedibilità, incontrollabilità e inevitabilità, possono continuare ad agire dopo l’evento
(Shalev, 2000) con un impatto di diverso grado su emozioni, pensieri, comportamenti,
relazioni sociali e percezione del sé.
Il Trauma Complesso riguarda l’esposizione a eventi traumatici multipli,
sequenziali, simultanei o prolungati spesso nell’ambito di relazioni interpersonali come ad
esempio nei casi di violenza domestica mettendo la persona in grave rischio per la sua
salute mentale (Van der Kolk , 2009).
Nei bambini il Trauma Complesso comprende le esperienze continue di abuso e/o
maltrattamento, spesso in contesti pericolosi.
Il Trauma Complesso è considerato come l’alterazione della struttura di base del Sé,
dell’attaccamento, del sistema relazionale (ad esempio con la famiglia) e del rapporto con
la comunità più ampia.
La Ritraumatizzazione avviene quando il racconto di un’esperienza traumatica da
parte della vittima seguono reazioni di incredulità, minimizzazione e pressione affinchè
venga mantenuto in segreto e si possa andare avanti nella vita come se niente fosse
successo. Alcuni tipi di esperienze traumatiche come lo stupro, l’abuso sessuale infantile
sono molto sensibili alla ritraumatizzazione. Gli psicoterapeuti in formazione sono stati
informati che l’uso di strategie di intervento che richiedono la rivisitazione dell’esperienza
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traumatica (come nelle terapie di esposizione) possono avere degli effetti negativi di
ritraumatizzazione.
La ritraumatizzazione viene considerata raramente come un problema nel
trattamento (Karlin, 2010).
I professionisti che lavorano con le persone traumatizzate in maniera aperta,
impegnata, empatica e che sentono la responsabilità o l’impegno ad aiutare i loro pazienti,
sono vulnerabili a sviluppare un trauma vicario. Ciò significa che saranno influenzati dalla
loro attività, dato che lavorare sul trauma può essere sì molto importante e gratificante ma
può anche essere tanto difficile e doloroso.
Il trauma vicario può essere la risposta al lavorare con molti sopravvissuti nel corso
del tempo. I segni e sintomi del trauma indiretto assomigliano a quelli del trauma diretto.
Gli operatori possono subire immagini e pensieri intrusivi, allerta, evitamento ed
ansietà. Possono anche sviluppare cambiamenti repentini nelle modalità delle loro relazioni
professionali e personali, difficoltà nel regolare le loro emozioni. Possono diventare
disperati o depressi, avere incubi o difficoltà a dormire, mangiare troppo, abusare di alcool,
e così via.
Chi può soffrire di trauma vicario ? Chiunque incontri superstiti di traumi e si
impegni ad aiutarli può essere affetto da trauma indiretto o vicario. Tra i professionisti che
potrebbero esserne interessati troviamo psicoterapeuti, personale che lavora coi rifugiati,
avvocati, operatori sanitari, clero, giornalisti, ricercatori sul trauma e tutti gli operatori –
professionisti o volontari – che si trovano ad intervenire in situazioni traumatiche.
C’è stato un grande riconoscimento della traumatizzazione secondario sul giornale
Traumatology con una pubblicazione del Dicembre 2011.
È importante tener presente gli aspetti di gruppo inerenti al trauma. I concetti che
seguono sono utilizzati per descrivere l’esposizione ad uno stesso evento stressante da
parte di un gruppo che condivide una caratteristica o un’affiliazione, come religione,
razza/etnia, professione, orientamento sessuale o lo stesso luogo di abitazione (Wieling –
Mittal, 2008).
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Il gruppo prova una ferita emotiva e psicologica durante il corso della vita,
proveniente da massicce esperienze di trauma che attraversa generazioni, mediante il
processo di transposizione.
Erickson (1976) definisce il trauma collettivo come “un insulto al tessuto
fondamentale della vita sociale tale da danneggiare i legami che tengono insieme le
persone e da compromettere il senso di comunità prevalente”.
