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DENTRO L’ACQUA

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DENTRO L’ACQUA

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PAULA HAWKINS

DENTRO L’ACQUA

Traduzione diBarBara Porteri

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Titolo originale: Into the Water © Paula Hawkins, 2017

Lyrics from Down by the Water by PJ Harvey reproduced by kind permission of Hot Head Music Ltd. All rights reserved.

Excerpt from Hallucinations by Oliver Sacks. Copyright © 2012, Oliver Sacks, used by permis-sion of The Wylie Agency (UK) Limited.

Extract from ‘The Numbers Game’, Dear Boy © Emily Berry, reprinted by permission of Faber & Faber.

La traduzione italiana della citazione di Oliver Sacks in esergo è tratta da Allucinazioni, Adelphi, Milano 2013.

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono frutto dell’immaginazione dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi somiglianza con eventi o persone, vive o scomparse, è del tutto casuale.

Traduzione di Barbara Porteri per Studio Editoriale Littera

Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI)

ISBN 978-88-566-6061-6

I Edizione 2017

© 2017 - EDIZIONI PIEMME Spa www.edizpiemme.it

Anno 2017-2018-2019 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

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A tutti i piantagrane

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Ero molto giovane quando sono stata spezzata.

Alcune cose devi lasciarle andareAltre non puoiDifficile stabilire quali

Emily Berry, The Numbers Game

Oggi sappiamo che i ricordi non sono fissi o pietrificati, come proustiani vasi di conserva in una dispensa, ma vengono trasformati, smontati, rimontati e ricategorizzati a ogni rievocazione.

Oliver Sacks, Allucinazioni

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Lo Stagno delle Annegate

Libby

«Ancora! Ancora!»Gli uomini la legano di nuovo. Stavolta, lo fanno in un altro

modo: mano sinistra legata al piede destro, mano destra con il piede sinistro. Corda stretta in vita. Stavolta, la calano lentamen-te dentro l’acqua.

«Vi prego...» li implora. Non sa se ce la farà ad affrontare an-cora quel buio fondo e il freddo. Vuole tornare a casa, una casa che non esiste più, al tempo in cui lei e la zia sedevano davanti al fuoco, a raccontarsi storie. Vuole stare nel suo letto, lì al cottage, essere di nuovo una bambina, sentire l’odore delle rose e della legna che brucia, e il tepore dolce della pelle di sua zia.

«Vi prego...»Va a fondo. Quando la tirano fuori per la seconda volta, le

labbra hanno il colore bluastro di un livido, e il suo respiro si è spento per sempre.

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Prima parte

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Jules

C’era qualcosa che volevi dirmi, non è vero? Che cos’era? Mi sembra di essermi distratta da questa conversazione molto tem-po fa. Pensavo ad altro, sono andata avanti con la mia vita, ho smesso di starti a sentire e ho perso il filo. Be’, ti sto ascoltando adesso. Però credo che mi siano sfuggiti alcuni dei passaggi più importanti.

Quando sono venuti a dirmelo mi sono arrabbiata, anche se sul momento ho provato una specie di sollievo. Se due poliziot-ti si presentano alla tua porta mentre stai cercando il biglietto del treno, prima di uscire di corsa per andare a lavorare, pensi subito al peggio. E io ho pensato alle persone a cui tengo, i miei amici, il mio ex, i colleghi. Ho avuto paura. Ma non si trattava di loro: si trattava di te. Così, per un istante mi sono sentita sollevata. Poi però mi hanno spiegato quello che era successo, quello che avevi fatto: eri entrata nell’acqua. A quel punto ero furiosa. Furiosa e spaventata.

Ho pensato alle parole che ti avrei detto al mio arrivo: che di sicuro l’avevi fatto di proposito, per sfidarmi, per farmi arrab-biare, per spaventarmi, per infrangere la calma della mia vita. Il tuo scopo era quello di attirare la mia attenzione e costringermi a venire lì, dove tu volevi che fossi. Eccomi qua, Nel: hai vinto. Sono di nuovo nel posto in cui non avrei più voluto far ritorno, per occuparmi di tua figlia e rimediare al casino che hai combi-nato.

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lunedì, 10 agosto

Josh

Qualcosa mi ha svegliato. Mi sono alzato per andare in bagno e ho visto che la porta della camera di mamma e papà era aperta. Ho guardato: la mamma non era a letto. Papà russava, come sempre. L’orologio sul comodino segnava le quattro e otto minu-ti. Ho pensato che la mamma fosse andata di sotto. Non riesce a dormire. Neppure papà ci riesce, adesso, ma lui prende delle pillole così forti che dopo non si sveglia nemmeno con le canno-nate.

Sono sceso senza far rumore, perché di solito la mamma ac-cende la tv e si mette a guardare quei noiosissimi programmi dove vendono aggeggi per dimagrire, per pulire il pavimento o per tagliare la verdura in mille modi diversi. Così alla fine si addormenta. Però il televisore era spento e sul divano non c’era nessuno. Doveva essere uscita.

