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COLLANA 50 1 1/3 2/3 3/3 Nome e numero collana o pagina bianca Eliminare il numero di pagina nelle bianche, nei frontespizi, nel colophon, nellʼindice ecc. Costruisci una gabbia immaginaria (gabbia testo) allʼinterno della quale inserirai il testo. Sarà necessario impostare i seguenti margini: in testa cm 1,8 al piede di cm 2,2 sul dorso cm 1,5 controdorso cm 1,5

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COLLANA50

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Nome e numero collanao pagina bianca

Eliminare il numero di pagina nelle bianche,nei frontespizi, nel colophon, nellʼindice ecc.

Costruisci una gabbia immaginaria(gabbia testo) allʼinterno della quale

inserirai il testo.Sarà necessario impostare

i seguenti margini:

in testa cm 1,8al piede di cm 2,2sul dorso cm 1,5

controdorso cm 1,5

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Introduzione di Nome Cognome

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AUTORE AUTORETitolo titolo titolo

Frontespizio

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Cont

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INTRODUZIONEdi Nome Cognome

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Introduzione, prefazione,inizio capitolo

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È stato pubblicato nel 1909,ma sotto tutti gli aspettiMartin Eden è ancora un romanzo ottocentesco, dalsolido, e tradizionale, impianto realistico: la strutturanarrativa non ha, perciò, maggiormente distinguonoil Novecento letterario, cioè nessuna frantumazionedel reale nel pulviscolo di punti di vista soggettivi e tantomeno ardite sperimentazioni stilistiche e metaforiche.

Il che non deve sorprendere: Jack London, infatti,si è formato nella temperie culturale dell’America deglianni novanta dell’Ottocento, al pari di narratori comeStephen Crane, Frank Norris o Harold Frederic chepiù da vicino con London condividono questo rapportostretto e criticamente dialettico con pubblico e valoridi una moderna società di massa.

È la generazione di quelli che anche le storie lette-rarie più recenti definiscono tuttora i “naturalisti”americani, pur se la definizione non può rendereconto delle tante differenze, di stilemi espressivi e dipunti di vista, nella loro comune fedeltà programma-tica a un realismo influenzato da certi esiti dellanarrativa francese del tardo ottocento, di un Zola, inparticolar modo.

Nel caso di London, le modalità espressive e le tecni-che narrative sono certamente ispirate a una sorta di

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Inizio testo (Introduzione, parte, capitolo, ecc.)lasciare uno spazio bianco di circa 1/3

della gabbia

Rientro della prima rigadel paragrafo. Non si applica

al primo paragrafo

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verismo naturalista, e anzi maggiormente marcatedalla lezione darwiniana, nella versione di HerbertSpencer, che l’aveva tradotta in chiave di interpreta-zione dell’intera storia umana e sociale.

A tutto questo, nel caso di London, si dovrebberoaggiungere l’ibrida mescolanza fra un socialismoutopico e rivoluzionario e le suggestioni irrazionaliche London rinveniva in una certa vulgata del Supe-ruomo nietschiano.

Jack London aveva cominciato a lavorare alromanzo nel 1907, durante la lunga crociera sulloSnark, la costosissima imbarcazione che si era fattocostruire e sulla quale, quello stesso anno, avevalasciato San Francisco alla volta delle Hawaii, delleisole Marchesi, delle Samoa e delle Figi per poi raggiun-gere Sidney in Australia, dove rimase fino al maggiodel 1909.

All’epoca, i suoi diritti d’autore s’aggiravano sui75.000 dollari l’anno, una cifra enorme per queltempo, era, insomma, all’apice del successo: bastipensare a Il richiamo della foresta (1903), Zanna bianca(1906), Il tallone di ferro (1907) e ad alcuni celebriracconti sul Grande Nord come La legge della vita(1902), Batard (1904) e soprattutto il bellissimo Farsiun fuoco, quest’ultimo composto, significativamente,nello stesso anno diMartin Eden, ma pubblicato l’annosuccessivo, nel 1910.

A eccezione di Il tallone di ferro, profetica utopiaiscritta in una visione apocalittica della lotta rivolu-zionaria, uno stretto rapporto di continuità lega fraloro questo romanzo e quegli apologhi sul Klondikee sulla caccia all’oro nell’Alaska, che, al contrario,sono collocati sullo sfondo di un paesaggio pre-storico,quasi pre-umano, in un tempo Prima di Adamo, percitare il titolo di una raccolta di racconti.

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I numeri di pagine pari sarannosempre sulla pagina di sinistra

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Nel grande Nord, nell’orizzonte insieme vasto echiuso dei suoi paesaggi innevati, immersi nel “biancosilenzio” di una Natura indifferente e nemica, siconsumano inesorabilmente sogni e illusioni di uominialla deriva, negativi anti-eroi della condizione ameri-cana moderna: ciascuno chiuso nella propria conna-turata e radicale solitudine, tutti combattono unavana lotta per la sopravvivenza, solo per soccomberefatalmente dinanzi alla feroce “legge della vita”, aibrutali rapporti di forza che regolano ogni aspettodella natura e dei rapporti sociali.