Berger (2015) parla del trauma collettivo come di una rilevante esperienza di
trauma vissuta simultaneamente da un numero consistente di persone durante un evento
isolato oppure in circostanze vissute per decenni, come l’esposizione a guerre civili e
conflitti armati. Questo tipo di trauma è considerato come il più minaccioso e che dura più
a lungo nella memoria collettiva o nel subconscio (Sztompka, 2000).
Esempi di questo tipo di trauma includono le maggiori riforme politiche (come la
recente rivoluzione nel mondo arabo), guerra e terrorismo; genocidio, pulizia etnica o
persecuzione di una religione indigena (come la distruzione dell’impero Azteco
dall’invasione spagnola), un disastro naturale o commesso dall’uomo come la catastrofe
atomica a Chernobyl e Fukushima), un terremoto, uno tsunami o una carestia.
Il trauma diviene parte della storia collettiva e porta dei cambiamenti nell’identità
collettiva.
Il disastro comunitario è un concetto specifico che esclude cronici rischi ambientali,
violenza politica e comunitaria in corso, guerra e epidemie e si focalizza invece su eventi
acuti, delimitati nel tempo e la cui causa è attribuita alla natura tecnologia o all’uomo.
Un esempio di disastro comunitario fu la rottura della diga in New Orleans ad
agosto 2005, il cui evento fu improvviso, non prevedibile e colpì numerosi individui e
famiglie di diversi quartieri e comunità.
Tuttavia, la mancanza di lavoro e occupazione, alloggi, sicurezza che seguirono
portò lo sviluppo di un evento stressante cronico.
Il Trauma Culturale è definito da incidenti perpetrati da una sorgente esterne che
intende danneggiare un gruppo, come ad esempio l’asservimento degli africani, la
colonizzazione e distruzione delle nazioni indigeni in Sud America dagli spagnoli,
l’esecuzione degli ebrei durante l’olocausto.
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3. Il Disturbo da stress post-traumatico
Il DPTS all’interno del DSM 5 (APA, 2014) è collocato nella sezione II “disturbi
correlati a eventi traumatici e stressanti”. Sono elencati differenti criteri con specifiche
caratteristiche sia per gli adulti che per minori al di sotto dei 6 anni d’età. “la caratteristica
essenziale del DSPT è lo sviluppo di sintomi tipici che seguono l’esposizione a uno o più
eventi traumatici” (APA, 2014). Nello specifico si mette in risalto specifiche caratteristiche
diagnostiche:
- esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione oppure
violenza sessuale. Facendo un’esperienza diretta dell’evento traumatico, assistere
direttamente all’evento traumatico accaduto ad altri, venire a conoscenza di un evento
traumatico accaduto a un membro della famiglia oppure a un amico stretto, fare esperienza
di una ripetuta o estrema esposizione a dettagli crudi dell’evento traumatico;
- sintomi intrusivi associati all’evento traumatico. Ricorrenti, involontari e
spiacevoli ricordi dell’evento traumatico, ricorrenti sogni spiacevoli (a volte caratterizzati
da sgradite emozioni) collegati all’evento traumatico, reazioni dissociative in cui la
persona sente o agisce come se l’evento traumatico si tesse verificando in quell’istante,
intensa sofferenza psicologica e/o marcare reazioni fisiologiche all’esposizione a fattori
scatenanti interni o esterni che ricordano l’evento traumatico;
- evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico.
Tentativo di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti legati all’evento traumatico,
tentare di evitare persone, luoghi o argomenti che suscitano ricordi legati all’evento
traumatico;
- alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico.
Incapacità di ricordare qualche aspetto importante legato all’evento traumatico, persistenti
cognizioni negative legate alla propria persona, persistente stato emotivo negativo,
incapacità nel provare emozioni positive;
- marcate alterazioni dell’arousal associate all’evento traumatico. Esplosioni
di rabbia, comportamento spericolato o autodistruttivo, ipervigilanza, problemi di
concentrazione, difficoltà relative al sonno.
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Vengono chiariti anche lo sviluppo e il decorso. Si specifica come il DPTS si possa
manifestare a qualsiasi età e la relativa predominanza dei sintomi possa variare nel tempo.