È già successo altre volte, per quel che ne so, ma non posso sapere sempre dove sono tutti quanti. La prima volta mi ha detto che era andata a fare due passi per schiarirsi le idee, ma un’altra mattina mi sono svegliato e lei non c’era, e dalla finestra della mia stanza ho visto che la sua macchina non era parcheg-giata al solito posto, davanti casa.

Credo che vada al fiume, oppure al cimitero, sulla tomba di Katie. Anch’io ci vado, ogni tanto, ma non in piena notte: avrei paura, con il buio, e poi mi farebbe uno strano effetto, perché è la stessa cosa che ha fatto Katie. Si è alzata di notte, è andata

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al fiume e non è più tornata. Però capisco perché la mamma lo fa: per sentirsi vicino a lei. È l’unica cosa che le rimane, oltre ad andare nella sua stanza. So che ci entra, ogni tanto: è la camera accanto alla mia e quando piange la sento.

Mi sono seduto sul divano ad aspettare, ma devo essermi addormentato perché quando la porta si è aperta fuori era già giorno. L’orologio sul caminetto segnava le sette e un quarto. Mamma è entrata in casa e si è precipitata su per le scale.

L’ho seguita, mi sono fermato davanti alla camera dei miei e ho spiato dalla fessura della porta. Era inginocchiata vicino al letto, dalla parte di papà. Era rossa in viso, come se avesse corso. Ansimava. «Alec, svegliati. Svegliati.» Lo scuoteva. «Nel Abbott è morta. L’hanno trovata nel fiume. Si è buttata.»

Non ricordo di aver parlato, ma forse ho fatto un rumore perché la mamma si è girata verso di me ed è scattata in piedi.

«Oh, Josh» ha detto, venendomi incontro. «Josh.» Ho visto che aveva gli occhi pieni di lacrime. Mi ha abbracciato stretto e quando mi sono staccato da lei piangeva ancora, ma sorrideva anche. «Piccolo mio.»

Papà si era seduto sul letto e si stava strofinando gli occhi. Gli ci vuole sempre una vita a svegliarsi del tutto. «Aspetta, non ho capito. Quando sarebbe... Hai detto durante la notte? E tu come fai a saperlo?»

«Sono uscita a comprare il latte. Ne parlavano tutti... lì, al negozio. L’hanno trovata stamattina.» Si è seduta anche lei sul letto e ha ricominciato a piangere. Papà l’ha abbracciata, ma guardava me e aveva un’espressione strana negli occhi.

«Dove sei andata? Dove sei stata?» le ho chiesto.«Al negozio, Josh. Te l’ho appena detto.»Non è vero, avrei voluto risponderle. Sei stata fuori per ore,

non sei uscita soltanto a comprare il latte. Volevo dirglielo ma non l’ho fatto perché i miei genitori erano lì sul letto, si guarda-vano, e sembravano felici.

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martedì, 11 agosto

Jules

Mi sono ricordata. Io e te sul sedile posteriore del camper, una pila di cuscini a segnare il confine tra il tuo territorio e il mio. Stiamo andando a Beckford per l’estate. Tu entusiasta, impa-ziente, non vedi l’ora di arrivare. Io verde per il mal d’auto, che cerco disperatamente di non vomitare.

Non l’ho soltanto ricordato. L’ho sentito, di nuovo. Lo stesso identico malessere, oggi pomeriggio, mentre guidavo tutta chi-na sul volante come una signora anziana. Guidavo male e trop-po veloce, tagliavo le curve, poi frenavo di colpo e sterzavo quando vedevo arrivare le altre auto. E avevo quella sensazione, quella che provo quando in strada incrocio un furgone bianco e penso che sto per farlo, sto per invadere la sua corsia e andar-gli contro, non perché lo voglia, ma perché devo. Come se in quell’istante ogni volontà mi abbandonasse. Forse la conosci, è la stessa sensazione di quando ti affacci su uno strapiombo o passeggi sul binario del treno ben oltre la linea gialla, e senti come una mano invisibile che ti sospinge. E se lo facessi davve-ro? Se avanzassi anche di un solo passo? Se girassi appena un po’ il volante?

(Vedi? Tu e io non siamo poi così diverse.)La cosa strana è che ricordo tutto molto bene. Troppo bene.

Com’è possibile che le cose che mi sono successe a otto anni siano perfettamente chiare nella mia memoria, e invece, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare se ho parlato con i col-

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leghi per spostare quell’incontro con il cliente? Mi sfugge ciò che vorrei trattenere, invece quello che voglio dimenticare riaf-fiora di continuo. Oggi, mentre guidavo, più mi avvicinavo a Beckford, più il passato mi si ripresentava davanti, schizzando in ogni direzione come i passeri quando volano fuori da una siepe, improvviso e inevitabile.