Confinate in uno spazio e in un tempo remotissimie arcaici, queste storie sono, tuttavia, la trasposizionemetaforica e la rappresentazione drammatica, inapologhi e favole esemplari, di quella giungla primeva,che è, agli occhi dell’anarchico e socialista London,la società americana nel pieno della sua espansionecapitalistica, vissuta come una selvaggia naturaseconda, dove ogni storia umana è azzerata da unaradicale negazione della sua edenica innocenza.

Non casualmente nel celeberrimo Farsi un fuoco,ad esempio, l’eroe non ha volto né storia ed è soprat-tutto solo: civiltà, rapporti umani, speranze, ricordi,legami sociali sono a monte del racconto, passato irre-cuperabile, inesorabilmente abraso anche come remo-tissima memoria.

* * *

La storia è azione pura, dura e nuda rappresenta-zione di quell’incalzante precipitare di ogni inizio, diogni avventura verso l’“irrefutabile fatto” della loro fine.

Per questo, ogni racconto del grande Nord si avviasolo dal punto declinante della parabola, quandotutto è stato detto e non resta che l’attesa di ciò chesolo si attendeva, del momento, cioè, in cui inizio e

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I numeri di pagine dispari sarannosempre sulla pagina di destra

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fine della storia si identificano e combaciano, e nonresta che il confronto supremo dell’uomo con se stesso.

Lo scenario è fisso, spoglio ed essenziale: un uomosolo, un animale che inquieto e diffidente lo accom-pagna e ne fiuta la fine, e una ostile, bianca, gelidanatura, ammantata di nevi, abbaglianti e senza vita.

L’anonimato di questo antieroe eponimo è quellodelle favole e delle leggende: l’identità collettiva in luiesemplificata gli è tragicamente conferita da questosuo misurarsi con l’essenziale e l’inevitabile di ognivita, la propria incombente morte.

Quell’ultima incarnazione del sogno americano edella ricchezza a portata di tutti che è stata l’avventuranel Klondike e su per le terre e i ghiacci dello Yukon,è rovesciata nel suo esatto opposto, è non solo la finedella libertà e della avventura, ma la rappresenta-zione di un incubo e di una regressione.

Il passato remoto e arcaico della “fabula” haraccontato, nelle forme di un’amarissima epica popo-lare, il più contemporaneo presente, un’età di vorace,aggressivo e vitale individualismo.

InMartin Eden il punto di vista non è diverso: siamonel presente, la storia è tutta iscritta nell’orizzonte diuna società storicamente determinata, è l’America difine Ottocento e una città, San Francisco, croceviad’ogni avventura, una miscela di etnie, di esistenzeavventurose, di sogni grandiosi, di traffici clande-stini, di dure realtà di miseria e di sfruttamento,estrema propaggine di quella frontiera a ovest cheaveva raggiunto gli spazi illimitati dell’oceano Paci-fico, già aperti a future espansioni.

E tuttavia anche quella di Martin Eden è una clas-sica storia americana di successo e di fallimento daromanzo naturalista, non dissimile da quelle che scri-veva un romanziere come Frank Norris (McTea-

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gue,1899).Il ventenne Martin Eden ha iscritto già nel suo

cognome, in forma di ossimoro, la caduta non in unainnocenza edenica ritrovata, ma fuori di essa, nelpercorso della sua perdita.

Sin dal suo primo apparire, Martin mostra persinonel suo corpo, nei gesti e nei movimenti, le stimmatedel destino che lo attende.

Alto, grandi occhi grigio-acciaio sfumanti nell’az-zurro, capelli castani ondulati, fronte quadrata,labbra piene e sensuali, l’andatura ondulante eincerta del marinaio disabituato a camminare sullaterraferma, Martin è come un giovane animale ches’aggira nel territorio sconosciuto e nemico della“civile” società borghese, sembra percorrere, in unaparola, il medesimo cammino a ritroso - dalla storiaumana alla primitiva, ferina, lotta per la vita nellapiù arcaica notte dei tempi - del cane Buck, in Ilrichiamo della foresta.

Martin pensa di avere incontrato in Ruth la quin-tessenza di ciò che lui, fra le nebbie della sua inno-cenza, ritiene la bellezza e la perfezione spirituale.

Ai suoi occhi, insomma, Ruth sarà a lungol’incarnazione raffinata ed eterea del “sublime”romantico, per giunta filtrato attraverso la non casualelettura di poesie di Swimburne e di Browning.

Martin ignora il proprio auto-inganno, ma i segnaliche London dissemina ci anticipano l’abisso e la estra-neità profonda, anzi la minaccia mortale chel’idealizzazione della donna amata rappresentanoper lui.

Ruth non crede alle aspirazioni artistiche di Martin,vorrebbe che si guadagnasse una rispettabile posi-zione economica e sociale prendendo a modelli ilpadre e in particolare il signor Butler, esempio moltoamericano di self-made man.