Varia anche la durata dei sintomi, alcuni individui continuano a mostrare i sintomi (che
prevedono un recupero completo entro 3 mesi) per più di 12 mesi e a volte per più di 50
anni. I fattori di rischio individuati sono, a loro volta, suddivisi in tre fattori: pretraumatici,
peritraumatici e post-traumatici. Nell’insieme comprendono i problemi emotivi
dell’infanzia prima dei 6 anni, un basso status socioeconomico, basso status di istruzione
esposizione a un precedente trauma, storia di disturbi psichiatrici in famiglia, la gravità del
trauma, le strategie di coping inadeguate e la successiva esposizione ad altri traumi.
Il DPTS è la forma di disagio mentale che si manifesta in seguito all'esposizione ad
eventi ed esperienze di tipo traumatico come attacchi terroristici, guerre, bombardamenti,
incidenti aerei, stermini di massa, ma anche terremoti, inondazioni, lutti traumatici ed altri
tragici eventi, con un coinvolgimento della persona più o meno diretto (Pietrantoni-Prati,
2009; Farina-Liotti, 2011).
Tra i segni distintivi di una avvenuta traumatizzazione troviamo la disregolazione
degli stati di arousal di tipo fisiologico, emotivo e comportamentale; di conseguenza
individui con DPTS, o altri disturbi legati ad eventi traumatici, sono particolarmente
vulnerabili a stati di iper e/o ipoarousal (Siegel, 2001).
Per arousal si intende la possibilità e le modalità dell'organismo di essere reattivo
rispetto a stimoli di diversa natura, determinando la modificazione di alcuni parametri
come la frequenza cardiaca, il ritmo respiratorio, la vasodilatazione etc.
Nel caso di iper-arousal si è davanti ad uno stato di iper-vigilanza, di tensione
continua, ed i principali comportamenti sono quelli di attacco/fuga o di evitamento attivo.
La risposta eccessiva agli stimoli non permette un'elaborazione efficace dell'informazione
e ciò che caratterizza questo stato sono immagini, sentimenti e sensazioni corporee
intrusive.
Nel caso dell'ipo-arousal, o stato di accasciamento, le caratteristiche predominanti
sono la sensazione di insensibilità, di torpore, di passività o di immobilità. Il paziente può
sentirsi tormentato da questa condizione di scarsità di emozioni e di distacco (Siegel, 2001).
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Gli stati di disregolazione (iper- o ipo- arousal) ostacolano l'elaborazione del
trauma e ne favoriscono la ricorrenza traumatica e/o ne diventano l'epifenomeno
psicofisiologico; in genere, gli individui che presentano disturbi legati ad un trauma
oscillano tra i due estremi.
Dal punto di vista neurobiologico i centri implicati nell'arousal sono collocati nel
tronco encefalico, precisamente nella parte che, secondo la visione del cervello trino, viene
definita protorettiliana, deputata alle reazioni più viscerali di conservazione e
sopravvivenza (MacLean, 1984.).
Secondo Siegel (2001), gli stati di arousal possono essere resi graficamente (Figura
1), è possibile notare che tra i due stati di disregolazione vi è una zona di arousal ottimale,
definita "finestra di tolleranza".
L'ampiezza della finestra di tolleranza è direttamente collegata alla quantità di
stimolazione necessaria per ottenere la "soglia di reazione". Con una bassa soglia è
sufficiente un input molto piccolo per attivare il sistema nervoso di un individuo, viceversa
con una soglia elevata si necessita di un input maggiore.
Per un funzionamento ottimale, la soglia dovrebbe essere abbastanza alta da
permettere di tollerare la complessità e la stimolazione insite nell'ambiente, ma anche
sufficientemente bassa da far percepire i cambiamenti più fini e le novità presenti
nell'ambiente (Ogden, 2006).
Figura 1, La finestra di tolleranza da Siegel,2001
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Un altro concetto chiave per la comprensione dei processi di traumatizzazione è la
dissociazione.