Tutta quella natura, quel verde incredibile, il giallo acido e squillante della ginestra mi bruciavano il cervello, e forse è an-che colpa loro se ho cominciato a vederli, i miei ricordi, uno dopo l’altro: io a quattro o cinque anni in braccio a papà che mi porta a fare il bagno nel fiume, i miei gridolini di gioia, i tuoi tuffi dalle rocce, ogni volta più in alto. I picnic sulla riva sabbio-sa dell’acqua, il sapore della crema solare sulle labbra, i grossi pesci scuri pescati a valle, oltre il mulino. Tu che torni a casa con le gambe piene di graffi, perché hai esagerato con i salti, e mor-di forte un tovagliolo mentre papà ti disinfetta. No, tu non pian-gi, non davanti a me. E poi la mamma che indossa un prendiso-le azzurro e prepara la colazione in cucina, scalza, con la pianta dei piedi scura, color ruggine. Papà seduto a disegnare in riva al fiume. Qualche anno dopo: noi due più grandi, tu con i panta-loncini di jeans e il costume sotto la maglietta. Le tue fughe notturne per incontrare un ragazzo, non uno qualsiasi, quel ra-gazzo. La mamma, sempre più magra e più debole, che dorme sulla poltrona in soggiorno, e papà che va a fare lunghe passeg-giate con la moglie del parroco, una donna paffuta, pallida e sempre col cappello in testa per proteggersi dal sole. Mi torna in mente una partita a pallone. Il sole caldo, l’acqua; tutti mi guardano, io chiudo forte gli occhi per non piangere, sangue tra le cosce, echi di risate. Le sento ancora. In sottofondo, il rumo-re dell’acqua che scorre.

Ero così immersa in quell’acqua da non accorgermi di essere arrivata a destinazione. Eccomi qui, nel centro di Beckford. Me ne sono resa conto all’improvviso, come se avessi chiuso gli occhi e un istante dopo, per magia, li avessi riaperti qui. Ho proseguito lentamente con la macchina lungo le strade strette,

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piene di suv parcheggiati, oltre le case di pietra rosa, verso la chiesa e il vecchio ponte. Mi sentivo sempre più all’erta. Tenevo gli occhi fissi sull’asfalto e cercavo di non guardare verso il bo-sco e il fiume. Cercavo di non vedere, ma non ci riuscivo.

Ho accostato e ho spento il motore. Ho alzato lo sguardo: intorno a me c’erano gli alberi e i gradini di pietra, coperti di muschio e scivolosi perché aveva piovuto. Mi è venuta la pelle d’oca, e mi sono ricordata: la pioggia gelida che sferzava la stra-da, i lampeggianti blu che facevano a gara con i fulmini per il-luminare il cielo e lo specchio dell’acqua, i volti terrorizzati, le piccole nuvole di vapore che uscivano dalle bocche e un ragaz-zino, bianco come un cencio, tremante, accompagnato su per la scalinata da una poliziotta. Lei lo teneva per mano, ma aveva gli occhi sbarrati e continuava a girarsi da ogni parte come se stes-se cercando qualcuno nella folla. Posso ancora sentirla, la sen-sazione che provai quella notte, il terrore e la fascinazione. E le parole che mi sussurravi all’orecchio: Chissà com’è... Ci pensi? Veder morire tua madre...

Ho distolto lo sguardo, ho rimesso in moto e attraversato il ponte. Da lì in poi, la strada diventa tortuosa. Ero indecisa su dove svoltare, la prima a sinistra? No, la seconda. Eccolo là, il grande blocco di pietra scura: il mulino. Ho sentito un brivido percorrermi la pelle fredda e sudata, e il cuore battere più in fretta, mentre superavo il cancello aperto e imboccavo il viale di accesso alla casa.

C’era un tizio, un agente in divisa, che guardava il cellulare. Si è avvicinato alla macchina e io ho abbassato il finestrino.

«Sono Jules... cioè, Julia... Abbott. Sono... la sorella.»Sembrava a disagio. «Oh, sì... certo.» Si è girato verso la casa.

«Adesso non c’è nessuno. La ragazza... sua nipote... è uscita. Non so dove...» Ha preso la radio agganciata alla cintura.

Sono scesa dall’auto. «Posso entrare in casa?» Ho guardato in su, verso la finestra aperta, quella della tua vecchia stanza. Mi è sembrato di vederti lì, seduta sul davanzale, con i piedi pen-zolanti nel vuoto. È stato strano.

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Il poliziotto sembrava esitante. Mi ha dato le spalle, ha detto qualcosa alla radio e poi si è voltato di nuovo verso di me. «Nes-sun problema, entri pure.»

Ho salito i gradini dell’ingresso senza vedere nulla, ma senti-vo lo sciabordio dell’acqua e l’odore della terra, quella umida sotto gli alberi, all’ombra della casa, nei punti mai raggiunti dalla luce del sole, e il tanfo delle foglie marce. E mi sono sen-tita riportare indietro nel tempo.

Ho aperto la porta. Una parte di me si aspettava di sentire la voce della mamma chiamare dalla cucina. Per un riflesso con-dizionato, ho spinto un po’ la porta col fianco nel punto in cui si bloccava sempre contro il pavimento. Sono entrata, ho ri-chiuso e mi sono fermata un momento per adattare gli occhi all’oscurità. Un altro brivido, forse per il fresco improvviso.