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DA EVITARERIGHE VEDOVE(ultima riga del paragrafo a inizio pagina)RIGHE ORFANE(prima riga del paragrafo a fine pagina)

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Dietro la maschera delle sue buone intenzioni edella sua sensibilità culturale nutrita di nozionismie di cliché, Ruth in realtà considera Martin unascommessa su cui investire, a conferma di tutto ciòche le hanno insegnato: nella relazione fra un uomoe una donna i sentimenti sono quelli letti in libripurgati d’ogni incendio d’amore, o che si d’ogniincendio d’amore, o quelli che si esprimono nellaroutine tranquilla e agiata dei suoi genitori, lapassione è il perturbante da espungere, e il matri-monio, infine, è una transazione accorta, un benedi consumo e ancor più un patrimonio da salva-guardare.

In Ruth, però, se appena si scrostano la vernice delperbenismo piccolo borghese e le sembianze delromanzo da affinità elettive, affiora ben visibile ilsostrato ferino del dominio e della lotta.

Titolo titolo titolo

Ne sono una spia il moto di attrazione e repulsioneche la inquieta, e soprattutto l’impulso incontrol-labile, vanamente represso o occultato, di metterele mani e stringere forte il robusto, virile, collo diMartin, eloquente gesto del possesso e del dominio.

La stessa ambivalenza è tuttavia propria anche diMartin: l’Arte, il sogno di una bellezza perfetta, ilsuccesso come scrittore, la fama che lo renderà liberoper sempre, sono chiaramente indicati da Londoncome mezzo per altro, per l’acquisizione di quellostatus borghese che, ai suoi occhi, lo riscatterà dalledegradazioni e dallo squallore della sua classe diorigine.

Arte e bellezza sono una sorta di preda simbolica,l’oggetto di una lotta e di una caccia, dunque sono

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Titoletto:Senza rientro e più staccato dal

paragrafo precedente.Il paragrafo che segue non prende

il rientro

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anch’esse per lui, in qualche modo una merce di scam-bio, soggetta come tutte le altre a una logica di mercato,alla misura dell’utile.

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DA EVITAREFine introduzione, parte,

capitolo, ecc. con poche righe.Lasciarne almeno 5-6.

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JACK LONDONMartin Eden

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Capitolo I1/3

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Inizio capitolo

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Un uomo aprì la porta con una chiave ed entrò, segui-to da un altro, più giovane, che, con imbarazzo, sitolse il berretto. Questi indossava rozzi abiti che odora-vano di mare e si sentiva chiaramente fuori posto nellaampia entrata in cui si era ritrovato. Non sapeva chefare del suo berretto, e stava cacciandolo nella tascadella giacca quando l’altro glielo prese. Il gesto fu fattocon calma e naturalezza e l’imbarazzato giovane loapprezzò: “Mi capisce” - fu il suo pensiero - “e mi daràuna mano”.

Camminò alle spalle dell’altro facendo dondolarele spalle e tenendo le gambe naturalmente larghe,come se l’impiantito si alzasse e rollasse secondo ilsollevarsi e il ricadere delle onde del mare. Le vastestanze sembravano troppo strette per la sua andaturaondeggiante ed era spaventato quasi potesse con lesue larghe spalle urtare contro gli stipiti delle porte ofar cadere i gingilli dalla mensola del caminetto. Siritraeva ora da uno ora dall’altro dei tanti oggetti emoltiplicava i pericoli che esistevano, in realtà, solonella sua testa. Tra un pianoforte a coda e un tavolocentrale con alte pile di libri c’era spazio per unamezza dozzina di persone che camminassero unaaccanto all’altra, tuttavia lo affrontò con trepidazione.

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Le grandi braccia gli pendevano larghe lungo i fian-chi. Non sapeva proprio che fare delle sue braccia edelle sue mani, e quando, alla sua alterata impressio-ne, parve che un braccio stesse per finire contro i librisul tavolo, ebbe uno scarto come un cavallo spaven-tato, mancando di poco lo sgabello del piano. Osser-vò la maniera sicura di procedere dell’altro, che gli eradavanti, e si rese conto per la prima volta che la suacamminata era diversa da quella degli altri. Avvertì unmomento di vergogna per la sua goffaggine. La fron-te gli si imperlò di piccole gocce di sudore, così sifermò e asciugò con un fazzoletto il viso abbronzato.

- Fermati, Arthur, ragazzo mio - disse allora, cercan-do di mascherare l’ansietà con un tono scherzoso. -Questo è troppo per il tuo amico, tutto in una volta.Lo sai che non volevo venire. Dammi la possibilità diriprendermi. E poi credo che la tua famiglia non abbiaproprio alcuna voglia di vedermi.

- Va tutto bene - fu la rassicurante risposta - nondevi avere soggezione di noi. Siamo gente allabuona… Oh! C’è una lettera per me.