La dissociazione può avere vari significati: può denotare un processo, un
meccanismo di difesa, una struttura intrapsichica, un deficit o una vasta gamma di sintomi
(Farina-Liotti, 2011).
La relazione tra trauma e dissociazione è caratterizzata, non solo dall'evidenza
epidemiologica del rapporto causale tra sviluppo traumatico e sintomi dissociativi, ma
anche dal meccanismo patogenetico del trauma. "Il trauma attiva arcaici meccanismi di
difesa dalle minacce ambientali (es. freezing, reazioni di attacco-fuga), che provocano il
distacco dall'usuale esperienza di sé e dal mondo esterno, con conseguenti sintomi
dissociativi. Questo distacco implica una brusca sospensione nell'esercizio delle normali
capacità di riflessione e mentalizzazione, è quindi un ostacolo all'integrazione dell'evento
traumatico nella continuità della vita psichica. Da tale dis-integrazione delle memorie
traumatiche, rispetto al flusso continuo dell'autocoscienza e della costruzione di significati,
deriva la frammentizzazione delle rappresentazioni di sé che caratterizza la dissociazione
patologica" (Liotti-Farina, 2011).
La dissociazione strutturale legata ai traumi può essere quindi definita come un
deficit nella coesione e nella flessibilità della struttura di personalità (Resch, 2004): "La
mancanza di coesione ed integrazione della personalità si manifesta molto chiaramente
nell'alternanza e nella coesistenza tra - due aspetti - il riesperire gli eventi traumatizzanti e
l'evitare i ricordi dell'esperienza traumatizzate, focalizzandosi sul funzionamento
quotidiano" (Van der Hart, 2011).
Questo aspetto bifasico è un segno specifico del disturbo da stress post-traumatico
ed è osservabile anche in altri disturbi legati ai traumi.
In definitiva, ciò che accomuna il DPTS ai diversi disturbi legati ad eventi
traumatici è la possibilità di esplorazione degli stessi sia dal punto di vista della
comorbidità, che dal punto di vista della dissociazione strutturale.
Studi epidemiologici hanno, difatti, riscontrato una elevata comorbidità del DPTS
con diversi disturbi mentali (Kessler, 1995; Rosen., 2010; Dorrington, 2014; Sareen, 2014).
Tra i primi ad analizzare questo aspetto troviamo Kessler e colleghi (1995), i quali
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utilizzarono i dati del National Comorbidity Survey su un campione rappresentativo e
riscontrarono che l'88.3% degli uomini ed il 79% delle donne, con diagnosi di PTSD,
presentavano almeno un disturbo psichiatrico suppletivo. Inoltre il 59% degli uomini ed il
44% delle donne rispondevano a tre o più criteri di altre diagnosi psichiatriche. I disturbi
maggiormente riscontrati furono la depressione maggiore, abuso e dipendenza di alcool e
droga, la fobia e la distimia (Tabella 1).
Tabella 1, Comorbidità in pazienti con disturbo da stress post-traumatico (Kessler, 1995)
COMORBIDITÀ UOMINI (%) DONNE (%)
Depressione maggiore 47.9 48.5
Abuso o dipendenza dall'alcool 51.9 27.9
Abuso o dipendenza da droghe 34.5 26.9
Fobia specifica 31.4 29.0
Fobia sociale 27.6 28.4
Distimia 21.4 23.3
Ricerche più recenti (Dorrington, 2014; Sareen, 2014) hanno invece evidenziato la
relazione non esclusiva tra un evento traumatico ed il PTSD. È stato riscontrato che, chi
viene esposto a più eventi traumatici, riceve, per il 40,4%, una diagnosi di non-DPTS,
quindi di un disturbo correlato, mentre solo al 13,3% è stato diagnosticato un disturbo da
stress post-traumatico (Dorrington, 2014).
Questi risultati indicano la non esclusività del DPTS come reazione ad eventi
traumatici di vario tipo e, contemporaneamente, sottolineano la prevalenza di disturbi
psichiatrici come la depressione maggiore, i disturbi d'ansia, i disturbi somatoformi, alcune
patologie mediche e l'abuso o la dipendenza da sostanze (Dorrington, 2014; Sareen, 2014).