In cucina, sistemato sotto la finestra, c’era un tavolo di quer-cia. Era lo stesso? Forse sì, ma da allora questo posto ha cam-biato molti proprietari. Mi sarei potuta togliere il dubbio con-trollando se c’erano ancora le nostre iniziali incise sotto il piano, ma il solo pensiero mi ha fatto accelerare il battito.

Ricordo che il tavolo era inondato di sole al mattino, e se ti sedevi dal lato sinistro, di fronte alla cucina di ghisa, potevi vedere il vecchio ponte perfettamente incorniciato dalla fine-stra. Un panorama splendido, dicevano tutti, ma nessuno lo guardava davvero. Nessuno apriva mai quella finestra per affac-ciarsi verso la macina in disuso, nessuno guardava oltre la luce che giocava con la superficie dell’acqua, e nessuno vedeva quell’acqua per com’era davvero, verde scura, quasi nera, piena di cose vive e di cose morte.

Uscendo dalla cucina, ho superato l’ingresso e le scale, e mi sono addentrata nella casa. Mi si sono parate davanti all’im-provviso, in modo così violento da farmi sobbalzare, le enormi finestre che danno sul fiume, dentro il fiume, quasi, tanto da farti pensare che se aprissi i vetri l’acqua inonderebbe la stanza, riversandosi come una cascata sulla panca di legno sotto il da-vanzale.

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Un altro ricordo. Ogni estate io e la mamma ci sistemavamo sopra i cuscini della panca e ci sedevamo con le gambe strette al petto, i talloni che si sfioravano e un libro sulle ginocchia. Da qualche parte c’era un vassoio di stuzzichini, ma lei non man-giava quasi mai.

Non riuscivo a guardare quella stanza. Vederla di nuovo mi ha fatto sentire disperata, mi ha spezzato il cuore.

L’intonaco doveva essere stato rimosso, rivelando i mattoni, e i mobili che c’erano adesso erano senza dubbio tuoi: tappeti orientali, oggetti in ebano, divani e poltrone di pelle e troppe candele. Dappertutto c’erano indizi delle tue ossessioni: grandi stampe incorniciate, l’Ophelia di Millais, bella e serena, con gli occhi e la bocca aperti, i fiori tra le mani. E ancora Ecate di William Blake, Il sabba delle streghe e Il cane di Goya. Quest’ul-timo lo odiavo più di tutti: una povera bestia che lotta per tene-re la testa al di sopra della marea che sale.

Mi è parso di sentire lo squillo di un telefono, sembrava ar-rivare dalle fondamenta della casa. Ho seguito il suono attraver-so il soggiorno, poi ho sceso degli scalini; credo che all’epoca ci fosse un ripostiglio, lì, pieno di cianfrusaglie. Poi un anno c’era stata un’inondazione e la melma aveva ricoperto tutto, come se la casa stessa fosse diventata parte del letto del fiume.

Sono entrata nella stanza che adesso era il tuo studio: era pie-na di macchine fotografiche, schermi, lampade e tavoli luminosi, una stampante, carte, libri e raccoglitori appoggiati sul pavimen-to, schedari allineati lungo le pareti. E le fotografie, ovviamente, che coprivano ogni centimetro del muro. A vederle sembrava che tu fossi affascinata dai ponti: il Golden Gate, il ponte ferroviario sul Fiume Giallo, il viadotto Prince Edward. Ma non erano pon-ti e viadotti a interessarti, non erano le opere d’ingegneria. Guar-dando meglio, non c’erano solo ponti. C’erano il promontorio di Beachy Head, la foresta di Aokigahara, il Preikestolen: le catte-drali dell’angoscia, i posti dove vanno i disperati, quelli che han-no deciso di farla finita.

Di fronte alla porta, ho visto degli scatti del fiume, quel tratto

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che chiamano Stagno delle Annegate, in ogni versione possibile: bianco e ghiacciato in inverno, con le rocce scure e spoglie, op-pure un’oasi di verde scintillante in estate, o grigio e increspato durante i temporali. Non sono riuscita a staccare gli occhi da quelle immagini, che si fondevano fino a formarne una sola. Mi sembrava di essere lì sul promontorio e di guardare giù, dentro l’acqua, irresistibilmente tentata dall’oblio.

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Nickie

Alcune di loro erano entrate in acqua di propria volontà, altre no, e se qualcuno lo avesse chiesto a lei, avrebbe risposto che Nel Abbott aveva combattuto con tutte le sue forze prima di andare a fondo. Ma a Nickie nessuno chiedeva mai nulla, e nes-suno era disposto ad ascoltarla, quindi era inutile parlare. Spe-cialmente con i poliziotti. E comunque, anche se non avesse avu-to guai con loro in passato, agli sbirri non avrebbe detto proprio niente. Troppo rischioso.

Nickie abitava sopra il negozio di alimentari, in un monolo-cale con angolo cottura e un bagno talmente microscopico che a stento poteva definirsi tale. Non era molto, specie dopo una vita intera, ma aveva una finestra con vista sulla città, e lei ci aveva piazzato accanto una poltrona bella comoda. Passava le sue giornate seduta lì, mangiava e a volte ci dormiva anche. Ormai le bastavano poche ore di sonno, non valeva nemmeno la pena mettersi a letto.