Si avvicinò al tavolo, strappò la busta e cominciò aleggere, dando all’estraneo la possibilità di riprender-si. E questi capì e apprezzò. Aveva il dono della simpa-tia e di saper comprendere gli altri; e dietro il suo allar-mato aspetto, la simpatia continuava a fare il suo effet-to. Si asciugò di nuovo la fronte e si guardò attornocercando di controllare il proprio atteggiamento,sebbene negli occhi gli restasse un’espressione daanimale selvatico sospettoso, che avverte una trappo-la. Si sentiva in una realtà sconosciuta, apprensivo perquel che sarebbe potuto accadere e non sapendo quelche avrebbe dovuto fare, con la consapevolezza dicamminare e comportarsi in maniera goffa, timorosoche ciò influisse negativamente anche su ogni suopotere e qualità. Aveva un’acuta sensibilità, era asso-

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lutamente impacciato, e lo sguardo divertito che l’altrogli rivolse nascosto dietro la lettera gli bruciò come laferita di un coltello. Notò quello sguardo, ma non lofece capire, perché tra le cose che aveva imparato c’eral’autocontrollo. Del resto la lama di quell’occhiatal’aveva colpito nell’orgoglio. Si maledisse per esserevenuto, ma allo stesso tempo decise che, avendolofatto, qualsiasi cosa fosse accaduta, sarebbe andatosino in fondo. L’espressione del suo viso si irrigidì enei suoi occhi apparve una luce di sfida. Si guardòattorno con più tranquillità, osservando con attenzio-ne e registrando nella sua testa ogni particolare dellagraziosa casa. Teneva gli occhi ben aperti e non glisfuggiva nulla di ciò che era nel suo campo visivo. Ementre assorbivano l’armonia circostante il suo sguar-do combattivo si spegneva e ne prendeva il posto unacalda luminosità. Era sensibile alla bellezza, e lì c’eramateria per esserlo2.

Un quadro ad olio attrasse la sua attenzione. Unaforte onda spumeggiante si frangeva con violenza suuno scoglio sporgente; basse nuvole temporaleschecoprivano il cielo; e, sopra la linea delle onde, unagoletta, di bolina stretta, s’inclinava sino a mostrareogni dettaglio del ponte, impennandosi contro un cielotempestoso al tramonto. Aveva una sua bellezza, equesto lo attrasse irresistibilmente. Dimenticò il suoprocedere impacciato; si avvicinò al quadro, gli andòmolto vicino, e ogni bellezza svanì dalla tela. Restòvisibilmente stupefatto. Rimase a fissare quel che oragli pareva un dipinto tutto macchie senza grazia, quin-di se ne allontanò dinuovo. E immediatamente ilquadro riacquistò tutta la sua bellezza. “Un dipinto col

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2 A causa della malattia che condusse Tarchetti alla morte, questo capito-lo venne lasciato incompiuto e portato poi a termine dall’amico SalvatoreFarina.

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NOTENel testo e nella nota mettere

il numero allʼapice. Il corpo della nota vain corpo più piccolo rispetto al testo

(circa 2-3 corpi). Staccare la nota dal testodi almeno 2 righe.

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trucco”, pensò allora, lasciandolo subito perdere. Nellamoltitudine di confuse impressioni che avvertiva, ebbeil tempo, nonostante tutto, di sentire una puntad’indignazione davanti a tanta bellezza sacrificata perrealizzare uno scherzo. Non sapeva nulla di pittura. Siera formato su stampe colorate e litografie che eranosempre ben nitide e definite, da vicino e da lontano.In verità, aveva già visto quadri a olio, nelle vetrinedei negozi, ma i vetri avevano impedito ai suoi occhiavidi di avvicinarsi troppo.

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Capitolo II

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Inizio capitolo

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L’operazione per entrare in camera da pranzo fu perlui un incubo. Tra arresti e tentennamenti, scarti eondeggiamenti, procedere in certi momenti gli pare-va impossibile, ma alla fine riuscì a farlo e si ritrovòseduto accanto a lei. Lo spaventò lo schieramento dicoltelli e forchette, che erano irti di sconosciuti peri-coli e li guardava, affascinato, finché il loro luccichiodivenne lo sfondo sul quale si muovevano immaginiin successione di castelli di prua entro cui, lui e i suoicompagni, mangiavano seduti manzo salato con lemani e coltelli a serramanico, o svuotavano una gavet-ta piena di una densa zuppa di piselli con cucchiai diferro tutti ammaccati. Nelle sue narici sentiva il tanfodella carne cattiva, mentre nelle orecchie gli riecheg-giava il suono delle loro bocche rumorose, accompa-gnato dagli scricchiolii delle tavole e dal cigolare delleparatie. Li osservò mentre mangiavano e decise chelo facevano come maiali. Bene, lui invece avrebbefatto attenzione. Non avrebbe fatto alcun rumore. Nonsi sarebbe distratto per tutto il tempo.

Diede uno sguardo in giro per il tavolo. Di fronte alui si trovavano Arthur e suo fratello Norman. Erano ifratelli di Ruth, si disse, e il suo cuore si scaldò perloro. Come si amavano l’un l’atro, i membri di questa

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famiglia! Gli balenò in mente l’immagine della madredi lei, il bacio di benvenuto, e come assieme, avesse-ro camminato abbracciate verso di lui. Nel suo mondonon esistevano tali dimostrazioni di affetto tra genito-ri e figli. Era una rivelazione delle vette cui l’esistenzaera capace di giungere in un mondo a lui superiore.Fino allora era la cosa più bella cui avesse assistito inquella sua piccola, rapida visione di quella realtà.Rendendosene conto, si era commosso profondamen-te e il suo cuore si era sciolto per simpatia e tenerez-za. Era sempre stato affamato d’amore, in tutta la suavita. La sua natura implorava amore. Era un’intimaesigenza della sua natura. Invece era andato avantiignorandola, indurendosi nel tempo. Non si era resoconto di aver bisogno d’amore, e non se ne rendevaconto nemmeno ora. Si era emozionato semplicemen-te vedendolo in atto e l’aveva trovato bello, nobile,splendido.