18
Capitolo Secondo
EVENTO TRAUMATICO E DANNO
Il capitolo centra l’attenzione nel rapporto tra gli operatori chiamati a intervenire di
fronte una situazione di crisi. Alla luce delle più recenti ricerche si descrive la relazione
che intercorre tra lavoro-persona-sintomo. Di seguito si pone l’accento sulla valutazione
del danno (le linee guida e le differenti categorie). Il capitolo testimonia, e nelle
considerazioni conclusive si ampliano le riflessioni, quanto sia necessaria una prevenzione
e un’attenzione focalizzata non tanto sul danno quanto sullo sviluppo delle risorse di
coping e di resilienza.
1. Rapporto tra operatori esposti a situazioni critiche o morte e DPTS
Esistono numerose ricerche che testimoniano il legame che intercorre tra operatori
esposti a situazioni critiche e una sintomatologia riconducibile al DPTS.
L’originalità di quanto viene riportato è legata al fatto che questa relazione esiste
sempre a prescindere dal genere, razza o professione.
Gli agenti di polizia del Sud Africa mostrano una correlazione positiva tra
professione, DPTS e ideazione suicidaria (Steyn, 2013).
Gli stessi operatori (medici, paramedici, forze di polizia) che sono intervenuti al
World Trade Center, nel disastro del 9/11/2001 hanno sviluppato una sintomatologia legata
al DPTS. Gli stessi autori (Pietrzak – Feder, 2014), concludono il loro lavoro sottolineando
l’importanza di valutazioni e monitoraggi nei confronti degli operatori.
In ulteriori articoli si evidenzia quanto l’auto efficacia e la resilienza possano essere
fattori protettivi che ostacolano l’insorgenza del DPTS. Così come per l’incidenza del
disturbo, anche i fattori protettivi non sono determinati dalla professione, quanto dalle
pratiche e norme preventive messe in atto (McCanlies – Mnatsakanova, 2014;
Shakespeare-Fine – Rees, 2015).
19
2. Quantificazione del danno1
Il danno psichico ed il danno da pregiudizio esistenziale devono essere risarciti,
quali danni non patrimoniali, ex art. 2059 c.c. , indipendentemente dal danno biologico in
senso stretto. Pur essendo pacifico il risarcimento di tali categorie di danno1, persiste ad
oggi, nonostante la continua evoluzione giuridica e sociale del sistema risarcitorio italiano,
una concezione esclusivamente “biologica” del danno alla persona, mentre ai fini di un
completo ed esauriente accertamento del danno non patrimoniale è necessario considerare
il pregiudizio del fare aredittuale del soggetto nella sua totalità che, come afferma la
Cassazione Civile n.14402/2011, si può manifestare come “modifica peggiorativa della
personalità da cui consegue uno sconvolgimento dell'esistenza, e in particolare delle
abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell'ambito della
comune vita di relazione, sia all'interno che all'esterno del nucleo familiare2” Si tratta,
infatti, di uno: “sconvolgimento foriero di “scelte di vita diverse”, in altre parole, lo
sconvolgimento dell'esistenza obiettivamente accertabile, in ragione dell'alterazione del
modo di rapportarsi con gli altri nell'ambito della vita comune di relazione, sia all'interno
che all'esterno del nucleo familiare, che, pur senza degenerare in patologie medicalmente
accertabili (danno biologico), si rifletta in un'alterazione
della sua personalità tale da comportare o indurlo a scelte di vita diverse ad
assumere essenziale rilievo ai fini della configurabilità e ristorabilità di siffatto profilo del
danno non patrimoniale3”. Sempre nella stessa sentenza, la Cassazione afferma che,
allorquando ai fini della liquidazione del danno biologico vengono presi in considerazione
anche gli aspetti relazionali, non si può sostenere che tale aspetto o voce di danno possa
considerarsi il danno esistenziale.
