miscellanea civitonica di o. del frate

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Ninfeo Rosa 7 Collana di studi e ricerche della Biblioteca Comunale

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Page 1: Miscellanea Civitonica Di O. Del Frate

Ninfeo Rosa 7

Collana di studi e ricerche della Biblioteca Comunale

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ORONTE DEL FRATE

MISCELLANEA CIVITONICA Note di storia e di vita cittadina a Civita Castellana

dalle origini fino agli inizi del XX secolo.

A CURA DI LUIGI CIMARRA

Edizioni Biblioteca Comunale “Enrico Minio” Civita Castellana 2005

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Organizzazione editoriale, grafica, impaginazione Alfredo Romano Bozze Luigi Cimarra In redazione Mauro Giovanetti Marina Iacobelli Marianna Tumeo In copertina Corso Bruno Buozzi nella prima metà del ‘900 Stampa Tipografia Puntostampa di Civita Castellana ISBN 88-86903-05-7 Ringraziamenti

Al termine di questo lavoro, eseguito come disinteressato atto d’amore verso la nostra città e verso la nostra terra, ritengo doveroso esprimere il mio ringra-ziamento e la mia gratitudine a quanti mi hanno voluto prestare il loro aiuto, consentendomi l’accesso agli archivi oppure mettendo a mia disposizione ma-teriali e notizie: il Prof. Roberto Ginocchi, ricercatore e studioso di numismati-ca, che collabora con il Medagliere della Biblioteca Apostolica Vaticana: ad una sua preziosa e precisa segnalazione devo le schede relative alla piastra ar-gentea di papa Clemente XI per il ponte Clementino e alle medaglie di Sisto V per il Ponte Felice; il signor Lorenzo Casali, DSGA della I Direzione Didattica di Civita Castellana, per le ricerche effettuate nell’archivio scolastico sulla figura di Arvino Del Frate; suor Maria Soave, vicaria del monastero delle clarisse, e mons. Giuseppe Bellamaria, arciprete della basilica cattedrale, per l’autorizzazione a consultare e riprodurre i documenti conservati nell’archivio del monastero ed in quello parrocchiale; il sig. Massimo Farina, responsabile comunale del cimitero, per avermi consentito la consultazione dei ‘Registri del-le inumazioni, tumulazioni e cremazioni eseguite nel Cimitero di Civita Castel-lana’; mio figlio Jacopo, per le riproduzioni dell’inserto fotografico; il bibliote-cario Alfredo Romano, per tutto il lavoro editoriale; gli assistenti di biblioteca Mauro Giovannetti e Marianna Tumeo, per aver eseguito la trascrizione del manoscritto. In ultimo, ma non per ultima, ringrazio l’Ammnistrazione Comu-nale, per aver voluto finanziare la pubblicazione di un’opera, se si vuole mino-re, ma sicuramente utile alla conoscenza di alcuni aspetti non secondari di storia cittadina a cavallo dei secoli XIX-XX.

Luigi Cimarra

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Ma innanzi a te l’Agamennonio Aleso

sul cavallo passava armisonante, e lo seguìan le schiere

falische in ordinanza col fiammante clipeo e il cimiero su le fronti altere,

con l’asta e il braccio verso Roma teso. (Mario Franci, Nuovi canti falisci: Ad un rudero, vv.13-18)

Qui enim hodie magis ignari rerum Romanarum sunt, quam Romani cives? Invitus dico, nusquam Roma

noscitur, quam Romae. (Petrarca, Epistolario, lib. VI, ep. 2)

Per la mia Civita ho fatto quanto ho potuto con passione di figlio devoto e con sacrificio di me stesso,

sopportando anche silenziosamente amarezze infinite. (Testamento di Ulderico Midossi)

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PREMESSA

In un mondo che si va sempre più globalizzando per via delle co-municazioni, dei viaggi e dei commerci sempre più rapidi, non meravi-glia che gli usi, i costumi, la lingua, e perfino l’alimentazione, tendano a uniformarsi. Al progresso, purtroppo, pare si debba sacrificare l’identità di ciascun popolo, la sua cultura, la sua storia. Ma l’identità è una grande ricchezza a cui non si può e non si deve rinunciare. Chi siamo, da dove veniamo, non possiamo smettere di saperlo: ci aiuta a definirci, a stare nel mondo. Sarà per questo che ci sentiamo sempre più legati alle radici della nostra città: abbiamo paura di perderle, for-se, e diventiamo sempre più curiosi del suo passato, ne inseguiamo i fatti, la lingua, o le cose più minute della vita quotidiana.

È in questo contesto che l’Amministrazione Comunale ha dato il suo placet alla pubblicazione di un manoscritto dell’illustre concittadi-no Oronte Del Frate, che qui vede la luce a distanza di quasi cento an-ni.

Il volume è il settimo della collana Ninfeo Rosa della nostra bibliote-ca comunale, anche casa editrice, che da anni è attenta alla pubblica-zione di opere che scavano nella storia, nel paesaggio, nel folclore, nell’arte e nella cultura ceramica di Civita Castellana.

Un ringraziamento al nostro concittadino, il prof. Luigi Cimarra, che ha speso la sua passione di ricercatore sul manoscritto di Del Frate, corredandolo di note, commenti e glossari di così tanta ricchezza, da rendere l’opera godibile non solo a noi civitonici, ma anche a studenti e istituzioni culturali di altri paesi.

Non mi resta che raccomandarne la lettura a tutti i cittadini, nella speranza che, anche attraverso lo scritto di Del Frate, ritrovino quel senso di appartenenza a una comunità di cui tutti dobbiamo sentirci fieri.

IL SINDACO Massimo Giampieri

Civita Castellana, ottobre 2005

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IX

INTRODUZIONE

Alcune considerazioni preliminari.

È triste dover constatare come su alcuni illustri figli di questa città gravino ‘ingiusti oblii’. Tale atteggiamento si potrebbe superficialmente e sbrigativa-mente giustificare, adducendo come appiglio il frenetico vortice della vita mo-derna (e postmoderna), quel girare su se stessi in moto perpetuo come fanno i dervisci, che poi in effetti diventa un piétiner sur place. Ma, se ci si sofferma riflettere, si capisce che non è soltanto una questione di trascuratezza e di noncuranza; e se lo è, si tratta di una trascuratezza deplorevole. Insorge il dubbio che i civitonici, non solo quelli contemporanei, abbiano la sindrome dei ‘deracinés’: sono per indole irrequieti, sempre all’inseguimento di qualcosa di irrangiungibile, perché le tracce vengono via via depistate. Per quel che mi ri-guarda, io credo che la ‘storia’ abbia una sua fondamentale saggezza, se non proprio quella dell’antica sentenza historia magistra vitae, l’altra più semplice ed ovvia: meminise juvat. La memoria è una facoltà essenziale, di cui l’essere umano è dotato. Gli permette di ricordare i processi, le esperienze e le cono-scenze, che lo aiutano a crescere, che fanno sedimentare nella sua coscienza sentimenti ed affetti, gioie e dolori, che concorrono cioè a formare la sua per-sonalità e che lo accompagnano per tutta l’esistenza. Ma io mi riferisco soprat-tutto alla memoria storica: quella mediante la quale si sviluppa un processo identitario, si stabilisce un rapporto concreto con la terra nella quale si vive, si assimila un patrimonio culturale, si fanno propri i valori e gli ideali civili, etici e religiosi, che una comunità o un popolo hanno sviluppato nel corso dei seco-li, si forma una coscienza ed una coesione sociale. Questa continuità fa assu-mere simbolica pregnanza al verso che il poeta Lucrezio dedica alle umane ge-nerazioni: “quasi cursores vitai lampada tradunt”.

Ma la storia si fonda soprattutto sulle attestazioni e sui documenti. Pur-troppo l’archivio storico di uno dei comuni più importanti della Tuscia è anda-to a più riprese distrutto o disperso… ed è pretestuoso accusare la nequizia dei tempi (tanto per essere espliciti: il saccheggio dei lanzichenecchi nel 1527; gli incendi appiccati dalle truppe repubblicane nel 1798-99).

Quello notarile è stato versato all’Archivio di Stato di Viterbo negli anni ’70, ma, se non vado errato, i più antichi volumi non risalgono oltre la fine del Quattrocento; degli archivi privati (delle famiglie più ragguardevoli, degli inse-diamenti produttivi, dei partiti, delle associazioni politiche e sindacali, ecc.) è rimasto ancor meno.

Miglior sorte è toccata ai documenti ecclesiastici, dopo che con intelligente e provvida decisione, il vescovo diocesano, mons. Divo Zadi, per limitarne la dispersione, li ha fatti radunare in un unico archivio centrale, cioè nello stabi-le dell’ex curia vescovile di Nepi, dove sono stati riordinati e catalogati.

Se la memoria si riduce a ‘tabula rasa’, dove tutto, anche il passato prossi-mo, viene cancellato, se si sceglie di vivere in full immersion nell’immediato presente, cioè hic et nunc, la conseguenza inevitabile è che “involve tutte cose l’obblio nella sua notte”.

L’ingiusta damnatio memoriae erga omnes colpisce in maniera riprovevole proprio quei cittadini benemeriti, che hanno reso servigi alla comunità, che si

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X

sono prodigati con disinteresse e dedizione per dar lustro e vanto al ‘loco na-tio’. E sono personaggi che si sono distinti in vari campi, nella politica e nella pubblica amministrazione, nelle lettere e nelle arti, nella ricerca e nella scien-za, nella vita religiosa. Alcuni di loro, grazie all’assiduo studio e alla tenace applicazione, hanno meritato l’insegnamento universitario, hanno formato in-tere generazioni di giovani, fondando innovative scuole di sperimentazione e di ricerca. Altri poi hanno ricoperto un ruolo nella vita politica, arrivando a sede-re nei seggi del Parlamento; altri, infine, assunti alla responsabilità del vesco-vato, hanno retto le diocesi loro assegnate con rettitudine ed umanità.

Tuttavia qualche segnale positivo mi pare di poter intravedere: grazie all’iniziativa di alcune riviste locali e di singoli studiosi si va affermando una inversione di tendenza. Si tenta di recuperare la microstoria, di ricostruire la propria identità storico-culturale, alla quale quei personaggi al loro tempo, per quello che era il loro ruolo e la loro competenza, hanno dato un notevole con-tributo: la marchesa Orsola Andosilla, il prof. Attilio Bonanni (civitonico d’adozione), don Antonio Cardinali, S.E. mons. Francesco Ciotti, il prof. Giu-seppe Colasanti, il sindaco Domenico Coluzzi, lo storico Oronte Del Frate, il poeta Mario Franci, l’imprenditore Casimiro Marcantoni, l’avv. Ulderico Midos-si, mons. Filippo Minio, il canonico Francesco Morelli, l’astronomo Paolo Rosa, lo storico Francesco Tarquini, il sen. Valerio Trocchi (di fatto cittadino civitoni-co, anche se nativo de L’Aquila), tanto per citare alcuni di quelli che hanno operato tra il XIX secolo e la prima metà del successivo. Ma non è sufficiente a salvaguardarne la memoria intitolare loro una via cittadina o una scuola.

Cenni biografici di Oronte Del Frate

Uno dei casi emblematici di questo oblio è proprio Oronte Del Frate. Sulla sua biografia possediamo soltanto alcune scarne notizie, anche se qualche da-to si può ricavare sia dalla Guida storica e descrittiva sia dalla Miscellanea civi-tonica. Veniamo così a sapere che la famiglia abitava nel palazzo avito in Piaz-za Vittorio Emanuele (oggi Piazza Matteotti) [foto 1], in corrispondenza degli attuali numeri civici 20-21-22-23, attiguo al vecchio albergo dell’Aquila Nera. La data di nascita, 8 settembre 1856, ci viene restituita dall’atto di battesimo, conservato nell’archivio della Cattedrale (Liber 22 Baptizatorum, n. 82.1089, p. 298) [foto 2]:

Anno Domini millesimo octingentesimo quinquagesimo sexto fe(ria) 4 decima 10 mensis Septembris.

Rev(erendissi)mus D(omi)nus Ascanius Baroni de mei infr(ascript)i licentia baptizavit infantem fe(ria) 2 octava 8 de hora vigesimaquarta natum et D(omi)no Paschali Del frate filio q(uon)d(am) Anacleti filii q(uon)d(am) Paschalis et d(omina) Lelia Donegani filia q(uon)d(am) Cajetani coniugibus de Civitate Ca-stellana et de mea paroecia, cui nomen impositum est Orontius Cajetanus Alci-des Aloisius. Matrina fuit Aurora Del Frate de Civitate Castellana et de mea pa-roecia filia q(uon)d(am) Paschalis. Ita est. Archipresbiter Dominicus Caprinozzi vicarius parochus.

Ed è ancora un registro parrocchiale, lo ‘Status animarum’ (ad annum 1863), a descriverci la composizione dei nuclei parentali, che abitavano nel pa-lazzo [foto 3]:

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XI

187. In propriis aedibus habitant Livia D’Alessio fil(ia) q(uondam) Bartholomaei Del Frate vid(ua) Anacleti Del

Frate n(ata) in C. Castellana 25 Novembris 1795. Maria Aurora Del Frate ejus filia n(ata) ibidem 25 octobris 1820. Paschalis ejus frater n(atus) in eadem Civitate 17 maii 1819. Lelia ejus uxor fil(ia) q(uondam) Cajetani Donegani n(ata) in Civitate Castel-

lana 18 februarii 1825. Anacletus 26 (septem)bris 1850 eorum filii n(ati) in C. Castellana Orontius 8 (septem)bris 1856 Aegidius 17 aprilis 1859. Petrus Del Frate fil(ius) q(uon)d(am) Anacleti n(atus) in Civitate Castellana 12

januarii 1826. Olda ejus uxor q(uondam) Francisci Forcella ibidem nata 18 octobris 1826 Aegidius 27 aprilis 1859 eorum fil(ii) n(ati) in C. Castellana Antonius 7 augusti 1861 Pascha Bianconi fil(ia) q(uondam) Sanctij n(ata) in C. Castellana 6 januarii

1842.

La famiglia dei Del Frate doveva appartenere alla intraprendente borghesia cittadina.

Il nonno materno era l’ingegnere Gaetano Donegani, che il nostro ricorda sempre con affetto e devozione. I Del Frate stessi, o i loro stretti parenti, pos-sedevano, nella metà del XIX secolo un’attiva tipografia.

Oronte era stato preceduto nel 1850 dalla nascita di Anacleto, nel 1859 si aggiunse alla famiglia l’altro fratello, Egidio (o Arvino) (+ 1933, a Roma), che divenne maestro e svolse l’attività d’insegnamento nelle scuole elementari a cavallo tra i secoli XIX e XX.

Allo stato attuale delle nostre ricerche ignoriamo quale tipo di studi il gio-vane Oronte abbia intrapreso, ma è indubbio che, accanto ad interessi di ca-rattere storico-archeologico, egli maturò conoscenze e competenze soprattutto nel campo tecnico-scientifico.

Nella sua prima adolescenza poté seguire gli eventi della terza guerra d’indipendenza, le imprese dei garibaldini nel 1867 e, soprattutto, nel 1870 la presa di Porte Pia, cioè il definitivo tramonto del millenario Stato della Chiesa, del potere temporale dei papi e la nascita del regno d’Italia; poté interessarsi da vicino ai gravi e complessi problemi che il giovane stato dovette affrontare per accelerare l’ammodernamento del paese, alla cui soluzione egli diede lo-calmente il suo piccolo contributo. Del Frate si rivela attento raccoglitore di patrie memorie, ma padroneggia anche le discipline tecniche come il disegno: possiede un tratto grafico preciso ed ordinato, come dimostrano i due disegni della Cattedrale e del Forte Sangallo, che lui stesso eseguì per l’edizione della Guida. Il periodo più fervido ed operoso della sua vita coincide con il ventennio 1880-1900: comincia la collaborazione con il periodico ‘Il Rinnovamento’, sul quale, oltre a curare la corrispondenza locale, pubblica a puntate i suoi più importanti saggi di storia. Nel 1898 dà alle stampe la ‘Guida storica e descritti-va della Faleria Etrusca’. Nel 1895, assieme con De Angelis, progetta e poi rea-lizza l’impianto telefonico, che collega il mandamento di Civita. Più o meno in quegli anni o agli inizi del ‘900 comincia a scrivere la Miscellanea, opera rima-sta inedita.

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Dopo il 1913 le sue tracce si rarefanno: ad un certo punto della ricerca mi è venuto il sospetto che egli avesse interrotto improvvisamente ogni attività. È possibile, invece, che, per motivi di lavoro, si sia trasferito con la famiglia al-trove.

La data del suo decesso ci viene restituita dal ‘registro delle tumulazioni’: egli morì a Roma il 10 gennaio 1942 alle ore 11, 20, alla veneranda età di 86 anni. Con decreto n° 71 due giorni dopo la sua salma fu trasferita nel cimitero della città natale.

Nel lato destro del quadriportico, cioè del nucleo monumentale (e più anti-co) del cimitero cittadino, una lastra di pietra sul pavimento ricorda il luogo della sua sepoltura. Essenziale l’iscrizione incisa: ‘Oronte e Arvino Del Frate’ [foto 4]. Nulla di più. Come solitamente avviene, la sorte toccata ai manoscritti di Oronte Del Frate, una volta passati nelle mani degli eredi, è stata ancora una volta la dispersione.

L’opera

La Miscellanea civitonica è un manoscritto suddiviso in 67 capitoletti [foto 5], in ognuno dei quali con vario stile, per la verità non esente da incertezze grammaticali, l’autore espone in maniera semplice e succinta un argomento. È presumibile che nelle sue intenzioni l’opera dovesse avere carattere divulgati-vo. Il contenuto eterogeneo, anticipato dallo stesso titolo, viene spiegato nella prefazione: “Non è né una storia, né una guida, ma una raccolta di notizie, le quali, sebbene brevemente tratteggiate, non mancheranno d’importanza, rispec-chiando in esse la vita cittadina nelle sue manifestazioni storiche, sociali, arti-stiche, politiche, industriali, commerciali, agricole ecc.”. Nella narrazione delle vicende cittadine del passato attinge dalla Cronaca, manoscritto del XVI secolo di messer Francesco Pechinoli, del quale le più facoltose famiglie civitoniche possedevano una copia, derivata da un apografo settecentesco. A giustificazio-ne di Del Frate c’è da rilevare che dal Pechinoli dipendono, talvolta in maniera acritica e pedissequa, tutti gli storici locali del XIX secolo (valga per tutti un esempio: Origine e progressi della città di Civita Castellana, opera manoscritta, anch’essa inedita, di don Sante Pasquetti, un personaggio ambiguo ed avven-turoso). Ma il nostro autore guarda anche al Tarquini, le cui ‘Notizie istoriche’ erano state date alle stampe nel 1874, quando Oronte Del Frate era diciotten-ne. Nella Miscellanea, in maniera più evidente che nella Guida, si percepisce una mentalità aperta, un rinnovato atteggiamento nel modo di concepire la storia e la società: affiora una concezione “borghese”, meno condizionata e im-brigliata da schemi etico-filosofici; pur non rinnegando la narrazione degli av-venimenti e il riferimento a date e personaggi, l’attenzione si rivolge più volen-tieri ai miglioramenti che apportano alla vita sociale le attività produttive ed economiche, gli scambi commerciali e i trasporti, le innovazioni tecniche e tecnologiche, insomma i fattori che determinano il progresso e il benessere. L’autore identifica

nella borghesia, operosa ed intraprendente, la classe promotrice del mo-derno sviluppo; matura in lui la coscienza che questa sia diventata la prota-gonista indiscussa della storia. Il convincimento viene espresso in maniera e-splicita nel capitolo intitolato ‘Idee democratiche’ (cap. 58, pp. 112-113): “Ed ecco sorgere e formarsi una vasta corporazione, che, senza regolamento né sta-tuti, fu vera operatrice di grandi fatti e che nel nostro secolo venne destinato col

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nome di borghesia. I borghesi, dunque, sorti dalla plebe, tenuta a vile dalla classe superiore, colla sola istruzione, dando prova di coraggio e di ardire, riu-scirono a crollare l’antico edificio, che, sepolto nel medioevo, si reggeva in piedi a danno dei più, ed a porre le basi d’un’èra nuova, èra di libertà, lumi, indipen-denza, e di ragione”. In conclusione: “Tutto il benessere, apportato nella popo-lazione, dobbiamo riconoscerlo come proficuo lavoro dovuto alla borghesia, che continuamente sparge in tutte le manifestazioni della vita civile i suoi benefici effetti”.

Purtroppo non disponiamo delle altre opere e, di conseguenza, non abbia-mo modo di conoscere compiutamente il pensiero di Del Frate. Gran parte dei manoscritti sono andati dispersi dopo la sua morte: l’autografo della Miscella-nea civitonica si è salvato per un caso fortuito, perché venne in possesso dell’avvocato Antonio Fortuna, professionista colto e sensibile, che ne compre-se subito il valore. Lo ricordo bene, perché fu proprio lui a mettermelo gentil-mente a disposizione per qualche tempo, quando, giovane laureato in lettere, ebbi la necessità di consultarlo. Mi risulta che successivamente l’opera fu do-nata a don Giacomo Pulcini, parroco di San Francesco, docente di storia dell’arte presso l’I.S.A ‘Ulderico Midossi’ e cultore di storia locale, al quale il noto professionista era legato da vincoli di parentela. In tal modo la Miscella-nea entrò a far parte della collezione di documenti rari conservata nella biblio-teca del centro culturale Ager Faliscus, di cui il parroco era l’autorevole fonda-tore e l’alacre animatore. Con la scomparsa del sacerdote (Viterbo, 11 dicem-bre 1998) l’archivio e la biblioteca, riuniti in lunghi anni di ricerca, hanno su-bìto un irreparabile smembramento.

La presente edizione è basata sulla copia fotostatica conservata presso bi-blioteca comunale, integrata, nelle parti mancanti, con la trascrizione dattilo-scritta, eseguita dalla prof.ssa Patrizia Fantera.

Passando ad esaminare il contenuto dell’opera, appaiono evidenti i limiti di Del Frate e, prima di lui, del Tarquini: non attingono ai più recenti studi d’archeologia, ai rendiconti e alle notizie degli scavi, utilizzano con una certa disinvoltura le fonti classiche, non conoscono i documenti che paleografi e filo-logi contemporanei vanno pubblicando. Il quadro storico-archeologico che loro tratteggiano risulta già ai loro tempi superato, come ebbe già modo di rilevare il Dottorini: “Se Francesco Tarquini con al sua ‘Storia’ ed Oronte Del Frate con la sua ‘Guida’, hanno cercato con nobile intento, inadeguato però alla loro preparazione ed alla loro cultura, di sopperire a tale manchevolezza, tuttavia tali scritti non reggono alla moderna critica storica ed alle recenti indagini ar-cheologiche”.

Comunque, il problema principale che pone il manoscritto è quello della da-tazione, cioè di stabilire con sicurezza il periodo nel quale fu composto. Se-condo l’ipotesi più plausibile Del Frate potrebbe aver concepito e realizzato l’opera successivamente all’edizione della Guida. L’intento potrebbe essere sta-to quello di recuperare i materiali, che egli non aveva ritenuto di inserire nell’opera maggiore, integrandoli con altri, che egli aveva avuto modo di riuni-re in seguito. L’unico dato sicuro è che alcuni paragrafi del manoscritto risul-tano identici a quelli della Guida, dimostrando un rapporto diretto, forse di di-pendenza, tra i due lavori. Più agevole mi sembra, invece, individuare il termi-nus ante quem, che personalmente fisserei senza esitazione al 1914. Induce a ritenerlo la considerazione, a mio avviso, non secondaria, che nelle pagine non

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compare alcun cenno, né diretto né indiretto, alla prima guerra mondiale e ai convulsi eventi del dopoguerra. Ma decisivi sono gli elementi, che si ricavano dall’analisi interna del manoscritto:

- Il capitolo 39 ‘Indice storico cronologico di Civita Castellana’ (p. 83) contiene la data più recente, cioè il 1913: “1906. Inaugurasi la tranvia Roma - Civita Castellana, che si congiunge a Viterbo nel 1913”.

- Il cap. 23 ‘Lavori edilizi e igienici’ (p. 39) preannuncia: “Tra poco sorge-rà un opificio scolastico modello entro la città, perché tutte le relative pra-tiche per sistemarlo vennero già espletate”.

- Il cap. 38 ‘Parrocchie antiche e chiese’ (p. 77), a proposito della chiesa della Madonna del Quinciolino, afferma ‘esiste e viene officiata’.

Ora noi sappiamo che la chiesa sopracitata fu inglobata nell’edificio scola-stico, la cui costruzione, su progetto dell’ingegner Angelo Guazzaroni, fu ini-ziata (secondo l’epigrafe tuttora esistente nell’atrio dell’asilo infantile di via Gramsci) proprio nel 1914 dalla cooperativa Cosmati e fu terminata nel 1921.

Criteri adottati per l’edizione

Motivi di vario ordine, che non mi dilungo qui ad esporre, hanno sconsiglia-to di optare per un’edizione critica, soprattutto per non sovraccaricare con un corposo apparato di note una pubblicazione, che si rivolge ad un largo pubbli-co e, quindi, assume carattere divulgativo. Per questo i criteri adottati, pur ga-rantendo la correttezza filologica complessiva, mirano a rendere fruibile ed a-gevole la lettura dell’opera. Senza renderne conto a piè di pagina, sono state rettificate alcune sviste dovute a lapsus calami currentis. È stata mantenuta l’impostazione data dall’autore, con la scansione in brevi capitoli. Oltre alla lingua, sono state rispettate le note dell‘originale, eccezionalmente ne sono state inserite due (n° 7, p. 5 e n° 38, p. 104), aventi semplice funzione esplica-tiva. Si è provveduto, tuttavia, adadeguare all’uso moderno la punteggiatura e le maiuscole. Sono state conservate le forme, la cui grafia nella tradizione scritta fino a tutto il secolo XIX risulta oscillante, ad. es. il plurale ‘breccie’. È stata in qualche caso uniformata la grafia dei toponimi: per es. Stabbia / Sta-bia > Stabia; per il microtoponimo Goliano, si è preferito mantenere la plurali-tà degli esiti a testimoniare la compresenza di diversi livelli linguistici: Guglia-no / Gogliano, forma più vicina al dialetto (con chiusura della vocale protonica e palatizzazione del nesso -lj- ) vs. Goliano, forma considerata ufficiale.

Onde evitare inutili appesantimenti, i commenti del curatore ai singoli capi-toli sono rinviati in fondo al volume, utilizzando il numero del capitolo come esponente e, all’interno di esso, le lettere minuscole dell’alfabeto per designare le singole note. Per agevolare ulteriormente la consultazione e la comprensio-ne, sono stati aggiunti un glossario e un indice dei nomi, oltre alla bibliografia utilizzata, allo scopo di fornire indicazioni aggiornate sui singoli argomenti. L’indice contiene i nomi di persone, luoghi e cose notevoli citati nella Miscella-nea, ma non quelli che compaiono nelle note di commento.

Per illustrare un’opera, che è caratterizzata dalla sinteticità, si è ritenuto opportuno ricorrere, nel commento, ad ampie citazioni dalle ‘Notizie istoriche e territoriali di Civita Castellana’ (ediz. 2004) di Francesco Tarquini, dalla Crona-ca cinquecentesca di Francesco Pechinoli e dalla Guida, opere che l’autore a-veva continuamente sotto gli occhi al momento in cui compilava la Miscellane-a, oppure da testi di difficile reperimento. Sono stati curati i rimandi interni

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tra i vari capitoli della Miscellanea, nonché i rinvii tra quest’ultima e la Guida, al fine di evidenziare i travasi operati.

Per quanto riguarda la bibliografia vengono tenute ben distinte due sezioni, anche per fornire un quadro dell’orizzonte culturale e scientifico entro il quale Del Frate si muoveva: la prima contiene la bibliografia utilizzata dall’autore, la seconda quella cui fa riferimento il curatore per il commento. Per alcune ope-re, citate una tantum, si riporta il titolo per esteso solo nelle singole note del commento. Con funzione integrativa è stato interposto, tra la Miscellanea e il commento, un inserto fotografico con immagini che riproducono documenti relativi alla vita di Del Frate oppure aspetti e monumenti meno noti della città.

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XVI

OPERE E SCRITTI DI O. DEL FRATE

L’elenco delle pubblicazioni di Oronte Del Frate risulta purtroppo parziale ed incompleto, limitato ai soli studi di carattere storico. Dal novero ho escluso gli articoli di cronaca locale apparsi su giornali e periodici (ad es. ‘Il Rinnova-mento’, con il quale egli collaborò a partire dagli ultimi decenni del XIX sec.). Tuttavia i titoli riferiti possono rappresentare una base concreta per tentare di ricostruire a mano a mano l’intera bibliografia.

Scene e costumi medioevali di Civita Castellana, Prima parte, Nepi 1888, C. Ruggeri, pp. 38.

La Falerii etrusca e la Falerii Romana, in ‘Il Rinnovamento’, III, n° 104, 10 mar. 1888, pp. 1-3.

I Lanzi dei Borboni nel Patrimonio di S. Pietro, in “Il Rinnovamento”, VII n. 271, 21 feb. 1892, pp. 2-3; VII, n° 272, 6 mar. 1892, pp. 2-3; VII, n. 274, 27 mar. 1892, pp. 2-3; VII, n° 278, 3 mag. 1892, pp. 2-3.

Viva Maria! O la campagna degli Aretini nel Patrimonio di S. Pietro contro i repubblicani francesi nel 1799, Roma 1890, Eredi Barbagrigia, pp. 86 [pubblicato a puntate nello stesso anno e con lo stesso titolo in ‘Il Rin-novamento’, V, n. 187-188, 7 gen. 1890; V, n° 189, 12 gen. 1890, pp. 1-2; V, n° 193-194, 23 feb. 1890, pp. 1-2; V, n° 195, 2 mar. 1890, pp. 1-3; V, n° 196, 9 mar. 1890, p. 1; V, n° 197, 16 mar. 1890, p. 4; V, n° 199, 30 mar. 1890, pp. 1-2; V, n° 200, 6 apr. 1890, pp. 1-2; V, n° 202, 20 apr. 1890, pp. 2-3; V, n° 204, 6 mag. 1890, pp. 2-3].

Guida storica e descrittiva della Faleria etrusca, Roma 1898, Forzani, p. 83, 3 tavv.

La basilica cattedrale di Civita Castellana. Cenno storico, s.l., s.d., pp. 6. Commemorazione di Ugo Bassi 1909, Chieti 1909, Tip. del Popolo, pp.

14.

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Inventario del Monastero 1716.

3. Archivio Cattedrale di Civita Castellana: Liber 22 / Baptizatorum / Paroeciae Sacrae Basilicae Cathedralis / Civitatis

Castellanae / a die 1 januarii 1849 usque ad 1857 / Canonicus Joannes Domi-nicus Caprinozzi / Vicarius perpetuus Parrocus.

Status animarum / paroeciae cathedralis Civitatis Castellanae / pro anno / millesimo octigentesimo sexagesimo terbio / 1863:

4. Biblioteca comunale ‘Enrico Minio’: Origine e Progressi della Città di Civita Castellana / 1841 / Curato Sante

Pasquetti. Manoscritto cartaceo cm. 33x 26 carte 22 (pp. 3 n.n. + pp. 9 nume-ro indicato nel recto + pp. 10 n.n.). Copertina moderna. Trascrizione effettuata nel 2000.

5. Ufficio gestione del cimitero comunale: Registro delle tumulazioni anno 1890-1891; Registro delle inumazioni, tumu-

lazioni e cremazioni eseguite nel cimitero di Civita Castellana dal 1941 al 1942-1943-44-45-46-47-48.

Sitogragrafia:

http://bcs.fltr.ucl.ac.be/fe/09/ValLuper/Valeria.pdf

Referenze fotografiche:

Archivio Biblioteca Comunale: 5, 7, 9, 14, 15. Bruno Bernardi: 11. Jacopo Cimarra: 1, 2, 3, 4, 6, 8, 19, 12. Roberto Ginocchi: 16. Pietro Zarghetta: 13.

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PREFAZIONE

La Miscellanea Civitonica, che sotto questo nome offriamo al nostro patrio municipio, non è né una storia, né una guida, ma una raccolta di notizie, le quali, sebbene brevemente tratteggiate, non mancheranno d'importanza, rispecchiando in esse la vita cittadina nelle sue manife-stazioni storiche, sociali, artistiche, politiche, industriali, commerciali, agricole, ecc.

Portando, dunque, a conoscenza questa povera e disadorna raccolta, soddisfacciamo in parte al voto, manifestato negli ultimi congressi sto-rici, tenuti in varie città del Regno, a scopo di comporre e disciplinare speciali monografie locali, convinti che mai noi avremo una storia na-zionale circostanziale, finché ogni città, ogni paese, ogni borgata non abbia la sua1.

È con rincrescimento che dobbiamo dirlo, ma, in pieno secolo XIX, tante popolazioni ignorano quel che di loro fu ieri e molte neppure cer-cano di saperlo. Però con la nostra raccolta non pretendiamo di avere esaurito il nostro compito, persuasi che rimane ancora largo spazio alle intraprese ricerche, che auguriamoci vederle proseguite dagli studiosi giovani cittadini.