Era lieto che il signor Morse non fosse là. Era giàabbastanza complicato familiarizzare con lei, e suamadre e suo fratello Norman. Arthur già lo conosce-va in qualche modo. Era sicuro che il padre sarebbestato troppo per lui. Gli sembrava di non aver mailavorato così sodo nella sua vita. La fatica più aspraera, a confronto, un gioco da bambini. Piccole goccedi sudore comparivano sulla sua fronte e la sua cami-cia era bagnata per l’impegno di fare tante cose, perlui inusuali, allo stesso momento. Doveva mangiarecome non aveva mai mangiato prima, impugnandostrani utensili, guardandosi attorno furtivamente permettere in atto tutte quelle novità, e ricevere l’ondatadi impressioni che si riversava su di lui, contempora-neamente annotandole e classificandole mentalmen-te; aveva la coscienza di essere attratto da Ruth, il chelo turbava sotto forma di un’inquietudine sorda e dolo-rosa; avvertiva la spinta del desiderio di arrivare a

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conquistare il livello di vita in cui lei si muoveva, e isuoi pensieri di continuo si perdevano in speculazio-ni e vaghi piani sul come raggiungerlo. In più, quan-do il suo sguardo furtivo si rivolgeva a Norman, chegli era davanti, o a qualsiasi altro dei presenti, percercar solo di capire quale tipo di forchetta o di coltel-lo andasse usato in ogni particolare occasione, lesembianze di quella persona si fissavano nella suamente che, automaticamente, cercava di comprende-re e indovinare quale valore avessero… sempre inrelazione a lei. Inoltre doveva parlare, ascoltare quelche gli veniva detto e quel che veniva detto attorno,e rispondere, quando era necessario, con la sua linguaabituata a parlare senza regole, e che richiedeva uncostante controllo. Per aggiungere imbarazzo a imba-razzo, c’era il cameriere, una minaccia continua chesi avvicinava silenziosamente alle sue spalle, una terri-bile sfinge che proponeva misteri ed enigmi, chie-dendogli di risolverli istantaneamente. Per tutto ilpasto si sentì schiacciato dal pensiero delle coppettelavadita. Insistentemente, senza preavviso, in ognimomento si immaginava quando sarebbe venuto illoro momento e che aspetto avrebbero avuto. Avevasentito parlare di cose simili, e ora, prima o dopo,comunque nel giro dei minuti seguenti, le avrebbeviste, seduto alla stessa tavola con esseri elevati chele usavano, e, sì, le avrebbe usate anche lui stesso.Ma più importante di tutto, in profondità, ma pursempre sulla superficie dei suoi pensieri, c’era ilproblema di come avrebbe dovuto comportarsi versoqueste persone. Quale avrebbe dovuto essere il suoatteggiamento? Con ansia e senza sosta combattevacon quel problema. Gli veniva l’idea vile che avreb-be dovuto cercar di apparire in qualche modo, reci-tare una parte; e poi ancora più vigliaccamente pensa-va che non sarebbe riuscito in tale intento, che la sua

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natura non era adatta a far cose simili, e che avrebbefatto la figura dello sciocco.

Durante la prima parte del pranzo, in lotta nel deci-dere come comportarsi, fu molto silenzioso. Non sape-va che quel suo essere taciturno veniva a smentire leparole di Arthur il giorno precedente, quando il fratel-lo di lei aveva annunciato che stava per portare a casaper pranzo un uomo selvatico, ma che non si allar-massero, perché lo avrebbero trovato interessante nellasua selvatichezza. Martin Eden, proprio allora, nonsarebbe mai riuscito a credere che il fratello di Ruth sifosse potuto macchiare di una tale perfidia… in parti-colare, visto che era stato lui a tirarlo fuori da una brut-ta rissa. Così sedeva a tavola, turbato dalla sua inade-guatezza e allo stesso tempo affascinato da tutto ciòche gli accadeva attorno. Per la prima volta compre-se che mangiare era qualcosa di più di un’azionefunzionale, pur non avendo coscienza di quel chemangiava. Era semplicemente cibo. A quel tavolo stavacelebrando il suo amore per la bellezza. Il mangiare lìaveva una funzione estetica e anche una funzione intel-lettuale. La sua mente era eccitata. Ascoltava pronun-ciare parole che per lui erano prive di significato, ealtre che aveva trovato solo nei libri e nessun uomo odonna che avesse mai conosciuto aveva il calibromentale sufficiente per pronunciarle. Quando udivatali parole che uscivano senza fatica dalle labbra deimembri di quella meravigliosa famiglia, la famiglia dilei, vibrava di piacere. La passione, la bellezza e laforza vigorosa dei libri stavano diventando realtà. Erain quella rara e benedetta condizione in cui un uomovede i suoi sogni innalzarsi dai recessi della propriafantasia e divenire concreti.