Si sedeva e osservava la gente andare e venire. Quello che non vedeva, lo sentiva. Prima ancora di scorgere i lampeggianti blu vicino al ponte, la notte in cui era successo, si era accorta di qualcosa. Non aveva capito che si trattava di Nel, non subito. Alcuni pensano che la chiaroveggenza sia una visione limpida, precisa, ma non è così semplice. Nickie sapeva solo una cosa con certezza: qualcuno era entrato in acqua. Era rimasta seduta a guardare, senza accendere le luci: un tizio con due cani che sa-

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liva di corsa la scalinata, poi un’automobile, non di quelle della polizia, ma una blu scuro senza insegne. L’ispettore Sean Town-send, si era detta, e non si era sbagliata. Lui e l’uomo con i cani erano tornati giù, e subito dopo era arrivata tutta la banda, con i lampeggianti accesi ma le sirene spente. Non erano necessarie: non c’era fretta.

Quando il sole era sorto, Nickie era uscita per andare a com-prare il latte e il giornale, e al negozio ne parlavano tutti, «È successo un’altra volta», «La seconda quest’anno» dicevano, ma quando avevano pronunciato quel nome, quando aveva sen-tito «Nel Abbott», Nickie aveva capito che la seconda era ben diversa dalla prima.

Le era venuta una mezza idea di andare da Townsend e rac-contargli tutto, ma, per quanto lui fosse gentile e ben educato, era pur sempre un poliziotto, e per di più il figlio di suo padre: non c’era da fidarsi. Era strano che le fosse anche solo venuta in mente una cosa del genere, ma Nickie aveva sempre avuto un debole per Sean. Quel poveretto aveva avuto la sua dose di tra-gedia, nella vita, e Dio solo sa come aveva fatto a cavarsela, e poi era sempre stato gentile con lei, l’unico a esserlo anche quando l’avevano arrestata.

Era stato il secondo arresto, a essere onesti, ed erano ormai trascorsi sei o sette anni. Dopo la prima condanna per truffa, Nickie aveva abbandonato quasi del tutto l’attività. Aveva man-tenuto soltanto pochi clienti affezionati e la sua combriccola di streghe, che di tanto in tanto si riuniva per venire a rendere omaggio a Libby, Mary e alle altre donne del fiume. Durante l’estate leggeva un po’ di tarocchi e magari faceva qualche se-duta spiritica; a volte qualcuno le chiedeva di contattare un parente defunto o una delle annegate. Ma per molto tempo non aveva fatto nulla per procurarsi nuovi clienti.

Poi però le avevano tolto il sussidio, di nuovo, e allora era uscita da quella specie di semi-ritiro: con l’aiuto di uno dei ra-gazzi della biblioteca, aveva creato un sito web su cui offriva mezz’ora di tarocchi per 15 sterline. Era un buon prezzo: quella

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Susie Morgan della tv ne chiedeva 29,99 per venti minuti, e come sensitiva faceva pietà. Senza contare che per tutti quei soldi neanche parlavi con lei, ma con qualcuno del suo “team”.

Dopo alcune settimane, però, Nickie era stata denunciata alla polizia da un tizio dell’Associazione per la Tutela dei Con-sumatori per «non aver riportato sul suo sito web la dichiara-zione di non responsabilità obbligatoria secondo le normative vigenti». Normative vigenti? Dichiarazione di non responsabi-lità? Nickie si era detta ignara che esistessero delle dichiarazio-ni obbligatorie di qualsivoglia genere; la polizia l’aveva gentil-mente informata che le leggi erano cambiate. Ma questo lei come avrebbe potuto saperlo? aveva chiesto. La domanda ov-viamente aveva scatenato l’ilarità dei poliziotti: ma come, i ta-rocchi non gliel’avevano detto? Dunque poteva leggere soltan-to il futuro, e non il passato?

Solo Townsend, che all’epoca era un semplice agente, non si era unito alla presa in giro. L’aveva informata che si trattava di leggi europee. L’Unione Europea! La tutela dei consumatori! Un tempo, quelle come Nickie venivano perseguite (e persegui-tate) con feroci editti contro la stregoneria o contro la profes-sione di chiaroveggenza. Ora invece dovevano guardarsi dai burocrati europei: che fine ingloriosa!

Così Nickie aveva chiuso il sito, bandito la tecnologia e fatto ritorno ai vecchi metodi, senza però riuscire a procurarsi molti clienti.

Scoprire che la donna ripescata nell’acqua era Nel l’aveva turbata. Non si sentiva responsabile, no, dopotutto non era col-pa sua, ma forse le aveva svelato troppe cose. Comunque, nes-suno poteva accusarla di niente: Nel Abbott giocava con il fuo-co da tempo, era ossessionata dal fiume e dai suoi segreti, e quel tipo di fissazione non va mai a finire bene. Non era stata certo Nickie a suggerirle di cacciarsi nei guai, lei si era limitata a in-dicarle la direzione giusta. E non l’aveva forse messa in guardia dai pericoli che correva? Ma la verità era la solita, che nessuno le dava ascolto. Nickie diceva che c’erano uomini, in città, che

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potevano rovinarti per sempre solo perché gli girava. Così era e così era sempre stato. Però la gente faceva finta di non vedere, non era forse vero? A nessuno piaceva pensare che l’acqua del fiume fosse contaminata dal sangue e dalla bile di donne perse-guitate e infelici: era l’acqua che bevevano ogni giorno.