A noi, pertanto, ci conforta il pensiero di aver riunito in un fascio tante tradizioni storiche locali, destinate forse a rimanere sconosciute e dimenticate in paese.

L’Autore Cav. Oronte del Frate

1 Vedi la circolare n. 4780, Div. II, n. 74 del 6 nov. 1894, oggetto: "Pubblicazioni relative

alla storia dei singoli comuni della provincia".

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1 ORIGINE DI CIVITA CASTELLANA

Le prime famiglie italiche diramate dalle grandi stazioni umbro-sabine, stanzianti sopra i monti più elevati che circondano i crateri sa-batino-cimino, scesero in tempo immemorabile nella parte più pianeg-giante dell'Etruria marittima, traendo una vita nomade, finché fonda-rono nei massimi centri agricoli le loro dimorea. A questo popolo, chia-mato aborigeno, si sovrapposero, al dire della storia, i Siculi, come i più antichi, e i Pelasgib, che furono cacciati dagli Etruschi, i quali nella no-stra regione, dopo fabbricato la loro capitale Phalerium Argivum (Fale-ria), presero nome di Falisci, elevandosi a tanta potenza da formare un vasto regnoc, che ebbe rapporto con i più consorzi civili di quell'epoca. Detto regno, stando alla Tavola Peutigerianad, comprendeva numerosi paghi e vichi, con Faleria per capolocumone e parte dei paesi oggi com-ponenti il nostro mandamento, e quelli di Castelnuovo di Porto, Sutri, Ronciglione, Orte, Soriano e Nepi2.

I primi abitatori, nel costruire le loro città, come fecero della metro-poli falisca, sceglievano a preferenza, per sicura dimora, le alture diru-pate e, fattisi eminenti sulle vette precipitose, le circondavano di grosse muraglie, munendole di eccelse torri rettangolari o tonde, fortificandosi sul tipo delle grandi città, simili ad Orvieto, Siena, Perugia, Volterra, Norba, Tarquinia, ecc.

Dove per l'opposto incontravano vaste pianure, tenevano nondimeno la stessa regola, in ordine inverso, cercando di trovare al disotto quello che mancava al disopra. Scelta una lunga lingua di terra, circondata da precipizi, in fondo a cui fanno letto perenni torrenti, vi fabbricavano le loro dimore. Di questa maniera troveremo nell'Etruria: Tuscania, Su-tri, Nepi e, più di ogni altra, la città di Civita Castellana, la Faleria, co-me dicemmo, costruita, al dire del Moroni, dodici secoli a. C. da un cer-to Helesus, che lo vedremo nelle notizie leggendarie.

Ma la potente e dotta Faleria incominciò ad avere Roma per rivale, a cui non poteva più contendere a lungo, malgrado la sua virile esistenza

2 Mugnano, Bomarzo, Bassano, Chia, Gallese, Corchiano, Fabrica, Caprarola, Vigna-

nello, Canepina, Bassano, Monterosi, Capranica, Castel Sant'Elia, Mazzano, Faleri, Borghetto, Magliano Pecorareccio, Calcata, Stabia, Rignano, Sant'Oreste, Villa Ro-strata, città Acquaviva. Riportandosi poi alla formazione del catasto censuale dell’agenzia di Civita Castellana, composto dal nostro nonno, ing. Gaetano Donega-ni, nel 1831, esso abbraccia quasi la metà di tutti questi centri una volta dipendenti dalla Faleria Argiva.

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di circa mille anni, assegnatale dalla leggenda etrusca3, e, all’avvicinarsi di quel termine, i Falisci si abbandonarono con fanati-smo orientale al presentimento del loro destino. In ultimo guerreggia-rono contro i Romani con esito favorevole, finché nell'anno di Roma 512, apprendiamo dalle epitome di Livio della sollevazione dei Falisci e che entro sei giorni furono messi sotto l'obbedienza di Roma “Falisci quum rebellassent, sexto die perdomiti, in deditionem venerunt”. Orosio ci dice ancora che quindicimila fratelli d'arme furono trucidati dai con-soli Q. Lutazio Cercone e da Manlio Torquato Attico. Ma Papiro, segre-tario dei detti consoli, che aveva scritto l'atto di resa della città, disar-mò lo sdegno dei vincitori, notando che i vinti si erano resi alla fede dei Romani; e così i superstiti ebbero salva la vita, ma, in pena della loro ribellione, dovettero abbandonare la loro capitale fortissima e fabbri-carne un'altra in pianura, facilmente espugnabile “in planitie expugna-ta facile”, chiamandola Iunonia Romana, nome imposto dai vincitori, detta poi Faleri romana, della quale a suo tempo parleremo.

Ovidio, nell'occasione che ebbe di portarsi in Faleria insieme alla moglie4, per godervi la festa di un sacrificio in onore della dea Giunonee, ci descrive solennemente la cerimonia celebrantesi nel tempio della de-a, fatto sussistere dopo lo smantellamento della città, i cui avanzi ar-chitettonici, rinvenuti negli scavi intrapresi nel 1888, oggi si ammirano al Museo Falisco, istituito a Villa Giulia in Roma.

Nella debellata Faleria, oltre al rimanere il tempio già detto di Giu-none, devesi ritenere che gli emigrati falisci e i popoli circonvicini ab-biano incominciato a ripopolare il patrio suolo e crebbe il nuovo aggre-gato di case, coll'andar dei secoli, da ottenere sotto Innocenzo I la cat-tedrale, i cui vescovi, col nome di castellani, servono per date storiche al nostro asserto. Nel concilio romano, tenuto sotto Leone IV nell'anno 833, erano presenti i vescovi: “Rodericus Castellanae episcopus”, vesco-vo civitonico, e “Jovanni [> Iohannes] Faleritanae episcopus”, vescovo faleritano. Però prima di questa data, nell'anno 727, il nuovo concen-tramento di case che abbiamo detto, chiamavasi Castellana o Castel-liana, allorché divenne dominio della Santa Sede, sotto Gregorio II, e nel medesimo anno si rileva dal Libro dei Censi della Chiesa Romana, registrato da Cencio Camerario, che al monastero di San Silvestro sul Soratte, fu dato in enfiteusi da detto Gregorio II un fondo chiamato Canciano.

3 Gli Annali etruschi, scritti nell'ottavo secolo della nazione, non pervennero fino a noi.

La leggenda, come accennammo, aveva assegnato non più di mille anni alla indipen-denza dei Falisci, quindi, avvicinandosi a quel termine, essi si abbandonarono con fanatismo orientale al presentimento del loro destino. Così la politica esistenza di questo glorioso popolo ebbe termine nell'anno 666, 87 anni a. C., epoca in cui si compiva il decimo secolo dell'era etrusca.

4 Apparteneva alla famiglia falisca Marcia, il nome ignorasi, ma sappiamo che fu la ter-za moglie ripudiata per capriccio dal poeta.

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Da ciò, dunque, si arguisce che i fondi appartenenti alla nostra con-trada formavano una massa, denominata Castellana o Castelliana per le molte castella che conteneva5.

Il centro principale di questa massa, sorto sulle rovine della Faleria, oggi Civita Castellana, venne elevato al grado di città nell'anno 998 dal papa Gregorio V e riconfermato nell'anno 1261 da Alessandro IV papa.

Così sul principio del Mille la massa mentuata incominciò a deno-minarsi Civitas Castellana, quindi Civita Castellana, nome che ha sem-pre conservatof.

5 Nel corso della nostra narrazione citeremo l'unico autore della cronaca locale, scritta

dal defunto messer Francesco Pechinoli, alfiere delle Bande Nere; dalla quale intanto apprendiamo i nomi di alcuni castelli, oggi diruti; quelli dell'Umbricia, Lumbrica, della Staccia, di Monterone e di Paterno, ecc.g

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2 CONTROVERSIE SULLA FALERIA ETRUSCA

OGGI CIVITA CASTELLANA

Lunghe ed inesplicabili dispute ha sollevato per secoli la nostra Civi-ta presso i dotti e gli archeologi, riguardo all'ubicazione della prisca Phalerium Argivum. Incominciando dal 1500, rileviamo dalla cronaca, già detta del Pechinoli, che l'autore, riportando le opinioni dei suoi tempi, riteneva Civita per Veio, “Del tosco impero già capo e regina”.

Sebbene l'immortale Tasso, abbia lasciato detto: “Giace l'antico Veio, e appena i segni / dall'alte sue ruine il sito serba”, oggi, però, gli scien-ziati e gli archeologi affermano Veio all'Isola Farnesea.

Tra i vari sostenitori di Veio in Civita Castellana merita ricordare il benemerito defunto concittadino Morelli Francesco, il quale, per ipotesi sostenendo con argomentazioni storiche e dotte considerazioni la sua tesi, trascurò la distanza da Roma a Civita, tanto che tenne a sostenere che fra queste due città non oltrepassavano le 18 o 20 miglia, invece la distanza non risponde al suo asserto. Altri autori ritenevano Civita Ca-stellana per Fescennia, e finalmente non mancorno chi voleva la nostra città ricostrutta sulla Faleri romana. Gli avanzi di un delubro, scoperto nel 1873 a nord est di Civita Castellana, in contrada Le Colonnette, convalidarono l'opinione di molti dotti che essa Civita Castellana sia da ritenersi per il luogo ove risiedeva la Faleria. Ma oggi si è tolto ogni dubbio sull'ubicazione della metropoli falisca.

Le pretese di alcuni paesi nel voler ritenersi per il luogo della Faleria lo fondano sui vari nomi falisci corrotti, tuttora nominati.

Malgrado l'istituzione del detto Museo Falisco in Roma, che ha reso notorio a tutto il mondo civile essere l'attuale Civita Castellana l'antica capitale dei Falisci, la città di Montefiascone si ritiene pur la metropoli falisca e mantiene nello scudo del civico stemma, in alto al cancello di ferro d'entrata al giardinetto pubblico, le sigle S.P.Q.F.6.

I primi scrittori storici di Montefiascone misero in testa ai loro con-cittadini che il patrio Monte fosse quello Faliscorum citato da Plinio, ma questi, diligentissimo geografo, per Mons Faliscorum intende il Soratte, posto nell'Etruria cisciminia, e non nell'Etruria trasciminia, dov'è Mon-tefiascone, e tace del lago, perché presso il Soratte non esistono bacini d'acquab.

Del rimanente, senza impegnarci in disquisizioni, ci contenteremo di soggiungere col cav. Buti riguardo a quanto lasciò detto nella sua sto-

6 Francesco Buti riteneva Montefiascone per la Faleria etrusca, De Angelis nel Comen-

tario storico, edito nel 1841, sosteneva l’ipotesi del Buti.

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ria di Montefiascone, edita nel 1870, sull'ipotetica origine vantata dai suoi scrittori concittadini7:

“Ma lasciando da parte chi fossero i nostri arcavoli, tuttavia sembra, appoggiandosi ad un cenno di Strabone, che dopo caduto Falerio, una parte dei Falisci riottosi al giogo di Roma, emigrando si addusse a que-sto monte per associarsi ai Trascimini non ancora debellati”.

Dunque una colonia di emigrati Argivi Falisci si addusse a costruire sul monte la nuova dimora, appropriandosi il nome di Mons Falisco-rum, per eternare la memoria della loro patria, Faleria, distrutta come già dicemmo.

Sappiamo che gli emigrati falisci davano il primitivo nome ai nuovi luoghi abitati e che mantenessero, anche fra genti nuove, i loro costu-mi e le usanze. Lo potremo ricordare tra noi col bizzarro spettacolo che una volta sollazzava il pubblico alla vista di trarre un bufalo o bue per le vie della città, e mantenendo ancora nelle donne popolane il curioso costume, molto modesto, d'indossare due gonnelle, una alzandola da tergo per coprire il capo.

Di più il Buti ricorda l'opinione del celebre padre Garrucci defunto, con queste parole: “Valse testé a discoprire la controversa Faleria presso Faleri”c. Dunque presso Faleri, e non presso il Mons Faliscorum, esiste-va la Faleria. Quasi non bastasse Montefiascone, anche il paesello di Stabia lasciò il suo nome, creduto volgare, per prendersi quello di Fale-ria senza nessuna ragione storica. Stabia fu un pagus dipendente da Faleria, e presentemente è sotto il mandamento di Civita Castellanad.

7 Ibid. (n.d.r.).

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3 NOTIZIE PREISTORICHE

Il nostro territorio può distinguersi in tre principali epoche. La prima, indicataci dalla geologia, non può avere memorie storiche;

la seconda, comprende la paleolitica o archeolitica, età della pietra semplicemente scheggiata, e la neolitica, età della pietra levigata; nella terza quella del metallo del bronzo e del ferro.

Sui fianchi dei nostri profondi e selvaggi burroni, lungo i torrenti, il visitatore, accompagnato da una guida, potrà vedere le molte caverne naturali, specie quelle testé esplorate in contrada Fabrece. Esse adden-transi più o meno nei banchi tufacei e presentano spesso bizzarre ra-mificazioni, con ardite volte sostenute da strani pilastri. Talvolta l'ac-qua stilla con lento sgocciolìo in fondo a quegli antri trogloditici, dove il verde smeraldo dei muschi si fonde armoniosamente con le tinte calde del tufo e delle incrostazioni calcaree, che sovente tappezzano le pareti. In queste primitive stazioni umane vi si rinvennero molti utensili di pie-tra, consistenti in coltelli, raschiatoi, nuclei, scheggie, oltre agli arcaici frammenti di terra malcotta, frammischiati con gli avanzi di forni pri-mitivi e ossami.

Tali scoperte preistoriche ci confermano l'esistenza di un popolo vis-suto nelle nostre campagne durante l'epoca litica.

Quanto all'epoca del bronzo, essa viene segnata tra noi da vari og-getti in bronzo e in ferro, rinvenuti nelle tombe testè scoperte.

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4 NOTIZIE LEGGENDARIE

Non manca ai primi popoli che abitarono in Civita Castellana la loro leggenda e, siccome tutti quelli che adoperarono grandi cose, sdegna-rono le origini volgari, così anche i Falisci ci lasciarono una nobile leg-genda, creata più dall'amor patrio, che ogni popolo nutre verso se stes-so, che da idee mitiche. La leggenda è questa:

Helesus, figlio naturale di Agamennone, re di Argo, fuggito dalla Grecia, si portò nella nostra regione, cui, dopo di aver dato un notevole incremento, fabbricò una città, su cui venne poi ricostruita l'attuale Ci-vita Castellanaa.

Il senato falisco, a memoria di tanto principe, alla di lui morte gli e-resse un mausoleo e fra gli emblemi scolpiti di Helesus eravi quello im-presso colla sua posizione, allorché tenevasi sulla porta di Faleria, da-tale in consegna dalla sabinica Giunone Argiva. E di questa ne fu eter-nata la memoria, come vedesi nel sigillo tuttora esistente nel nostro Comune.

Da questa porta, dunque, che era la principale, si vede avanzare He-lesus (Alesio) a cavallo, come simbolo ed eroismo pelasgico, con lancia in resta, incontro al cavaliere transitante, per provarne la forza ed il va-lore [foto 6]. Se questo dava prova di valentìa nell'armi, era ammesso ed accettato e, se si dimostrava vile e codardo, veniva respinto dalla cit-tà.

La disposizione dei colori, per riprodurre il nostro stemma municipa-le, è la seguente:

l'ornato racchiudente lo scudo ed il regno sormontante lo stemma in oro;

il fondo o campo di color azzurro; il castello di color terra mattone, col chiaroscuro alla porta; il guerriero con elmo, scudo e cotta color d'acciaio; il vessillo di color rosso, con l'asta e lancia di color d'acciaio; il cavallo color morello colle redini d'argento; il fondo, sotto i piedi del cavallo, color terra; il pennone o fiamma è di color rosso, sul quale, a metà, trasversal-

mente sono riportate in nero le seguenti sigle S.P.Q.F. (Senatus Populu-sque Faliscus).

Un'altra leggenda, tramandataci da secoli fino ai giorni nostri, ri-guardo alla voce che si sarebbe intesa per Civita Castellana di notte, chiamando “Ah caroselli!... caroselli!”, nomi riferibili ai patroni Marcia-no e Giovanni della città, sarebbe questa:

Nella stessa notte che cessò di vivere quella buona lana di Alessan-dro VI papa, avvelenato, suscitossi entro e fuori della città una terribile

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e spaventosa meteora, accompagnata da un fortissimo nubifragio, che rovesciò il ponte della Treia, disperse le mole e recò altri danni.

Tra lo strepitare degli sconvolti elementi dicono che si udissero delle voci ripetere per l'aria: Ah, caroselli!... caroselli!b...

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5 CENNO GEOLOGICO SULL'AGRO CIVITONICO

Il nostro territorio è costituito essenzialmente da formazioni terzia-rie, specialmente del periodo miocenico, pliocenico, però ad una gran parte di queste formazioni trovasi sovrapposti i tufi, le pozzolane e gli altri minerali, prodotti dall'eruzione dei vulcani sabatini-cimini e Vico, posti gli uni a sud ovest e gli altri ad ovest di Civita Castellana8.

Il tufo litoide forma estesissimi banchi di spessore considerevole, la cui continuità è interrotta d'angusti e profondi burroni dirigentisi da ponente a levante.

Tra le formazioni terziarie più estese si rinvengono grandi masse di argilla, alcune ricche di calce e ferro, comunissime, altre però possono essere annoverate fra i silicati d'alluminio puro, tanto da servire per industrie ceramiche più fine.

Nei sedimenti delle varie epoche geologiche esistenti nelle nostre campagne si aprirono svariate cave di minerali.

Tra gl'ingegneri delle miniere, venuti tra noi per ribattere la carta ge-ologica del Regno, ricordiamo l'ing. Sabatini, che accennò allo svariato gruppo delle argille plastiche che possediamo.

Dopo l'impianto razionale di una Scuola dell'Arte della Ceramica, non si tarderà a studiare e ad analizzare le argille smettiche, di color bianco, traenti al verdognolo o al bruno; la figulina, appartenente alla classe delle argille fusibili, le effervescenti o le marne, le ocraci o bolo, la magnesite o argilla leggera; caolino bianco e opaco, ecc.

8 Prof. Mantovani, Geologia dell'Agro Romano.

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6 CENNO MINERALOGICO DELL'AGRO CIVITONICO

La ricchezza mineralogica del nostro territorio ci offre abbastanza materia per parlare particolarmente dei minerali che hanno maggior rapporto colle industrie.

Tufo litoide La roccia sedimentaria, conosciuta col nome di tufo litoide, si riscon-

tra da pertutto, ma dove essa continua sviluppatissima, estendendosi senza interruzione, è nella contrada di Terrano, Valsiarosa, Vignale e l'altipiano, su cui posa la nostra Civita.

Nelle terre di Goliano, Valle, Celle, ecc., che costituiscono le zone più ricche di silicati, il tufo si rileva spesso interrotto da svariati strati cre-tacei, roccie frammentarie e lava basaltina, ma si estrae una qualità ancora di tufo adattissimo per lavori decorativi.

Travertino Gran parte del sottosuolo componente la contrada Oltretreia viene

costituita da banchi di travertino, le cui inesauribili cave forniscono ot-timo materiale per costruzioni. Tra questo calcareo quaternario vi si rinviene il caolino bianco e opaco, terra da porcellana, adattissimo per l'arte della ceramica, ma in vene saltuarie.

Una segheria, mossa da energia elettrica, funziona giornalmente per tagliare il travertino e condurlo a Roma. Delle antiche segherie di tra-vertino non rimangono neanche le traccie.

Arenaria In contrada Chievo e Oltretreia esistono cave di sabbie adoperate se-

condo la natura di esse per diversi usi: l'argillosa e la calcarea serve per gli stuccatori; la ferruginosa per i fabbri; la silicia per le fabbriche di ceramiche. Di queste arenarie9 se ne fa commercio, esportandole in varie provincie.

Nella detta contrada non mancano banchi di pietra dura arenaria, di grana fine ed omogenea, adatta, dicono, a fare le rote da arrotino; e lo svariato gruppo delle marne: quella comune, creta, la calcarea, la sili-cia, la sabbiosa, la schitosa, la cuprifera e la bituminosa, ecc. Una vol-ta non mancavano in campagna delle fornaci per la cottura dei mattoni

9 Il nostro Pechinoli ci lasciò scritto che nelle cave di arenaria esistevano "una specie di

gemme con la superficie di color nero, vagamente intersecate agli estremi con vene si-milmente bianche". Oggi queste gemme sono del tutto scomparsea.

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e tegoli; oggi soltanto alcune fornaci per la cottura della calce esistono con notevole lavoro e lucro.

Roccie frammentarie Oltre alle contrade già dette, in quelle di Millecori, Chievo, ecc., esi-

stono immensi banchi di roccie frammentarie, dette comunemente cave di breccia, e negli strati ipoclivi si racchiude un aggregato di sostanze diverse, designato col nome di conglomerato, puddinghe o ciottoli, che attirarono già l'attenzione degli scalpellini, i quali ritengono questo mi-nerale adatto a fare macine da molini, come quelle che vengono da Brescia.

La breccia bianca viene adoperata comunemente, oltre ad altri usi, per la manutenzione delle nostre belle strade rotabili.

Quindi, in quasi tutto il territorio, ove più o meno, si rinvengono densi strati di pozzolana, importantissimo materiale per costruzioni tanto di color rosso-cioccolatte che scura. Anche di queste pozzolane se ne fa grandissima esportazione con notevole lucro.

Lava basaltina In contrada Chievo si estrae la lava basaltina, roccia risultante da

una agglomerazione di cenere, ghiaia frammista a pietruzze bianche (leucite), saldamente cementate insieme, chiamata volgarmente tra noi selce occhialino, adatto a farne macine da molette a mano, termini, pa-racarri, chiusini, ecc. Le antiche strade consolari erano tutte lastricate, nel nostro territorio, di questo forte materiale, come possiamo vedere. Uno stabilimento, fabbricato appositamente da una società d'industria-li, in contrada Chievo, vocabolo Sassacci, serve per estrarre la leucite.

Trachite Un'altra qualità di pietra dura, conosciuta comunemente con nome

di palombina, è la trachite, pietra grigia, scura, compatta, superiore al peso del tufo e durezza, che rinviensi presso Borghetto.

Scorie di lapillo In quasi tutti gli strati superiori del nostro suolo si riscontrano sco-

rie di lapillo, o roccie leggiere e friabili.

Roccie combustibili Nelle terre dei Saletti rinveniamo traccie di roccie combustibili; quel-

la del zolfo, le cui esauste cave sono abbandonate.

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Selce piromica Negli strati cretacei si rinvengono numerosi stratarelli di selce piro-

mica, detta comunemente pietra focaia, una volta usata per accendere l'acciarino.

Acque minerali Nelle varie terre esistono vene d'acque minerali, la più nota è quella

dei Saletti, che una volta se ne faceva grand'uso, prima d'introdurre l'acque minerali che fornisce la vicina Nepi.

Per intelligenza del lettore abbiamo composto la carta mineralogica dell'agro civitonico, dalla quale potrà vedere in ogni contrada la natura dei minerali che vi si rinvengono.

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7 ORIGINI E COMPOSIZIONE DEI TERRENI

COSTITUENTI L'AGRO CIVITONICO

I terreni costituenti lo strato più superficiale del nostro territorio so-no prodotti dall'azione di tutte le piante e dagli animali viventi, e dalla composizione delle roccie come generalmente appartengono i terreni ri-dotti col soprassuolo vegetativo10.

Però non tutte le terre del nostro territorio racchiudono gli stessi principii nutritivi. Il così detto terreno d'alluvione, che ha tratto la sua origine dal depositarsi del materiale contenuto in sospensione dall'ac-qua, forma la parte più fertile e ricca dell'agro civitonico, conosciuta col nome di Piani, i quali comprendono i terreni confinanti col bacino del Treia e quelli bagnati dal Tevere.

I terreni, poi, composti di uno strato di composizione della sua roc-cia madre cui riveste, vengono compresi in quasi tutti quelli delle con-trade del nostro territorio, conosciuti col nome di terreni di formazione locale, tra i quali abbondano quelli di formazione vulcanica, la cui su-perficie coperta da pietre e tufo, ivi non trovando le piante alimento di vita, se vi nascono, con così scarse produzioni da non bastare alla for-mazione di un vero terreno vegetativo; mentre i terreni argillosi, calca-rii, esistenti in contrada Oltretreia, costituiscono le così dette terre for-ti.

10 Un terreno fertile deve contenere, per ogni chilogrammo di terra, un grammo di acido

fosforico, un grammo di potassa, un grammo e mezzo di azoto, 30 grammi di calce, 15 grammi di carbone organico.

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8 GLI EMENDAMENTI DEL SUOLO

CIVITONICO ALLE MARNE

Le nostre marne, delle cui inesauribili quantità vengono usufruite soltanto per l'arte della ceramica, non vengono adoperate per gli emen-damenti del suolo, tanto acconci alla proprietà dell'agricoltura, consi-stenti a punto nel saper opportunamente col mezzo delle varie qualità di esse aggiungere o diminuire, secondo i bisogni la qualità dell'uno o dell'altro degli indicati elementi, che ancora non si praticano tra noi. La marna contiene tra il 20 o 60 per cento di calce e maggiore quantità di argilla; e si presta come prezioso aiuto per l'agricoltura, somministran-do uno dei mezzi più acconci ad emendare le terre.

Dopo studiato la composizione delle terre, sapremo quale marna dé-vesi applicare e sul modo d'impiegarla: ai terreni argillosi compatti gio-vano le calcari e le silicie, ai terreni leggieri e magri le argillose. I pro-fessori di Agraria non mancano di far conoscere e consigliare i proprie-tari di adoperare per gli emendamenti del suolo l'uso delle marne, ove si trovano.

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9 CENNO SULLA ROTAZIONE AGRARIA

DEL TERRITORIO CIVITONICO

Gli avvicendamenti esistono nel nostro territorio, essi sono obbliga-tori e seguono il turno prestabilito per tutti i proprietari dei fondi.

Né un sistema di libero avvicendamento sarebbe possibile in terreni soggetti a servitù di pascolo; se, ad esempio, nella zona o quarto, come suol volgarmente chiamarsi, soggetta a riposo, un proprietario volesse eseguire la semina, il bestiame terrazzano pascolerebbe, come vi ha di-ritto, nel seminato e distruggerebbe il frumento, invece di pascersi del-l'erba spontanea, che nasce su i terreni a riposo.

I terreni aperti e soggetti a servitù di pascolo, che formavano circa la sesta parte del territorio civitonico, si dividono in varie zone, secondo la rotazione obbligatoria; e ciascuna di queste zone, o quarti, a sua volta è vincolata al turno di terziaria o di quarteria, in modo alternativo le une dalle altre, cosicché, mentre una zona è seminata a grano, l'altra deve rimanere a pascolo, e la terza a rompitura e la quarta, se il turno è di quarteria, deve essere seminata a colto.

Questa è la rotazione perpetua obbligatoria, cui sono soggetti i ter-reni del nostro territorio; e qualunque proprietario di fondi, compreso in queste zone, non può seguire una rotazione diversa da quella della zona o quarto, di cui il fondo fa parte.

Né si ha traccia di alberatura e di piantagioni nei terreni soggetti a pascolo, dove le giovani pianticelle sarebbero divelte dal bestiame, che vi pascerebbe il giorno, e libero vi scorazzerebbe anche la notte.

Così pure mancano le case rurali; e quelle poche costruzioni che si vedono servono per ricovero di pochi coloni e per quello precario del proprietario.

Tuttavia qualche casa rurale continuasi a costruirsi nelle nostre ter-re. Le arature per la semina poi, sebbene poco profonde (20 o 30 cen-timetri al più), ordinariamente sono più numerose di quelle che si pra-ticano nel resto dell'Italia, e ciò per compensare, insieme ai lunghi ri-posi, la mancanza di concimazione.

Le semine a maggese vengono precedute ben spesso da cinque o sei arature e da lunghi riposi11, mentre le semine a colto non sono prece-dute che da pochi mesi di riposo e da una o due arature.

Quindi si spiega il perché la semina a colto renda un terzo di meno di quella a maggese, e perché le mezzagne nei colti siano molto più e-stese che nelle semine a maggese.

11 I lavori per la preparazione della maggese si chiamano 1° rompitura, 2° ricuotere, 3°

rifendere, 4° rinquartatura, 5° rinfrescatura, 6° semina.

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Nell'anno a maggese si lasciano incolti solo quei terreni che sono sterili o quasi.

Un proprietario, che semina solo una parte del suo fondo, è obbliga-to a lasciare in questo il passaggio per l'accesso del bestiame dei co-munisti nella parte non seminata.

I terreni liberi sono seminati con alberetti vitati, con olivi e piante fruttifere, oppure vengono tenuti a vigna bassa e a canneti.

Quelli più fertili e adiacenti all'abitato sono tenuti ad orto. Tutti que-sti terreni o vengono coltivati a conto proprio, o affittati, o dati a mezze-ria.

Molti terreni vengono tenuti a conto proprio del proprietario, facen-dosi sostituire da un vignarolo pagato a mesata, che provvede gli operai e non ha compartecipazione alcuna nei prodotti. In altri casi il proprie-tario impiega generalmente l'opera sua e dei suoi, e solo si serve degli operai avventizi quando occorrono.

Gli affitti vengono fatti ordinariamente per la durata di 9 o 12 anni. Essi sono preceduti e seguiti da una minuta descrizione di consegna o riconsegna, dalla quale ultima risulta quasi sempre un danno o de-prezzamento del valore della proprietà.

I contratti a mezzeria durano 3 o 6 o 9 anni; in essi il mezzaiuolo paga tutte le opere necessarie ad eseguire la coltura, tranne le specie d'impianto, che sono a carico del proprietario, e riceve la metà, un terzo ed anche un quarto dei prodotti.

Perciò i terreni liberi, eccettuati [quelli] che vengono coltivati dagli stessi proprietari, sono lavorati con operai avventizi, i quali non hanno alcuna compartecipazione sui prodotti. Né vale osservare che tanto l'af-fittuario come il mezzaiuolo hanno interesse a fare eseguire le lavora-zioni a regola d'arte, giacché sono essi che percepiscono i prodotti, a-vendo gli affitti, ordinariamente, da noi una durata di pochi anni, quindi il colono, specialmente per quanto ha tratto dai vigneti, trova il suo tornaconto nel ritrarre il maggior prodotto subito, né si preoccupa se il terreno rimarrà sfruttato e irreparabilmente deprezzato al termine del contratto di locazione.

A tali considerazioni aggiungiamo che i contadini debbono ogni mat-tina recarsi sul fondo e alla sera rientrare in Civita. Ma ora che le no-stre terre vennero affrancate dalla servitù di pascolo, la rotazione agra-ria dovrà adattarsi al nuovo indirizzo agricolo, tanto più che una larga somministrazione di terreni saranno tra poco concessi per coltura in-tensiva a tante famiglie di contadini, le quali, anziché emigrare, po-tranno vivere in patria e portare il loro contributo di benessere nella vendita di tanti prodotti agricoli, che giornalmente dobbiamo ricevere dai paesi della così detta Montagnola e dalla Sabina.

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10 TOPOGRAFIA DELL'AGRO CIVITONICO

Il territorio di Civita Castellana è piuttosto in piano, ma accidentato con piccoli colli, isolati da rivi e molti poggi: gli uni e gli altri hanno in maggior parte la direzione da ponente a levante, perché i corsi d'acqua, che vi corrono in fondo, vanno a scaricarsi nel Tevere, il quale resta ad oriente del territorio.

Nell'interno di Civita Castellana e nella campagna vi si rinvengono numerosi pozzi, scavati a varie forme, oggi però tutti ricolmati di terra, che una volta dovevano servire per conservare il granoa.

Non vi sono laghi e stagni nel territorio, le secolari boscaglie vennero insanamente tagliate per l'ingordigia degli speculatori, che una volta, oltre a somministrare la legna a buon mercato e servire per pascolo del bestiame, rendeva ancora ricca messe di grossa selvaggina, della quale presentemente siamo privi, anche di quella piccola e a penna, per mancanza a punto di macchie.

Oltre i vari fossi perenni, il territorio ha molte sorgenti di pure ac-que. Quindi, per quanto riguarda intorno all'agro civitonico circa l'idro-grafia, le valli, le sorgenti, la superficie, l'irrigazione, riportiamo il letto-re agli appositi capitoli.

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11 IDROGRAFIA

Il fiume Treia con i suoi circa 15 affluenti, ingrossati da molti piccoli rivi, che in estate disseccano, costituisce il sistema idrografico del no-stro territorio12. Esso supera i 20 metri di larghezza, percorre tortuo-samente il territorio per circa nove chilometri, dividendolo quasi a metà in direzione di nord est e mette poi foce nel Tevere, dopo di aver raccolti tutti gli scoli delle nostre campagnea.

Non abbiamo cadute d'acqua, sebbene venga appellato un torrente col nome di Rio Caditore, perché precipita le sue acque da una altezza che non può chiamarsi però cascata, ma una piccola cascatella.

La larghezza dei fossi principali non supera i cinque metri, e sono guadabili come il Treia.