Non aveva mai vissuto a livelli così alti e cercava ditenersi in disparte, ascoltando, osservando e provan-do piacere. Rispondeva a monosillabi reticenti: a lei

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“Sì, signorina” e “No, signorina” e a sua madre “Sì,signora” e “No, signora”. Controllò l’impulso di rispon-dere, come gli sorgeva spontaneo per la sua educa-zione marinara, “Sì, signore” e “No, signore” ai suoifratelli. Sentì che sarebbe stato inappropriato e comeun’ammissione di inferiorità da parte sua… che nonsarebbe stato davvero il caso se voleva conquistarla.Inoltre era un imperativo del suo orgoglio. “Per Dio!”- esclamò una volta dentro di sé - “Valgo quanto loroe se sanno un sacco di cose che io non so, potreicomunque insegnargliene qualcuna anch’io”.

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Capitolo III1/3

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Inizio capitolo

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Martin Eden, mentre scendeva le scale, ficcò la manonella tasca della giacca. La estrasse con un fogliettomarrone di carta di riso e un pizzico di tabacco messi-cano, che rollò abilmente insieme per farsene una siga-retta. Aspirò profondamente la prima boccata di fumoe poi la mandò fuori con un’esalazione lunga e lenta.- Per Dio! - esclamò ad alta voce, con stupore e mera-viglia. - Per Dio! - ripeté, e di nuovo mormorò ancora- Per Dio! - Quindi portò la mano al colletto, che stac-cò dalla camicia e pigiò nella tasca. Cadeva una piog-gerella fredda, ma si levò egualmente il berretto e sislacciò la giacca, andando avanti con passo dondo-lante in una splendida indifferenza. Si era sì e no accor-to che stava piovendo: era in estasi, preda di sogni erivivendo le scene appena trascorse.

Alla fine aveva incontrato la donna… la donna cuiaveva pensato ben poco, non avendo tempo perpensare alle donne, ma che aveva sempre confusa-mente saputo che prima o poi avrebbe incontrato. Siera seduto accanto a lei a tavola. Ne aveva sentito lamano nella sua, l’aveva guardata negli occhi e vi avevascorto uno spirito bellissimo. Anche se non più splen-dido degli occhi attraverso i quali rifulgeva, non piùdel corpo che le donava forma ed espressione. Non

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pensava al suo corpo come a un corpo… E questa erauna novità per lui: perché era stato quello il solo mododi pensare alle donne che aveva conosciuto prima. Ilcorpo di lei era per qualche verso un’altra cosa. Nonriusciva appunto a pensare al suo come a un corpo,soggetto a fragilità e malattie. Il corpo di lei era benpiù di un abito per il suo spirito, una pura e graziosacristallizzazione della sua essenza divina. Questa sensa-zione di divinità lo colpì. Lo riscosse dai suoi sogniriportandolo a pensieri più sobri. Nessuna parola,nessuna traccia, nessun segno lo aveva mai presoprima d’allora. Non aveva mai creduto nel divino. Nonera mai stato religioso, prendendo in giro la disposi-zione verso Dio dei chierici e i loro discorsi sull’im-mortalità dell’anima. Non c’era vita nell’al di là, avevasempre sostenuto, c’era solo il qui e l’ora, e poi oscu-rità eterna.

Ma ciò che aveva visto negli occhi di lei era l’anima,un’anima immortale che non avrebbe potuto maispegnersi. Nessun uomo che avesse mai conosciuto,né alcuna donna, gli aveva fatto arrivare il messaggiodell’immortalità. Ma lei c’era riuscita. Glielo avevasussurrato dal primo momento in cui l’aveva guarda-to. Così mentre camminava vedeva il viso di lei splen-dere dinanzi ai suoi occhi, pallido e serio, dolce esensibile, che gli sorrideva con tenerezza e compren-sione come avrebbe potuto fare solo uno spirito, tantopuro come non aveva mai sognato la purezza potes-se essere. La sua purezza lo colpì come un pugno, esussultò. Aveva conosciuto il bene e il male, ma nonaveva mai pensato alla purezza come a un attributodell’esistenza. Ora capì che in lei la purezza era inve-ce pulizia e bontà al superlativo e che bontà e puliziaassieme formavano la vita eterna.

La sua ambizione lo spinse all’improvviso a cercardi capire cosa fosse la vita eterna. Lui non era degno