Il risarcimento del danno non patrimoniale deve tenere in considerazione la
sofferenza non solo quando la stessa rimanga allo stadio interiore o intimo, ma anche
allorquando si manifesta degenerando in danno biologico o in pregiudizio prospettante
profili di tipo esistenziale (v.Cass. n. 7844/2011). D’altronde, lo stesso Legislatore, con il
D.p.r. 37/2009, indica che nel richiedere il risarcimento da sofferenza e da turbamento
1 Il pagrafo è tratto dalle Linee Guida promosse dall’Ordine degli Psicologi del Lazio. Per maggiori
approfondimenti si rimanda il lettore a: Ordine degli Psicologi del Lazio (2012), Linee guida per
l’accertamento e la valutazione psicologico-giuridica del danno alla persona. Aggiornamento 2012, Roma.
20
dello stato d’animo - oltre a quello biologico - di non tralasciare i profili psichici ricadenti
pure sulla vita quotidiana.
Il danno psichico, coerentemente con la lettera dell’art. 1223 c.c., richiede il
risarcimento come:
‐ lesione dell’integrità psichica;
‐ conseguenti mancate utilità non patrimoniali.
Le tabelle del danno psichico e da pregiudizio esistenziale, presenti in questo
documento, costituiscono un utile ed indispensabile strumento scientifico a carattere
pluridisciplinare per la valutazione del danno alla persona; ed intendono raggiungere
l’obiettivo di costituire uno strumento a carattere generale per una uniformità di
trattamento valutativo delle vittime in base all’esame psicologico e psicodiagnostico,
fermo restando il valore indicativo e orientativo delle tabelle medesime, essendo il danno
psichico e da pregiudizio esistenziale contrassegnati da una variabilità individuale,
soggettiva e personale; in questo modo si rispetterà il disposto dell’articolo 3 della
Costituzione sia inteso come legge uguale per tutti e sia come divieto di trattare in modo
diseguale situazioni giuridiche eguali4. La valutazione delle conseguenze psichiche ed
esistenziali che l’illecito produce nelle vittime deve tener conto delle condizioni soggettive,
individuali e familiari in modo tale da garantire un risarcimento integrale e personalizzato
(Cass. civ. SS.UU. 26972/20085) e che tenga conto del rispetto della vittima e la
solidarietà verso la stessa (ex art. 2 Cost.).
Il danno psichico (sentenza 4783/2001) asserisce che: “nel danno psichico non è
solo il fatto durata a determinare la patologia ma è la stessa intensità della sofferenza e
della disperazione”.
A oggi perché venga risarcito il danno non patrimoniale è necessario che si
presentino tre condizioni:
a) che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale;
b) che la lesione dell’interesse sia grave, vale a dire che non consista in meri
disagio fastidi;
21
c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi,
ovvero nella lesione dei diritti del tutto immaginari, come quello della qualità della vita o
della felicità.
L’entità del danno deve essere rapportata ad altre variabili, all’età del soggetto, alla
struttura di personalità prima del’evento critico, e alla competenza, dello stesso soggetto, di
far fronte allo stress con le proprie risorse.
Nella valutazione del danno verranno esaminate tutte le parti (anamnesi, colloqui
clinici, indagini psicodiagnostiche) ciò comporta la stesura di un profilo che può essere
inquadrato in diverse tipologie di danno (tabella 2)
Tabella 2, categorie di danno psicologico e aree compromesse
DANNO LIEVE (6-15%) Lieve alterazione dell’assetto psicologico,
delle relazioni familiari-affettive e delle
attività realizzatrici
DANNO MODERATO (16-30%) Moderata alterazione dell’assetto
psicologico, delle relazioni familiari-
affettive e delle attività realizzatrici
DANNO MEDIO (31-50%) Media alterazione dell’assetto psicologico,
delle relazioni familiari-affettive e delle
attività realizzatrici
DANNO GRAVE (51-75%) Grave alterazione dell’assetto psicologico,
delle relazioni familiari-affettive e delle
attività realizzatrici
DANNO GRAVISSIMO (76-100%) Gravissima alterazione dell’assetto
psicologico, delle relazioni familiari-
affettive e delle attività realizzatrici
Volendo valutare in maniera efficace la presenza e la consistenza di un trauma è
necessario svolgere un’approfondita analisi del soggetto utilizzando test di livello, di
personalità e proiettivi. Questo permette all’esaminatore di valutare con accuratezza
22
eventuali alterazioni delle funzioni mentali primarie di pensiero, ma anche gli stati
emotivo-affettivi, la struttura e la sovra struttura dell’Io e i meccanismi di difesa, quindi
analizzare gli sviluppi della personalità nel tempo e a fronte di eventi esterni (Capri, 2012).