Rio Maggiore: proviene dalla macchia del Parco, territorio di Ronci-glione, corre da levante a ponente per circa sette chilometri, prima di esaurirsi presso Ponte Valle nel Treia, dopo di aver ricevuto l'acque del Rio Celleto (m.1800) e, sotto al Ponte Clementino a nord di Civita Ca-stellana, quelle del Rio della Legata, comunemente conosciuto con no-me di Rio Purgatorio o Fosso dei Tre Camini (m. 3800). Quindi, sul ces-sare della contrada le Colonnette, ingròssasi colle acque del fosso dei Cappuccini (m. 2000), proveniente dal piano di Catalano ove nasce, e da quelle del fosso di Catone (1300).

Rio Filetto, o Vicano: emissario naturale del lago di Vico, attraversa le nostre campagne da levante a sud di Civita Castellana. Esso, en-trando nel territorio, prende nome di Rio Rosciolo o Pozzolo (m. 2200) fin sotto Castagneti; quivi raccoglie Rio Fabrece (m. 2200), alimentato da altri due ruscelli nascenti tra i dirupi della Sustra e Fabrece, e da un altro rigagnolo, dividente le contrade di Castagneti e Melleta. Da Melleta poi al Treia, in cui finisce dopo tre chilometri, vien chiamato Rio Filetto.

Rio Piazzano: bagna il territorio in direzione di ponente a levante per circa nove chilometri in contrada Oltretreia, ove nasce, e mette foce nel Treia. Esso è alimentato da vari torrenti, che prendono nome da diversi vocaboli che percorrono. Però Rio Piazzano propriamente detto ha un corso di circa tre chilometri e, prima di gettarsi nel Treia, dividesi in due rami: a destra quello maggiore, detto Rio di Ponte Ritorto (m.1800), che si biforca sotto Grassano; un braccio forma Rio di Torre Chiavello (m. 3000), alimentato da Rio Pertuso (m. 1500) e da Rio Cerasolo (m. 2500) e da altri scoli; e un altro viene alimentato dal Rio del Piano di

12 La lunghezza approssimativa dei fossi è desunta dalla mappetta topografica del terri-

torio di Civita Castellana, rilevata da nostro nonno, ing. Gaetano Donegani, dopo che compose l'attuale catasto geometrico parcellare nel 1839.

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Paradiso (m. 2500), Rio della Macchia e Rio Fossatelle (m. 300). Il ramo minore di Piazzano, a sinistra, viene nudrito colle acque di Rio Giorgio-ne, che, nel percorrere pochi chilometri, ingròssasi cogli scoli di altri ruscelli.

Rio Casone: nasce in contrada Chievo e corre sotto questo nome da levante a ponente fino al ponte di Casa Ciotti, da cui prosegue per altri tre chilometri, esaurendosi nel Treia, col nome di Rio della Caduta o fosso dell'Umbrica, prima di aver raccolto Rio Cavamarina (m. 2200) e Rio Caditore (m. 1900).

Rio Ceppeta: sorge dalla contrada Oltretreia e si forma colle acque di due torrenti: il maggiore denòminasi Rio Scocciabùzzichi, avente oltre cinque chilometri di percorso fino al passo della Villa, ove riceve Rio Felciosa (m. 1500) e Rio Caffaria (m. 1400); il ramo minore si forma col-l'acque del Rio Castiglione (m. 2100).

Rio Giacanti: proviene dalla contrada Chievo, percorre l'omonimo terreno da nord a sud e, dopo ingrossato dalle acque di alcuni ruscelli, va al Treia dopo circa tre chilometri di cammino.

Rio Fontaroli: scaturisce in contrada Oltretreia e si unisce al fiume Treia dopo un percorso di circa un chilometro e mezzo; esso viene an-che chiamato Rio Selvatico.

Rio Gruè: attraversa da levante a ponente il nostro territorio, divi-dendo a ponente la comunità di Fabrica di Roma; a nord la tenuta di Borghetto e poi termina nel Tevere dopo otto chilometri di cammino. Tra i torrenti ingrossati a seconda della stagione ricordiamo quello che scaturisce tra i dirupi del piano del Quarto e di Fontana Persica, che si perde nel Treia.

Meno Rio Maggiore, Filetto, Ceppeta, Piazzano, Giacanti e fosso del-l'Umbrica, gli altri rivi disseccano nell'estate13.

Eppure tutte queste forze idriche, se fossero disciplinate ed utilizzate al pari di servire ai diversi molini e di fornire la stazione elettrica, per l'irrigazione delle terre pianeggianti, costituirebbero un fattore non di-sprezzabile di prosperità per l'agricoltura.

Una volta si parlava di dovere incanalare Rio Maggiore presso Ponte Valle, per portare le sue acque lungo i terreni bagnati dal Treia e for-mare una estesa zona di prati adacquativi.

13 I fossili sepolti nei sedimenti del bacino della Treia e che spesso rinveniamo negli

strati superiori, sono riferibili al periodo cretaceo ed appartengono alla fauna comu-ne del Tevereb.

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12 LE VALLI

Le valli più considerevoli del nostro territorio sono quelle del Treia e di Rio Filetto. La prima comprende tutte le terre percorse dal fiume omonimo, per una estensione di circa nove chilometri, profonda tra i 70 ai 90 metri, larga tra i due o 300 metri.

La seconda abbraccia tutte le terre bagnate da Rio Filetto, di minore importanza, ma profonde quasi al paro della prima.

I terreni soggetti ad alluvione costituiscono un'estensione di circa 100 rubbie, quali sono Cocchieto, Gugliano, Campo Treia, i Saletti, chiamati Piani. Vengono, poi, altri appezzamenti, ma in una media quantità.

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13 LE SORGENTI

A rendere fertile il nostro territorio, oltre ai perenni corsi d'acqua, ci si aggiungono le diverse sorgenti di acqua purissima, che qui appresso riportiamo:

Contrada Oltretreia

1 Fontana al Saletto 2 Fontana alla macchia di Campo Treia 3 Fontana del Cerro allo Stradale 4 Fontana Fontaroli 5 Fontana Salvatico 6 Fontana Sargorre Ponte Ritorto 7 Fontana alla Casetta 8 Fontana alla Ceppeta 9 Fontana Scocciabùzzichi 10 Fontana della Pietra Malatesta 11 Fontana Grassano (Rosa) 12 Fontana Grassano (Trocchi) 13 Fontana Colle Monache 14 Fontana Montebello 15 Fontana Giorgione 16 Fontana al passo di Stabia 17 Fontana Sambuco 18 Fontana Sant'Agata 19 Fontana Primavera 20 Fontana alla Pietrara 21 Fontana Cagnanello (monache) 22 Fontana Cagnanello (cattedrale) 23 Fontana alla svolta di Mario 24 Fontana di Casa Paglietta 25 Fontana Coste di Sacchi 26 Fontana Persica 27 Fontana Sant'Agata (Rote) 28 Fontana Piazzano 29 Fontana Cagnanello 30 Fontana Gogliano 31 Fontana sotto la Rupe can. Epifania 32 Fontana Cappellania Refugio Ponticelli 33 Fontana Ponticelli sorgente forma rio 34 Fontana Coste Paranzana 35 Fontana Grande Piscina

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36 Fontana Muro del Peccato 37 Fontana di Sant'Anna 38 Fontana Frattacci forma rio 39 Fontana dell'Umbrico 40 Fontana Santa Susanna 41 Fontana Pechinoli 42 Fontana Vigna Palazzetto 43 Fontana del Moro 44 Fontana Vigna Cangano 45 Fontana Vici (benificio) 46 Fontana Citerno Ercolini 47 Fontana Citerno Del Frate 48 Fontana Citerno Sassetto

Contrada Terrano 1 Fontana del Passo dei Tre Camini 2 Fontana Ziretto 3 Fontana presso la stazione elettrica

Contrada Valsiarosa 1 Fontana fabbrica di Treia 2 Fontana Sassi Caduti 3 Fontana Chiesa delle Piaggie 4 Fontana Celi 5 Fontana Lunga 6 Fontana Terria 7 Fontana sorelle Giovannoli 8 Fontana sorelle Ricciotti 9 Fontana Torelli 10 Fontana Fabrece 11 Fontana Castelfusaro 12 Fontana Cavacocie Fantibassi 13 Fontana Monte Ciocco 14 Fontana Guazzaroni 15 – 16 Alcune sorgenti alle coste di Millecori.

Contrada Chievo 1 Fontana di Cocchieto 2 Fontana Carcarasi 3 Fontana Pizzo Corvo 4 Fontana Sassacci 5 Fontana Casa Ciotti 6 Fontana Amatuccia

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7 Fontana del Pozzo 8 Fontana Ponte Celle 9 Fontana della Pagnotta 10 Fontana alla Legata 11 Fontana alle Colonnette.

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14 SUPERFICIE DELL'AGRO CIVITONICO

Il nostro territorio misura una superficie di 6.804 ettari e 15 are e 10 centiare. Di questi ettari, 5.872,14 formano i terreni liberi, e ettari 932,10 quelli costituenti i terreni soggetti a servitù di pascolo, affranca-ti ora per legge.

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15 IRRIGAZIONE

L'irrigazione artificiale e la sua utilità ci risulta che doveva essere conosciuta da noi fin dai tempi più remoti. E che possa avere avuto un notevole sviluppo anche sotto gli Etruschi, che estesero la sommini-strazione dell'acqua per mezzo di canali, lo riscontriamo nel nostro ter-ritorio, per rinvenire vestigia di grandiose opere idrauliche.

Ma l'invasioni barbariche, l'abbandono delle terre, l'emigrazione con-tribuirono a peggiorare l'agricoltura.

Tuttavia nel Medioevo s'incominciò a fertilizzare in contrada Chievo un terreno, denominato a punto Le Serre, perché ridotto a prato adac-quativo, ma, non sappiamo perché, venne trascurato e lasciato oggi a coltivazione naturale

Ma dove l'irrigazione venne introdotta con profitto è nella terra di Borghetto, nelle terre di Millecori, ove troviamo 40 ettari ridotti a prato adacquativo, oltre alle varie zone ortive, che vanno crescendo.

Sulle sponde di Rio Maggiore, oltrepassato il Ponte Celle, quasi ai piedi del terreno ove si scoprirono gli avanzi del tempio di Giunone, ri-mangono sulle due rive gli avanzi di una robusta diga, rotta nel mezzo dalla piena del fosso, la quale serviva a rinchiudere le acque di Rio Maggiore, per poi somministrarle ai piani sottoposti fino al prato, che abbiamo detto chiamato delle Serre.

Lungo il fosso dei Sassacci si rinvengono ancora altri avanzi di lavori idraulici, al pari di quelli sparsi in altre contrade e vicino ai corsi d'ac-qua.

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16 CONFINI

Il nostro territorio confina al nord con le terre di Borghetto, per una estensione di circa cinque chilometri e mezzo; a nord-est con la comu-nità di Foglia, per circa sette chilometri e mezzo; a est col territorio di Poggetto, per circa tre chilometri; a sud-est con la comunità di Ponzano Romano, per circa cinque chilometri; a sud colla comunità di Sant'Ore-ste, per circa sei chilometri, e con quella di Stabia (oggi Faleria!), per circa sette chilometri e mezzo; a sud-est col territorio di Castel Sant'E-lia, e ad est con la comunità di Fabrica di Roma, per circa tre chilome-tri, e a nord-est con quella di Corchiano, per circa due chilometri.

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17 CONTRADE

Il territorio civitonico dividesi in quattro contrade: 1 Contrada Valsiarosa 2 Contrada Terrano 3 Chievo 4 Contrada Oltretreia. Le quattro contrade, poi, vennero modificate, aggiungendoci altre

suddivisioni, come contrada Città, contrada Amatuccia, Millecori, ecc. Quindi ogni contrada compònesi di tanti terreni, denominati con disu-guali vocaboli, che per brevità omettiamo di riportare.

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18 TRAFFICO FLUVIALE

Tra le più importanti vie commerciali, che ci ha dato la natura, ri-corderemo, nella nostra regione, quella fluviale, il cui traffico si praticò quasi fino ai giorni nostri, in piccole proporzioni, nel prisco porto vina-rio superiore, oggi detto di Goliano.

Quando esisteva l'antico porto, non se ne incontravano altri sul Te-vere, al dire degli storici, all'infuori dello scalo chiamato Navalia, poco a monte di ponte Milvio (Molle).

Però, presentemente, del nostro porto non sussistono più neanche gli avanzi e, se conserva questo pomposo nome, lo deve al traghetto (tragetto), ossia ad una barca, con la quale si effettua il trasporto dei viandanti dalla sponda romana a quella sabina.

Ma, ov'era vita e ricchezza, regna ormai il silenzio e lo squallore, giacché, dalle condizioni presenti del porto di Golianoa, siamo ben lungi dall'immaginare il prisco traffico dovuto al movimento delle derrate umbro-sabine e della contrada Annonaria14, avvalorandolo il fatto che un cambiatore di monete, chiamato Fulvio Careteb, esercitò la sua pro-fessione nel menzionato porto15.

Dopo l'invasioni barbariche il traffico fluviale impoverì da per tutto, ed incominciò a scemare tra noi, stante l'abbandono e lo spopolamento delle terre.

Però il nostro porto, sebbene guastato ed abbandonato, rimase sem-pre come piccolo sbocco commerciale. Nel Cinquecento il traffico fluvia-le aveva tra noi un notevole movimento, tantoché il nostro Pechinoli ci dice: “Il Tevere non toglie la comodità ai cittadini di condurre a Roma e portare nella nostra città le biade i frutti ed altre parti di mercanzia”c.

Ricordiamo che la legna da ardere, prodotta dalle nostre macchie, dovevasi vendere al Porto di Ripetta, sotto il cessato governo.

Per l'avvenuto cambiamento poi nel 1600 della via Flaminia, che passava presso al porto di Goliano, gran parte delle merci cittadine, anziché inviate a Roma sul Tevere, incominciarono ad inoltrarle sul nuovo braccio stradale, attraversante il territorio molto più vicino a Ci-vita Castellana, nonché la città stessa. Questo cambiamento della Fla-minia segnò il totale decadimento del traffico fluviale del Porto di Go-liano.

14 L'agro civitonico faceva parte dell'Etruria Annonaria siccome quello che più abbon-

dantemente forniva vettovaglie alla Sabina e Roma. 15 Nell'antico castello di Sant'Agata, appartenuto alla nobile ed estinta famiglia Paglia,

rinvénnesi, nel 1677, una lapide, dalla quale si apprese che il primitivo proprietario fu Fulvio Carete, cambiavalute, che esercitò la sua professione, come dicemmo, al porto vinario.

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Tuttavia per mezzo di chiode (zattere) seguitarono a portare in poche proporzioni, la legna e qualche derrata sul Tevere per Roma.

È ricordato ancora un servizio di vaporetti sul Tevere, che conduceva i passeggeri da Roma a Ponte Felice e viceversa, ma soppresso da molti annid.

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19 LA NECROPOLI

È da qualche tempo che la necropoli della prisca Faleria viene rovi-stata per ogni dove con importanti scavi, praticati per conto del gover-no e dei privati, rinvenendovisi abbondante materiale archeologico di grande interesse storico. Il che prova quanto la metropoli falisca fosse popolosa, nonostante quel che rimane da scoprire, poiché gli scavi con-tinuano quasi sempre per conto dei privati con risultati soddisfacenti.

Di quel poco che conosciamo degli Etruschi siamo debitori agli og-getti trovati nei sepolcreti, dai quali rileviamo il gusto, la cultura, la ric-chezza e i costumi di questo gran popolo. È innegabile che il culto dei morti presso gli Etruschi era religiosamente osservato.

Come in tutte le necropoli delle città italiche, in quella della Falerii si vedono sontuosi sepolcreti sotterranei, o incavati a scalpello nel tufo, o edificati all'aperto con soffitti orizzontali e arcuati e con varie file di lo-culi sovrapposti, illustrati da poche iscrizioni, incise sulle pareti delle tombe, ovvero dipinte sulle tegole, che servivano di chiudenda ai loculi stessi.

Dalla storia apprendiamo che sotto Adriano si principiò a spogliare i sepolcri e crebbe questa profanazione sotto Teodorico, finché si compì l'opera devastatrice durante la dominazione longobarda.

Ma, per incominciare, conviene anzitutto dividere la necropoli in zo-ne, ove più o meno si rinvennero oggetti rarissimi. Nella località detta La Penna, posta a ponente di Civita Castellana, si scoprirono tombe importanti con sì copioso materiale archeologico, da contendersi il pri-mato di altri scavia.

Non meno interessanti furono gli oggetti trovati nei loculi dei sepol-creti nella contrada denominata Valsiarosa, situata di faccia alla Pen-na. Inoltre, nel luogo chiamato Lo Scasatob, posto nel perimetro della prisca Faleria, si scoprirono moltissimi avanzi architettonici di un tem-pio antico del periodo più florido dell'arte etrusca, appartenente, se-condo alcuni archeologi, al terzo secolo avanti l'era volgare; e varie sculture frammentate di terracotta, tra cui una testa di Apollo16, di per-fetta fattura e ben conservata. In ultimo, per la specialità degli oggetti rinvenuti in alcune tombe in contrada di Celle e Monterone, sembrò scoprirsi la zona più nobile e ricca della necropoli falisca.

Oggi tutti questi oggetti, ricomposti e diligentemente classificati, ser-vono a dimostrare le diverse fasi del progresso artistico, dall'età italica fino alla decadenza della civiltà etrusca, e fanno bella mostra, come già detto, al Museo Falisco (Nazionale) a Roma.

16 Un'altra statua fittile, simile a quella rinvenuta nel detto Scasato, si trova nel Museo

Etrusco di Firenze.

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A voler descrivere anche i più notevoli oggetti che adornano le gran-di sale del museo, alcuni dei quali di un valore inestimabile, sarebbe cosa assai lunga e forse non tanto dilettevole quanto meglio sarebbe il vedere gli oggetti stessi.

Se fu per noi doloroso che tanti tesori, restituiti alla luce, partissero dalla nostra città per andare a formare alla capitale un museo, che por-ta il nome della nostra prisca città (invece di un museo locale, che a-vrebbe arricchito moralmente e materialmente Civita), ci conforta, però, il pensiero che i reperti non siano usciti fuori dall'Italia ad arricchire i musei stranieric.

Presentemente poche traccie degli scavi fatti si potrebbero rilevare nelle località accennate, perché da per tutto si ricolmarono le tombe e si coltivò di nuovo la terra. Tuttavia, alcuni cittadini conservano degli oggetti trovati nei sepolcri dei loro terreni.

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20 STRADE ANTICHE

Strada Falisca-Latina La più antica strada conosciuta nel nostro territorio era la Falisca-

Latina, proveniente da Roma, della quale consideriamo quel tratto17 che, partendo poco a sud dell'Osteria di Stabia, conduceva fino a Bor-ghetto. Rasentava da prima le falde del Soratte, dirigendosi verso la te-nuta di Valle Como, Abbazia delle tre Fontane, Torre Chiavello, tuttora esistente, il Casale Malatesta, Torre Vagno, e, per l'anguste valli della macchia di Campo Treia, andava a raggiungere il fiume omonimo, che passava mediante un gran ponte, di cui restano ancora gli avanzi. Quindi saliva le coste di Ponticelli, serpeggiando il monte della Conca, e, risalendo il piano superiore di Giacanti, s'avanzava fino a Borghetto. Di detta strada, che si svolge ad est quasi parallelamente alla Flaminia con direzione generale da sud a nord, restano al presente ben note traccie.

Strada Flaminia L'antica maestosa via Flaminia, chiamata dal nome di C. Flaminio

censore, che la costruì nell'anno 220 a. C., entrava nel nostro territorio presso l'Osteria di Stabia, spingendosi da mezzogiorno a settentrione; passava il Colle, discendendo a Torre Rossa, per attraversare il Rio Ri-torto sul piccolo ponte ancora transitabile e quindi sul fiume Treia su d'un ponte non più esistente. Di qui risaliva con una pendenza del 25 per 100 fino al piano della Torre Paranzana, dopo di aver attraversato il grandioso muraglione, detto Muro del Peccato. Inoltrandosi tra i fondi Carcarasi e Campo Grande e giunta poco a sud di Borghetto, continua-va un ramo a nord sopra Otricoli e coll'altro ripiegava a occidente verso Faleri romana, attraversando la macchia di Borgo, piano di Tento, e piano di San Francesco, Cava Cacciano, sino ad incontrare la via Ame-rina. Da questa parte della strada Flaminia, cioè dall'Osteria fino a Borghetto, circa dieci chilometri, esistono ancora dei tratti lastricati a cunei di lava basaltina, che indicano l'andamento della via antica, degli avanzi di ponti, di trincee, di chiavicotti, di muraglioni, di torri, alcune delle quali in piedi, e di un tempio, posto a sinistra del terreno Carca-rasi. Sul tratto di circa 9 chilometri, Borghetto-Faleri, veggonsi altri a-

17 La percorrenza di questi antichissimi avanzi stradali esistenti nel nostro territorio,

che continuamente vanno diminuendo, la rileviamo dalla mappa topografica del det-to ing. Donegani. Circa nove chilometri e vi riscontriamo sulla carta di… [interviene una lacuna di circa mezza riga, n.d.r.]

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vanzi di strada lungo la macchia di Borgo, nel piano di Santa Maria, Piano di Tento, nel Cerqueto Grosso e Cava Cacciano, i quali aiutano a riconoscere il tracciato antico della Flaminia.

Cava Furiana È praticata nel tufo in contrada Chievo, vocabolo le Colonnette, a

destra dell'attuale via Civita Castellana-Borghetto, poco oltre la porta Clementina. È tradizione che questa strada sia stata scavata da Furio Camillo, durante l'assedio di Faleria, per penetrare inosservato nei di-rupi che circondano la città. Se ne vede attualmente la traccia, sebbene poco accessibile, essendo la parte, che conduce in basso al fosso, rico-perta da folta e rigogliosa vegetazione.

STRADE MODIFICATE

Strada provinciale di Nepi L'attuale strada, che da Civita Castellana passa a sud, rasentando il

Forte per condurre a Nepi, venne costrutta nel 1787 da Pio VI, come dalla scritta posta a sinistra del ponte. Prima di questa via esisteva un vecchio sentiero tortuoso, che dalla rupe del Tiratore scendeva all'orto della canonica e, risalendo per La Penna, spingevasi nella direzione presso a poco dell'attuale [foto 7].

Strada Flaminia modificata Nel 1609 il tracciato dell'antica via Flaminia fu modificato per opera

di Paolo V, il quale, a partire dall'Osteria di Stabia, la fece deviare in di-rezione di nord-ovest, in modo che attraversasse la Treia molto più a monte, quasi ai piedi di Civita Castellana a est, per discendere e con-giungersi alla presente sulla sponda sinistra di detto fiume. Nel 1709 papa Clemente Albani XI costrusse l'attuale via di Civita Castellana-Borghetto, facendo seguire una variante alla strada Flaminia coll'intro-durla in città. Prima di questa variante esisteva la via di Borghetto per i Sassi Caduti e riusciva poi presso i Sassacci. Così dopo il 1709 l'antica via Flaminia venne abbandonata, per dar transito a quella più comoda, costrutta come diciamo fin dal 1609 e ai nostri giorni modificata, per renderla più agevole.

Non dobbiamo dimenticare che in Comune esiste un bellissimo elen-co delle strade comunali e vicinali ecc., riguardanti il nostro territorio, compilato dal benemerito concittadino Francesco Tarquini, defunto, autore della interessante “Notizie istoriche e territoriali di Civita Castel-lana già capitale dei Falisci”, edite nel 1874, [a] Castelnuovo di Porto.

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21 I PAGHI E VICHI

Per intelligenza del lettore e a scopo di non dover ripetere più volte il significato di pago e vico, diremo:

Settipaggio, comprendeva un territorio atto a contenere sette paghi, ossia sette paesi, aventi ciascuno la sua dotazione di terreno.

Il pago componevasi di più vichi uniti insieme. Ogni vico era compo-sto di almeno venti o trenta case, costruite per ordine fiancheggianti la strada. Un pago di dieci o dodici vichi poteva contenere tra le 250 fami-glie alle 300. Questi paghi erano i più piccoli, ed ognuno di essi aveva almeno una porzione di due mila rubbie di terreno.

Tutti i comunelli e terre appartenenti al nostro mandamento e parte di quelli limitrofi, facente parte una volta della dipendenza di Faleria, oggi da loro stessi si elevarono a titoli di città, giacché presero il nome di cittadini gli abitanti.

Con le leggi italiane per comune s'intendono tanto i grandi centri quanto i piccoli paesi. Ma i centri dichiarati municipi godevano della cittadinanza romana ed avevano l'istituzione di una deputazione aral-dica cittadina. Ed ecco perché si chiamano municipi, o città, mentre chi non aveva questi titoli, dovevasi chiamare paese o terra, i cui abi-tanti terrazzani o paesani, non cittadini.

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22 TOPOGRAFIA DI CIVITA CASTELLANA

La città di Civita Castellana siede sopra ad un lungo altipiano tufa-ceo contenente calcare, a 153 metri sul livello del mare.

Per quanto sembri, essa, sul piano dalla parte della Maremma, non è unita alla campagna se non dal lato di ponente, e per ogni altra parte ha precipizi, dirupi, in fondo ai quali corrono in giro tre rapide e peren-ni riviere, delle quali ne abbiamo già parlato nel capitolo riflettente l'i-drografia.

A nord Rio Maggiore, a sud Rio Filetto, a est dal fiume Treia, che, dopo raccolte le vene, le mena in grossa corrente tributarie del Tevere.

L'altipiano, sul quale giace la predetta città, misura un circuito di ol-tre due miglia e trovasi sul passo più frequente della via Flaminia e sul nodo stradale maremmano-umbro, amerino-piceno-sabino verso Roma.

Civita Castellana sorge in piano, fabbricata con caseggiato di bell'a-spetto; non ha mura di cinta, perché la naturale sua posizione forma una barriera insormontabile. Essa dividesi in quattro rioni, portanti ancora gli antichi nomi di Massa, Prato, di Mezzo e Pusterula, suddivisi in contrade, designate alcune con moderni vocaboli, altre con quelli primitivia. La città ha varie piazze, la maggiore di forma rettangolare, chiamata oggi piazza Vittorio Emanuele II, è decorata da una fontana con amplia gradinata, la cui artistica tazza credesi opera del Sangallob.

Dei pozzi scavati nel perimetro di Civita possiamo vederne gli avanzi sul lato destro della strada verso levante sul finire dell'altipiano, che servivano per magazzini di granaglie. Questi grandi avanzi di serbatoi vennero alla luce durante l'apertura stradale avvenuta nel 1854.

Vuolsi che l'isolato altipiano di Vignale, alto quanto quello della cit-tà, avente poco più di un miglio di perimetro, fosse una volta unito alla rupe, su cui sta Civita Castellana.

L'intero istmo, dirò così, che doveva unirlo una volta a Civita e che oggi per terremoti e continui franamenti rimase aperto, non poteva ave-re che un 100 metri di lunghezza o 20 o 30 di larghezza.

Avvalora l'opinione della detta unione il trovarsi alcuni cunicoli sca-vati sulle due rupi e stati così tagliati da guardarsi l'un coll'altro e ciò proverebbe che essi comunicavano insieme. Non mancano poi in Vi-gnale traccie di abitazioni e avanzi di templi della medesima epoca del-la Faleria. Difatti la parte bassa dell'altipiano civitonico era maggior-mente abitato nei tempi antichi, mentre la parte alta era spopolata.

Anche il Pechinoli ci lasciò scritto che la località detta Lo Scasato, oggi spopolata, era una volta popolatissima, al pari del Borgo Alessan-drino, che in quei tempi incominciava presso l'attuale stazione della

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tranvia e arrivava fin quasi sotto a Santa Susannac. Queste due con-trade furono distrutte dalla ferocia dei lanzichenetti del Borbone18.

18 Nell'archivio comunale conservasi un dramma storico cittadino, riguardante la di-

sfatta dei lanzichenetti attorno a Civita, compilato col comico Ruggini, rappresentato favorevolmente in città per varie volte, esso è intitolato: "La Madonna della Rosa".

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23 LAVORI EDILIZI E IGIENICI

Nessuna città, capoluogo di mandamento e forse anche di circonda-rio, della provincia romana, può contendere con Civita Castellana ri-guardo all'importanza dei lavori edilizi ed igienici eseguiti in città; tan-toché la giuria dell'Esposizione Internazionale d'igiene sociale, tenutasi testé in Roma, conferì al nostro municipio la ben meritata medaglia d'oro.

Un rapido sguardo, dunque, intorno ai detti lavori lo crediamo del caso, tanto più che costarono alla pubblica amministrazione centinaia di migliaia di lire.

In antico Civita Castellana aveva le piazze, le vie principali lastricate con mattoni a coltello, ma la pavimentazione di tal genere lasciava mol-to a desiderare dal lato igienico e reclamava una sistemazione razionale e duratura, come quella eseguita presentemente a piccoli cunei di ba-salto, per tutta la città.

Per lo scolo delle acque piovane tutte le piazze e le vie vennero forni-te di appositi chiusini di ghisa inodori, essendo quelle dei tetti tutti in-condottate nelle fogne. Questo lavoro di risanamento portò dal lato i-gienico un notevole miglioramento in città.

La vecchia fognatura, incominciata nel 1841, si estendeva soltanto lungo la piazza maggiore, la strada principale, ma costrutta senza i det-tami dell'igiene moderna; quindi, per estendere la fognatura ed allac-ciare tutte le altre piazze e strade, si eseguirono nuove diramazioni, nonché due grandi collettori, in cui non solo scorrono gli spurghi delle case, fornite di cessi quasi tutti inodori, ma avviene giornalmente il la-vaggio, usufruendo delle apposite acque raccolte nel grande serbatoio circolare, costrutto in alto della città.

Per la mancanza nel perimetro di Civita Castellana di cessi pubblici, si costruirono cinque grandi latrine, fornite d'acqua perenne ed illumi-nate tutta la notte.

Si aumentò il numero dei vespasiani, costruendo altri orinatoi pub-blici nei punti principali della città, fornendoli di acqua perenne.

Essendo divenuto insufficiente il pubblico lavatoio, se ne costruì un altro grandioso con tettoia e vasche, modernamente lavorate a secondo gli ultimi dettami dell'igiene.

L'approvvigionamento idrico venne aumentato mediante la costru-zione del nuovo acquedotto su quello vecchio con criteri che non sta a noi a sindacare, ancora non bene sistemato.

Sono in corso vari progetti, per aumentare e migliorare la qualità dell'acqua potabile, ai quali noi auguriamo una pronta attuazione.

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Alle poche fontane pubbliche ne vennero impiantate altre sei in ghi-sa nei singoli rioni della città. Si aprirono, quindi, nelle piazze e nelle vie apposite bocchette di presa d'acqua per l'innaffiamento.

L'acqua fluviale, portata in città fin dal 1841, serve presentemente per alimentare le fontane pubbliche, destinate all'abbeveraggi<ament>o del bestiame, quelle private, le varie industrie locali, per la nettezza del pubblico mattatoio, per innaffiare la città e per irrigare le vicine terre ortive e i giardinetti pubblicia.

Abbandonato l'antico cimitero, se ne impiantò un altro grandioso con arcate in giro, sotto a cui esistono le tombe, alcune con monumenti ornamentalib.

Tra poco sorgerà un opificio scolastico modello entro la città, perché tutte le relative pratiche per sistemarlo vennero già espletatec.

L'interno di Civita Castellana venne abbellito da ameni giardinetti, adorni di basse vasche ornamentali a scogliera, nel cui centro zampilla un copioso getto d'acqua, e da una estesa piantagione d'alberi.

Così Civita Castellana, stanti i nuovi lavori eseguiti, è divenuta un vero soggiorno di città moderna e un centro interessante di vita e di produzione manifatturiera e agricola.

Per ultimo diremo che tra le varie istituzioni di beneficenza che con-ta la città, primeggia quella del ricco ospedale Andosilla.

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24 POSIZIONE ASTRONOMICA DI CIVITA CASTELLANA

Civita Castellana è posta fra il 10°, 4', 29” di longitudine ed il 42°, 17' di latitudine.

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25 MISURE ANTICHE LINEARI ROMANE

Per intelligenza del lettore riportiamo le antiche misure lineari ro-mane, a scopo di non doverle ripetere ogni qualvolta siamo costretti a parlarne, essendo quelle riportate in antico senza il ragguaglio moder-no.

Il miglio romano componevasi di mille passi geometrici, misurato soltanto alla greca, con gli stadi di circa cinque passi di più per ciascu-no.

Ogni miglio greco era di 42 passi circa più lungo di quello romano antico.

I passi antichi romani erano di cinque piedi. I piedi di sedici dita. Sedici dita sono uguali a once 14 moderne. Il miglio di mille passi geometrico antico è uguale a 1334 passi mo-

derni di once 12. Il piede o palmo è uguale a staiuoli 1160.