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Jules

Non sei mai cambiata. Avrei dovuto saperlo. Anzi, in realtà lo sapevo. Hai sempre amato il mulino e il fiume, ed eri ossessio-nata da quelle donne, dalle cose che avevano fatto, da ciò che si erano lasciate alle spalle. E adesso questo. Oh, Nel, sei davvero arrivata a tanto?

Al piano di sopra, ho esitato prima di entrare in camera da letto. Il pugno stretto intorno alla maniglia, mi sono fermata e ho respirato a fondo. Sapevo cos’era successo, me lo avevano detto, ma sapevo anche chi eri tu. E non riuscivo a crederci. Ero sicura che, se avessi aperto la porta, ti avrei trovata lì: alta, ma-gra e non troppo felice di vedermi.

La stanza era vuota. Sembrava che tu l’avessi lasciata solo un attimo prima, magari per andare di sotto a farti un caffè, e che da un momento all’altro dovessi tornare. C’era ancora il tuo profumo nell’aria: dolce e persistente, una fragranza classica, come quelle che usava la mamma, Opium o Yvresse.

«Nel?» Ho sussurrato il tuo nome, come per evocarti, ma non ha risposto nessuno.

In fondo al corridoio c’era la “mia” stanza, quella in cui avevo dormito ogni estate: la stanza più piccola della casa per la più piccola della famiglia. Era ancora più angusta e buia di quel che ricordavo, e più triste. Dentro c’era solo un letto singolo, senza lenzuola. Puzzava di umidità e di terra. Non ho mai dormito bene in quella camera, mi sentivo a disagio: non è strano, se ri-

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penso al modo in cui eri solita spaventarmi. Ti sedevi sul pavi-mento dall’altro lato della parete e graffiavi l’intonaco con le unghie, facendo strani rumori; disegnavi simboli inquietanti sul-la porta con lo smalto rosso; scrivevi il nome delle donne morte sui vetri appannati delle finestre. E poi c’erano le storie che mi raccontavi: streghe trascinate in acqua, donne disperate che si lanciavano dal promontorio, e un ragazzino terrorizzato che, nascosto nel bosco, aveva visto la madre gettarsi nel fiume.

È strano, non posso ricordarmi questa scena. Ovvio. Quando mi sforzo di ricostruirla nella memoria, non ha alcun senso: è come una specie di sogno spezzato. Tu che mi sussurri qualcosa all’orecchio. Ma siamo al fiume, ed è una notte gelida. Impossi-bile che sia accaduto davvero. Non siamo mai venute qui in in-verno, con il freddo. E no, non ho mai visto un bambino spaven-tato sul ponte, nel cuore della notte: d’altra parte ero anch’io una bambina, come mi sarei potuta trovare lì? Doveva proprio essere una delle tue storie: il ragazzino accovacciato tra gli albe-ri che aveva alzato lo sguardo e visto sua madre, oscillante, pal-lida come la sua camicia da notte sotto il chiaro di luna, lanciar-si nell’aria muta, le braccia aperte come ali. E il grido che le era morto sulle labbra quando aveva colpito l’acqua nera.

Non so neanche se c’è mai stato davvero, quel bambino che ha visto la madre morire, magari te lo eri inventata di sana pianta.

Sono uscita dalla mia vecchia stanza per andare in quella che un tempo era la tua, e che ora è chiaramente di tua figlia: un caos di libri e vestiti, un asciugamano umido gettato sul pavi-mento, tazze sporche sul comodino, puzza di fumo, il tanfo nauseante dei gigli in decomposizione, afflosciati in un vaso vicino alla finestra.

D’istinto, mi sono messa a riordinare. Ho sistemato alla me-glio le lenzuola e riportato l’asciugamano al suo posto, nel pic-colo bagno comunicante con la stanza. Ero in ginocchio per recuperare un piatto sporco finito sotto il letto, quando ho sen-tito la tua voce, come una stilettata al cuore.

«Che cazzo stai facendo?»

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Jules

Ho sobbalzato, cercando di rimettermi in piedi, con un sorriso trionfante sulle labbra. Si erano sbagliati, lo sapevo! Non te n’eri andata, eri lì, sulla porta, che mi ordinavi di togliermi dal-le palle. Avevi sedici o diciassette anni, mi afferravi per la vita, affondandomi le unghie dipinte nella carne. Julia, brutta ciccio-na, ti ho detto FUORI!

Il mio sorriso si è spento subito: naturalmente non eri tu, ma tua figlia, quasi identica a te da adolescente. Era ferma sulla porta, con una mano sul fianco. «Che cosa stai facendo?» ha ripetuto.

«Scusa» ho risposto. «Sono Jules. Non ci siamo mai viste... Sono tua zia.»