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di fare per lei la cosa più semplice, nemmeno di portar-le l’acqua, lo sapeva bene; era un miracolo della sortee una sorpresa meravigliosa che fosse stato possibilevederla e stare con lei e parlarle per tutta la notte. Maera stato un caso. Non aveva alcun merito in ciò. Nonsi era certo guadagnato una simile fortuna. Il suo statod’animo era sostanzialmente religioso, mite e umile,offeso e ferito. Era in quello stato mentale in cui ipeccatori si accostano alla penitenza. Era colpevoleperché aveva peccato, ma come le persone miti esemplici intravedono, mentre si pentono, splendideimmagini della loro futura esistenza divina, così Martinconcepì immagini di quello che avrebbe potutoraggiungere impadronendosi di lei. Ma si trattava diuna conquista vaga e indefinita, del tutto diversa daquel che aveva conosciuto fino allora. L’ambizionevolava con ali folli e lui vide se stesso scalare vette edividere con lei i propri pensieri, rallegrandosi assie-me di tutto ciò che è bello e nobile. Sognava di posse-dere un’anima, sognava un’unione purificata da ognisostanza materiale, una fratellanza libera dello spiritoche non riusciva a mettere a fuoco in modo definito.Non ci pensava, anzi, non pensava per nulla. Le sensa-zioni avevano usurpato il posto della razionalità, e luifremeva e palpitava per queste emozioni che nonaveva mai conosciute prima, piacevolmente alla deri-va in un mare di sensibilità, dove anche i sentimentivenivano esaltati e resi spirituali, trasportati oltre lesommità della vita.

Continuò a camminare come un ubriaco, mormo-rando ferventemente a voce alta - Per Dio! Per Dio!Un poliziotto all’angolo della strada lo osservò con

sospetto, notando il suo ondeggiante camminare damarinaio.

Martin Eden tornò sulla terra. Aveva un organismofluido, capace di adattarsi con rapidità e fluire riem-

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piendo ogni sorta di rientranza e irregolarità. Nonappena il poliziotto lo chiamò, tornò subito in sé, deltutto padrone della situazione.

- Ho proprio bevuto, vero? - gli disse ridendo. - Nonmi sono nemmeno accorto che stavo parlando ad altavoce.

- Tra un po’ ti metterai a cantare - fu la diagnosi delpoliziotto.

- No, non lo farò. Dammi un fiammifero e me neritornerò a casa col prossimo tram.

Si accese la sigaretta, augurò la buonanotte al poli-ziotto e andò via.

- È davvero il colmo! - esclamò sottovoce. - Il piedi-piatti credeva fossi ubriaco - pensò tra sé e sé sorriden-do. - E forse lo ero - aggiunse - e non avrei mai pensa-to che il viso di una donna riuscisse ad ubriacarmi.

Prese un tram su Telegraph Avenue che andava aBerkeley. Era pieno di giovani e ragazzi che cantava-no, urlando di tanto in tanto slogan goliardici. Li guar-dò con curiosità. Erano studenti universitari. Frequen-tavano la stessa università di Ruth, appartenevano allasua classe sociale e forse la conoscevano. Se voleva-no potevano vederla tutti i giorni. Si domandò comepotessero non volerlo, come mai fossero andati a diver-tirsi invece di passare con lei la serata, di parlarle stan-dole seduti attorno in cerchio ammirandola e adoran-dola. La sua mente continuava a divagare. Ne notòuno con gli occhi sottili e vicini e le labbra pendule.Quello è un vizioso, stabilì. Su una nave sarebbe statoun vigliacco, una spia, uno che stava sempre a lamen-tarsi. Lui, Martin Eden, era un uomo migliore di queltale. Questo pensiero lo sollevò, gli sembrò che potes-se avvicinarlo a lei. Quindi si confrontò con gli studen-ti, prendendo coscienza del meccanismo muscolaredel suo corpo, certo di essere superiore a loro fisica-mente. Ma le teste di quei giovani erano piene di

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nozioni che permettevano loro di parlare il linguag-gio di Ruth, e quell’idea lo depresse. A cosa serve, allo-ra, un cervello? Si interrogò con passione. Qualsiasicosa quei ragazzi avessero fatto, la poteva fare anchelui. Avevano studiato la vita sui libri mentre lui era statooccupato a viverla, la vita. Il suo cervello era pieno diconoscenza quanto il loro, anche se erano conoscen-ze di tipo diverso. Quanti di loro avrebbero saputofare un nodo a una cima o tenere il timone o stare divedetta? La sua vita gli scorse davanti agli occhi in unaserie di immagini tutte pericoli e sfide, fatiche e rinun-ce. Gli vennero in mente i fallimenti e le difficoltà cheaveva incontrato quando studiava. In ogni modo, tantomeglio per lui. Quei giovani avrebbero dovuto inizia-re a confrontarsi con la vita più avanti e anche lorosarebbero stati messi a dura prova, come era accadu-to a lui. Bene, molto bene. Mentre costoro erano tantooccupati, lui avrebbe potuto imparare dai libri l’altroaspetto dell’esistenza.Quando il tram attraversò la zona di abitazioni

sparse che separa Oakland da Berkeley, Martin cerca-va con gli occhi l’edificio familiare a due piani sullafacciata del quale campeggiava orgogliosa la scrittaMAGAZZINI HIGGINBOTHAM. Dopo essere scesoall’angolo, osservò l’insegna per un momento. Quel-la scritta per lui era una sorta di messaggio che anda-va al di là delle parole. Gli pareva che le lettere stes-se emanassero egoismo, sordidi imbrogli e meschi-neria. Bernard Higginbotham aveva sposato sua sorel-la e Martin lo conosceva bene. Fece girare varie voltela chiave nella serratura e quindi entrò. Salì le scalesino al secondo piano, dove abitava il cognato, mentrela drogheria era al piano di sotto. Nell’aria c’era odoredi verdure andate a male. Mentre in ingresso avanza-va a tastoni inciampò in un carretto lasciato lì da unodei suoi tanti nipoti e andò a sbattere rumorosamen-

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te contro una porta. “Quello spilorcio” - pensò allora- “è troppo tirchio per bruciare due centesimi di gase salvare il collo dei suoi inquilini”.