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26 LE TORRI

Da qualche quadrato e massiccio torrione, abbassato con tetto e ria-dattato modernamente, ma riconoscibile alla base per le bugnature in travertino, ci sarà di guida intorno a queste costruzioni medioevali, che fino al 1821 se ne contavano in città 50. Le torri variavano dagli otto a 12 metri di altezza, bugnate le parti inferiori fino al limitare della porta, con muri a quadrelloni di tufo, e alla fine del bugnato sporgeva una spranga di ferro, piegata in alto con un boccaletto in cima, ove si pian-tavano dei torchi accesi al passare delle processioni. In alto girava in-torno alle torri un cornicione simile ad un ballatoio, alcune guarnite di merli. Non tutte avevano la stessa forma; le finestre, le porte venivano costrutte piccolissime, a scopo di difesa, e molte tra di loro erano unite con archi, sui quali, in caso di bisogno, potevano i difensori colpire nel-le strade l'invadente nemico.

Oggi di questi archi se ne vedono due soprapposti tra la casa Finesi e quella Morelli, ed altri nelle vie presso l'orfanotrofio.

Le vie del Quinciolino, di San Clemente, di Panico, del Duomo ecc., offrono bellissimi campioni di queste annerite e tetre torri, quasi tutte abbassate ed alcune imbiancate.

La più bella torre, conservante la primitiva costruzione, ma imbian-cata, è quella così detta di Pirolo.

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27 STEMMI GENTILIZI, ORNAMENTAZIONI

SIMBOLICHE E RELIGIOSE

Sussistono ancora per Civita Castellana degli stemmi gentilizi, cu-riosità artistiche ornamentali, caratteristiche, simboliche, profane, reli-giose sulle facciate delle case, alcuni ben modellati, altri logori e ra-schiati, dei quali ne facciamo un rapido cenno, non tanto per il valore degli oggetti stessi, sebbene, per i tempi in cui videro la luce dovevano avere il loro significato, ma quanto per dimostrare la signorilità e nobil-tà del caseggiato della cittàa.

A partire, dunque, dalla piazza del Duomo, in alto al bel portale della casa, una volta della estinta e nobile famiglia Ciotti, apparisce il vec-chio stemma gentilizio, ma logoro e raschiato, come diremo per legge. Sull'altro portale, ben lavorato in travertino, della casa appartenente al defunto e nobile Cicuti, conservasi il logoro gancio di ferro, sorreggente a suo tempo il blasone del cessato proprietario.

Nell'architrave del palazzo episcopale troviamo un'iscrizione avente ai lati due simboliche figure; e in alto della porta d'entrata alla cancel-leria vescovile è scolpito uno stemma in travertino, ben mantenuto al pari di quello situato sulla porta dell'oratorio, appartenuto al defunto vescovo Ercolanib. In alto dell'artistico portale della casa, a suoi tempi della nobile e estinta famiglia Anastasio Petti, vedesi ben conservato lo stemma gentilizio con gli attributi del Petti, rappresentante un'aquila con ali aperte, posatasi sopra a tre monti.

Entrando in via Giulia, oggi via Regina Margherita, troveremo sulla casa del sig. Cantini un altro bellissimo stemma sormontante l'artistico portale, scolpito in travertino, nel cui ovato spicca un leone di profilo con una zampa alzata.

Più oltre, sul portone della casa, contornato da grande portale lavo-rato in travertino, apparisce lo stemma della nobile ed estinta famiglia Coluzzi come della scritta esistente nello scudo, ove leggesi: Sebastia-nus Colutius.

Sull'architrave del gran portale della casa, appartenuta alla estinta e nobile famiglia Paglia Guglielmi, esistevano, fino ai nostri giorni, i due blasoni gentilizi della famiglia, quello del Paglia e del Guglielmi, inquar-tati in un ramo con gli attributi dei due rami collaterali.

Quindi, in fondo alla strada, sopra ad una porticina conducente alle rupi, si conserva uno stemma ben lavorato in travertinoc.

Nella via Rosa, in alto della porta di casa appartenente alla nobile famiglia Quatrini, apparisce lo stemma gentilizio, ma logoro e irricono-scibile.

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Sulla facciata della casa del conte Feroldi Antonisi Rosa si conserva-no, scolpiti in pietra, i patroni Marciano e Giovanni con un angelo al la-to destro.

Dal ricordo marmoreo, posto sulla stessa facciata, apprendiamo che il profugo re di Sardegna, Carlo Emanuele IV, ebbe ospitalità in questa casad.

In fondo alla via Rosa, sulla casa una volta appartenuta alla nobile famiglia Forcella, sul portone conservasi il gancio di ferro sorreggente ai suoi tempi il blasone del cessato proprietario.

Sul principio della via del Duomo, in alto al grande e artistico portale del palazzo, appartenente alla nobile ed estinta famiglia Gremino-Grotti, vedesi lo stemma gentilizio del Grotti, scolpito in travertino e ben conservato, rappresentante una sbarra orizzontale nello scudo, a-vente tre gigli e sei piccole fascie scendenti tre a destra e tre a sinistra.

Di prospetto, troviamo sul portone della casa, appartenuta una volta alla nobile famiglia Ciotti Paolo, lo stemma gentilizio del cessato pro-prietario, con le sigle incise dall'attuale proprietario Basili Francescoe.

A metà strada, sui portoni delle case Ribaldi e Riccioni, quest'ultima una volta della nobile famiglia Colasanti, si mantengono le grappe di ferro, che ai suoi tempi dovevano sorreggere gli stemmi gentilizi delle casef.

Avanti alle dette abitazioni apparisce sul portone della casa apparte-nente una volta alla nobile ed estinta famiglia Carolis, il gancio di ferro sostenente lo stemma di quella famiglia.

Sul finire della via, osserveremo un altro stemma cogli attributi ap-partenenti alla nobile ed estinta famiglia Panalfuccio, scolpito in traver-tino sulla porta dell'abitazione di Federicig.

Ai quattro lati dell'artistica tazza della fontana, adornante la piazza maggiore, sono scolpiti quattro stemmi, due rappresentanti quello civi-co, e due il drago, emblema del costruttore Paolo V.

Nella medesima piazza, sull'angolo estremo della casa di Galiani, in basso, potremo leggere l'iscrizione incisa in pietra, riguardante l'inau-gurazione della fontanah [foto 8].

Tenendoci sulla via del Corso, perverremo al palazzo del barone Trocchi, appartenente una volta alla potente e nobile estinta famiglia Petroni, la cui facciata vuolsi del Sangallo.

In alto dell'artistico portale in travertino conservasi la grappa di fer-ro, che doveva sostenere lo stemma della casa.

Avanti al palazzo, sulla porta della rimessa, è tuttora visibile lo stemma gentilizio di casa Petronii.

Al terminare di detta via, sulla porta dell'abitazione del Sacchetti, apparisce uno stemma gentilizio logoro e raschiato.

Entrando nella via delle Palme, osserveremo sulla porta dello stabile di Cori (oggi Gori) un blasone rappresentante gli attributi del Panalfuc-ciol.

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In fondo al vicolo del Governo Vecchio, sulla porta dell'abitazione Colapaoli sussiste uno stemma raschiato e irriconoscibile.

In piazza di Massa, sul portale del grande portone del palazzo della estinta marchesa Andosilla è scolpito in travertino il proprio stemma, tuttora ben conservatom.

Avanti al detto palazzo, sulle porte delle abitazioni di Pistola e Petri-ni, appariscono due stemmi gentilizi logori e raschiati.

Entrati nella via del Castelletto, rileveremo sugli architrave delle ca-se, la prima appartenente alla nobile famiglia Midossi e la seconda alla nobile casa Carolis, oggi cav. Franci, le traccie di armi gentilizi logore e raschiate.

In fondo al detto vicolo, sullo stabile dell'Arselli in alto del portone conservasi uno stemma gentilizio ben conservato e lavorato in traverti-no, rappresentante nello scudo tre stelle in alto e in basso una mezza luna.

Sulla via di San Gregorio, in alto, all'ingresso della casa Cencelli, apparisce un'arme gentilizia, scolpita in travertino logora e raschiata.

In piazza di San Clemente, sul portone dell'artistico portale in tra-vertino della casa di Colamedici e sul loggiato appariscono gli stemmi del vecchio e nobile proprietario Paradisi. Anche sul portone della nobi-le casa Marco Morelli c'era lo stemma gentilizio.

Sul bel portale del palazzo Peretti, oggi Baroni, situato in via di Cor-te, vi sono ancora ben conservati gli stemmi nobiliari lavorati in traver-tino, rappresentanti uno quello del primo proprietario Peretti, e poi quello dell'altro della nobile famiglia Stella, oggi estinta.

In via di Corsica avvi sull'ingresso dello stabile di Albani, il blasone gentilizio che alzava la nobile ed estinta famiglia Sterpatori.

Sull'entrata dell'orto di Colonnelli vedesi uno stemma lavorato in travertino ben conservato.

Sulla torre in alto del Vinciolino si mantiene uno stemma apparte-nuto alla casa Petronin.

Sugli ingressi della torretta conducente alla via del Tiratore sono scolpiti due stemmi, ma irriconoscibili.

Chiuderemo la serie degli stemmi gentilizi adornanti le case della nostra città, col ricordare quelli costruiti nello storico Forte del Sangal-lo, primeggiando fra questi quello dei Borgia, di Giulio II, di Leone X, di Clemente VII, ecc.

La raschiatura degli stemmi gentilizi, come accennammo, avvenne per ordine del governo repubblicano francese: con il 1° marzo del 1798 decretò di abbattere e demolire quanti stemmi sovrani e principeschi si trovavano sugli edifici delle città conquistate.

Nella provincia di Roma gran parte di stemmi vennero demoliti e parte raschiati e ricoperti con calce.

A memoria poi degli oggetti religiosi, simbolici, caratteristici ecc, che abbiamo menzionati, ricorderemo quelli lasciati a ricordo delle missioni

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tenute in Civita da San Bernardino da Siena, ricordo consistente in un monogramma di Gesù, scolpito entro un tondo di travertino, dei quali ancora ne rimangono alcuni sulle facciate delle case.

Sulla porta d'entrata della locanda dell'Aquila Nera sono incisi due di questi monogrammi aventi la data del 1497o.

Tra gli oggetti artistici religiosi teneva il primo posto un geniale gruppo di quattro teste di alati serafini, egregiamente scolpiti in mar-mo, ben mantenuti sulla facciata della casa di Pelinga, tolto ai nostri giorni dal proprietario.

Quindi, tra gli oggetti caratteristici, noteremo un sagittario lavorato in marmo, murato sulla parete di una casa in fondo alla via delle Pal-mep.

Sulla parete dell'abitazione in via del Castelletto apparisce un pavo-ne scolpito in pietra, che posasi sopra ad un monteq; in altre facciate di case sussistono anche alcune teste isolate di angeli.

Tra le iscrizioni sussistenti in varie facciate di case, leggeremo quella in via delle Palme, murata sulla casar; un'altra in piazza della Quintana sulla casa dei Paolelli, ove è detto Oratio Antonio 1633s; quella sulla ca-sa Paglia, sulla facciata della casa dei fratelli Del Frate, ricordante Ugo Bassit, e la bella iscrizione conservata, sormontante dall'artistico civico stemma collocata avanti all'Ospedale Andosilla, sopra la fontanau. An-che sul cornicione della vecchia casa comunale si leggeva “Leonis X Pont. Max. in Veios liberalitate”, e in un'altra “Qui steterant Veios nunc renovare licet”, entrambi tolte dopo il restauramento dell'attuale palaz-zo municipale.

Finalmente meritevoli da ricordare sono gli avanzi di bassorilievo appartenenti, come dicono, al mausoleo di Glizio Gallo, tribuno roma-no; messi in opera, esistenti sulle ultime case in fondo all'orfanatrofio, nella base del campanile della chiesa del Carmine, e un altro grande rettangolare, posto sulla piazza comunale tra il primo arco conducente a San Gregorio e le botteghe di Pistola.

Un antico piedistallo di marmo quadrangolare vedesi sullo stipite della bottega di casa Del Fratez.

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28 NOBILTÀ CIVITONICA

Non manca anche in Civita Castellana l'istituzione del ceto nobile, siccome centro dichiarato municipio romano e come capoluogo di go-verno.

Delle antiche deputazioni araldiche non sappiamo nulla, a nostra conoscenza, giacché non possiamo attingere notizie dai nostri archivi, perché furono bruciati e manomessi, la prima volta dalle feroci truppe del Borbone nel 1527 e la seconda volta dalle truppe austro-aretine.

Sappiamo, riportandoci per incidenza ad una lettera inviata da In-nocenzo III ai deputati di Civita Castellana, che costoro venivano chia-mati nobiles viros, come ancora riferisce lo storico Baluzio al libro II, epist. 256.

Da questa data storica deduciamo che fin da quei tempi esisteva già in Civita il ceto nobile.

Su testimonianza lapidaria, sussistente nel portico del Duomo, ab-biamo un'altra conferma riguardo all'antica nobiltà cittadina, in quan-toché, a ricordanza di Clemente VIII, nell'occasione che ebbe di pernot-tare nel 1597 nel Forte, leggiamo: “Interea cum summa benignitate i Pa-trit<r>iosque riti et recte vivendum hortatus” (Frattanto con somma be-nignità i patrizi bene e relativamente vivere esortò). Quello che intanto rimane documentato ufficialmente è il così detto Libro d'oro, esistente in municipio, dal quale possiamo rilevare che l'ultima Deputazione a-raldica fu composta con nobili famiglie cittadine, e con nobili anche fo-rastiere, nel 1837, le quali sono Paglia, Guglielmi, Coluzzi, Petti, Ettor-re, Cicuti, Lepori, Andosilla, Tomassi, Morelli, Sacchi, Midossi, Quatri-ni.

Ma dopo il 1876 tre sole famiglie si fecero riconoscere dalla Deputa-zione araldica governativa: la famiglia Midossi, la famiglia Coluzzi, oggi estinta, e quella di Edmondo Morelli.

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29 ANTICA CULTURA FALISCA

È al dire della storia che sappiamo della Faleria Argiva essere stato un centro della più varia e fiorente coltura; Plinio ricorda le reputatis-sime scuole pubbliche frequentate dai Romani, i collegi, gli istituti di educazione fisica, letteraria e scientifica19.

Difatti, di una grande civiltà furono gli oggetti d'oro, di bronzo e di terrecotte, rinvenuti nella necropoli falisca, dimostrandoci la floridezza dell'arti di quel glorioso popolo scomparso.

Tanto era la Faleria avanzata nella legislatura in quell'epoca che, al dire dello storico Dionisio, nel terzo secolo di Roma il senato romano prese dai nostri arcavoli alcune leggi, per aggiungerle alle dodici tavole tratte dalla Grecia, e mandò i decemveri in Faleria, per apprendere il ius feciale, istituito dai Falisci, esercitato dai sacerdoti feciali, i quali erano preposti alla tutela di codeste nuove leggi, date alla luce da poco in Faleria e rese note tra i popoli civili di allora. Come apprendiamo da Cicerone, cioè laddove riferisce il testo delle XII tavole, al loro giudizio era rimesso intimare la guerra, stabilire tregue, concludere paci ed al-leanze.

Bello e interessante dal lato storico giuridico sarebbe la composizio-ne di un quadro da dipingersi in una sala del Comune, rappresentante l'arrivo e l'incontro dei decemveri in Faleria con i sacerdoti feciali, ve-nuti ad apprendere le nuove leggi sorte sul nostro patrio suolo.

A nostro sapere riportiamo un unico autore falisco, fiorito ai tempi di Augusto, che lasciò scritto un poema latino intitolato Il Cenegetico, vol-tato in poesia italiana da Giovanni Pirani, edito a Modena nel 1882 dal-la Tip. Soliania.

Dalla prefazione del traduttore riportiamo ora le parole di un brano riguardante il merito del poema:

“Certo che i meriti di questo lavoro sono tali e tanti che lo raccoman-diamo all'amore di chi coltiva le buone lettere, o, senza meno, assolvono dalla taccia di perditempo chi a solo modo di geniale studio e di quieto divagamento vi abbia speso alcuna cura”.

Il nostro Grazio Falisco, oltre ad essere insigne letterato del tempo, era anche un appassionato e valente cacciatore, perché nel poema che scrisse consiglia e descrive i modi di caccia da usarsi per la preda della selvaggina, con tanta maestria e conoscenza da rendere il suo lavoro un poema interessantissimo del genere, come giustamente il detto Pi-rani lo rimarca.

19 Plinio cita la corona d'oro denominata etrusca, fregio dei lucumoni; cita ancora u-

n'altra corona pendente dietro al capo con laminette d'oro.

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Ben poco abbiamo potuto rintracciare intorno alla vita dei nostri an-tichi progenitori, solo troviamo qualche inclita persona per santità che riportiamo: Gratiliano e Felicissima20, che subirono il martirio sotto Claudio il Gotico; il passo ove avvenne il martirio chiamasi ancora Pas-so di Santa Felicissima; Santa Serena, moglie di Diocleziano, della fa-miglia Trelli, anch'essa martirizzata, perché convertitasi al cristianesi-mo.

Delle famiglie cittadine, nobili, colte, ricche e potenti, che vissero dopo il Mille, ne parleremo nell'apposito articolo.

20 Intorno a questi martiri componemmo per primo un dramma sacro, storico, sociale,

in quattro atti, più volte rappresentato in città. Dico per primo, perché, dopo rappre-sentato il nostro, se ne compose un altro, rappresentandolo per varie volte.

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30 I CUNICOLI E POZZI

Intorno all'altipiano, su cui passa Civita Castellana, in quello di Vi-gnale e molte altre località del territorio, specie presso la contrada di Terria, si veggono ancora molti cunicoli.

Gran parte di questi vanno sprofondandosi verso le radici delle rupi stesse, parte girano sottovia e parte mettono capo alla campagna.

Tutti questi cunicoli, scavati nel tufo, variano a seconda dell'altezza e larghezza, ma molti non rappresentano che scoli, anziché per sentieri sotterranei.

Non mancano, poi, una gran quantità di pozzi scavati nel territorio, alcuni dei quali di smisurata altezza, specie quelli lavorati a quadro, e-sistenti nel perimetro dell'antica città, che arrivavano fino in fondo ai fossi, servibili, in caso di assedio, per attingere acqua.

Oggi, però, di questi pozzi, tanto quelli in campagna che in città, vennero murati e ricoperti di terra e, senza un indicatore capace, non si possono più riscontrare.

Abbiamo voluto ricordare anche questa parte di remota costruzione di manufatti rispecchianti la vita dei tempi falisci, senza dilungarsi in-torno ad essi, giacché speciali studi vennero eseguiti dagli archeologi intorno a questi avanzi di lavorazioni etrusche – romane.

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31 LE FIERE

Le prime notizie, che troviamo intorno alle fiere esercitate in Civita, sono le seguenti:

La Camera Apostolica, con editto del 2 giugno 1453, concedeva alla comunità l'istituzione di una fiera, che esercitasse nella ricorrenza delle feste patronali, per la durata di giorni dieci continui, poi, con patente del giorno 18 giugno 1490, accordò la traslazione di 10 giorni già con-cessi per la detta fiera, perché uguale nel medesimo tempo si esercitava a Viterbo, impedendosi vicendevolmente, sicché la nuova concessione feriale si restrinse, incominciando dal giorno di San Matteo fino al pri-mo di ottobre.

Con notificazione della Camera Apostolica, in data del 12 maggio 1832, si accordò alla comunità di Civita Castellana l'istituzione di una fiera annuale, nei giorni 17 e 18 settembre, e restringeva quella annua-le, tenuta nel mese di novembre, per la durata di 11 giorni a soli due dal 3 al 4 dello stesso mese.

Quindi, con altra notifica del 26 ottobre del 1605 la Camera Aposto-lica dava facoltà e licenza alla nostra comunità di celebrare il pubblico mercato nel giorno di sabato.

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32 ORDINAMENTI ANTICHI MUNICIPALI

DI CIVITA CASTELLANA

Non meno interessante sarà per il lettore la conoscenza, che adesso dovrà fare, riguardo agli antichi ordinamenti municipali della nostra città e ai principii, secondo i quali prevaleva il sistema direi quasi d'una assoluta indipendenza, come municipio autonomo.

Col sorgere dei comuni in Italia, la nostra città seppe, alle leggi con-suetudinarie, poste accanto a quelle romane, che servirono politica-mente all'incivilimento dell'Europa, creare le proprie leggi cittadine, che fanno segno dell'accanita lotta tra il popolo e il feudalismo.

Abbiamo detto che noi eravamo come comune autonomo, e difatti avevamo le nostre leggi, che venivano create e modificate ogni dieci an-ni, quindi sanzionate dal governo di Roma.

Nelle nostre leggi, dunque, raccolte in un sol volume, lo statuto, che riportiamo il lettore all'apposito capitolo, troviamo il primo modello del-l'ordinamento comunale civitonico, che è la più antica forma di aggre-gazione sociale.

Prima che il municipio componesse le proprie leggi, Civita Castellana formava un'importantissima castellania degli Stati della Chiesa, con sede di ufficio di giudice castellano e giudice signore. L'investitura del primo cessò, come dicemmo, dopo create le proprie leggi cittadine.

La vera ed antica potestà deliberante del nostro Comune stava dun-que nel Consiglio, il quale dividevasi in Consiglio Generale e Consiglio Segreto; il primo componevasi di 38 membri; il secondo di 12 membria.

Il Consiglio Generale, poi, si denominava Camera del Comune o Par-lamento.

I consiglieri comunali venivano eletti dal popolo, la cui scelta fonda-vasi sul principio elettivo.

A capo del Comune presiedeva il podestà, che, prima di assumere l'ufficio, leggeva ai membri della comunità e al popolo la formula del giuramento sulle scale della chiesa di San Francesco, come tra poco vedremo.

Come capo della giustizia, il podestà, aveva il ius sanguinis, diritto di sangue, l'obbligo di abitare nel palazzo, ove vi era la corte, ossia il tri-bunale giudiziario, percependo durante i sei mesi d'ufficio 24 ducati d'oro, pari a 103,60 lire italiane, senza poter essercitare nessun'altra occupazione.

Erano addetti al tribunale del podestà: un giudice o notaio, incarica-to per l'osservanza dei civili e maleficii; un notaio o cavaliere, per quella dei danni dati; un cancelliere, con lo stipendio di settanta ducati di carlini papalini (lire 320), addetto all'amministrazione della giustizia;

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un castaldo, con lo stipendio di quattro fiorini a ragione di 35 bolognini per ciascun fiorino; e alcuni birri. Nelle sedute tenute dalla corte v'in-tervenivano anche i conservatori.

L'autorità municipale veniva poi costituita dal podestà insieme ai quattro conservatori, aventi le attribuzioni esecutive riguardo gli uffici. E perché il numero di quest'ultimi fosse sempre legale durante l'ufficio loro, ne venivano aggiunti altri quattro, chiamati rappicciolati “supplen-ti”, i quali in caso di bisogno rimpiazzavano gli assenti.

Per il buon andamento della pubblica cosa, venivano nominati dal Consiglio Generale altri funzionari municipali, per disbrigare le varie mansioni.

Il cancelliere (segretario) dirigeva la segreteria comunale, la camera o parlamento; il camerlengo (tesoriere) riscuoteva i proventi comunali, consistenti in dazi, pedaggi, gabelle ecc. e percepiva tre libre di danaro durante i tre mesi che doveva tenere; il massaro (economo) teneva an-che in consegna i brevi, le bolle, i diplomi dei papi; i viali (periti) erano addetti alla sorveglianza, come oggi si direbbe, dell'opere edilizie e delle stime dei danni; i giurati formavano un corpo armato di 20 individui, il cui ufficio consisteva nell'accompagnare il podestà, in certi mesi del-l'anno, alla verifica dei confini del nostro territorio; due stimatori, ad-detti per stimare i danni campestri; due pacieri, incaricati di definire pacificamente le vertenze sorte in città tra cittadini; due tassatori, per tassare le opere dei mietitori; tre portonari, cittadini incaricati di chiu-dere ed aprire le porte della città e conservarne le chiavi; un pesatore della farina, addetto a controllare il peso del grano, consegnato ai moli-nari, e delle farine; un soprastante o capitano di fiera, il quale con dieci guardie portavasi per mantenere il buon ordine nelle fiere; i castaldi, i quali promiscuamente disimpegnavano anche l'attribuzioni di usciere del tribunale; i guardiani, agenti campestri, incaricati alla sorveglianza della pubblica proprietà.

Tutte queste cariche erano sotto la dipendenza del podestà e dei conservatori. Ogni anno, poi, creavasi due sindaci del Comune, i quali dovevano rivedere la gestione municipale. Il Consiglio Generale, ogni volta che scadeva dalla carica il podestà, creava altri due sindaci, con lo stipendio di 20 soldi per ciascuno, i quali, insieme agli altri due sin-daci, rivedevano l'operato del podestà e quello dei conservatori.

Con questo semplice sistema, abbastanza sbrigativo, veniva sindaca-to e controllata la pubblica amministrazione della nostra città.

Per il mantenimento dell'ordine pubblico in Civita e distretto, il Co-mune possedeva 150 corazze, altrettante celate, 100 balestre, partigia-ne, targhette ed altre armi bianche, che distribuiva ad apposite perso-ne, addette in caso di sommossa a menar le mani. Per l'istruzione po-polare presiedeva un maestro di scuola; per la sanità pubblica, un me-dicob. Eccoci intanto, come dicemmo, intorno alla cerimonia dell'inse-diamento del podestà.

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All'alba del giorno, destinato per la cerimonia in parola, una copiosa salve di artiglieria salutava dal Forte il nuovo eletto, mentre alla fine-stra del palazzo comunale issavasi il gonfalone al suono delle trombe e allo stormire della pubblica campana.

All'ora stabilita, il nuovo eletto e quello scaduto, preceduti dalla Cor-te e da tutte le autorità e funzionari municipali, con i castaldi e trom-bettieri, portando in testa al corteo il gonfalone, circondati dalle lance comunali, in alta uniforme, come oggi si direbbe, si recavano alla chie-sa di San Pietro, sulle cui scale, in presenza del pubblico accorso an-che dai vicini castelli, il podestà pronunziava la tradizionale formula del giuramento. Dopo la quale il corteo ritornava in palazzo tra lo squil-lare delle trombe, il rombo delle artiglierie e lo stormire della campana.

La chiesa di San Pietro, o di San Francesco, era il luogo di convegno, per dir così, perché in quei tempi nella sua sacrestia si teneva in cu-stodia dal superiore dei padri conventuali una cassetta per il bussolo da estrarsi per i nuovi eletti alle cariche comunali, con doppie chiavi: una conservata dal detto superiore e l'altra dalla municipalità. Dopo il terzo anno, però, votato il bussolo, si rinnovava il Consiglio Generale dal popolo, le cui elezioni avvenivano nella pubblica Piazza de' Prati. Le nuove leggi, portate dalla Repubblica Francese sul finire del secolo passato nella provincia romana, modificarono e semplificarono tutti questi ordinamenti municipali. Alla autorità podestaria subentrò quella che chiamossi magistrale, con a capo il gonfaloniere (sindaco), rimasto a capo della sola amministrazione pubblica. I conservatori presero no-me di anziani (assessori), componenti oggi la giunta. A capo della giu-stizia, da governatore, che presiedeva anche alle sedute municipali, si chiamò pretore.

Finalmente diremo che fino al 1870, nelle funzioni civili e religiose, il capo della magistratura, il gonfaloniere, oggi sindaco, unitamente ai dipendenti funzionari municipali e quelli governativi, militari e civili, vestivano l'abito di prammatica. Il gonfaloniere indossava il robbone di seta nero, con tocco e fascia d'oro21 attraverso il corpoc. Gli anziani por-tavano anch'essi il robbone di seta nero, ma con fascia d'argento. Il go-vernatore, i medici, il chirurgo, il segretario, il cancelliere e gli altri civi-li impiegati indossavano l'abito nero, gli ufficiali l'alta uniforme e deco-razione. Gli inservienti vestivano la livrea, cappello a due punte, specie di feluca, un soprabito di panno verde, con filettatura a colori, aperto davanti e fin sotto al ginocchio; un paio di brache di color avana e calze bianche, con scarpine, completava l'abbigliamento di questi servi mu-nicipali, quali aprivano il corteo, portando in mano il torchietto acceso.

Due volte all'anno usciva la magistratura in pompa ufficiale: il gior-no del Corpus Domini e il 16 settembre, ricorrenza dei [santi] protettori della città.

21 Se il gonfaloniere era del ceto nobile, portava la fascia d'oro ad uso bandoliera.

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Secondo l'etichetta d'allora, ognuno ci teneva per il suo posto da oc-cupare. Il gonfaloniere incedeva in mezzo ai quattro anziani, ossia la magistratura, che recavansi a prendere il governatore, per poi menarlo dal vescovo, che, uniti a tutte le altre autorità civili, militari e clero, fa-cevano l'entrata solenne nella basilica cattedrale, per assistere al ponti-ficale con l'intervento dell'intero presidio e della banda comunale.

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33 LO STATUTO MUNICIPALE

In nessun'altra parte d'Italia furono tanto numerosi gli statuti muni-cipali come negli antichi Stati della Chiesa22. Però una collezione com-pleta di questi corpi legislativi non la conosciamo neanche oggi, per la ragione che in quasi tutti i municipi o per negligenza o per tristi vicen-de si bruciarono o si trafugarono le prime serie di antiche leggi mano-scritte.

Questi corpi legislativi fin dai primi tempi furono da ciascun comune raccolti e successivamente ordinati in un solo volume, chiamato statu-to23. In esso rileveremo le più antiche forme di aggregazione sociale, i modelli primitivi degli ordinamenti comunali.

Dell'ordinamento civile di Civita Castellana non si hanno notizie più esatte di quelle che è dato di ricavare dagli statuti o leggi, ordinati per decreto del Consiglio Generalissimo della comunità, dai conservatori, messer Giacomo Pelletronio e maestro Antonio Polito, ed impressi in Roma nell'anno 1566, dopo essere stati approvati dal papa Pio V, con breve del 30 marzo dello stesso anno [foto 9].

Dal proemio dello statuto del 1565, del quale si conserva qualche esemplare, apparisce che fin dai tempi del pontefice Sisto IV, mentre Rodrigo Borgia governava la città, gli statuti stessi erano stati preparati da Giovanni Panalfuccio, cavaliere, e dai giurisperiti Alessandro Petro-nio e Giovanni di Serlorenzo, verso l'anno 1470. Anzi, da una bolla di Paolo III, in data del 20 gennaio 1535, si rileva che esistessero ordina-menti statutari di Civita Castellana fin da quando la sede pontificia era occupata da Calisto III24.

Ma il documento più antico, che accenna all'ordinamento civile della nostra città, rimonta alla fine del secolo XIV, ed è una bolla di Bonifa-cio IX, che porta la data del 15 ottobre 1398, relativa al salario del po-destà.

Al di là di questi anni non esistono altre memorie all'infuori della cronaca del nostro Pechinoli, nella quale si legge che i primi statuti ri-salgono all'anno 1380. Il nostro statuto è ripartito in sei libri, con un totale di 337 rubriche e 56 riformanze, scritte in lingua volgare, e può

22 In 117 luoghi, tra città e castelli, nello Stato Pontificio, 107 pubblicarono i loro statu-

ti così ripartiti: 5 nel secolo XV, 60 nel secolo XVI; 20 nel secolo XVII; 14 nel XVIII e 8 nel XIX.

23 Venivano conformati alla nostra comunità ogni dieci anni dai papi, con diplomi e bol-le. Questi documenti, insieme ad altre autentiche ed illustri memorie cittadine, furo-no bruciati nel 1798, come già dicemmo.

24 Nello statuto si legge Calisto IV: è un errore di stampa, perché tre soli papi portarono questo nome.

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annoverarsi tra i pochi e più voluminosi codici dell'epoca, componen-dosi gli altri, in genere, di tre o quattro libri.

Perciò crediamo opportuno di portarlo a conoscenza del lettore, o-mettendo però di analizzarlo, non consentendolo né l'indole del lavoro, né l'indole dei nostri studi.

Il primo libro si occupa: Parte prima, Tavola degli Uffici, rubriche 41.

Il sesto delle Riformanze: parte sesta, Tavola delle riformanze con 56 riformanze; danno il vero concetto dell'ordinamento politico ed ammini-strativo della città.

Il secondo: Parte seconda, Tavola delli Civili, con 34 rubriche: ri-guarda le leggi civili e la procedura da tenersi nei relativi giudizi.

Il terzo: Tavola dei Malefici, con 81 rubriche: può considerarsi come un codice di leggi e procedimenti penali.

Il quarto: Parte quarta, Tavola del libro del Danno Dato, con 59 ru-briche: considera quei fatti speciali, che oggi sono conosciuti con la de-nominazione di quasi delitti.

Finalmente, il quinto: Parte quinta, Tavola del libro de Straordinari, con 105 rubriche:è un complesso di regolamenti di polizia locale.

In genere da questo statuto può il giureconsulto rilevare il sistema di governo e di legislazione vigente in Civita Castellana sul cessare del Medioevo e vedere quanto senno si raccolga in quelle leggi, le quali, sebbene in apparenza appaiono talvolta di soverchio e minuziose, dove-vano essere, però, di una pratica efficace in quei tempi di prepotenza e d'ignoranza.