«Non ti ho chiesto chi sei» ha ribattuto lei, guardandomi come se si trovasse davanti un’imbecille. «Ti ho chiesto cosa fai. Che stai cercando qua dentro?» Ha lanciato un’occhiata alla porta del bagno, poi ha aggiunto: «Di sotto c’è la polizia». È scomparsa nel corridoio: gambe lunghe, passi indolenti, le in-fradito strascicate sul pavimento.

Le sono corsa dietro.«Lena...» Le ho appoggiato una mano sul braccio, ma lei si è

scansata, quasi il contatto le avesse bruciato la pelle, e si è gira-ta verso di me. «Mi dispiace» ho sussurrato.

Lei ha abbassato lo sguardo, massaggiandosi il punto in cui l’avevo toccata. Le unghie avevano tracce di smalto blu, sem-

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bravano le dita di un cadavere. Ha annuito, senza alzare gli occhi. «La polizia vuole parlare con te.»

Non me l’ero aspettata così, sai. Credevo che avrei trovato una bambina, ancora intontita dal dolore, bisognosa di confor-to, ma mi sbagliavo. Lena non è affatto una bambina, ha quin-dici anni ed è quasi un’adulta ormai, e quanto al conforto, be’, sembrava poterne fare a meno. Del mio, se non altro. È pur sempre tua figlia.

I poliziotti aspettavano in cucina. Erano in piedi vicino al tavolo, lo sguardo fuori dalla finestra, verso il ponte. Erano due: un tizio alto, con un’ombra di barba brizzolata, e una donna parecchio più bassa di lui.

L’uomo mi si è lentamente avvicinato, gli occhi chiari, quasi grigi, fissi su di me. «Ispettore Sean Townsend.» Ha allungato la mano e ho notato un lieve tremore. Quando gliel’ho stretta, era fredda e ruvida come carta, sembrava quella di un vecchio. «Mi dispiace per la sua perdita.»

Che strano sentire quelle parole. Sono le stesse che mi hanno detto ieri, quando sono venuti a darmi la notizia. Le avevo qua-si pronunciate anch’io poco prima, con Lena. Ma ora suonava-no diverse. La mia perdita... Avrei voluto replicare che tu non ti sei persa, che non è così che funziona con te. Loro non ti cono-scono, Nel. Non sanno di che pasta sei fatta.

L’ispettore Townsend mi stava osservando, in attesa che di-cessi qualcosa. Troneggiava su di me in tutta la sua altezza, ma aveva un fisico magro e affilato, sembrava quasi che ad avvici-narsi troppo si corresse il rischio di tagliarsi. Lo guardavo anco-ra quando mi sono accorta che la collega a sua volta mi stava fissando, la sua faccia un capolavoro di compassione.

«Erin Morgan. Sentite condoglianze.» Aveva la pelle oliva-stra, gli occhi scuri e i capelli di un nero corvino, quasi blu. Li portava pettinati all’indietro, ma alcuni riccioli erano sfuggiti all’altezza delle tempie e dietro le orecchie, dandole un’aria qua-si discinta.

«Il sergente Morgan farà da tramite tra lei e la polizia» mi ha

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spiegato Townsend. «La terrà aggiornata sull’andamento delle indagini.»

«Perché... ci sono delle indagini in corso?» ho chiesto stupi-damente.

La donna ha annuito, ha sorriso e mi ha fatto cenno di seder-mi al tavolo della cucina, poi ha preso posto di fronte a me. L’ispettore, con gli occhi bassi, ha iniziato a strofinarsi il palmo della mano destra contro il polso sinistro, con movimenti rapidi e nervosi: uno, due, tre.

Il sergente Morgan aveva cominciato a parlare. Il tono dolce e rassicurante della sua voce faceva a pugni con le parole che uscivano dalla sua bocca. «Il corpo di sua sorella è stato avvi-stato ieri mattina presto, nel fiume, da un uomo che era uscito per portare fuori i cani.» Accento londinese, una voce esile co-me un filo di fumo. «Dai primi accertamenti sembra che sia ri-masto in acqua per poche ore.» Ha guardato l’ispettore, poi di nuovo me. «Sua sorella era completamente vestita e le ferite sono compatibili con una caduta dall’alto.»

«Credete che sia caduta?» ho chiesto. Guardavo i poliziotti e Lena, che era scesa in cucina con me e si era appoggiata al ban-cone, dall’altra parte della stanza. Scalza, indossava un paio di leggings neri e una canottiera verde che lasciava scoperte le spalle e aderiva al seno, appena accennato. Ci ignorava, come se ciò che stava accadendo nella sua cucina fosse una scena normale, ordinaria. Roba di tutti i giorni. Teneva in mano il cellulare e faceva scorrere lo schermo con il pollice mentre con l’altro braccio si cingeva la vita. Era una ragazzina minuta, il suo avambraccio poco più spesso del mio polso. La osservavo: la bocca grande e l’espressione imbronciata, le sopracciglia nere, i capelli biondo scuro che le ricadevano sul viso.

Doveva essersi accorta che la stavo fissando, perché ha alzato lo sguardo e ha sgranato gli occhi per un attimo, costringendo-mi a guardare altrove. «Non penserete mica che sia caduta?» ha chiesto, con una smorfia sulle labbra. «Andiamo, lo sapete me-glio di me.»