23
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La finalità del lavoro è quella di promuovere un processo di attenzione e di cura
verso una specifica categoria di persone che, a mio parere, non è sufficientemente tutelata.
Numerose ricerche dimostrano quanto soggetti che si confrontano con situazioni
traumatiche hanno maggiore possibilità di sviluppare una sintomatologia da stress post
traumatico, per quanto mi riguarda la non tutela di questo processo può essere letta come
un danno alla persona.
La domanda che mi pongo è: “chi reca il danno alla persona?”.
Non può essere certo la criticità, né il paziente che giunge a un Pronto Soccorso o il
disastro ecologico, penso che la causa del danno si ritrova nelle persone/istituzioni che non
hanno organizzato un supporto psicologico per le persone.
In quanti contesti (ospedalieri, militari, di protezione civile) è considerato un
supporto psicologico/psichiatrico per le persone che operano in contesti critici?
Il lavoro presentato ha l’obiettivo di promuovere un processo in cui piuttosto che
“pagare il danno” si possa investire sulla promozione della salute, investendo sia sul
supporto sociale che sul potenziamento delle strategie di coping.
Per supporto sociale si intendono le relazioni interpersonali tra individui, famiglie e
gruppi attraverso le quali le persone si aiutano a vicenda. Il supporto può essere di
tipo strumentale, informativo o emotivo. Il supporto di tipo strumentale comprende beni
materiali come cibo, vestiti, riparo o altri oggetti che possono sostituire quelli persi in
un disastro. Il supporto informativo riguarda la condivisione di conoscenze attraverso le
quali si può ricevere aiuto. Il supporto emotivo può includere l’ascolto in un modo non
giudicante, accettazione e offerta di incoraggiamento.
Inoltre, il supporto sociale è differenziato anche in base alle sue fonti e se è
percepito o ricevuto. Se la fonte è informale il supporto è dato dalla famiglia allargata,
amici, vicinato, dalla chiesa e associazioni; la fonte formale del supporto include la
consulenza psicosociale e le agenzie di welfare. Il supporto percepito riflette il punto
di vista della persona riguardo a chi posa essere disponibile in caso di necessità e
infine il supporto ricevuto si riferisce all’aiuto effettivamente fornito.
24
Per coping s’intende l’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali attuati
per controllare specifiche richieste interne e/o esterne che vengono valutate come
eccedenti le risorse della persona (Lazarus, 1991). Si evincono da tale definizione quelle
che sono le caratteristiche distintive del coping:
· è un processo dinamico, in quanto è costituito da una serie di risposte
reciproche, attraverso le quali ambiente e individuo si influenzano a vicenda;
· comprende una serie di azioni, sia cognitive che comportamentali,
intenzionali, finalizzate a controllare l’impatto negativo dell’evento stressante.
Il coping, inoltre, svolge diverse funzioni fondamentali in base alle quali può
essere suddiviso in diverse tipologie:
1 Emotion-focused coping, che consiste nella regolazione delle reazioni
emotive negative conseguenti alla situazione stressante;
2 Problem-focused coping, che consiste nel tentativo di modificare o risolvere
la situazione che sta minacciando o danneggiando l’individuo (Lazarus, 1991; Lazarus –
Folkman, 1984).