Per ultimo possiamo determinare cronologicamente alcune epoche intorno alle nostre leggi, incominciando dalla prima compilazione, anno approssimativo, fino all'ultima riforma ed aggiunta a noi pervenutaa:

1 sotto il papa Eugenio IV, tra il 1431 - 1447 2 Calisto III, 1455 - 1458 3 Pio II, 1458 - 1464 4 Innocenzo VIII, 1484 - 1492 5 Paolo III, 1535 anno certo 6 Paolo IV, 1555 - 1559 7 Pio IV, 1559 - 1566 8 Pio V, 1566 anno certo Ecco, intanto, le relative tavole di ogni singolo libro componente il

nostro antico ed intero statuto municipaleb.

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LIBRO PRIMO TAVOLA DEGLI UFFICI

Rubrica, Capitolo:

1. Dove deve iurare l'offizio lo potestà. 2. Della formola del iuramento del potestà. 3. Che lo potestà visiti la chiesa di Santa Maria. 4. Che lo potestà e i suoi officiali non esercitino officio ol-

tre sei mesi. 5. Che lo potestà regga personalmente la città di Civita

Castellana ogni dì con tutti i suoi ufficiali. 6. Dell'officiali che deve tenere il nostro potestà e della

mostra da farsi e suo salario. 7. Che non si dia arbitrio al potestà e della pena imposta

al cavaliero. 8. Che non si dia al potestà più che il salario, e della pena

a chi consigliasse. 9. Che lo potestà sia tenuto a difendere li cittadini di Civi-

ta Castellana. 10. Che lo potestà sia tenuto ire alli rumori e risse. 11. A chi s'applichino le pene nelle quali incorre il potestà e

suoi officiali. 12. Che il potestà non compri bestia, né alcuna cosa confi-

scata. 13. Della pena che può imporre il potestà e suoi officiali. 14. In che modo lo potestà debbia pigliare la parte sua delle

pene. 15. Che lo potestà sia tenuto ricercare e rivedere con i venti

giurati il territorio e circoscrizione di Civita Castellana. 16. Dell'assegnazione delli libri del potestà in fine del suo

officio. 17. In che modo si deve pagare il salario del potestà e della

parte delle pene ad esso. 18. Del iuramento del iudice, e cavalieri, e altri notari e di

loro salari. 19. Delli sindaci del potestà, e suoi officiali e famiglia e del

modo di eleggere gli sindaci. 20. Che nel tempo vacasse lo potestà li signori conservatori

habbiano piena potestà. 21. Dello bossolo e tutti officiali da imbossolare. 22. Del iuramento delli signori conservatori. 23. Che li signori conservatori debbiano visitare la chiesa

cattedrale di Santa Maria. 24. Del Consiglio speciale, secreto, e della sua authorità.

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25. Del Consiglio Generale. 26. Del iuramento del camerlengo e suo officio. 27. Del iuramento del cancelliere e suo officio. 28. Dell'officio del massaro del Comune. 29. Delli sindaci generali del Comune e suoi beni. 30. In che modo si crei lo sindaco del Comune. 31. Delli viali e loro offitio. 32. Degli stimatori in danni dati. 33. Dell'officio delli paceri. 34. Delli tassatori dell'opera della state. 35. Delli portonari e loro officio. 36. Dello pesatore della farina e suo ufficio. 37. Dell'ufficio dei castaldi e loro iuramento. 38. Dell'ufficio dei venti iurati. 39. Delli consoli, rettori di ciascuna arte e luminarie per es-

si da farsi. 40. Del palio e balestra da correre. 41. Che nullo dia impaccio a corridori tanto a piedi che a

cavallo.

Finis

LIBRO SECONDO TAVOLA DELLI CIVILI

Rubrica, Capitolo:

1. Delle citazioni sopra li civili da pagarsi. 2. Che in la quantità de venticinque libre in sotto non si

dia libello. 3. Dell'esecuzioni dell'istromenti pubblici. 4. Della confessione in presentia del potestà. 5. Come si procede ordinariamente nelle questioni civili. 6. Che sia costretto a dar la sicurtà chi è sospetto de fuga. 7. Della contestazione della lite. 8. Del iuramento della calunnia. 9. Del iuramento dell'attore con un testimonio. 10. Del iuramento de lite decisivo. 11. Dove si debbia render ragione. 12. Che la corte non gravi homo nanti la sentenza. 13. Dell'avvocati e procuratori debbia dar la corte. 14. Che gli avvocati e procuratori se sottoscrivano. 15. Che il potestà sia tenuto a dar il consiglio del savio a

chi lo domanda. 16. Delle ferie nelle cause civili.

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17. Come si proceda contro li heredi del morto. 18. De chi domanda lo debito già pagato. 19. Che prima sia costretto il principale che fa la sicurtà. 20. Che la secortà possa in iudicio assegnare il principale. 21. Che nullo sia pigliato nella casa dove habita per debito. 22. Che lo creditore sia tenuto far refutanza del debito pa-

gato. 23. Che lo castaldo notifichi lo pegno tolto. 24. Che nullo da questa città possa resedere nella nostra

città per iudice o notaio. 25. De chi non se lassa pign[or]are dal castaldo. 26. Come e quando s'intenda il debito prescritto. 27. Dell'ordine da dare i tutori. 28. De' tutori, curatori, e de' attori da dare. 29. Che tutori e curatori rendano ragione della loro ammi-

nistrazione. 30. Delli pegni convenzionali. 31. Dell'istromenti fatti in fraude. 32. Delle bestie si daranno a vettura. 33. Che la cosa prestata si renda. 34. Che a nostri concittadini si faccia compromesso. 35. In che modo s'interponghino, e seguitino l'appellazioni. 36. Di chi fa citare atti e non comparisse capitolo. 37. Delle cose se lassano per l'anima non se ne paghi sala-

rio. 38. Quanto se creda allo sacramento del prete parrocchiale. 39. Della ragione da fare alli frati minori. 40. Che s'alcun prete, o altra persona non soggetta alla giu-

risdizione del nostro potestà vole agire denanti ad esso. 41. Dell'ordine da levare nel pagare de' garzoni. 42. In quanto tempo si prescrivano li salari de' garzoni. 43. Della ragione da fare alli forastieri. 44. Che li testimoni se possano constringere a far testimo-

nianza. 45. Che la femmina maritata delli beni del padre o della

madre non abbia recorso. 46. Che la femmina non sia erede se ci sono figli maschi. 47. Delli nostri cittadini devono ricevere fora de Civita e

quelli che portano grascia. 48. Della via da dare a chi non l'ha. 49. Se alcuno fosse privato e cacciato d'una possessione

stabile propria autoritate. 50. Che li minori de venticinque anni possano essere pro-

curatori 51. Che se partano li beni comuni.

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52. Quanto se creda alle scritture de mercanti, artisti. 53. Che si possa cedere alli beni. 54. Dell'immunità dei conservatori, camerlengo e cancellie-

re.

Finis

PARTE TERZA TAVOLA DEI MALEFICII

Rubrica, Capitolo:

1. De le inquisizioni sopra li maleficii. 2. Delle citazioni. 3. Della risposta del malfattore la recolta da dare. 4. Delli termini da dare. 5. Della inquisizione generale. 6. Che nullo se ritenga in corte data sufficiente recolta. 7. Del beneficio della confessione. 8. De la inettitudine de li processi. 9. De li testimoni in maleficii, della quantità possono pro-

vare. 10. Che nullo nostro cittadino se ponga a tortura senza ca-

gione. 11. De chi biastema. 12. De le feste da guardare. 13. De lo homicidio. 14. De chi battesse padre o altri congiunti. 15. De la pena de li furti. 16. De chi rubba in la strada romana. 17. De quelli che tollono paglia, fieno legna fatta. 18. De chi fura mosto, ovvero uva delle vasche. 19. De chi tolle nasse, ovvero tovarelli de le acque de Civi-

ta. 20. De chi ruffiana femmine o garzoni. 21. De la pena dei sodomiti. 22. De chi sforzasse femmina. 23. De chi fura o guasta rota di mola. 24. De chi fa iuramento falso, de chi produce falsi testimo-

ni. 25. De chi compra o batte moneta falsa. 26. De chi facesse congiura, o conventicola o tradimento. 27. De chi mette foco. 28. De chi commanda se facciano homicidio. 29. In che loco se facciano l'esecuzioni corporali.

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30. Se chi ha padre o avo commette alcun maleficio. 31. Che chi ha padre o avo possa stare in giudizio. 32. De la espedizione de li processi. 33. Per le ferite fatte per li minori di dodici anni. 34. Del bando da mettersi per le sentenze, la campana del

Comune. 35. De lo tempo da proseguire le appellazioni in malefici. 36. De le esecuzioni delle sentenzie. 37. De chi piglia altrui per li capelli delle percussioni mano

vacua. 38. Di chi assalisce altrui con arme dentro in Civita o fora. 39. De li forastieri che assaliscono li cittadini in lo nostro

territorio. 40. De chi assalisce altrui in casa. 41. De chi admena. 42. De chi principia questioni. 43. Delle parole iniurose, de chi bascia femmine. 44. Delle ferite, percussioni fatte con arme. 45. Che se faccia la tregua. 46. De chi rompe pace o tregua fatta. 47. De lo beneficio della pace tra l'iniurati. 48. De chi rompe la pregione. 49. Che il potestà non constringa li cittadini a guardare

prigioni. 50. De chi dà simonie. 51. Dell'ingiuria detta o fatta agli ufficiali. 52. Dell'ingiuria detta o fatta al potestà e suoi ufficiali. 53. Che il potestà né i suoi ufficiali facciano ingiuria al ca-

merlengo ovvero cancelliere del Comune. 54. Che nessuno entri né esca d'altro loco che per la porta. 55. De chi rompe mura o porte del Comune. 56. Che nessuno tenga beni dello Comune. 57. De chi sconfinasse termini. 58. De chi entra in casa de altri. 59. De chi butta sassi pietre in casa d'altri. 60. Che nessuno tenga forestieri in Civita per offendere

nessuno. 61. De chi ricetta sbanditi o cose arobate. 62. Delli cittadini che ingiuriano li forastieri. 63. Che non si compri vino forastiero. 64. Che tutte biade se remettono in Civita. 65. De chi remette paglia o fieno in Civita. 66. De quelli che uccidono animali. 67. De chi tiene altrui in privata prigione.

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68. Che la femmina di buona fama non sia costretta anda-re in corte.

69. Che se proceda da simili a simili. 70. Che ad ogni persona sia lecito difendersi con moderan-

za. 71. Che nessuno ritenga bestie d'altrui fra le sue. 72. De chi ammazzasse bestie in Civita. 73. Di quelli che giocano a dadi a carte. 74. Che nessuno dia favore ad altri per commettere alcun

delitto. 75. Che la cosa trovata se assegni. 76. De chi alterasse li presenti statuti. 77. De chi ammettesse falsità in arte. 78. Che in quistioni criminali ogni dì si tenga ragione. 79. Come quando si raddoppiano le pene in li maleficii. 80. Della abolizione da concedersi. 81. Che il maleficio passato l'anno non si possa punire.

Finis

PARTE QUARTA TAVOLA DEL LIBRO DEL DANNO DATO

Rubrica, Capitolo:

1. Dello officio delli guardiani in danni dati. 2. Della forza dell'accusa de' guardiani. 3. Che l'officiale, famigli del potestà possino accusare. 4. Che lavoratori e patroni possino accusare. 5. Che li garzoni d'altri possino accusare. 6. Che la corte proceda a querela della parte. 7. In che modo se procede in danni dati. 8. Del beneficio della confessione. 9. Delli testimoni in danni dati. 10. Che nullo appelli in danni dati. 11. De chi nega il nome. 12. Del danno che fanno li guardiani del Comune o l'officia-

li. 13. Che nullo coglia le olive d'altri né metta bestie nelli oli-

veti. 14. De chi dà danno in horti dentro in Civita. 15. De chi sbara, o fa guado per la possessione di altri. 16. De chi coglie poma, o frutti d'altri. 17. De chi batte alcun albero domestico. 18. De chi taglia alcuno arbore domestico o selvatico.

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19. De chi dà danno a ianna. 20. Della pena delle vigne. 21. Di chi mette bestie nei ristretti di vigneti. 22. Che de sodi non si debbia pagar pena. 23. Delli bandimenti da fare. 24. Delli danni delle biade, canape, legumi, lini, ecc. 25. Delle bestie grosse sotto anno. 26. Del danno pelli prati. 27. De chi tiene bestie dentro li confini delle vigne. 28. Delli forastieri che mettono le bestie dentro al nostro

territorio. 29. Delli forastieri che fanno danno alli cittadini. 30. De chi fanno danno nello tenimento di Fallari. 31. De danni se fanno per li minori de dieci anni. 32. De li danni fatti da nostri cittadini fuori del territorio. 33. Che si faccia la via quando se mette foco. 34. Che li porci, altri animali se reducano nelli capoman-

dri. 35. Che chi fa danno studiosamente o de chi appara tontel-

lo. 36. Che il pastore, o guardiano degli animali paghino la

pena lo emendo. 37. Delle licenze se danno in le possessioni sue. 38. Che al lavoratore sia lecito tenere le bestie a lavorare

nella possessione sua. 39. Delle bestie trovate a dar danno in lo suo. 40. De chi fa guasto. 41. Da quelli hanno danno in le possessioni imposte a ca-

tasto. 42. Che ogni persona paghi il dato. 43. De chi dà danno in più cose. 44. Del modo di pagare l'amenda. 45. In che loco li guardiani possino accusare. 46. De chi dà danno in canneti. 47. De chi mette porci o altri animali minuti in colti. 48. Che nullo metta porci in ara. 49. Che le bestie non stiano nello Scasato di Civita. 50. De chi fa la legna in selve del Comune. 51. Delle bestie o homini che guastassero insiti o piante. 52. De chi fa danno in horti fuori di Civita. 53. Delli danni delli cani. 54. Delle abolizioni. 55. Quando si adoppino le pene. 56. In che modo si proceda. 57. Dello larzillo.

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58. Di chi entra in vigne da calende de giugno fino vi sono frutta.

59. De chi le licenze da entrare in le possessioni senza pe-na non se ne diano.

Finis

PARTE QUINTA TAVOLA DEL LIBRO DE ESTRAORDINARI

Rubrica, Capitolo: 1. Che si giurino le arti. 2. Delli prezzi delli artisti. 3. De consigli sopra li prezzi. 4. De chi nega l'artificio della sua arte. 5. De chi promette servire alcuno lavoro l'osservi. 6. Che alcuno garzone o fante in comincia servire altrui. 7. Che si finiscono le soccide. 8. Delle convenzioni si fanno con li pastori. 9. Che non si imponga prestanza. 10. De chi rinuncia officio. 11. De chi porta arme. 12. De chi vuol edificare appresso le vie pubbliche. 13. De chi appara vie tanto pubbliche quanto vicinali. 14. De chi comincia le vie. 15. Di quelli hanno possessioni appresso le vie. 16. Di chi ha possessioni in Valle verso Treia sotto la via. 17. Delle misure del Comune. 18. Che le misure e i pesi si aggiustino. 19. Che la corte ricerchi li pesi e misure. 20. Di chi chiama quelli che stessero a comprare da altri. 21. Che li hostieri non si partino dalle loro hosterie a chia-

mare. 22. Che l'ostiere non vendano vino a cittadini più che va-

glia in Civita. 23. Che la cera sia venduta senza fraude. 24. Delli panni. 25. Che li lavoratori ricerchino li padroni delle possessioni. 26. Che li pegni si assegnano al camerlengo del Comune. 27. In che loco si cavi la pozzolana. 28. Da chi arde pagliaro felci entro Civita. 29. Che la piazza di Prati sia sgombrata. 30. De chi butta sozzura. 31. De chi non spazza avanti la sua casa. 32. De chi butta letame et altre immondizie.

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33. Dove si butti la mondezza. 34. Che li sciacquatori siano tenuti coperti. 35. Dove si getti la carne non buona da mangiare. 36. Che nulla femmina vadi dietro al morto quando si porta

alla chiesa. 37. Che nulla persona mancioli in Civita. 38. Che nullo metta bestie in chiesa. 39. Che nullo meni porci a fonti. 40. Che li porci mandarini non vadino per Civita. 41. Che le acque delle alture si mandino alle ripe. 42. Che non si uccidono piglino palombi. 43. Di quelli si affrancano il Comune. 44. Di quello che è dello Comune. 45. Che nullo butti sozzura in rivi. 46. Delli barbieri. 47. Che li preti paghino li dazii. 48. Che li bovi per arare non si tolgano per pegno. 49. Che li panni dello letto non si tollano per pegno. 50. De chi impedisce non si faccia testamento. 51. Che nullo sia avvocato procuratore del potestà. 52. Che il iudice notaio o procuratore non faccino contratti

contro il Comune. 53. Di chi contrariasse terre alli nostri cittadini. 54. Delli sensali. 55. Di quelli che cacciano grascia fuori di Civita. 56. Che la moneta deve correre in città. 57. De soprastanti del Comune. 58. Del ponte di Treia. 59. Che nullo traini sopra il ponte di Treia. 60. Che nanti la vendita si ricerchino li parenti. 61. Del riscotere delle possessioni vendute alli forastieri. 62. De chi vende possessioni immobili a forestiere. 63. Che li forastieri paghino li dazii al Comune. 64. Che si accatastino le possessioni delli forastieri. 65. Delli molini. 66. De tavernari hostieri. 67. Di chi vendemmiasse prima che gli sia data licenza. 68. Dei macellari. 69. In che modo, ordine si venda la gabella del macello. 70. Di quelli che vanno dopo il terzo suono della campana

del Comune. 71. Che non si faccia sozzura della fonte. 72. Del vendere, pescare de l'acqua di Treia. 73. In che modo, loco si venda il pesce in Civita. 74. Dove si vendono le poma altri frutti.

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75. Che nullo aiuti a forastiero a vendere. 76. Che nullo compri da forastiero in grosso nanti tre gior-

ni. 77. Del giuramento delli forastieri che giurino cittadinanza. 78. Delli forastieri che non giurino cittadinanza. 79. Che ogni persona sia tenuta a fare la guardia. 80. Delli guardiani da fare a istanza di quelli della contra-

da. 81. Che il venditore faccia ponere a catasto la possessione

del compratore. 82. Delle parentele. 83. De chi cieca l'acque. 84. Della cerca dell'arme quali si tollono per li offiziali. 85. Che nullo sia offiziale se non una volta l'anno. 86. Di quelli che tengono porci o altri animali in Civita. 87. Chi va in servizio delli signori conservatori. 88. Delli insiti e altri arbori fruttiferi da piantare. 89. Che le carni e compagnia non paghino la gabella. 90. Che li porcari vendino li porci in Civita. 91. Dello assegnamento delli porci da fare al cancelliere. 92. Delli porci da tenere. 93. Delli forastieri che pescano nel territorio di Civita che vi

ci ucellano. 94. Delli muri che si faranno intorno alle ripe. 95. Delle provvisioni dell'arme. 96. Che l'ospitalità sia di fora. 97. Di chi ammazza lupi. 98. Che le gabelle, pedagi del Comune si vendano. 99. Della concordia delli statuti. 100. Del beneficio della confessione nelli estraordinari. 101. Come si procede in estraordinari. 102. Delle pecore da tenere nel nostro territorio.

Finis

PARTE SESTA TAVOLA DE REFORMANZE

1. Ordine delli potestà da deputarsi, eleggersi a reggimento di Civita Castellana.

2. [Ordine] di fare eseguire li crediti della Comune. 3. [Ordine] di prencipio di fare il bossolo delli conservatori,

officiali di detta città. 4. [Ordine] di fare l'elezioni dell'huomini a far detto bosso-

lo.

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5. [Ordine] cioè s'habbiano a monire e citare. 6. [Ordine] obbligazione di fare residenza continua. 7. Scrutinio, ordine che dello bossolo si faccia per tre anni

in tre anni. 8. Ordine come si proceda a dar pallotte e pallottolare in

detto bossolo. 9. Il commissario autorità sua. 10. Della precedenza dei conservatori, ordine d'accompa-

gnarli. 11. Ordine del vestimento dei detti signori conservatori. 12. Ordine di fare li appicciolati in luogo degli assenti o

morti, 13. Chi è debitore del Comune non sia ammesso se non pa-

ga. 14. Ordine del tempo da estrarre li officiali e conservatori. 15. Ordine della cassa per tenere il sigillo del Comune 16. Che li conservatori non possino pigliar denari del Co-

mune. 17. Consiglio Segreto, il numero, autorità, e s'habbia a fare. 18. Consiglio Generale. 19. Imbossolamento de' camerlenghi del Comune e suoi of-

ficiali. 20. Delli sindici generali del Comune. 21. Delli sindici del potestà. 22. Rub(rica) delli sindici delli conservatori. 23. Ordine del predicatore. 24. Ordine delli soprastanti e capitani di fiera. 25. Ordine per il medico. 26. Ordine per maestro di schola. 27. Ordine del cancelliere. 28. Ordine der palio. 29. Ordine delli frutti, e robe si portano a vendere in Civita. 30. Vieto d'atti disonesti contro donne. 31. Delli ritenuti per represaglie. 32. Della pesca del ponte di Treia. 33. Ordine di chi toglie paglia e fieno. 34. Della misura della calce. 35. Che li macellari non possano tenere più di trecento ca-

strati. 36. Della pena di chi offendesse li conservatori. 37. Del modo di prevedere in danni dati. 38. De licenze in danni dati. 39. Del sbarbagliare delle cerque. 40. Della pena di chi taglia alberi fruttiferi. 41. Della pena di chi tagliasse in vigne.

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42. Della pena di chi dà danno in canneti e ristretti di vi-gne.

43. Della pena di dar danno in grano e orzo. 44. Ordine da tenere porci. 45. Ordine delle capre. 46. Ordine delle pecore vanno a maremma. 47. Ordine delle pecore da non tenerle nel territorio di Civi-

ta. 48. Della pena de danni dati nelli oliveti. 49. Ordine di far grazia del quarto dei danni dati. 50. Ordine dell'emenda delle bestie non conosciute sopra

l'accuse. 51. Ordine di consegnar libri vecchi alla nova corte. 52. Delli salari delli officiali del potestà delle cause civili e

criminali. 53. Ordine delle capre. 54. Ordine delle bestie vaccine e cavalline. 55. Ordine del precetto e del commandamento del potestà. 56. Ordine quali statuti s'abbiano at osservare.

In Roma l'anno MDLXVI

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34 DIVERTIMENTI PUBBLICI ANTICHI

Troviamo nel nostro statuto municipale una rubrica riguardante i pubblici divertimenti, così curiosi ed interessanti per la loro originalità che vale la pena di riassumerli. La corsa detta dei barberi, o a pieno col fantino, come oggi chiamasi, costituiva uno dei principali pubblici spet-tacoli per le diverse maniere da eseguirsi in certe date fisse, che varia-vano a seconda delle circostanze e dei tempi. La corsa a pieno si teneva nella sola ricorrenza del 16 settembre, festa patronale della città. Come premio il Comune regalava un palio di seta del valore di dieci ducati d'oro25, il quale ponevasi avanti al palazzo municipale in piazza de' Pra-ti. I cavalli col fantino dovevano staccare le mosse dal fosso di France-sco di Paola, detto l'Ombricia, sotto Santa Susanna, e, per la porta di Borgo, arrivavano in piazza de' Prati. Il primo fantino che toccava il pa-lio piantato, come abbiamo detto, avanti la porta del Comune, rimane-va vincitore.

Nelle Riformanze dello statuto, avvenute nel 1556, s'incomincia a parlare delle corse dei barbari e ad introdurre quest'altro pubblico di-vertimento tanto importante nelle feste, al quale il Comune concedeva un palio del valore di 15 ducati di carlini26. Però, qualora non effettua-vasi la corsa, la spesa stabilita per essa veniva sostituita con l'acquisto di uno stendardo, su cui si dipingevano le insegne e l'arme del papa, del monsignor governatore e della comunità. Detto stendardo si issava alla finestra del palazzo municipale nelle ricorrenze del giorno del Cor-pus Domini, nell'ultima domenica di carnevale e nell'entrata in carica di ciascun conservatore e negli altri tempi da stabilirsi dai conservatori.

Si eseguiva anche la corsa a piedi, concessa ai soli cittadini o abi-tanti di Civita, che avveniva il giorno 16 settembre, percorrendo lo stesso stradale battuto dai cavalli corridori fino al giungere avanti alla porta del Comune, ove piantavasi una balestra d'acciaio, con carcasso, girelle, centurione e saette di un valore di un ducato d'oro, pari a lire italiane 4,32, che donavasi al primo che l'afferrava. La balestra veniva acquistata dai conservatori, col denaro che il potestà era obbligato di rilasciare dal suo salario, quando scadeva dopo sei mesi dalla carica.

Nelle altre gare per correre alla balestra si escludeva chi era stato una volta vincitore. Nel martedì di carnevale avveniva un'altra bizzarra corsa, che si eseguiva con i mammoletti, fanciulli. In una via della città, da stabilirsi dal Comune, si tirava una corda da una casa all'altra e in

25 Ogni ducato valeva 72 bolognini, ogni bolognino sei quattrini. Ogni bolognino ducato

corrispondeva a 4,32 lire italiane, sicché il costo del palio era di lire 43,30. 26 Ogni ducato di carlini valeva dieci carlini, ogni carlino 42 cent. Ogni ducato di carli-

no corrispondeva 4.25 italiane. Il palio dunque costava lire italiane 63.

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mezzo si appendevano un paio di scarpe della misura d'un forco, ossia come oggi si direbbe, di prima calzatura per i fanciulli; il primo mam-moletto che arrivava a staccarle era il vincitore. Le scarpe venivano gra-tuitamente somministrate da ciascuna bottega di calzolaio. Nella do-menica di carnevale non mancava il divertimento di tirare alla targhet-ta, su cui dipingevasi l'arme del Comune, e che veniva piantata in un luogo da destinarsi dal Comune, per far giocare e tirare la balestra. Alla gara erano ammessi i soli cittadini o quelli abitanti in città, e dovevano essere provveduti del proprio di balestra, e chi più presso al segno, cor-rendo, colpiva la targhetta, diveniva il vincitore. Nella detta domenica di carnevale il camerlengo faceva correre alla corsa dell'anello, che av-veniva in piazza de' Prati, della quale se ne mantenne l'uso fino ai gior-ni nostri, come ricorderemo. Però in antico il vincitore della gara rice-veva in premio 20 soldi e la corda.

Nel venerdì di carnevale avveniva la corsa degli asini, i quali, a due a due col fantino, dalla piazza di Sant'Adriano27 correvano per la via di-ritta fino alla porta del Comune, ove trovavano un paio di ferri nuovi, per ferrare gli asini, ceduti per consuetudine da ogni bottega di fabbro ferraio. Il primo che arrivava a prendere i ferri diveniva il vincitore, ma non poteva più correre alle altre gare. Il martedì poi di carnevale acca-deva un'altra corsa col fantino, i cui concorrenti percorrevano lo stra-dale di Santa Susanna fino ad arrivare avanti alla porta del Comune, ove per premio ricevevano un paio di calze del valore di un ducato d'oro (£ 4.32), coll'insegne della Santità di Nostro Signore, regalato per la cir-costanza da ogni singolo oste della città, del Borgo e di quelli apparte-nenti alla giurisdizione di Civita.

Tutte queste specie di corse furono poi sostituite con la corsa del-l'anquintana, del saraceno, del gallinaccio, ecc. Di queste due ultime noi ricorderemo di averle vedute durante le feste carnevalesche. La co-stumanza di donare un palio di qualche valore al vincitore delle corse cambiossi ai giorni nostri, coll'introdurre per regalia un'insegna bianca di musolo, su cui vien dipinto un cavallo che corre, insieme al premio stabilito in denaro dalla comunità. Ricorderemo che i barbari, cavalli corridori, anziché staccare la mossa sotto Santa Susanna come in anti-co, partivano, ai nostri giorni, dalla chiesetta di Sant'Antonio, per arri-vare in piazza del Comune. Oggi questa cosa è quasi in disuso.

L'altro bizzarro spettacolo era quello di trarre lungamente per le vie, dopo le feste del 16 settembre, un bufalo con una corda tra lo schia-mazzo e l'allegria del popolo, il quale, dopo averne fatto scempio, lo ammazzavano e ne mangiavano le carni. Forse tale sollazzo potrà aver avuto una lontana allusione all'antichissima festa che i Falisci celebra-vano in onore di Giunone, nella quale, secondo Ovidio, un bue indigeno

27 Questa piazza possiamo ritenerla per quella ove oggi c’è il mattatoio, per le vicine

chiese che una volta erano officiate, ma oggi tutte demolite e scomparse.

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veniva trascinato per le vie e poi sacrificato alla dea. Anche questo spettacolo ormai è in disuso come la giostra. Finalmente chiuderemo la serie di questi antichi divertimenti pubblici, ricordando la non meno importante festa, a cui tutti i civitonici accorrevano, per assistere alla rassegna, o rivista, che si eseguiva in piazza de' Prati dal potestà ai 150 cittadini indossanti le corazze, e che formavano, come suol dirsi, la guardia armata o le milizie paesane.

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35 MULINI IDRAULICI

Fin dall'871 abbiamo positiva notizia che lungo i nostri corsi d'acqua esistevano i mulini idraulici. E questa data ci viene segnata tra la nota dell'inventario dei beni donati dai cittadini alla cattedrale posta sotto il portico, ove si legge “Cum Mola et ortum”. Sul Rio Maggiore contiamo cinque mulini idraulici ed uno sulla Treia per grano, olio, vernici ecc. Sul Rio Maggiore ricorderemo la stazione per l'energia elettrica, che serve ad illuminare Civita e Nepi.

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36 I ROMITAGGI

L'antica costumanza di trovare lungo le abbandonate strade qualche santuario, custodito dai romiti, che pure questa povera classe di que-stuanti ebbe nei tempi addietro la sua originalità, è oggi del tutto scomparsa nel nostro territorio. Una volta aveva il suo romito custode la chiesa suburbana detta Madonna delle Piaggiea, la Madonna della Rosab, il convento e la chiesa di Santa Susannac. Presso all'edicola rappresentante la Madonna, detta dell'Appianata, appariscono i resti dell'antico romitaggio.

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37 CONVENTI E MONASTERI

Con decreto di legge, promulgato nel 1866, il governo sopprimeva tutti gli enti morali religiosi in faccia allo Stato. D'allora in poi successe un continuo chiudersi di conventi, monasteri, e cambiamenti di resi-denza dei religiosi, di vendite dei stabili e tutto quello, insomma, che poteva avvenire per l'applicazione di detta legge. Anche da noi i conven-ti e i monasteri subirono la medesima sorte. A parte i vantaggi che gli ordini religiosi portarono alla chiesa e alla società e che non è nostro compito qui di riportare, ma solo di accennarlo, per non avere dalla storia l'accusa d'ingrato e mentitore, perché il male che possono aver fatto dopo, non distrugge il bene che hanno fatto prima, diremo che tra i vecchi conventi appartenenti alla giurisdizione di Civita Castellana, il nostro cronista ci ricorda quello fabbricato nel 1230 dal p.m. Giovanni Parenti per uso dei frati minori, lungi dalla città circa quattro chilome-tri, chiamato ancora di Santa Susanna, che si eleva in amena posizione sulla soprastante ripa, a sinistra della strada conducente al porto di Golianoa.

Nel 1571 venne dai frati minori abbandonato e, per deliberazione del consiglio e del popolo e per intelligenza del dottor Pelletronio, si trasfe-rirono da Roma nel suddetto convento i frati zoccolanti, i quali poi, sot-to pretesto dell'aria malsana, abbandonarono detto convento, per veni-re ad abitare in città, in un locale prossimo alla Madonna dell'Arco. Co-sì quel convento rimase abbandonato al pari del santuario28, la cui fe-sta si celebra nella ricorrenza del secondo giorno di Pasqua con con-corso della banda comunale e gran popolo, come lo ricordiamo ancora tutti. Nel settembre del 1548, ci dice ancora il Pechinoli, dopo una lun-ga chiacchierata intorno al monastero di Santa Chiara, che per brevità omettiamo di riportare, s'incominciò ad abitare dalle monache dell'or-dine di Santa Chiara il monastero delle Grazie, che prese poi nome di quello di Santa Chiara dalle monache di quest'ordine che lo abitarono. Il pontefice Paolo III, per dirigere il detto monastero, mandò da Roma Agnese e Angela Petroni, nostre nobili cittadineb [foto 10].

Le tristi vicende politiche della occupazione repubblicana francese negli Stati della Chiesa vennero a turbare il lungo e tranquillo periodo di possessione delle monache di Santa Chiara, dette le Riformate, per la legge di soppressione delle corporazioni religiose, e le dette religiose dovettero abbandonare il proprio monastero, per rientrarvi dopo ripri-stinato il governo papale nel 1815. Dopo il 1870 il monastero però ven-

28 La tradizione vuole che il crocifisso situato nella chiesa di Santa Susanna sia quello

stesso che san Bernardino da Siena portava nelle missioni.

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ne nuovamente soppresso per legge, come dicemmo, ed il locale adibito per ricovero di cronici.

I cappuccini

Quando Paolo III, nel 1548, ingrandì il soppresso monastero di San-ta Chiara, i frati che abitavano vicino alla Madonna dell'Arco, oggi del Carmine, protestarono ed, essendo riuscite vane le loro opposizioni, abbandonarono il convento, del quale ora non esistono neanche le ve-stigiac.