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Lena

Erano tutti lì a fissarmi. Mi veniva da urlare, dir loro di andar-sene, cacciarli dalla nostra casa. Dalla mia casa. È casa mia, nostra, non sarà mai sua. La zia Julia. L’ho beccata in camera a frugare tra le mie cose prima ancora di essersi presentata! Poi ha cercato di essere carina e mi ha detto che le dispiaceva, ma io non me la bevo. Lo so che non gliene frega niente.

Non dormivo da due giorni, e non avevo voglia di parlare con nessuno. Di certo non con quella lì. Non avrei saputo che farmene del suo aiuto, e neanche delle sue condoglianze del cazzo. Ma soprattutto non avevo voglia di ascoltare teorie strampalate su quello che era successo a mia madre da gente che neppure la conosceva.

Sarei dovuta starmene zitta, ma quando hanno detto che po-teva essere caduta sono andata su tutte le furie: è ovvio che non è andata così. Non è possibile, non capiscono. Non è stato un incidente: lo ha fatto di sua volontà. Immagino che non faccia alcuna differenza ora, ma dovrebbero almeno avere il coraggio di ammettere la verità.

L’ho proprio detto. «Mia madre non è caduta. Si è buttata.»Il sergente ha iniziato a farmi domande idiote: perché lo pen-

savo? Era depressa? Aveva già provato a togliersi la vita? Zia Julia se ne stava lì a fissarmi con quegli occhi marroni tristi e lacrimosi, come se fossi un mostro.

«Era ossessionata dal fiume, da tutte le storie che lo riguar-

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dano, dalle persone che ci sono morte, là dentro. Lo sapete benissimo. Lo sa persino lei» ho replicato, guardando Julia.

Lei ha aperto e chiuso la bocca senza dire niente, sembrava un pesce. Una parte di me avrebbe voluto raccontare tutto, per filo e per segno, ma a cosa sarebbe servito? Dubito che siano in grado di capire.

Sean, o meglio, l’ispettore Townsend, come immagino di do-verlo chiamare quando è in servizio, si è messo a fare domande a Julia: quando aveva sentito mia madre l’ultima volta? Come stava? C’era qualcosa che la faceva soffrire? E allora zia Julia ha mentito.

«Non ci sentivamo da anni» ha risposto, ed è diventata rossa come un peperone. «Ci eravamo allontanate.»

Sapeva che la stavo ascoltando, e sapeva che io so. So che stava dicendo un mucchio di cazzate. E infatti è diventata anco-ra più rossa, viola praticamente, e allora ha cercato di spostare l’attenzione su di me. «Lena, perché pensi che si sia buttata?»

L’ho fissata a lungo prima di rispondere. Volevo che sapesse che le leggevo dentro. «Mi stupisce che tu me lo chieda. Una volta non l’avevi accusata di coltivare un... com’era? Desiderio di morte?»

Si è messa subito a scuotere la testa e ha balbettato: «Ma no... Io non ho detto questo... non intendevo...». Bugiarda.

A quel punto l’altra detective, la donna, ha cominciato a dire che «alla luce degli indizi raccolti non ci sono prove per dimo-strare che si sia trattato di un atto volontario», e poi che non era stato trovato alcun messaggio di addio.

Sono scoppiata a ridere. «Secondo voi mia madre era tipo da lasciare un biglietto? No, non lo avrebbe mai fatto. Cioè, sareb-be stato troppo banale per lei.»

Julia ha annuito. «Sì... ha ragione. Posso immaginare Nel che vuole insinuare il dubbio... Le piacevano i misteri. Avrebbe adorato crearne uno intorno a sé.»

Giuro che l’avrei presa a schiaffi. Stronza! È anche colpa tua! avrei voluto gridare.

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La poliziotta ha iniziato a versare bicchieri d’acqua per tutti, ha provato a darmene uno, ma io non ce la facevo più. Stavo per scoppiare in lacrime e non volevo farlo davanti a loro.

Sono salita in camera, ho chiuso la porta e mi sono abbando-nata a un pianto silenzioso, con la faccia dentro un foulard. Ho cercato di trattenermi, di non lasciarmi andare del tutto, perché sentivo che non sarei riuscita più a smettere.

Ho provato a fermare le parole che prendevano forma nella mia testa: Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. È stata colpa mia. Guardando la porta ho ripensato a domenica sera, quando la mamma era venuta ad augurarmi la buonanotte. «Lena,» aveva detto «qualunque cosa succeda, sai che ti voglio bene, vero?» Io mi ero infilata gli auricolari, ma sapevo che lei era rimasta lì, in piedi, a guardarmi. Capivo che era triste e mi faceva piacere, perché credevo che se lo meritasse. Darei qualsiasi cosa per tornare indietro a quel momento, alzarmi dal letto, abbracciar-la e dirle che anch’io le volevo bene e che non era colpa sua, che non avrei mai dovuto accusarla del contrario. Se lei era colpe-vole di qualcosa, allora lo ero anch’io.

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