Inoltre, partendo dal lavoro di Lazarus e Folkman, nel 1990 Endler e Parker
hanno individuato tre tipologie di coping predominanti:
1 coping centrato sul compito (task coping): è rappresentato dalla
tendenza ad affrontare il problema in maniera diretta, ricercando soluzioni per
fronteggiare la crisi;
2 coping centrato sulle emozioni (emotion coping): rappresentato da
abilità specifiche di regolazione affettiva, che consentono di mantenere una prospettiva
positiva di speranza e controllo delle proprie emozioni in una condizione di disagio,
oppure di abbandono alle emozioni, come la tendenza a sfogarsi o, ancora, la
rassegnazione;
3 coping centrato sull’evitamento (avoidance coping): rappresentata dal
tentativo dell’individuo di ignorare la minaccia dell’evento stressante o attraverso la
ricerca del supporto sociale o impegnandosi in attività che distolgono la sua attenzione dal
problema.
Nell’ambito degli studi sulle strategie di coping nel corso di malattie croniche, si
25
colloca il lavoro di Brown e Nicassio (1987) sulle modalità di coping dei pazienti con
dolore cronico. Essi propongono una formulazione delle tipologie di coping alternativa
rispetto a quella tradizionale, proposta da Lazarus e Folkman. I due autori, infatti,
descrivono due principali strategie di coping:
1 strategie attive di coping: rappresentate dal tentativo del paziente di
controllare in qualche modo il proprio dolore (per esempio, facendo gli esercizi consigliati
dal terapista) oppure dal tentativo di mantenere un buon livello funzionale, nonostante il
permanere del dolore stesso,
2 strategie passive di coping: per cui il paziente lascia il controllo del
proprio dolore ad altri o permette che altre aree significative di vita vengano influenzate
negativamente dal dolore.
Secondo tale formulazione la differenza fondamentale tra strategie attive e passive
si fonda, quindi, sul fatto che il paziente faccia affidamento su risorse interne a sé o esterne
nella gestione del proprio dolore.
Nel dover affrontare criticità, per ogni individuo, è fondamentale valutare il grado
di resilienza e la relazione con la crescita post traumatica. Nello specifico La resilienza si
riferisce all’abilità di gestire la vita con successo di fronte a difficoltà e a
circostanze complesse (Tedeschi – Calhoun, 2004). Rutter (2012) considera le
caratteristiche associate alla resilienza, enfatizzando l’importanza delle abilità cognitive
che, a loro volta, consentono di potenziare le abilità sociali e quindi mettere in atto
un repertorio più ampio di strategie di fronteggiamento. Riuscire a gestire con successo
una situazione particolarmente difficile permette anche di accrescere il proprio senso di
autoefficacia e autostima. In tal senso, la resilienza è un concetto dinamico definibile come
la ridotta vulnerabilità alle esperienze di rischio ambientali, il superamento di uno stress
o di un’avversità, o un esito relativamente positivo nonostante le esperienze di rischio
(Rutter, 2006). Un altro contributo importante è offerto da Harvey (2007) che offre una
distinzione tra recupero e resilienza. Il recupero si ha nel momento in cui si presenta un
cambiamento passando da un risultato inadeguato a uno desiderato, in ogni parte del sé
che è stata attaccata dal trauma. La resilienza, invece, è quella condizione in cui alcuni
aspetti del sé non sono coinvolti nel trauma e dunque possono essere utilizzati per far
26
fronte alla situazione e alle difficoltà che il trauma ha apportato in altre parti del sé. La
visione di Calhoun e Tedeschi (2006) della relazione tra resilienza e Crescita Post-
Traumatica è al quanto complessa: ripensando alla ricostruzione degli schemi in seguito
ai traumi, le persone che sperimentano una forma di crescita possono diventare
psicologicamente più preparate (resilienti) a possibili eventi futuri considerabili traumatici
(e quindi è possibile una crescita). Questo tipo di relazione tra Crescita Post-Traumatica e
resilienza è una delle ragioni per cui è importante mantenere una chiara distinzione tra
i due concetti, e non considerare la Crescita Post-Traumatica una forma di resilienza.
Un’ulteriore ragione per chiarire tale distinzione è che la parola resilienza non è mai stata
definita in termini di trasformazione o riformulazione; piuttosto, è intesa come la
capacità di ristabilire la situazione presente prima del verificarsi dell’evento traumatico
(Calhoun – Tedeschi, 2006).
27
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