I cittadini, per far ritornare altri religiosi in paese, fabbricarono uno spazioso convento poco lungi dalla città, cedendolo ai padri cappuccini, i quali per i medesimi moti rivoluzionari francesi subirono la stessa sorte e vicende dopo il 1870.

Un altro convento esisteva attiguo alla chiesa di San Pietro o di San Francesco, così chiamato per i frati di quest'ordine che vi abitavano, ma poi venne soppresso e ridotto a seminario, come oggi vediamo.

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38 PARROCCHIE ANTICHE E CHIESE

Quattro furono le antichissime chiese parrocchiali di Civita Castel-lana: San Giorgio, Santa Cristina, San Quirico, chiamato Acquareccia-ro, San Paolo e Sant'Antonio, delle quali rimangono solo in piedi San Giorgio e Sant'Antonio; delle altre due chiese non ritroviamo neanche gli avanzia.

In onore di San Gregorio papa, fu detta Chiesa da Capo, perché co-strutta a capo della città, attorniata da molte torri; un'altra, ugualmen-te chiamata San Gregorio, detta coll'appellativo di Corte, perché vicino ad essa eravi il locale della corte, la terza di San Clemente e la quarta di San Benedetto, di cui rimane ancora il campanile senza campaneb.

La parrocchia di San Gregorio da Capo venne soppressa, al pari del-la chiesa che esisteva avanti alla pretura attuale, e la vecchia parroc-chia di San Benedetto venne aggregata a quella di San Giovanni, quella di San Clemente a quella di Santa Maria.

Chiesa di San Battista: fu edificata attigua alla cattedrale, della qua-le rimane soltanto il locale ov'è il fonte battesimale.

Chiesa di Sant'Ippolito: era prossima alla porta di Borgo, della quale oggi non rinveniamo neanche gli avanzic.

Chiesa della Madonna delle Grazie: occupava il posto ov'era il sop-presso monastero di Santa Chiara.

Chiesa della Madonna dell'Arco, oggi detta del Carmine: aveva tale nome, perché, prima di entrare nel territorio, si doveva passare sotto un grande arco, oggi demolito. Questa chiesa fu la prima cattedrale di Civita Castellana, ed è forse la più antica fra tutte le altred.

Chiesa di San Sebastiano: trovavasi presso la detta chiesa del Car-mine, ma oggi non esistono neanche i ruderie.

Chiesa di San Giacomo Maggiore: è quella conosciuta sotto il nome di San Iaghello, da noi posseduta, essendo della Commenda di Santo Spirito di Romaf.

Chiese di Santa Cristina e San Quirico: esistevano presso il mona-stero di Santa Chiara fin dai tempi del nostro Pechinoli. Questo ci dice che erano diroccate: oggi non rintracciamo più neanche gli avanzi di queste dirute chiese.

Chiesa della Madonna del Ponte: esisteva presso l'antico ponte Treia, oggi non più officiatag [foto 11].

Chiesa della Madonna del Quinciolino: esiste e viene officiatah. Chiesa di San Pietro: è conosciuta sotto il nome di San Francesco,

una delle più grandi ed officiata chiesa che abbia Civitai. Chiesa di San Clemente: officiata fino ai giorni nostri, e poi ridotta

ad abitazionel.

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Chiesa di San Gregorio: oggi parrocchia, è quella detta di Corte, co-me abbiamo detto già.

Chiesa di San Giovanni: oggi parrocchia. Chiesa di San Giorgio: trovasi quasi fuori dell'abitato, a beneficio ru-

rale, ma abbandonata e non più ufficiatam [foto 12]. Chiesa di Sant'Antonio: l'antica parrocchia del Borgo Alessandrino,

ancora in piedi. In essa appariscono alcuni affreschi nell'interno e a-vanzi di mosaici [foto 13-14]. Viene officiata nella ricorrenza del santon.

Chiesa di Santa Chiara: soppressa col monastero. Chiesa di Santa Chiara: aperta al culto dopo fabbricato il nuovo mo-

nastero. Chiesa dei Cappuccini: chiusa e non più officiata, dopo soppresso il

convento. Le chiese suburbane vennero nominate già, per avere l'abitazione

come romitaggi.

Basilica cattedrale

Le origini della nostra insigne basilica cattedrale sono avvolte nella più profonda oscuritào. Tuttavia, dalla cronaca del Pechinoli appren-diamo che Innocenzo I ornò la chiesa di cattedra episcopale intorno agli anni 402 e 417; ma questi dati non possiamo sostenerli storicamente, perché neanche il Pechinoli accennò donde li attinse. Ora, stando alle remotissime notizie circa la fede del cristianesimo, abbracciata da Civi-ta Castellana, ci risulterebbe la data dal 42 al 46, regnando san Lino, successore di san Pietro, epoca in cui probabilmente incominciarono a sorgere da noi le prime chiese cristiane. Di ciò conviene l'Ughelli, l'au-tore dell'Italia Sacra.

Però non è improbabile l'opinione di quelli che vorrebbero la nostra cattedrale edificata sopra ad un antico tempio etrusco. Difatti i templi pagani, in quasi tutte le città, vennero ridotti a chiese cristiane. Ma siccome gli storici non sono d'accordo neanche circa la serie dei vesco-vi, che si sono succeduti nella nostra cattedrale, così noi accetteremo per punto e data di partenza più probabile quella che si legge in un'i-scrizione di marmo bianco, posta sul lato inferiore sotto il portico, a si-nistra di chi entra.

Da questa importante iscrizione, forse la più antica esistente nella cattedrale, riteniamo che la chiesa incominciò nell'anno 871 a possede-re dei beni sotto il vescovo Leone. L'epigrafe può essere stata composta per rammentare l'inventario di quanto per la prima volta i fedeli dona-rono alla chiesa, tempo in cui, anche al dire del Cappelletti29, può esse-

29 Giuseppe Cappelletti: Le chiese d'Italia, Venezia 1847.

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re avvenuto il cambiamento di residenza dei vescovi faleriani e della riattivazione in parte della cattedrale.

Anzi è da credere che, per l'aumentare della popolazione e per il cambiamento di residenza dei vescovi già detti, si sia lasciata la vecchia cattedrale officiata nella chiesa del Carmine, per fabbricarne altra più grande in capo della città, e che la detta iscrizione, come a ricordo del-l'ingrandimento della nuova cattedrale da costruirsi, sia stata lasciata scritta; e finalmente nel 1200 venne dai Cosmati nuovamente ricompo-sta, con data certa, perché, come vedremo, esiste ancora.

Quel che rimane di più antico nella chiesa è la cripta, la quale è sen-za dubbio il sacello pagano ridotto dai cristiani e dedicato quindi ai santi Gratiliano e Felicissima.

L'interno del santuario fu restaurato per ordine del vescovo Tenderi-ni30, terminato dal cardinale Camillo Cibo, come si apprende dall'iscri-zione situata nel presbiterio, eretto dal detto cardinale, dal capitolo e dal magistrato in onore del Tenderini. I Cosmati costrussero il tempio a cinque navate con soffitti di legno dipinti, attualmente ne ha tre, di ma-teriale con la maggiore in mezzo e la cupola.

Occorre, però, che ci soffermiamo alquanto intorno al suo portico, opera della celebre famiglia dei Cosmati. Esso racchiude tutte le bellez-ze dell'arte marmoraria romana del decimoterzo secolo, arte che era compresa in una delle principali scuole di scultori, architetti e musai-cisti. Il portico, chiuso ai due lati, si eleva su d'una ampia gradinata ed è composto da sei colonne con capitelli a stile ionico che sorreggono un architrave, il quale, invece di proseguire per tutta la lunghezza della facciata, è interrotto nel mezzo dal bellissimo arco, che, basato su diffe-renti pilastri, s'innalza maestoso, dando accesso all'ingresso principale della cattedrale. Sull'architrave della porta del mezzo si legge la se-guente iscrizione: + Laurentius cum Iacob[o] filio suo magistri doctissimi romani h(oc) opus fecerunt.

Sulla facciata poi dell'arco maggiore si legge un'altra epigrafe in mo-saico dorato su fondo rosso e turchino: Magister Iacobus civis Romanus cum Cosma filio suo carissimo fecit hoc opus anno dmi M.CCIXp. Sicché tre artisti della famiglia dei Cosmati lavorarono a decorare la facciata della chiesa: Lorenzo, Giacomo e Cosma. Quest'ultimo, al dire degli storici, acquistò tanta fama, che da lui ebbe principio una scuola, chiamata Scuola dei Cosmati31.

Oltre alla vaghissima porta di mezzo, di sorprendente lavoro in mo-saico e marmo bianco, alla cui cima elevasi un'aquila col fulmine, idea, tema e disegno, forse presi a prestito dalle classiche antichità, quella a

30 La lavorazione della chiesa fu incominciata nel 1736 e terminata nel 1740 dall'archi-

tetto Gaetano Fabrizi (Vita di Monsignor Tenderini). 31 Promis, Notizie dei marmorari dal secolo X al XV, Torino 1824. Barbier de Montault.

Didron, Ann. Arch. XVIII, p. 265; Boito, Architettura cosmatesca.

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destra è ornata di una lunetta in mosaico, rappresentante il Salvatore col libro aperto nella mano sinistra.

Sull'architrave di quest'ultima porta è incisa l'epigrafe seguente: “Rainerius Petri Rodulfi fieri fecit”; in ambo i lati l'artista aggiunse poi l'altra iscrizione: Magister Iacobus me fecit. Poco discosto dal detto in-gresso osservasi la porta aperta nell'ultimo restauro del 1882, che met-te al fonte battesimale. Nell'epistilio del portico esisteva una lunga i-scrizione, oggi mutilata, alludente al contegno dei fedeli nell'entrare in chiesa. Per quante ricerche si siano fatte della detta iscrizione non fu possibile rintracciarla in nessun archivio o memorie private.

La facciata della cattedrale venne liberata dall'intonaco, che la de-turpava, nell'ultimo già ripetuto restauro, lasciandola a cortina di tufo, come era in antico. I leoni ai lati della porta maggiore, mediocremente lavorati, ci dimostrano come nell'arte di modellare le figure si fosse molto indietro nell'ornato architettonico.

L'antico campanile, che s'innalza a sinistra della cattedrale, venne abbassato, perché durante i lavori interni minacciava di cadere.

Non deve passare inosservato, nell'interno della chiesa, il pavimento a mosaico, ciò che rimane dell'antico e ricco coro degli Otto32 canonici primitivi, tolto nei restauri della cattedrale e deposto, come per na-sconderlo, nell'oratorio del Purgatorio. In questo avanzo di coro, splen-didamente lavorato a mosaico, si vedono un leone, un orso, una tigre e una scimmia in marmo bianco, dividenti uno stallo dall'altro. Per ulti-mo visiteremo il pulpito e l'antichissimo fonte battesimale, d'artistico lavoro. Attiguo alla cattedrale vedesi il palazzo vescovile, fabbricato da Nicolò V, in cui merita di osservarsi un bellissimo sarcofago di marmo bianco, lavorato in bassorilievo. Finalmente accenneremo che la nostra basilica cattedrale, dedicata a Santa Maria, è il primo monumento la-vorato dalla celebre famiglia dei Cosmati.

Sotto al portico possiamo osservare bellissimi avanzi architettonici romani, medioevali, e il bel portale in mosaico ceduto dal proprietario comm. Midossi alla cattedrale. Dopo i ripetuti restauri il pronao venne dichiarato monumento nazionale33.

32 Nella vecchia sacrestia esisteva un elenco rarissimo dei vescovi castellani, che venne

poi, non sappiamo per quale motivo, ricoperto di bianco. 33 Quatremèr De Vincy, Diz. Stor., vol. I.

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39 INDICE STORICO CRONOLOGICO

DI CIVITA CASTELLANA

È tradizione che la Faleria (Civita Castellana) sia stata fabbricata dodici secoli avanti Cristo, come dicemmo da Halesus, figlio di Aga-mennonea.

320, anno di Roma. I Falisci compariscono nella storia per la prima volta, quando unironsi ai Fidenati e ai Veienti contro Roma; nella bat-taglia che seguì rimasero disfatti.

338, anno di Roma. I Falisci si risentono, e riportano contro Roma una segnalata vittoria.

363, anno di Roma. Furio Camillo assedia Faleria; e per il noto fatto del pedagogo segue la pace.

401, anno di Roma. Avviene la nuova sollevazione dei Falisci contro Roma. Caio Marcio Rutilio li costringe a chiedere la pace.

512, anno di Roma. Q. Lutazio Cercone e A. Manlio Torquato Attico assalgono i Falisci e distruggono la loro capitale Faleria.

512, anno di Roma. I debellati Falisci fabbricarono la nuova città, che chiamossi Iunonia Romana, nome imposto da Roma.

402, anni dopo Cristo. Innocenzo I eresse nel centro delle molte ca-stella, detta Massa Castellina, ossia Civita Castellana, la cattedra epi-scopale.

998 d(opo) C(risto). Gregorio V eleva Civita Castellana al grado di cit-tà.

1002. Ottone III muore a Paterno, ora diruto castello, il 23 gennaio. 1063. Civita Castellana viene danneggiata dai Normanni, perché

parteggiava per l’antipapa Cadalvo, detto Onorio II. 1084. Enrico IV coll'antipapa Clemente III si rinchiudono in Civita

Castellana. 1101. L'antipapa Clemente III more in Civita Castellana. 1145. Eugenio III papa si rifugia in Civita Castellana. 1155. Adriano IV papa da Civita Castellana andò a Sutri ad incon-

trare Federico I Barbarossa. 1181. Alessandro III papa, soffermatosi in Civita Castellana, vi muo-

re il 30 agostob. 1240. Federico II, da Viterbo, invia le sue truppe, per ridurre in sog-

gezione Civita Castellana, che parteggiava per Gregorio IX. 1244. Innocenzo IV papa lascia Roma e con tutti i cardinali si rin-

chiude in Civita Castellana. 1252. Innocenzo IV soppresse il vescovato di Gallese, per assogget-

tarlo a quello di Civita Castellana.

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1261. I Normanni distruggono Faleri, tranne le mura, tuttora sussi-stenti.

1392. Bonifacio IX soggiorna in Civita Castellana. 1440. Durante il pontificato di Eugenio IV la comunità di Civita Ca-

stellana compose le prime sue leggi cittadine (lo statuto). 1494. Alessandro VI papa fabbrica il Forte sulla antica rocchetta. 1498. Cesare Borgia, detto il duca Valentino, viene nominato gover-

natore di Civita Castellana. 1504 Giulio II papa ordina di ricevere in Civita Castellana, con tutti

gli onori, gli ambasciatori di Venezia, che recavansi a Romac. 1512 Giulio II papa intraprende la costruzione del maschio del For-

te. 1523 Nasce, per questione di territorio, la guerra tra i Civitonici e i

Santorestesi, ma termina pacificamented. 1527. I lanzi del Borbone assaltano e saccheggiano Civita Castella-

na. 1598. Clemente VIII papa soggiorna in Civita Castellana. 1609. Paolo V papa costruisce un nuovo tratto di strada sulla via

Flaminia. 1709. Clemente XI papa aprì un nuovo braccio di strada sulla Fla-

minia e fabbrica il ponte detto Clementino. 1734. Don Carlo di Borbone da Civita Castellana spedisce un bando

pieno di promesse ai napoletani e siciliani. Per quante ricerche fatte nel patrio archivio non rinvenimmo notizie alcuna intorno al soggiorno in Civita di questo pretendente. Una lapide, posta sulla parete della lo-canda di Castelnuovo di Porto, ricorda il passaggio sulla via Flaminia avvenuta nel 1734 dal Borbone diretto a Napoli.

1782. Pio VII papa, il 12 giugno, pernotta in Civita Castellana. 1798. Il 4 dicembre i francesi sbaragliano le truppe napoletane, gui-

date dal generale Mack, presso Civita Castellana. 1799. Il 24 agosto le truppe austro-aretine, comandate dal generale

Schneider, prendono d'assedio Civita Castellana e la saccheggiano. 1806. Pio VII papa, il 2 luglio, passa per Civita Castellana. 1814. Pio VII papa, reduce da Parigi, ripassa per Civita Castellana. 1831. Seguono i moti rivoluzionari, che si estendono anche in Civita

Castellana, in cui formasi il quartiere generale per reprimere la rivolu-zione.

1841. Gregorio XVI pernotta a Civita Castellana. 1848. Succede il Governo repubblicano. Passano tra noi i volontari

romani che si recano a combattere gli austriaci 1848-49e. 1849. Entrata nel luglio dei francesi in Civita Castellana, per ripri-

stinare il governo papale. 1851. Pio IX papa, il 4 maggio, pernotta in Civita Castellana. 1859. S'impianta l'ufficio telegrafico in Civita Castellana.

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1861. Demarcati i confini del nuovo regno d'Italia, Civita Castellana rimane a far parte dello Stato Pontificio.

1867. Nell'ottobre i garibaldini s'impadroniscono di Civita Castella-na.

1867. Viene aperta la strada ferrata Roma-Foligno, passando per Borghetto. D'allora in poi cessa il passaggio dei forestieri e delle merci per Roma e viceversa.

1870. Il 12 settembre le truppe italiane, comandate dal Cadorna, oc-cupano Civita Castellana, facendo prigioniero il presidio pontificio.

1890. Il 15 settembre s'inaugura l'illuminazione elettrica della città per iniziativa privata dei capomastri muratori Paolelli.

1895. Il 21 maggio impiantasi la prima linea telefonica tra Borghet-to-Magliano per iniziativa privata di O. Del Frate-De Angelis.

1906. Inaugurasi la tranvia Roma-Civita Castellana, che si congiun-ge a Viterbo nel 1913.

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40 OROLOGIO PUBBLICO

Fin dai tempi del nostro cronista apprendiamo che Civita aveva già il pubblico orologio, collocato in una torre in capo alla piazza de' Prati con campana, che suonava a stormo, per avvisare il consiglio e per ra-dunare il popolo in caso di bisogno.

In seguito l'orologio venne guarnito con due goffi bambocci, rappre-sentanti uno Cola e l'altro la moglie, che aveva in mano un orologio, e il marito batteva col martello le ore sulla campana. Edificato il nuovo pa-lazzo municipale nel 1864, saggiamente tolsero quel ridicolo meccani-smo, oggetto di derisione per parte dei passeggeri, costruendone uno moderno con quadrante illuminato alla notte, ponendolo in alto del detto palazzo. Ma siccome anche il nuovo orologio era costrutto con una sfera sola, per applicarci l'altra, dettero incarico all'orologiaio Mat-tei di Terni.

La macchina del vecchio orologio dovevasi collocare in una torre presso il Vinciolino, ma ignoriamo perché non venne più effettuato questo progetto.

Non mancano tra noi alcuni orologi solari, detti volgarmente meri-diane, ma servono assai male all'intento per mancanza di esattezza.

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41 I PONTI

Per la viabilità del nostro territorio occorreva costruire alcuni ponti, e fra questi il più antico lo dicono quello di Terrano, congiungente l'al-tipiano su cui siede Civita Castellana e quello della contrada omonima, che vuolsi lavoro etrusco, con un grand'arco solo, alto più di 50 metri.

Un altro antico ponte di costruzione romana, ancora transitabile e ben mantenuto, è quello detto di Ponte Ritorto, in contrada Oltretreia, sul rio omonimo.

Dell'antico ponte sul Treia, coll'obbligo una volta del pedaggio, ri-mangono i ruderi presso il mulino, quello attuale transitabile, costrutto presso gli avanzi di quello rotto, venne eretto nel 1880.

In fondo alla strada conducente a Valle, sulle sponde del Treia, ri-mangono ancora le testate in muratura sorreggenti il distrutto ponte di legno, travolto più volte dalla piena del fiume Treia e finalmente ab-bandonato, per costruire quello in materiale che abbiamo già detto.

Tra i ponti transitabili a più archi troviamo quello ben mantenuto sul fosso di Borghetto, al pari di quelli sul fosso dei Cappuccini e su quello dei Tre Camini.

Ad un solo arco rimangono quelli di Celle, Rio Filetto, Valle, Rio Gruè, ecc.

Ma quello che attira l'attenzione del nuovo arrivato in Civita Castel-lana è il superbo Ponte Clementino, che unisce le due sponde alte di Rio Maggiore. Qui l'animo si empie di meraviglia per la selvaggia mae-stosità del luogo e per la varietà che la natura offre: le rocce maestose, le cascatelle del rio formate dalla diga, le cui acque incanalate servono a volgere i molini sottoposti, i sentieri inerpicantisi fra i dirupi, ora al-l'aperto e ora nascosti nel tufo, tra la lussureggiante vegetazione, tutto insomma rende questo paesaggio superbamente bello e suggestivo [foto 15].

Il ponte venne costrutto da papa Clemente XI (Albani) nell'anno 1707 e misura 48 metri d'altezza e 90 di lunghezzaa. In antico compo-nevasi di due ordini d'arcate sovrapposte, il primo con sei archi, il se-condo con quattro. Al presente vedesi con un grand'arco in mezzo e con due altri minori laterali sovrapposti, essendo stato il ponte ricostruito nel 1862 per i danni ricevuti dalla piena del Rio Maggiore, avvenuta nel 1861. Il ponte aveva una bellissima porta, sormontata dallo stemma di Pio IX in travertino, demolita nel 1911, per dare passaggio alla tranvia.

Sul ciglio della rupe, presso la cascina di Galiani, possiamo osserva-re un tratto antichissimo di mura etrusche con la relativa porta.

A memoria della prima costruzione del Ponte Clementino, esiste una bella medaglia d'argento, che conservasi dai parenti del cav. nobile Co-

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luzzi. Essa venne riprodotta da noi in fotografia dal locale fotografo sig. Nelli Ulisse.

Nella medaglia è rappresentato il ponte antico e parte del turrito abi-tato, avente in alto la scritta: “Prosperum iter faciet” (per rendere facile la via) e sotto lo stemma si legge: “Pons Civita Castellae C.H. 1707” [foto 16].

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42 SERVITÙ DI PASCOLO

Difficile sarebbe il rintracciare le vere origini della servitù di pascolo nell'evo antico, come il riconoscere se ebbero principio e causa dall'in-vasione dei barbari, dopo crollato l'Impero romano.

Le diverse servitù di pascolo esistono in tutte l'ex provincie pontifi-cie, massimo nella provincia romana; e l'ex delegazione di Viterbo com-parisce con 59 comuni affetti di tale servitù: ma ignoriamo come, quando e perché incominciarono ad esistere.

È probabile che, impoverite le provincie italiche, anzi esauste di ric-chezza, specialmente le romane, che erano in balia delle fazioni civili, le città, le castella e le terre incominciarono a spopolarsi e i piccoli feuda-tari, conosciuti coi nomi di baroni, principi ecc., vedendo per mancanza di popolazione abbandonata l'agricoltura, restaurarono la comunanza delle terre.

Da ciò avvenne l'abuso di introdurre nei terreni abbandonati i be-stiami erranti, che poi si convertì in un vero e proprio diritto di pascere nei terreni aperti, appartenenti agli abitanti di ogni singolo comune.

La servitù di pascolo esiste anche nel nostro territorio, ma non pos-siamo rintracciarne l'origine, e da ciò avvenne che i terreni così detti aperti rimasero soggetti alla servitù di pascolo e devono seguire l'avvi-cendamento del territorio, perché non si possono seminare tutti gli an-ni.

Qui troviamo opportuno rammentare, forse, la prima cessione, che noi sappiamo, riguardante il ius (diritto) di mille marchi d'argento con-cesso da papa Adriano IV nel 1159 ai conti Tuscolani su Civita Castel-lana; cessione che non esonerava il territorio dalla servitù di pascolo, rimanendo alla comunità nostra lo stesso diritto di vendere erbe e fida-re le bestie pascenti, purché soddisfacessero ai conti Tuscolani il me-desimo tributo imposto già dalla Camera Apostolica su Civita Castella-na. Tale semplice cessione tra governo e principe non influiva sulle condizioni della servitù di pascolo, vigendo sempre nei territori affetti da questa servitù gli stessi diritti tra le popolazioni e Comune.

Anche il ius concesso su Civita Castellana ai Malavolta ebbe gli stes-si diritti.

Passato poscia il ius su Civita Castellana alla Camera Apostolica, questa seguitò a riscuotere le tasse, donando parte dell'entrata alla comunità nostra per provvedere alle proprie spese. Tra le varie conces-sioni, accordate poi dalla Camera Apostolica al nostro Comune e dagli ex signorotti, gli ecclesiastici e privati, rammenteremo quella di Ales-sandro IV, che nel 1261 formò Civita Castellana commenda dell'arci-spedale di Santo Spirito in Sassia in Roma, concedendo al proprietario

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delle terre, coll'obbligo di pagare all'amministrazione suddetta, un an-nuo tributo e questo contratto tenne luogo del canone.

Né il canone esonerò l'obbligo verso i proprietari delle terre di Santo Spirito della servitù del pascolo comune.

Paolo III nel 1548 con imposizione erariale assoggettò con un tributo triennale città, castelli e terre, dando in tal modo alle comunità mag-giori diritti sui terreni dei proprietari, i quali, poi, per esimersi dal tri-buto, ricedevano al Comune alcuni diritti.

Pio IX poi di motu proprio nel 29 novembre 1849 dette facoltà di af-francare le terre soggette a canone, ma non escludeva, però, con quel contratto, la servitù di pascolo, che rimaneva sulle terre anche affran-cate. Giacché parliamo di quest'opera di Pio IX, ricorderemo che per gli eventi politici di quei tempi, noi, dopo affrancati i canoni, che avevamo di Santo Spirito insieme al conte Mancinelli, il santissimo Pio IX, non riconoscendo valido l'atto di affrancazione, fece così entrare in possesso un altro ben noto proprietario.

Finalmente la legge, votata dal parlamento nel 24 giugno 1888, rese obbligatoria l'affrancazione delle terre, facendo cessare la servitù di pa-scolo, che opprimeva la coltivazione.

Sicché la servitù di pascolo non solo si affermò, ma era divenuta un diritto reale, contemplato nelle patrie leggi e disciplinato in tre catego-rie.

La prima la più antica, avendo avuto origine dalla pacifica occupa-zione, non interrotta non disturbata da secoli, è conosciuta sotto la de-nominazione di servitù de jure civico (diritto civico).

La seconda, avvenuta per la cessione dei terreni tra baroni, comuni, privati e colla Camera Apostolica, si chiamò de jure dominii (diritto di dominio).

Questi patti bilaterali hanno una lontana analogia col contratto enfi-teusi, che terrebbero luogo del canone.

La terza, detta de jure concessionis (diritto di concessione), sorse quando i particolari proprietari dei terreni liberi si assoggettarono alla passiva servitù di pascolo in favore del Comune, per esimersi dalle tas-se camerali e locali.

Quindi le tante controversie giudiziarie, sorte in tema di pascolo, ora cessano del tutto, essendo resa esecutoria la legge predetta del 1888.

Ma, prima di chiudere questo brevissimo cenno sulla servitù di pa-scolo, è buono ricordare che nella nostra agenzia censuale esistono le seguenti servitù, che noi per brevità riportiamo la sola denominazione del titolo: di bandite, di spica, di dogana, di doganella, di querciali ecc.

Il Comune nostro, poi, ha diritto di pascolo dal 29 settembre al 31

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marzo sui terreni detti 'bandite', ed il pascolo estivo sulle medesime è a favore delle popolazioni.

Sui terreni esiste il diritto di pascolo a favore della popolazione.

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43 L'AGRO CIVITONICO IN RAPPORTO

ALLA COLTIVAZIONE

Da noi l'antica e nobile arte di coltivare la terra si trascurò durante l'epoca in cui Civita Castellana ritraeva molto lucro dal continuo pas-saggio di forestieri e delle merci, che si dirigevano a Roma. Ma, dopo cessato questo transito, gran parte della popolazione rivolse le proprie fatiche alla campagna abbandonata.

Percorrendo l'agro civitonico, vedremo che in esso manca ancora quello sviluppo razionale e concreto agricolo, senza del quale non trar-remo mai partito di ogni singolo ramo della azienda agraria.

In generale le terre sono nude, prive di vegetazione, di vita agricola, che dovrebbe animare questo fertile suolo; e, se di tratto in tratto scorgi qualche casolare con annessa vigna, qualche abituro villareccio, sem-bra che vogliono rompere la monotonia delle nostre campagne.

Né la deficenza dello sviluppo agricolo dobbiamo attribuirlo alla qua-lità e quantità delle terre, essendo esse vaste e in gran parte in piano, fertili e ricche di tante sorgenti e perenni corsi d'acqua già ricordati.

Dalla nostra poca coltivazione del territorio deriva principalmente che l'atmosfera di essa è meno salubre di quella della città. Le campa-gne civitoniche non sono malariche, quantunque il senatore Torelli34 annoveri il nostro territorio fra i luoghi di malaria gravissima (?!), ma malsano al paro di tutte le terre abbandonate; quindi, il ripopolamento e la coltura intensiva farebbero cessare quelle febbri, che in qualche mese dell'anno si sviluppano, conosciute sotto il nome di febbri da ma-larie.

Un'altra erronea tradizione è quella di voler ritenere che l'aria di Ci-vita Castellana sia infetta da miasmi, mentre abbiamo in contrario fre-quenti esempi di vegeta e prospera longevità; e le abbondanti piogge, poi, non lasciano il ristagno delle acque nelle depressioni del suolo, ri-stagno che coll'estiva evaporazione produrrebbe i fatali miasmia. Non è da credere, quindi, che l'abbandono delle campagne da parte dei con-tadini dipenda da l'insalubrità dell'aria, ma invece dobbiamo ricercarne le cause nelle antiche consuetudini, quando le abitazioni erano mal si-cure e la vita dei casalanti continuamente insidiata per le continue vi-cende politiche svolgentisi entro la stessa Roma. Aggiungiamo, poi, che Civita Castellana, per la sua posizione, trovandosi sul passo più fre-quente della via Flaminia e sul nodo delle strade maremmane, umbro, sabine, amerine, non poteva a meno il suo territorio che risentirne im-mensi danni al passaggio di fuorusciti; e per tradizione sappiamo delle

34La malaria d'Italia, memoria popolare del senatore Torelli, Roma, 1883.

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terre vignate ridotte a nuda terra dalla licenza delle soldatesche truppe transitanti: causa da cui deve esser dipeso il ritiro dei contadini dalla campagna, e non dalla malaria, la quale poi, anziché diminuire, au-mentò, stante la scarsa scoltura e il continuo disboscamento.

Dagli antichi storici apprendiamo che gli Etruschi e i Romani aveva-no disseminate nel regno falisco (oggi territorio di Civita Castellana e limitrofi mandamenti) ricche città, ameni villaggi e ville deliziose, resi-denza estiva dei lucumoni e patrizi romani. La malaria, dunque, crebbe dopo l'abbandono delle nostre terre, specie nelle invasioni barbariche. Tuttavia, è da notare che il risveglio agricolo prende giornalmente pro-porzioni lusinghiere, e pare che s'incominci ad apprezzare il valore e l'adattabilità di ogni singola contrada, abbracciando così la pratica del-l'agricoltura, la quale non è altro che tutto quello che concerne la col-tura dei vegetali.

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44 IL FORTE DEL SANGALLO

Sul lato occidentale di Civita Castellana sorge maestoso ed isolato l'antico Forte, che sovrasta la città. Della sua primitiva storia e costru-zione nulla si ha di positivo, ma però esisteva una più vecchia rocca, edificata forse dal popolo o da qualche barone. Appartenne a varie co-spicue famiglie, fra le quali in un breve di Gregorio XI, dato da Avigno-ne nel 1377, è menzionato quello di Luca Savelli, a cui si raccomanda-va la custodia della roccaa. Sulla fine del Cinquecento incominciò a de-perire in modo che le riparazioni ordinate da Rodrigo Borgia, governa-tore sotto Sisto IV, non valsero a renderla sicuro asilo per quei tristi tempi. Ma di poi egli, divenuto papa, fece nell'anno 149435 costruire gli attuali bastioni da Antonio da Sangallo, celebre nell'architettura milita-re, piantandoli sulla vecchia rocca e sulle antiche mura castellaneb.

Il mastio ottagono, che s'innalza nel mezzo del Forte, isolato da ogni parte, alto 24 metri e ampio 80, fu edificato da Giulio II36 nel 1512. Il Forte è di forma pentagona con cinque baluardi agli angoli, ognuno dei quali ha una scala a chiocciola conducente nei sotterranei. Il fronte che guarda a settentrione è costituito da una tenaglia a due bastioni; il ter-zo bastione circolare sovrasta ad una cappelletta suburbana, chiamata Madonna della Rosa; il quarto, rivolto a mezzodì, ha la forma regolare e snella di una freccia, con angolo acuto smussato; il quinto, situato a levante, è detto della Rotonda, perché di forma circolare. Detti bastioni, tranne il primo ed il secondo, sono muniti di cannoniere rette ed obli-que. Nell'insieme questi bastioni coi loro fiancheggiamenti ricordano la prima maniera italiana.