Tastando cercò la maniglia ed entrò in una stanzailluminata dove erano seduti sua sorella e BernardHigginbotham. Lei stava rammendando un paio dipantaloni. Lui aveva allungato il suo magro corpo sudue sedie: i piedi erano infilati in un paio di ciabatteconsumate e pendevano oltre l’orlo della secondasedia. Alzò lo sguardo dal giornale che stava leggen-do, rivelando un paio di occhi scuri, taglienti e falsi.Ogni volta che questi lo guardava, Martin provava unsenso di ripulsa. Non era riuscito mai a immaginarecosa sua sorella avesse potuto trovare in quell’uomo.Gli faceva lo stesso effetto degli insetti e avrebbe desi-derato schiacciarlo sotto i piedi. “Una volta o l’altra glistaccherò la testa”, era l’idea con cui spesso si conso-lava di doverne sopportare l’esistenza. Gli occhi, catti-vi e infidi, lo fissavano con aria di rimprovero.- Su, - lo esortò Martin - sputa fuori.- Ho fatto riverniciare quella porta solo la settima-

na scorsa - disse Higginbotham, con un tono per metàprepotente e per metà lamentoso, - sai quali sono letariffe sindacali, dovresti fare più attenzione.

Martin era sul punto di rispondergli, ma gli apparveevidente l’inutilità di farlo. Guardando oltre la mostruo-sa bassezza di quell’anima, notò appesa al muro unalitografia a colori. Ne fu sorpreso. Gli piaceva da semprema ora gli parve di vederla per la prima volta. Era dicattivo gusto, ecco quel che era, come ogni altra cosain quel luogo. La sua mente tornò alla casa che avevaappena lasciato, e rivide, per prima cosa, i quadri, poilei che lo guardava con struggente dolcezza mentre glistringeva la mano al momento di lasciarsi. Dimenticòcosì dov’era e l’esistenza di Bernard Higginbotham,finché quel gentiluomo non gli chiese:

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- Hai visto un fantasma?Martin tornò in sé e guardò quegli occhi tondi, catti-

vi e vili, beffardi, e allora vide, come su uno schermo,quegli stessi occhi quando il proprietario concludevaqualche affare nel negozio sottostante: occhi adulato-ri e falsi, servili e coo. Talvolta quasi desiderava chelei gli si opponesse con più forza. - Se lo fa di nuovo,lo butto fuori. Capito? Non voglio tollerare i suoi ecces-si… traviarmi dei bambini innocenti con le sue sbron-ze. - Il signor Higginbotham amava quella parola, eranuova nel suo vocabolario, l’aveva scovata di recen-te sulle colonne diddosso a ogni occasione. Ho anco-ra dei sentimenti, se- Ma domani è giorno di bucato,- obiettò lei debolmente.

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INTRODUZIONE DI Nome Cognome . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VII

Capitolo I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3

Capitolo II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17

Capitolo III . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29

Capitolo IV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

Capitolo V . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45

Capitolo VI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53

Capitolo VII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63

Capitolo VIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77

Capitolo IX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87

Capitolo X . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99

Capitolo XI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107

Capitolo XII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117

Capitolo XIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123

Capitolo XIV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135

Capitolo XV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149

Capitolo XVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159

Capitolo XVII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169

Capitolo XVIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177

Capitolo XIX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183

Capitolo XX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191

La prima pagina di indice èsempre sulla destra.

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Capitolo XXI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201

Capitolo XXII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209

Capitolo XXIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219

Capitolo XXIV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227

Capitolo XXV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239

Capitolo XXVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 251

Capitolo XXVII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 265

Capitolo XXVIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 281

Capitolo XXIX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 289

Capitolo XXX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 303

Capitolo XXXI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 313

Capitolo XXXII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325

Capitolo XXXIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333

Capitolo XXXIV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 341

Capitolo XXXV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 349

Capitolo XXXVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 355

Capitolo XXXVII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 365

Capitolo XXXVIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 377

Capitolo XXXIX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 383

Capitolo XL . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 393

Capitolo XLI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 403

Capitolo XLII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 411

Capitolo XLIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 423

Capitolo XLIV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 435

Capitolo XLV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 445

Capitolo XLVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 461

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© Copyright 2008 Mario Rossi

Responsabile della pubblicazione Mario Rossi

Libro pubblicato a spese dell’autore

Stampato in Italia presso Cromografica Roma S.r.l., Roma,per Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A.

L’autore è un utente del sito

Il colophon è una breve descrizione testuale,riportante le note di produzione rilevanti perlʼedizione del file destinato alla stampa. Il nomeriportato sul colophon, sarà il vero nomedellʼautore non lo pseudonimo utilizzato nellacopertina.