La grossezza dei muri circolari sorpassa i cinque metri e, in altri luoghi, supera i sette e gli otto; l'intiera muraglia misura 14 metri d'al-tezza, tutta rivestita a quadrelloni di tufo, tranne il lato di tramontana, che è ricoperto di mattoni

Il Forte è recinto da un fossato ricolmo di terra, coltivato ad ortaglie, meno a settentrione, dove è la strada tagliata sul vivo della rupe, in fondo a cui corre Rio Maggiore.

Si accede al Forte per mezzo di un ponte levatoio, che dà ingresso al baluardo detto della Rotonda; quindi si passa nel primo cortile, di for-ma rettangolare, lungo ventitre metri e largo dieci, che piega da levante a ponente, con una scala a rampa, svolgentesi a sinistra e conducente alla piattaforma dei bastioni. A destra, entrando per due porte succes-

35 La data manca, però accetteremo quella del 1494, stabilita dall'illustre defunto P.

Guglielmotti nella sua Storia delle fortificazioni della Spiaggia Romana, 1880, Roma. 36 A destra del forte, prima di entrare, vedesi un ordine di arcate, in parte demolite nel

1827, di cui ignoriamo l'origine e a quale uso fossero destinate.

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sive, si trova un vasto cortile rettangolare, lungo trenta metri e largo venti, circondato all'intorno da un magnifico atrio con due file di 24 ar-cate sovrapposte, di ordine dorico. Mirabili erano gli affreschi delle vol-te del loggiato inferiore, rappresentanti trofei d'armi intrecciati cogli emblemi dei Borgia; e, alle quattro punte della prima crociera, arcuata si leggono ancora le scritte “Viva Giulio Cesare Borgia”, ma affumicate e guaste dai fuochi di cucinac.

Magnifici erano i grandi e vasti saloni con leggiadrissimi putti, dipin-ti dallo Zuccari, le massicce dorature, gl'intagli, i fregii delle volte, delle cappelle, del loggiato e le molteplici decorazioni delle scale, che mette-vano negli appartamenti signorili e nei quartieri militari. In queste vec-chie sale, oggi completamente trasformate, vi furono rinchiusi, fino al 1846, insigni patriotti.

Negli ultimi anni del governo pontificio servì di carcere militare e ri-coverò il famoso bandito Gasperoned: nel 1870, poi, venne questo grandioso monumento deturpato col costruirvi moderne lavorazioni ne-cessarie per adibire a casa penale, che poi nel 1906 venne definitiva-mente soppressa.

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45 I DETENUTI POLITICI RINCHIUSI NEL FORTE

Dal 1819 fino agli ultimi tempi 745 detenuti politici languirono lun-gamente nel nostro Forte, ci dice Atto Vannucci, e 24 vi lasciarono la vita.

I nomi loro sono i seguenti: Pasini Giuseppe, di Camerino, morto in ottobre del 1823; Falciatori Vincenzo, di Acquaviva, morto il 3 febbraio del 1823; Arnuzzi Giuseppe, di Ravesina, morto il dì 11 aprile del 1824; Ricciotti Giacomo, di Frosinone, morto il 2 giugno 1827; Tommasetti Luigi, di Acquaviva, morto il 19 marzo 1826; Lombardi Giuseppe, di Saltara, nel territorio di Fano, morto il 17 lu-

glio 1829; Vignuzzi Sebastiano, di Ravenna, morto nel febbraio del 1830; Fedeli Vito, di Recanati, morto il 18 ottobre nel 1832; Raboni Giuseppe, di Forlì, morto il 10 ottobre 1836; Simo Giorgio, di Ancona, morto il 16 marzo 1837; Bellini Sante, di Perugia, morto il 29 maggio 1836; Paccioni Rocco Antonio, di Pofi presso Frosinone, morto il 25 ottobre

1836; Fiori Alessandro, di Battifrè, nella provincia di Ferrara, morto il

quattro marzo del 1837; Menichetti Luigi, di Bologna, morto il 18 gennaio 1840; Petrarca dottore Adamo, di Castel di Sangro, nella provincia d'Aqui-

la, morto dopo lunga malattia il 27 dicembre 1841; Veccia Giuseppe, di Ripatransone, nella provincia di Fermo, morto il

6 gennaio del 1838; Sabatini Domenico, di Todi, morto il 24 novembre 1844; Grammatica Nicola, di Matelica, provincia di Ravenna, morto il 1°

settembre 1839; Fedeli Vincenzo, di Recanati, morto il 5 ottobre 1845; Natali Natale, di Bagnorea, nella provincia di Roma, morto il 6 marzo

1842; Benedetti Pacifico, di Macerata, morto il 16 aprile 1844; Saglia Domenico, contadino, morto il 14 agosto 1845; Palmieri Pietro, di Monte Severo, nella provincia di Bologna, morto il

10 ottobre 1846; Venturi Longanesi Agostino, di Russi, morto il 24 agosto 1845. Nelle matricole della cessata amministrazione carceraria pontificia,

che si conservano nell'archivio municipale, potremo vedere i nomi di tanti altri detenuti, che dimorarono nel Forte, con le loro relative sen-tenze.

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Per avere una idea dello spirito che animava quei generosi, basti leg-gere la seguente lettera di Ferdinando Serafini, che scriveva a sua ma-dre il 24 febbraio da Civita Castellana, nell'atto di uscire di prigione, raccolta dal detto Vannucci

Carissima Madre, Il 23 febbraio il Colonnello Lazzarini pubblicò la grazia che per noi tut-

ti il Papa, costretto e contro sua volontà ha dovuto segnare. Oggi parto per Cesena: non so però se vi perverrò mentre ho di unirmi coi miei fratel-li che incontrerò per via: seco loro dividerò la fortuna e la fatica. Ella per-tanto stia tranquilla, e si rallegri, giacché la nostra Italia è libera dal ti-ranno che la opprimeva. Io fin qui sto bene ecc.

Il suo aff. figlio Ferdinando Serafini.

Altra lettera dello stesso tenore scriveva Francesco Perfetti di Pesaro,

uomo egregio, che era stato condannato dal cardinale Rivarola e che soffrì la prigionia con ammirabile forza d'animo.

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46 ASSOCIAZIONI POLITICHE

In Civita Castellana le nuova idee di libertà e d'indipendenza nazio-nale vi ebbero fin dagli albori del rinascimento italiano un vivo e co-stante focolare, alimentate dai patrioti, che iniziarono la propaganda politica e cospirarono fino al congiungimento della grande famiglia ita-liana.

Le società segrete, sorte dai moti rivoluzionari francesi, trovarono, intanto, seguaci ardentissimi e numerosissimi in tutte le classi, e si ve-nivano formando quasi in tutte le regioni italiche, prendendo vari no-mi37. Però in Civita Castellana non si hanno notizie di queste associa-zioni politiche, tranne quella dei Giacobini, e sappiamo che nel 1834 un sergente di linea pontificia tentò di organizzare una società segreta, ma non trovò proseliti.

Dopo il 1846 la popolazione cominciò a spiegare un carattere pa-triottico e la setta dei Carbonari, nel successivo anno, si diede cura di affiliare diversi cittadini. Da noi le prime notizie dell'impianto di una baracca con la relativa vendita rimonta al principio dell'anno 1847.

Col comparire sulla scena politica di questa setta, incominciarono a professare principii repubblicani, attinti forse dal Grande Genovese, che ideò nella prigione di Savona quella grande associazione detta la ˝Giovane Italia˝.

Ma i nostri patrioti rimasero fedeli alla Carboneria, lavorando atti-vamente, per accrescerne le estesissime fila e praticando intorno ai modi di corrispondenza segreta tutte le istruzioni avute dai comitati in-surrezionali, con i quali erano in relazione.

In Civita la Carboneria contava circa un centinaio di affiliati, parte dei quali ancora sussistono.

Il governo pontificio sapeva già che un lavorio segreto e potente s'andava preparando nei suoi stati; e Civita Castellana destava conti-nui sospetti per i frequenti scatti liberali. Per poco i nostri cospiratori non caddero nelle mani di un certo Marè, il quale presentò un falso mandato di Mazzini a scopo di formare una associazione della “Giovane Italia” in Civita Castellana, ma i nostri patriotti lo accolsero con tanta circospezione che, ritornato a Roma, nulla poté riferire alla polizia. Da-gli arresti eseguiti nei centri praticati dal Marè si scoprì che egli era una spia pontificia.

L'associazione della Massoneria non ebbe in Civita che pochi affiliati.

37 Adelfi, Turba, Seberia, Fratelli, Artisti del Dovere, Difensori della Patria, Figli di Mar-

te, Ermolaisti, Massoni riformati, Bersaglieri americani, Illuminati ecc.

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Seguì il famoso decennio 1849-‘59, in cui appariscono i tratti più ca-ratteristici della nostra psicologia storica; e i grandi successi di Magen-ta e San Martino furono premio a tanta costanza patriottica.

Al fremito di libertà nuovamente Civita Castellana si destava e molti cittadini si votavano alla causa italiana.

Sopraggiunse il 1860, pieno di avvenimenti politici, e i liberali, forti e organizzati, sostenevano l'impresa, consci ormai dei destini della pa-tria.

Ma demarcati i confini del Regno d'Italia, la nostra città rimase allo Stato Pontificio, e con spirito di alto patriottismo molti liberali civitoni-ci, anziché fare atto di sottomissione, presero volontariamente la via dell'esilio.

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47 RIVOLUZIONI

La più antica rivoluzione avvenuta in Faleria nell'anno di Roma 512 ce la ricorda Plinio nelle sue epitome, della quale abbiamo già parlato.

Sempre basandosi su dati storici e saltando parecchi secoli, verremo all'anno 1527, in cui le feroci soldatesche, chiamate lanzi, o lanziche-netti, guidati dal Conestabile di Borbone, prima di assaltare Roma, in-vasero Civita Castellana e la misero a ferro e fuoco. Il Pechinoli ci lasciò detto che i Civitonici, guidati dal colonnello Florenzuolo, assaltarono nella località, oggi ancora detta Madonna della Rosa, parte dei lanzi, menandone strage e togliendo loro la figlia del castellano Altoviti, che seco portavano, dopo averla rapita in Roma, a scopo di poter entrare nel Fortea.

Tristi furono le conseguenze di quella invasione nemica, poiché, oltre alla devastazione delle nostre campagne, distruzioni di abitazioni, spe-cie come quella ricordata nella località dello Scasato, di uccisioni, sac-cheggi, incendi ecc., i preziosi e ricchi archivi comunali e vescovile, che il Baronio chiama “aurei”, vennero malmenati e bruciati.

Per quanto riguarda le circostanze avvenute durante l'occupazione delle truppe repubblicane francesi nella nostra città nel 1798-‘99 e le lotte fratricide sostenute fra fazioni cittadine, e le truppe francesi, na-poletane, austro-aretine-russe ecc., che recarono a Civita saccheggi, incendi e vittime e le distruzioni dei civici archivi, può il lettore ripor-tarsi alla nostra pubblicazione intitolata Evviva Maria! ossia la Campa-gna degli Aretini nel patrimonio di San Pietro ecc., edita in Roma dai Fratelli Capaccini [nel] 1890, nella quale vengono riportate diffusamen-te tutte quelle notizie, raccolte su dati storici e su diari militari intorno a quel funesto e sanguinoso periodo storico, che, per ristrettezza di spazio, qui noi non possiamo riportare tutto.

Anche per il tentativo rivoluzionario scoppiato nel 1830, che si este-se rapidamente nello Stato Pontificio, e per i fatti di Civita Castellana, che era divenuto il quartiere generale delle truppe del ten. colonnello Lazzarini, forte di oltre 3 mila uomini, per tenere in soggezione la città e paesi limitrofi, minacciati dalle milizie liberali del Sercognani, può il lettore riportarsi all'opuscolo, edito in Ancona dalla tipografia Sartori [nel] 1831, scritto dallo stesso Lazzarini, intitolato “I XXXXII giorni della difesa di Civita Castellana”b.

L'ultimo tentativo di opporsi alle truppe italiane, comandate dal Ca-dorna, fu quello di un manipolo di zuavi pontifici, che, burbanzosa-mente postosi sull'imbocco della via 12 Settembre, tentò di affrontare l'entrata dei regi, ma poi prudentemente corsero a rinchiudersi nel For-te e rendersi tutti prigionieri il 12 settembre 1870c.

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48 LA PRIMA RETE TELEFONICA MANDAMENTALE

DEL REGNO IMPIANTATA A CIVITA CASTELLANA DA ORONTE DEL FRATE E DE ANGELIS

Nel 1895 si impiantava una rete telefonica mandamentale, che ab-braccia i seguenti comuni:

tronco circa 17 chilometri di lunghezza di linea, allaccia Civita Ca-stellana, la stazione omonima e Magliano Sabino.

tronco circa 18 chilometri di linea, abbraccia Civita Castellana, Fa-brica di Roma e Corchiano.

tronco circa 15 chilometri, unisce Civita Castellana, Faleria e Calca-ta.

tronco circa 14 chilometri, unisce Civita Castellana, Nepi e Castel Sant'Elia.

Lo sviluppo totale della rete è di 60 chilometri di linea, con nove sta-zioni aperte al pubblico.

Pubblicata la relativa relazione intorno al completamento della rete telefonica, insieme alle lettere dei singoli sindaci, che si rallegravano per la felice riuscita dell'impresa, essa venne spedita ai ministri delle Poste e Telegrafi, dell'Agricoltura, Industria e Commercio. I quali rispo-sero con le seguenti lettere:

MINISTERO POSTE E TELEGRAFI Al Sig. Oronte del Frate Civita Castellana

Mi è pervenuta la lettera della S.V. in data 12 Aprile che accom-pagnava il suo discorso per il completamento della rete telefonica e altre pubblicazioni.

Le sono grato del cortese invio, che mi dà occasione di confermarle la mia distinta considerazione.

Il ministro Galimberti

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MINISTERO DI AGRICOLTURA E INDUSTRIA E COMMERCIO Al Sig. Oronte Del Frate Civita Castellana

Ho ricevuto il suo discorso per il completamento della rete telefoni-ca interessante di Civita Castellana e le altre pubblicazioni cortesemente inviatemi.

Nel ringraziarla del pensiero avuto mi compiaccio delle beneme-renze da Lei acquistate spiegando opera attiva e intelligente a pro del suo paese. Con stima mi creda

A. Baccelli

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49 ILLUMINAZIONE PUBBLICA

Anche le più grandi città italiane sappiamo che nel Medioevo erano prive alla sera di illuminazione pubblica. L'uso antico di appendere a-vanti all'immagini sospese dei lumi accesi era conosciuta anche tra noi e presentemente se ne conserva l'uso.

Sul finire del secolo passato venne introdotto l'uso, in alcune princi-pali città, di rischiarare alla notte qualche contrada maggiormente fre-quentata con fanali ad olio. Sotto la denominazione francese del 1798 incominciò pure Roma ad illuminare qualche contrada; e sul principio del secolo s'introdusse l'illuminazione con lampioni ad olio anche in Ci-vita Castellana, mentre tante altre città della provincia ne furono prive per molti anni. Civita Castellana dall'illuminazione ad olio passò a quella del petrolio, quindi a quella elettrica, inaugurata il 15 settembre 1890a.

Nella provincia romana la nostra Civita fu la terza città, dopo Tivoli, che impiantò detta luce che noi proponemmo.

Da noi, nel Medioevo, dopo suonato il terzo tocco della campana municipale, nessun cittadino poteva andare in giro per Civita alla not-te, tranne casi speciali; i contravventori venivano puniti con vari tratti di corda. Chi per necessità usciva di casa, doveva portare la torcia ac-cesa, o la lanterna, o il tizzone acceso, la cui lunghezza non doveva ol-trepassare un gubitob.

Ricorderemo ancora che nella provincia romana ben poche erano le città che avevano il pubblico orologio illuminato alla notte, mentre Civi-ta fin dal 1852 istituì l'orologio moderno, illuminandolo alla notte.

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50 CONCERIE

Tra le diverse industrie locali quella delle concie di pellami è una delle più antiche, e le cita il Pechinoli, dicendoci che in paese c'erano ai suoi tempi concie per corami.

Noi salteremo alcuni secoli e, senza dilungarci intorno alle vicende dei proprietari e dei lavoratori, che si alternarono a vicenda il possesso delle concie e divennero poi padroni, perché ci mancano esatte notizie, e, tralasciando ancora i processi per la depilazione delle pelli e di tutte quelle altre preliminari operazioni, che dovrebbero subire per ricevere la concia propriamente detta, accenneremo i diversi ottimi articoli for-niti dalle nostre concerie, che hanno il suffragio commerciale su tanti altri.

Il cuoio, che serve per le suole delle scarpe e che richiede la massi-ma durata del processo della concia, si divide in due qualità: cuoio chiaro e cuoio rossastro. La prima, essendo conciata colla corteccia delle piante, è più duratura; la seconda, perché conciata colla vallonea, è di minore durata. Le pelli da conciarsi, quelle bovine, di vitelli, di ca-valli, di montone, di pecore, di capre, di agnelli ecc., vengono acquista-te dai locali macellai e da quelli dei limitrofi paesi, e molte pelli grosse anche dall'estero.

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51 LOCALITÀ ASSEGNATE AI SUPPLIZI

Dallo statuto municipale apprendiamo nella rubrica dei Maleficii ri-guardo ai delitti di sangue, che i rei venivano condannati ad essere bruciati vivi sopra ad una grossa pietra, esistente presso la grande fon-tana di piazza de' Prati, tolta durante i lavori di nuova selciatura per lastricare la piazza stessa. Il volgo credeva che in antico vi si ardessero invece le streghe!

Nel Forte, malgrado fosse un regale palazzo, fu il luogo destinato per le esecuzioni a morte.

Il Pechinoli ricorda alcuni condannati che furono impiccati sui ba-stioni del Forte; e fino quasi al 1860 fu teatro di questi tristi spettacoli.

La piazza detta Fontana per Civita, presentemente trasformata, e quella della Beneficenza, furono gli ultimi luoghi destinati alle esecu-zioni capitali, eseguite dal carnefice chiamato Mastro Titta, accompa-gnato dal suo aiutante, armato di una grossa lama da scannatoio. Nel-la prima piazza vi troncarono la testa a Celi, Germano e Mentuccia; e nella piazza della Beneficenza a Bidei.

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52 PRESIDI MILITARI

Se, appena promulgata la legge sulla riforma degli stabilimenti car-cerari, si fosse tenuto conto delle proposte riportate sul Rinnovamento, consistente nell'adibire i locali del soppresso monastero di Santa Chia-ra per il nuovo stabilimento da fabbricarsi, atto a contenere per legge i 500 detenuti; ed il presidio naturalmente portato ad un intero batta-glione, stante l'accrescimento della casa penale, oggi la nostra città non avrebbe perduto né l'uno né l'altro. Ma ormai diamoci pace!…

Dopo l'invenzione della polvere e la costruzione del Forte, Civita Ca-stellana divenne una piazzaforte, col relativo comandante fino al 1870.

Cesare Borgia, detto il duca Valentino, fu il primo ad armare le tro-niere del Forte di nuove artiglierie; e gli ultimi cannoni vennero tolti nel 1860.

Come piazzaforte ebbe la città per guarnigione, fanteria, artiglieria, cavalleria, gendarmeria, la quale poi andò sempre scemando. Dopo portati i cannoni a Roma, gli artiglieri vennero ritirati in Castel San-t'Angelo; aperta la ferrovia Roma-Civita-Borghetto-Foligno, il reparto di dragoni pontifici fu ridotto a Roma, e fino agli ultimi tempi del 1870 non vi rimase di presidio che alcune compagnie di linea e di zuavi con la tenenza dei Gendarmi e quella delle Guardie di Finanza.

In città c'era gran movimento militare; e molti ricordano le riviste passate a truppe papaline dai generali Lamolisier [Lamoricière]a, Pri-modanb ecc., nonché il reggimento degli Svizzeri di Pifferc, che pernottò tra noi, per poi recarsi alla difesa di Perugia. Dei quattro eserciti stra-nieri invadenti gli Stati della Chiesa, spagnuoli, napoletani, tedeschi e francesi, la nostra città non ebbe per presidio che i due ultimi soli, uni-ti anche alle truppe pontificie.

L'ultimo presidio militare italiano fu quello di due compagnie di linea appartenenti al 93° Reggimento comandato dal capitano Iahan.

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53 MUSICA

Coll'invasioni barbariche in Italia l'arte della musica, lasciataci dai Greci, andò dispersa e con i pochi avanzi sussistenti si tentò una nuo-va riforma, che portò un certo sviluppo, stante l'introduzione del canto fermo, ambrosiano e gregoriano, che per il suo misurato carattere finì per dominare e segnò il principio di una nuova scuola. Quindi, per lo svolgimento succeduto del nuovo metodo, creato nell'arte dei suoni dal-l'immortale Aretino38, successe una radicale riforma, che venne poi di-sciplinata e sviluppata potentemente. La riforma generale della nuova specie di musica, ossia della musica figurata, coll'invenzione dei suoni trovò largo campo allo sviluppo della bell'arte e si ebbero in Italia le più grandi creazioni musicali, forse le prime in tutto il mondo civile.

Abbiamo dovuto parlare di musica, perché in questa bell'arte emer-sero i nostri concittadini, fratelli Virgilio e Domenico Mazzocchia, come valenti compositori, il primo più approfondito e creatore, tantoché il Fe-tis cita il maestro Virgilio più segnato nel genere di messe e salmi, una nuova scuola di composizione a tre, a quattro, a cinque e per fino a no-ve voci e ci rappresentano suoni della vita e dell'arte di allora questa geniale creazione del Mazzocchi. Ma il Virgilio Mazzocchi portò un'altra nuova riforma nell'arte musicale, degli accidenti nuovi, come il bequa-dro armonico e varî vocaboli, quali il piano, il forte, il crescendo e il de-crescendo, tutti abbellimenti per aumentare gli effetti nelle esecuzioni musicali. Sotto il pronao del duomo esiste un bel ricordo marmoreo che il fratello pose a Virgilio, ricordando i meriti del grande defunto maestro e dicendolo direttore in una delle più grandi cappelle di Roma.

Noi, quando istituimmo una filodrammatica, la chiamammo “Società Filodrammatica Virgilio Mazzocchi” in onore del grande concittadino.

Ma il soffio di tanto desiderato progresso, che noi vantiamo, non ha ancora ricordato a nessuna società drammatica, filarmonica e bandi-stica di prendere il nome del nostro illustre maestro.

Anche la stampa una volta spediva al Comune un giornale, ricor-dando del Mazzocchi sotto il titolo di Ingiusti obliib.

38 Guido d'Arezzo (900 ca – 1050 - ?), teorico musicale italiano. Monaco dell’abbazia

benedettina di Pomposa (Ferrara), si stabilì ad Arezzo per insegnare teologia e musi-ca nella scuola fiorentissima della cattedrale. Era un innovatore nel campo della teo-ria e della pratica musicale. Scrisse il Micrologus. A lui si deve la moderna notazione musicale (N.d.r.).

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54 ANTICHI ISTRUMENTI MUSICALI

Cominceremo a dire a chi aspetterebbe la priorità intorno agli anti-chi istromenti musicali dei nostri arcavoli.

Però per primo ricorderemo, come ci dice il Pechinoli, gli organi, per-ché essi vennero fabbricati nelle nostre chiese sotto Calisto III e resi più eleganti di forma e suono da Giovanni Lernutio (> Sernutio) arci-prete e da Angelo Pechinoli, santese della cattedralea.

Ma, mentre l'organo, come il re degli istromenti, signoreggiava sopra a tutti, non mancavano tra noi vari istromenti di genere diverso, come a corda, a fiato e percussione.

Tra quelli a corda abbiamo memoria del calascione, chiamato anche violone, istrumento a due corde, una sol e l'altra do, il cui movimento consisteva nel fare il basso e battendo monotonamente fra le due note. Questo arcaico movimento è ancora mantenuto nel violone che suona-va il Botti.

Il liuto era usato nelle case signorili, come gradito istrumento, dalle donzelle e dai giovani, nel genere come suol chiamarsi canto da came-ra. Esso serviva ad accompagnare pastosamente, stante la sua armatu-ra a corde di budello, dilettevoli canzoni, riproducendo dei motivi di bella consonanza. È ricordata anche la tiorba39, istromento acconcio in musica per gli accompagnamenti, che suonavasi insieme al flauto, e-sprimente sentimenti di allegria. Ma col tempo questo istrumento do-vette obbedire all'intenzione dell'arte e, dopo inventato il violoncello dal Bonvicini (> Bononcini), maestro di cappella del re di Portogallo in principio del secolo XVIII, venne abbandonato. In casa della nobile fa-miglia Coluzzi la ricordavano la tiorba per essersi ancora conservata fi-no ai loro giorni.

Il salterio era anche conosciuto nelle case signorili, al paro della ce-tra, della quale se ne rammentava un ricco esemplare in casa della no-bile famiglia Paglia Guglielmi, avente guarnizioni d'argento, madreperla e legni di lusso. Aveva anche cinque anelli d'argento con punti per ri-trarre dalle corde d'acciaio il suono, pizzicando.

Un altro istromento conosciuto dalle nostre famiglie, e che ancora suol chiamarsi per derisione, era la rebeca, detta volgarmente rubeca, violino a due corde.

Non meno note erano le varie chitarre e chitarrone, istromenti ornati di sei e otto corde di budello o di acciaio, conosciute sotto il nome di chitarre battenti, atte ad accompagnare canzoni e ballabili.

39 Istromento puro italiano, perché inventato tra noi da un certo Tiorba, che gli diede il

suo nomeb.

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I cembali, poi, furono notissimi, e le così dette spinette, che tutti di noi ricorderemo, in tante famiglie cittadine sono ancora conservate.

Tra gli istromenti a fiato primeggiava la tromba propriamente detta, senza pistoni, a squillo, come era il corno da caccia, e quello che suo-nàvala mettendo dentro alla campana la mano destra per suonare. Il flauto poi era in uso quello a sei buchi.

In campagna tra i porcari, boattieri, pastori ecc., erano in uso il zu-folo villareccio, la cornamusa o zampogna rustica, con uno o due piffe-ri, e la fistola.

Presentemente i porcari adoperano per istromenti una grossa luma-ca, sorta di conchiglia che rinvienesi nel nostro territorio, il cui suono monotono rassomiglia ad un ululato grave e triste. Questa lumaca sa-rebbe una specie di quel che si chiama buccina. Tra gli istromenti a percossione erano noti il tamburo e tamburello, dei quali se ne fa pre-sentemente grand'uso.

Col tempo poi, dopo istituito il maestro di musica, ossia maestro di cappella, s'impiantò una numerosa scuola vocale, che si dedicò alla classica musica sacra, quindi la banda comunale, la filarmonica, della quale non è però più nostro compito il parlarne.

Quello che merita ricordare è che tanti maestri frequentanti Civita Castellana hanno tutti concordemente ritenuto la grande disposizione e il buon orecchio che ha la popolazione riguardo alla musica.

E, quando queste doti della popolazione per la musica verranno ap-prezzate e disciplinate artisticamente da un appassionato maestro della bell'arte dei suoni, non mancherà di avere la città un buon concerto ed una buona filarmonica.

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55 DELL'ARTE CERAMICA

Dell'arte della ceramica, che conta in Civita Castellana tanti secoli di nobili tradizioni artistiche, possiamo riportare il lettore al nostro artico-lo, che troverà nella Guida Storica e descrittiva di Civita Castellana; ag-giungendo la nuova lavorazione introdotta tra noi circa ai cessi inodori, la cui produzione ha ormai il rispettivo suffragio commerciale in tal ge-nere, e degli oggetti artistici.

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56 OSPEDALE ANDOSILLA

Chi desiderasse avere notizie dell'origine e delle rendite del ricco isti-tuto può rivolgersi alla segreteria dello ospedale stesso.

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57 COMPIMENTO DELLA LINEA TRANVIARIA ROMA - CIVITA CASTELLANA - VITERBO

La costruzione della tranvia Roma - Civita Castellana - Viterbo è un fatto compiuto; e a festeggiare questo lieto avvenimento, per cui resta assodato un rapido mezzo di comunicazione che unirà la nostra città con la capitale, paesi della antica Comarca, Viterbo e altri comuni della così detta Montagnola, dovrà nuovamente costituirsi un comitato a scopo precipuo di preparare geniali ed intellettuali divertimenti per la bella circostanza, come infatti ricorderemo quelli svolti per la prima i-naugurazione della linea Roma-Civita Castellana.

La trasandata regione, attraversata dalla tranvia, attende ora quel risveglio sociale, economico e industriale, di cui fu priva per mancanza di moderni mezzi di viabilitàa.

Ma chi maggiormente entrerà in un periodo di benessere generale è Civita Castellana.

Questo antico centro di fermata dei forestieri al tempo della vecchia e tarda diligenza, situato sul passo più frequentato della via Flaminia e sul nodo stradale maremmano-umbro-amerino-piceno, riprenderà tra i centri limitrofi un posto interessante nella vita industriale e commer-ciale; posto che aveva in passato, quando Civita Castellana ritraeva gran lucro dal passaggio dei forastieri e delle merci dirette a Roma e vi-ceversa, cessato dopo l'apertura della ferrovia percorrente il bacino del Tevere, che tagliò fuori dal suo tracciato Civita Castellana, la quale do-veva avere la stazione a Collerosetta, come venne stabilito e come si può vedere nel Giornale del Ferroviere, e non a Borghetto.

Ma lasciamo il passato ed occupiamoci del presente. Cessato, dunque, il transito tra noi per l'esercizio della detta ferro-

via, Civita Castellana venne danneggiata nella vita economica e dob-biamo alla operosità e alla attività dei suoi abitanti, se fu riparato il dissesto finanziario e se seppero sviluppare le proprie forze e risorse naturali col metterle in grado di rispondere al progresso e alle esigenze della vita moderna.

Darà molto di più, giacché oltre l'utilizzazione delle forze industriali, anche la coltivazione intensiva delle nostre terre, già gran parte con-cesse ai privati, progredirà rapidamente l'agricoltura, dei cui prodotti sarà una nuova ricchezza per Civita, senza aver più bisogno di quelli della Sabina e Montagnola.

L'amministrazione comunale e quella dell'ospedale hanno aperto la via a questo benessere agricolo, che presto porterà i suoi fruttati. È in-negabile che, se questo saggio provvedimento fosse stato preso fin da tanti anni, oggi l'agro civitonico avrebbe cambiato aspetto!!…

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Né si trascurò in Civita Castellana la naturale dotazione di forza mo-trice proveniente dai perenni torrenti, che lambiscono l'altipiano su cui posa la città, per renderlo capace di conseguire tutti quei miglioramenti che derivano dalla utilizzazione delle acque a scopo industriale.

Noi non abbiamo bacini da sfruttare e grandi corsi d'acqua; ma colle poche forze idriche disponibili e sapientemente utilizzate si ottenne sul Rio Maggiore, mercè l'apertura di un altro canale percorrente sulla roc-cia viva, un aumento di cascata atta ad aumentare l'energia elettrica, usufruita per l'illuminazione elettrica della città e della vicina Nepi; ol-tre a dispensarla ai vari stabilimenti nell'interno di Civita e a quelli fuo-ri della cittàb.

Intanto le molteplici e accreditate industrie civitoniche, come le fab-briche di ceramica, che costituiscono la principale agiatezza del paese con la nuova svariata produzione di cessi inodori ed oggetti artistici, unite agli abbondanti prodotti agricoli, tra i quali primeggiano gli ottimi erbaggi, la rendono sempre più un centro prosperoso industriale.

Importante è l'esportazione per il notevole lucro che si pratica intor-no ai materiali da costruzione e per uso industriale, appartenenti allo svariato ramo minerario, che offre, su vasta scala, il nostro territorio, come le pozzolane, il tufo, il travertino, la cui bianchezza e compattezza non la superano le altre cave di tal genere, le arenarie, le argille, la cal-ce, il caolino, la terra refrattaria, i cui studi dettero risultati ottimi, e fi-nalmente le cave di lava basaltina, dette tra noi selce occhialino, da cui estraggono la leucite, come abbiamo già detto.

Ma l'industriale e lo speculatore deve ancora rivolgere la sua attività intorno alle buone cave di puddinghe, adatte per macine, molari da ri-valeggiare con quelle bresciane; e questo nuovo ramo d'industria non tarderà molto ad essere reso noto, come gli altri minerali già sfruttati.

Ma ogni qualvolta si parla di miglioramenti introdotti e da introdursi in Civita Castellana, la mente ricorre ad un nostro voto, quello di vede-re riunito in città il prezioso e copioso materiale archeologico scoperto nella nostra vasta necropoli, che, portato a Roma, servì a comporre il prezioso Museo Falisco di Villa Giulia. Quale lustro non sarebbe venuto alla nostra Civita, se la storia dei costumi e delle oscure vicende politi-che di Faleria avesse parlato a noi con la voce dei suoi cimeli? Le me-morie dei nostri maggiori sono raccolte in quella stessa Roma, che ne fece scomparire la grandezza e fin anco il nome glorioso; e prescinden-do dal vantaggio morale, quale lucro non avrebbe avuto Civita Castel-lana dall'affluenza degli studiosi e degli amatori?

Intanto la lodevole iniziativa e la felice riuscita di una mostra d'arte antica e di ceramica, che fu tenuta durante le feste inaugurali della tranvia, come le più importanti, speriamo che possano avere un'altra volta lo scopo di gettare le basi di locale museo etrusco-falisco.

Nella interessante mostra figurò una raccolta di materiale archeolo-gico, rinvenuto negli scavi praticati dai privati nella necropoli falisca; e

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gli oggetti, debitamente classificati, servirono a dimostrare le diverse fasi del progresso artistico dell'età italica fino alla decadenza della civil-tà etrusca. Meritevoli di ricordare quanto si espose intorno ai campioni di maiolica dei secoli XVII e XVIII e che alcuni ebbero il premio in Roma sotto Napoleone I e quanto si radunò della produzione del Volpato, o Giovanni Trevisan, che dette sul principio del secolo un indirizzo alle fornaci civitoniche artistico singolare, che noi qui non possiamo per brevità riportare a lungo.

Largamente esposero i produttori di fabbriche locali i loro accreditati e premiati articoli, che hanno il suffragio commerciale.

Quello, per altro, che resta a fare è la rivendicazione del nome antico della nostra città, portando a compimento la pratica già iniziata dal no-stro municipio contro il comunello di Stabia, che prese il nome di Fale-ria senza nessuna ragione storica!

Se il consiglio comunale di Stabia si oppose a ritornare a prendere quello che gli appartiene e non quello degli altri, credo che non possa mancar modo di farlo stare a dovere!!

Geniali ed interessanti devono riuscire le pedisseque processioni sto-riche proposte da quel comitato. Una delle quali doveva rappresentare un corteo popolare dirigentesi al tempio della dea Giunone, per festeg-giare in suo onore un sacrificio lasciatoci descritto da Ovidio, come ab-biamo già detto al (cap.) 1. Un altro corteo avrebbe dovuto rappresenta-re la solenne entrata in Faleria dei decemviri romani accolti dal lucu-mone e dai sacerdoti feciali, venuti a prendere il ius feciale, come è ri-portato al (cap.) 29.

Facendo rivivere questi spettacoli antichi, si è sicuri di attirare da ogni paese e da Roma gran gente. Oppure altre feste popolari con spet-tacoli, che si possono leggere al (cap.) 34.

Intanto le feste inaugurali per l'adempimento della linea tranviaria Roma-Civita Castellana–Viterbo, divenuta nuovo stimolo di vita civile e coefficiente di prosperità all'estesa e trasandata regione, saranno de-gnamente eseguite e svolte con patrio amore.

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58 IDEE DEMOCRATICHE

Osservando i rivolgimenti apportati dai secoli, si comprende come la vecchia società abbia cambiato forma e come incominciarono a sosti-tuirsi altri gruppi sociali. Intanto il costume seguiva queste norme del viver civile. All'uscire del Medioevo le imperanti caste erano allora quel-le dei nobili, del clero e della magistratura. Dopo il 1500 incominciò un vero progresso, che introdusse in queste privilegiate caste, anche la co-orte dei letterati, a mezzo della stampa, che ebbe campo di popolarizza-re le loro idee, d'illuminare le menti, indirizzando gli spiriti umani verso a nuovi ideali.

È da notarsi l'unificazione delle mode, procedendo per gradi, opera-rono una progressiva trasformazione, per raggiungere l'uguaglianza, raggiunta infatti per opera della rivoluzione francese.

Intanto i letterati, spingendosi, s'introdussero e ruppero la ristretta cerchia dei privilegiati, finora guardati da questi con tanta gelosa cura, gli artisti e tutti coloro che la natura aveva benificati di talento ed ener-gia, mettendo in opera queste doti, incominciarono a guadagnare in-fluenza, considerazione ed una posizione sociale superiore alla casta da cui uscivano.

Ed ecco sorgere e formarsi una vasta corporazione, che, senza rego-lamento e né statuti, fu vera operatrice di grandi fatti e che nel nostro secolo venne destinato col nome di borghesia.

I borghesi, dunque, sorti dalla plebe, tenuta a vile dalla classe supe-riore, colla sola istruzione, dando prova di coraggio ed ardire, riusciro-no a crollare l'antico edificio, che, sepolto nel Medioevo, si reggeva in piedi a danno dei più, ed a porre le basi d'un'èra nuova, èra di libertà, lumi, d'indipendenza, e di ragione.

Per mezzo di questo progresso il costume andò radicalmente modifi-candosi e le distinzioni andarono quasi scomparendo, tanto l'unifica-zione del vestire era già avvenuto con un fatto compiuto, non essendoci più nel modo di vestire né nobili e né plebei.

Qualche spada o spadino, che abbiamo veduto in case signorili cit-tadine, come ultimi avanzi della spavalda rappresentanza di quella classe tanto ormai modificata, esse non erano più un emblema di forza, né una manifestazione di diritto, ma erano divenuti oggetti di parata, che non incutevano più timore, perché avanti alle nuove leggi liberali tanto i rimanenti nobili che borghesi venivano assoggettati al comune codice.

Però è per legge di natura che l'uomo tende al proprio miglioramento materiale e morale; e la classe dei nobili, malgrado le idee democratiche che vanno facendosi nuova strada, rimarrà per sempre, perché l'uomo che eccelle per gran meriti finisce di entrare in quella cerchia, in cui la

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sorte non lo aveva creato, perciò, finché dura il mondo, dureranno le varie classi sociali.

Tutto il benessere, però, apportato nella popolazione, dobbiamo ri-conoscerlo come proficuo lavoro dovuto alla borghesia, che continua-mente sparge in tutte le manifestazioni della vita civile i suoi benefici effetti.

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59 MODI DI CACCIA USATI NEL TERRITORIO

La caccia è stata una delle prime occupazioni a cui gli uomini si de-dicarono, tanto per difendere la propria vita, quanto per procacciarsi il nutrimento e le materie prime per farsene indumenti.

Il nostro Pechinoli ci lasciò scritto che nel territorio si trovavano bel-lissime caccie di fagiani, di capri ecc., delle quali oggi non abbiamo più memoria.

Per l'avvenuta distruzione dei nostri boschi secolari, anche la grossa selvaggina e la minuta andò scomparendo.

La campagna civitonica in rapporto al passo degli uccelli si trovava in condizioni favorevoli per le sue pianure; i boschi, i torrenti la rende-vano ricchissima di selvaggina da pelo e da piuma. Tantoché avevamo, negli uccelli, un fortissimo passaggio regolare, un passaggio irregolare, nell’autunno e in primavera, con varie specie avventizie, che vi nidifica-vano anche accidentalmente. Numerosi nelle macchie vivevano i cin-ghiali, comune era anche il lupo, nonché i lepri, le volpi ecc.

Ma oggi non abbiamo che un languido passaggio di uccelli, spieta-tamente perseguitati da un gran numero di cacciatori.

I modi di caccia usati nel nostro territorio sono quasi tutti scompar-si, meno quelli col fucile, perciò crediamo bene rammentarli.

In quattro maniere si dividono i modi di caccia usati dai cacciatori nell'agro civitonico, cioè col fucile, colle reti, colle panie e con diversi artifizi.

La prima caccia col fucile: cacciarella, caccia alle volpi, caccia alla beccaccia, caccia alle starne, caccia alle quaglie, caccia alle anitre e alle oche, caccia ai palombacci, avvezzo ai palombacci, nocetta o frascone, caccia ai merli e tordi, caccia al chiocchio, caccia ai tordi ai merli allo sfilzo, caccia all'abborrita o di barzetto, specchietto per le allodole, rac-chetta alle allodole.

La seconda colle reti: roccolo o ragna circolare, rete aperta o para-taio, rete a stramazzo, tesa alle allodole, rete all'avvezzo, la ragna, so-pr'erba, lanciatoia, o lanciatora, e beverino.

La terza colle panie: alberetto per i fringuelli, boschetto, spinetto, vi-schioni, abbeveratoia, alberetto alle piche, archifagno o diavolaccio, ru-spetto e panie pei passeri.

La quarta con vari artifizii: caccia con i lacci e lacciuoli, archetti per le castriche o bastriche, archetti per le beccaccie, tagliole, caccia all'i-strice e al tasso, trappola o tiella e gabbia scaricatoia.

Anni or sono il conte Feroldi introdusse l'uso delle reti chiamate le brasanelle, ma poi le smise.

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60 MODI DI PESCA USATI NEL NOSTRO TERRITORIO

Gli abbondanti corsi d'acqua che irrigano il nostro territorio costitui-scono per la pesca un'occupazione anche remunerativa per un certo ceto di persone.

La pesca è libera tra noi per quanto riguarda i soli fossi, nel fiume Treia il diritto di pesca si paga al Comune.

Cito i metodi di pesca e gli svariati ed artificiosi attrezzi e reti adope-rate presentemente dai nostri pescatori.

Pesca all'amo, negassa o martavella, razzuola o martavellone, spar-viero o diaccio o chiaccio, travicello, chiarone, spozzatoio, rete a due bastoni, cananore, nasse, pesca alla forchetta, mattaccio, pizza, pasta, dinamite.

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61 USI E COSTUMI

Gran parte degli usi e costumi civitonici vanno in disuso, e noi per-ciò ne ricorderemo qualcuno più caratteristico e originale.

Le nozze - La mattina in cui gli sposi si recano in chiesa e poi al Comune, tutti i parenti ed amici loro, maschi e femmine, convengono, vestiti in abito da festa, in casa della sposa, da cui escono a due per due con la sposa in testa. I signori nobili avevano diritto di sposare al-l'altare maggiore della cattedrale, entrando dalla porta di mezzo. Gli al-tri ceti no. I nobili sposavano al mattino presto. Oggi invece viene modi-ficato.

Compiuta la cerimonia, tornavano a casa, ove è preparato un rinfre-sco o pranzo. Prima però di entrare in casa, costumavano certe donne di accorrere, per trovarsi sulla soglia della porta, sbarrandone l'ingres-so con una fettuccia, che spezzavano quando la coppia incedeva allegra e giuliva, tra i canti e gli stornelli di quelle megere, accorse per solo scopo di lucroa. Costume del resto antichissimo, che trovasi figurato anche su i vasi etruschi. Sul finire del rinfresco e del pranzo, poi, la sposa con un piatto di confetti va in giro, offrendone a ciascuno degli invitati tra gli evviva e gli auguri, che riceve da quelli. Il rimanente, poi, del giorno e della serata trascorre in canti e balli, mentre gli sposi, oggi, a seconda della condizione, lasciano la casa per una quindicina di giorni, per compiere il così detto viaggio di nozze. Queste che abbiamo accennate, sebbene presentemente molto modificate, sono nell'uso or-dinario, ma, se avvengono tra un vecchio ed una giovinetta, tra vedovi, il popolo costuma, per varie sere, come si pratica in tante altre regioni italiche, menare un tal baccano, con grida, con suoni di lumaconi (buccine), di campanacci, con battere di padelle, bidoni di latta, di bari-li ecc., ed altri utensili di cucina, mettendo a soqquadro la contrada degli sposi e il paese, che percorrono, indisturbati, per qualche ora con quella infernale musicab.

Processioni - Anche le processioni religiose vanno scomparendo. Ri-corderemo quella detta dell'inchinata, ossia dell'incontro del Salvatore e della Madonna, processione che avveniva la sera del 14 agosto, oggi in disuso. Dalla cattedrale solevano uscire due confraternite: una di contadini, che menava in giro una statua da donna rappresentante la Madonna, sorretta sopra un piedistallo, portata a spalla dai fratelli; l'altra, composta di artigiani, conducevano un grande quadro raffigu-rante il Salvatore. Quando queste due confraternite s'incontravano nel-la piazza del Comune, succedeva che il Salvatore salutava la Madonna con un inchino e poi ritornavano in chiesa; non senza qualche malu-more, sorto, come dicono, per gelosia tra artigiani e contadinic.

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Alla sera del venerdì santo succede poi un'altra processione, per tra-sportare il Cristo Morto dalla chiesa di San Giovanni Decollato alla cat-tedrale; ma la più caratteristica specialità di questa processione è quel-la di vedere alcune grandi croci, foderate di carta bianca e illuminate nell'interno, che seguono il corteo.

Nella ricorrenza della festa del Corpus Domini, innanzi che la pro-cessione faccia il giro della città, avanti alle case il proprietario spande sulla strada l'infiorata, consistente in una raccolta di fiori di prati e di giardini, separati e disfrondati a seconda dei colori, per gettarli sulla via, ove dovrà passare la processione.

Alla sera del 16 settembre avviene la processione dei patroni Mar-ciano e Giovanni per la città, uscendo dalla cattedrale, e al cui ritorno questa védesi vagamente illuminata a disegno.

Pubblici divertimenti - La giostra, in disuso; altro bizzarro spetta-colo era quello già detto di trarre per le vie un bufalo, e altri diverti-menti, dimenticati, che possiamo riscontrarli al (cap.) 34d.

Vestimento - Quanto al modo di vestire, c'era un costume, ormai smesso, come è detto al (cap.) 2.

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62 CLIMA

Le condizioni climateriche dell'agro civitonico presentano l'inconve-niente di repentini passaggi di temperatura.

Dalle varie note, da noi dedotte per un decennio sulle osservazioni metereologiche dell'agro civitonico, ci risulta che, nell'estate, vediamo comunemente salire dai 27 ai 34 o 35 gradi e discendere sovente dai 20 ai 13 gradi in poche ore, specie se nell'agosto spira la tramontana; e nell'inverno passiamo spesso, tra un giorno all'altro, da un grado ai 12 e viceversa. Mentre anche sotto zero alle volte mantiene la temperatura costante per qualche giorno, finché non arriva lo scirocco a raddolcire l'aria.

Tali rapidi cambiamenti di temperatura non dipendono soltanto dal-la posizione topografica di Civita Castellana, scampagnata e senza monti vicini, ma dall'aver disboscato tutto il territorio.

Così la città, senza alcun riparo e senza la benefica influenza dei bo-schi, viene esposta ai vari venti: di più la evaporazione dell'acqua dei torrenti Rio Maggiore e Rio Filetto facilitano alla sera la depressione termometrica, producendo spesso una certa umidità, manifestantesi lungo le vie del paese.

Tuttavia l'agro civitonico non deve ritenersi esente dall'infezioni ma-lariche per qualche mese dell'anno, ma non poi tanto, come possiamo leggere al (cap.) 43 riguardo al giudizio del senatore Torelli, causa la pestifera emissione delle Paludi Pontine, che presto verranno risanate, fonte principale della malaria, dominante in provincia, dove più dove meno.

I venti predominanti su Civita Castellana, tra l'anno, sono lo sciroc-co e la tramontana, alternativamente; ma nella primavera e nell'estate il ponente, detto tra noi garbino, spira a preferenza degli altri.

Le nebbie non sono frequenti, anche i temporali non avvengono spesso e raramente accompagnati da grandine. Invece le pioggie au-tunnali ed invernali sono abbondanti. La neve, poi, non è solita a cade-re tutti gli anni.

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63 FALERI ROMANA E ALTRI AVANZI ANTICHI

Per quanto riguarda gli avanzi della distrutta città di Faleri romana, il cui vocabolo, stando al Palmieri, lo spiega dalla voce caldea Baal-crim, che volgarmente significherebbe “Posto delle Scolte”, e per quello che concerne di antico, appartenente a varie epoche ancora visibili nel nostro territorio, può il lettore riportarsi alla terza parte della nostra Guida, ove vengono descritti i dintorni di Civita Castellana dal lato di tramontana, di ponente e di levante.

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64 CITTADINI ILLUSTRI

Riguardo alle notizie intorno ai meriti dei nostri illustri cittadini, può il lettore riportarsi all'apposito capitolo della nostra Guida.

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65 AUTORI CHE ILLUSTRARONO LA NOSTRA CITTÀ

Anche intorno agli autori, che illustrarono la nostra Civita, può pa-rimenti il lettore leggere l'apposito capitolo della Guida nostra, che u-niamo alla presente Miscellanea.

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66 BOLLARII E NOTIZIE PATRIE

Sussiste in municipio una piccola raccolta di memorie locali, pare ri-trovate dopo l'ultimo incendio del civico archivio, classificata sotto no-me di “Bollarii e notizie patrie”.

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67 VENTRES FALISCI

I nostri arcavoli sappiamo che erano rinomati per confezionare colle visceri dei suini una specialità di salcicce, come oggi si chiamano di fe-gato o mazzafégate, note nel commercio di allora col nome di ventres falisci.

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NOTE

1a. Alcuni degli argomenti accennati nel cap. 1 della Miscellanea si ritrova-no nelle prime pagine della Guida: riferimento agli annali etruschi (p. 9, nota 1), l’epitome di Tito Livio (p. 11, nota 1), la perorazione del segretario Papiro a favore dei Falisci, dopo la sconfitta del 241 a. C. (pp. 11-12), la partecipazione del poeta Ovidio alle feste in onore di Giunone Curite (pp. 7 e 13), l’appartenenza di seconda moglie del poeta alla famiglia Marcia (p. 7, n. 3), il libro dei Censi e la prima menzione del nuovo insediamento altomedievale nell’a. 727 (pp. 14-15), l’utilizzo della cronaca del Pechinoli (p. 13, n. 3), la concessione del titolo di città nel 998 (p. 15).

b. L’origine pelasgica di Falerii è affermata anche da qualche storico antico: “Le città di Faleri e Fescennio sono invece tuttora abitate dai Romani e con-servano alcune piccole tracce della stirpe pelasgica, pur essendo originaria-mente dei Siculi” (Dionigi d’Alicarnasso, I, 21,1).

c. Il cenno relativo all’esistenza di un presunto ‘regno falisco’, ricavabile dalla Tabula, era già stato accolto e riferito, quasi con le medesime parole e con l’elenco dei centri che ne facevano parte, anche dal Tarquini (2004:20), ma è notizia fantasiosa e priva di fondamento.

d. La Tabula Peutingeriana o Peutingeriana tabula itineraria è un itinerario del tempo di Teodosio, prezioso documento storico e geografico, scoperto a Spira in una biblioteca verso la fine del secolo decimoquinto; posseduto da Corrado Peutinger di Augusta, erudito germanico (1465-1547): fu edito pri-mamente a frammenti nel 1591 ed in forma completa a Vienna nel 1824.

e. Giunone era divinità poliade, nume tutelare di Falerii Veteres, il suo cul-to rimase profondamente radicato presso la popolazione falisca anche dopo la distruzione della città, avvenuta nel 241 a. C. (Ovidio: appella i Falisci iunoni-colas in Fasti VI, 49). Le cerimonie che si svolgevano durante la festa annuale presso il suo delubro, immerso in un bosco sacro, sono descritte dal poeta sulmonese (Amores, III, xiii) e, sinteticamente, dallo storico greco Dionigi d’Alicarnasso (I, 21: “ma la testimonianza più evidente dell’antica dimora in Argo di questa popolazione, che aveva cacciato i Siculi, è la presenza a Falerii di un tempio in onore di Giunone identico a quello di Argo, e del tutto simile era ivi anche il cerimoniale dei sacrifici, donne consacrate alla dea erano ad-dette al luogo sacro e una fanciulla nubile, chiamata canefora, dava inizio al rito, mentre cori di vergini cantavano la dea con inni propri della loro patria”).

Al culto della dea fanno riferimento, oltre alle testimonianze epigrafiche (ad es. CIL, XI, 3100, 3125, 3126, 3152), altre fonti classiche meno note. A scopo esemplificativo ne trascelgo due. Innanzi tutto la leggenda di Valeria Luperca. La fonte è lo pseudo-Plutarco (Parall. Min., 35). Questi, però, dichiara di averla tratta da Aristide di Mileto, che, a sua volta, sembra ricalcare una fabula di Aristodemo (in quest’ultimo l’episodio è ambientato a Sparta ed ha come pro-tagonista Elena, ma lo svolgimento, con i riti purificatori per guarire dall’epidemia e la fine dei sacrifici umani, risulta identico). Originalità e raf-fronti etno-antropologici a parte, il documento ci interessa come riprova del legame di Falerii con il culto di Giunone: “Essendosi abbattuta su Falerii

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un’epidemia e seminandovi la desolazione, un oracolo rivelò che il terribile fla-gello sarebbe cessato, se ogni anno avessero sacrificato una fanciulla a Giu-none. Persistendo la terribile superstizione, Valeria Luperca, designata dalla sorte, aveva afferrato un coltello; ed ecco che un’aquila, discesa dal cielo, por-tò via il coltello e depositò sull’altare una bacchetta terminante in un martel-letto. Quanto alla lama l’aquila la lasciò cadere su una giovenca, che pascola-va nelle vicinanze del santuario. La giovinetta capì e sacrificò la giovenca. Poi ella prese il martello, passò di casa in casa, con quello toccò leggermente i ma-lati e li guarì, dicendo ad ognuno di vivere in buona salute. Questo spiega per-ché ancora oggi si compie questa cerimonia religiosa. Lo racconta Aristide nel XIX libro della sua Italikà”.

La seconda testimonianza è tratta dall’Apologeticum (7, 9) di Tertulliano: l’apologista cristiano ci tramanda una preziosa informazione sulla persistenza, attraverso tutta l’età romana, dei culti italici, a fianco di quelli ufficiali di stato e quasi con un ancestrale valore poliadico. Nel caso di Falerii costituisce non solo un’ulteriore conferma che il tempio fu risparmiato dalla distruzione, ma anche che il culto si protrasse almeno fino alla prima metà del III sec. d. C.: “…unicuique etiam provinciae et civitati suus deus est, ut Syriae Astartes, ut Arabiae Dusares, ut Noricis Belenus, ut Africae Calestis, ut Mauritaniae reguli sui. Romanas, ut opinor, provincias edidi, nec tamen romanos deos earum, quia Romae non magis coluntur quam qui per ipsam quoque Italiam municipali con-secratione censentur: Casiniensium Deluentinus, Narniensium Visidianus, A-sculanorum Ancharia, Volsiniensium Northia, Ocriculanorum Valentia, Sabono-rum Hostia; Faliscorum in honorem Patris Curis et accepit cognomen Iuno”.

f. Per spiegare il nome di Civita Castellana, si è fatto ricorso in passato a varie proposte etimologiche, per lo più infondate: Del Frate lo fa derivare dalle “molte castella che conteneva”. Per un’ipotesi affine propende il Mazzocchi (Veio Difeso, pp. 62-63): “Non è però il nome di Civita Castellana disdicevole a Veio, perché s’egli aveva molte castella sotto di sé, come metropoli, e onorata poi di vescovato, poté esser detta Città Castellana, tanto più che il nome antico era inviso a’ Romani”. Anche la data tràdita del 998, comunemente accettata, per la concessione, da parte papale, del titolo di Civitas non regge ad una puntua-le analisi.

g. La notizia, già presente nella Guida (p. 14), è attinta dal Pechinoli (Cro-naca, p. 27): “li popoli…dell’Umbricia, della Staccia, e di Monterone ca-stell’incorporati oggi nel nostro territorio, i vestigi de quali si veggono giacere se-polti sotto l’aratri e li sterpi”. In Conti non si trova menzione dei primi tre inse-diamenti, ma soltanto di Castel Paterno (1980:182-183). Nelle note del Pasqui è rilevata su Monte Lombrica l’esistenza di un sito dell’età del bronzo, la cui continuità si protrae fino al basso medioevo. Sulla sommità sono ancora oggi riconoscibili i resti di una fortificazione: “Poco lungi ancora, monte Lumbrica, alto ed isolato, in antico sormontato da un castello circondato da case. Ignoria-mo quando gli abitanti di questo castello ritiraronsi in Civita Castellana” (Guida, p. 70). La più antica menzione, a me nota, si ricava da un documento del 1318 (RC, II, pp. 17-18), nel quale il castrum Lombrice figura fra i possessi di Orso Orsini, nipote del card. Napoleone Orsini, assieme ad Aliano, Foglia, Pog-gio Sommavilla, Lago, Campovaro ed altri luoghi [Carocci, 1993:399, nota 74,

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dove però il sito risulta non localizzato]. Sulla presenza di Umbricum nel terri-torio falisco, vedi L. Alberti, Descrittione di tutta l’Italia…Vinegia 1551, c. 61v.

Il microtoponimo, dal punto di vista onomastico, si può ricondurre all’etnico Umbri, al pari del latino Umbrius e forse dei falisci Umrie (CIE, 8432) e Upreciano (= Umbricianus?; CIE, 8430-8431; Giacomelli, 1952:232-233; Hi-rata, 1967:91). Anche in un’epigrafe romana, proveniente dagli scavi di Falerii Novi e conservata nel British Museum di Londra (CIL, XI 3073), viene menzio-nato un [- - -U]mpricius C(ai) f(ilius) (Di Stefano Manzella, 1979:82-83).

2.a. La citazione del verso relativo a Veio ‘Del tosco impero già capo e regina’ è già nel Moroni, Dizionario…, vol. XIII, p. 288, col. 1, s.v. Civita Castellana.

b. In precedenza anche il Mazzocchi aveva contestato l’identificazione di Mons Faliscorum con Montefiascone: “il qual Monte non era, come Raffaele Vo-laterrano, e alcuni altri hanno creduto, Montefiascone, perché i Falisci erano al di qua da’ detti Monti Cimini, fra la seconda gente della Toscana; e così conse-guentemente anche il loro Monte chiamato Faliscorum, il quale noi diciamo esser quel, che hoggi è detto di San Silvestro, volgarmente Sant’Oreste, e più concisa-mente Santresto, anticamente Soratte” (Veio Difeso, p. 5).

c. Del casuale “rinvenimento”, che nel luglio 1873 portò alla scoperta del “Delubro Fonte Sacro Ninfeo”, suscitando l’interesse del Garrucci, eminente archeologo dell’epoca, parla il Tarquini (2004:24-25). Un riesame critico delle fonti coeve è reperibile in M. C. Biella (Nuovi dati del cosiddetto ‘Ninfeo Rosa’ in località Fosso dei Cappuccini a Falerii Veteres, Estratto da ‘Studi Etruschi’, LXIX, serie III, 2003, G. Bretschneider Ed., pp. 113-143 + tavv. bn).

d. Vd. cap. 57, p. 112. Il Comune di Stabia cambiò il poleonimo in Faleria all’indomani dell’unificazione d’Italia, precisamente nel 1872, per evitare sia eventuali confusioni con altri centri che possedevano un nome identico o affi-ne, sia i motteggi che il nome poteva suscitare (‘Stabbia’ si presta a schernevo-li giochi metalinguistici con ‘stabbio’, cioè ‘letame’).

3. La pittoresca descrizione delle caverne naturali è pressoché identica a quella della Guida, p. 44.

Per una prima informazione sulla presenza di stazioni neolitiche nel territo-rio, vd. M. A. Fugazzola Delpino, Cenni introduttivi sul neolitico del territorio fa-lisco, in “La Civiltà dei Falisci”, pp. 23-52.

4 a. Sulla figura dell’argivo Aleso, vd. anche la Guida, p. 3 e p. 83. La leg-genda dell’eroe eponimo di Falerii è accolta da Ovidio sia negli Amores (L. III, xiii, vv. 31-35), nell’elegia nella quale rievoca i solenni riti annuali in onore di Giunone Curite: … Agamennone caeso / et scelus et patrias fugit Halaesus o-pes / iamque pererratis profugus terraque fretoque / moenia felici condidit alta manu / Ille suos docuit Iunonia sacra Faliscos; sia nei Fasti ( IV, vv. 73-74): Venerat Atridis fatis agitatus Halesus / a quo se dicta terra Phalisca putat (vd. anche: Solino, II, I, 4-7: quis ignorat ab Haleso Argivo conditam Faliscam, a Fa-lerio Argivo Falerios?; e Silio Italico VIII, 474: Argolicus Halaesus). Ma, come sovente avviene nei miti degli eroi greci o troiani che approdano in Italia, si formano, mediante un processo di contaminazione, e coesistono molteplici versioni: ad es. Virgilio nell’Eneide introduce Aleso (VII, 723-724: Hinc Aga-mennonius…Troiani nominis hostis, / curru iungit Halaesus equos…) nel ruolo

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di condottiero degli Aurunci e di altre genti italiche dell’Ager Falernus (X, 352 sg). L’epiteto lo fa seguace (secondo il Forbiger l’auriga, forse per curru iungit del v. 724) di Agamennone, accorso alla guerra, come alleato di Turno, in odio ai Troiani. A sua volta il commentatore Servio riferisce che alcuni lo ritenevano compagno di Agamennone, altri (compreso più tardi anche il nostro Del Frate) suo figlio illegittimo. Lo considera, inoltre, il fondatore di Faliscos (che egli in-tende come poleonimo) e giustifica la formazione onomastica attraverso la so-stituzione della f alla h (ad Aen. VII, 695: Faliscos Halesus condidit, hi autem, inmutato H in F, Falisci dicti sunt…; nam posteritas in multis nominibus F pro H posuit). Ma in altro passo lo stesso Servio, trascurando il contenuto della leg-genda ellenizzante, ritiene Halesus capostipite della dinastia dei re di Veii e come tale celebrato nel carmen saliare (ad Aen. 8, 285: Quidam etiam dicunt Salios a Morrio rege Veientanorum institutos, ut Halesus, Neptuni filius, eorum carmine laudaretur, qui eiusdem regis familiae auctor ultimus fuit). Comunque Virgilio fa perire Aleso per mano di Pallante in X, 425.

Su Aleso, eroe eponimo di Falerii, cfr. W. Warde Fowler, Aeneas at the site of Rome, Oxford 1917, p. 63.

Anche l’identificazione di Aleso con il cavaliere armato di lancia, che esce dalla turrita porta della città in groppa ad un cavallo arrembante, è controver-sa. Altri infatti spiegano: “E per tale riguardo (scil. per la sua inespugnabilità) cominciò poi detta città a far impresa un castello d’onde esce un uomo a cavallo armato di lancia, simbolo con che si allude non meno all’antico valore di quel popolo, che al proprio nome”. Nel manoscritto di don Sante Pasquetti (a. 1841), conservato nella biblioteca comunale, la stessa leggenda è riportata con qual-che significativa variante: “Sipho di lui figlio (scil. di Curete, principe di Veio) ad esso successe, ed avido questo di gloria stabilì di non ammettere nella città niun cavaliere transitante, se pria non avesse data qualche riprova del suo va-lore, onde era che nella porta di essa a vicenda presiedeva un cavaliere armato di lancia, e corazza su di un cavallo, e se questo esperto nell’armi mostravasi, glorioso introdotto veniva, ma se al contrario vile, e codardo egli era, respinto ed isolato fuori della città restava” (vd. trascrizione, par. 2, p. 8).

b. La leggenda è ripresa, così com’è, dal Pechinoli: “la… notte nella quale morse il papa [scilicet: Alessandro VI Borgia], venne dal cielo la maggior pioggia che mai ricordatasi essere stata per l’adietro, che accompagnata da turbine di venti da lampi da fulmini, da tuoni e da terremoti impetuosamente s’aveva me-nato via il ponte della Treja e molti edifici privati: ma quello che spaventò ognu-no, come se fosse venuto l’estremo giorno, fu che per li rivi correnti intorno la cit-tà si sentivono con urli orribili queste parole, alli Caroselli, Caroselli, li quali da uomini pij s’interpretavono, che la città non si profondasse da maligni spiriti per l’intercessione de nostri santi avvocati” (Cronaca, pp. 50-51). Ambiguo rimane il significato dell’espressione: alli Caroselli!, sulla quale si è soliti sorvolare. Si deve pensare ad un cognome (come i più sembrano propensi a credere) o ad un diminutivo di nome comune di persona, con intenzione allusiva ai santi protettori? Alla prima impressione, l’analisi testuale suggerirebbe di collegarla a voci meridionali come carosare ‘tosare’, caruso ‘testa tosata’, ‘persona dai capelli tosati’, ‘ragazzo’ (DELI, 1:208, s.v. carosèllo). Il valore semantico po-trebbe essere, però, diverso e rimandare ad una spiegazione più complessa, che qui sarebbe troppo lungo riportare.

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5. Per il profilo geologico, cap. 57, p. 111 e Guida, p. 41 . Sulle risorse mi-nerarie si sofferma brevemente anche il Tarquini (p. 70): “Il negoziato della cal-ce provvede alla città non solo, ma tutti l’adiacenti paesi, e fortemente Roma. Un 200 giumenti sono addetti al careggio di tale genere nella stagione, oltre alli car-ri e barrozze. Il travertino è maggiormente in commercio per la eccellente qualità e bianchezza che imita il marmo, migliore di quello di Tivoli, e di altri territori. Serve alla città, alle adiacenze, e per la maggior parte delle fabbriche di Roma, ove si conduce segato a tavole ed a grandi blocchi per mezzo della ferrovia e carri. Scalpellini, barrozzai, cavatori e segatori tutti in molto numero vi lavorano. I proprietari dei fondi, ove sono le cave hanno un sufficiente profitto negli affitti. […] Il selce occhialino serve per i selciati, e per le macine ad olio […] La rena che si cava al Saletto ricercatissima e necessaria per le vernici della terraglia, serve alli nostri fabbricatori, e si spedisce a quelli di Pesaro, Marche e Romagna, non che alla capitale. Altra rena in cava serve alli muratori e stuccatori per cornici, stucchi, e se ne servono li fabbri ferrari. Al Saletto vi è la cava di solfo, una volta in uso, ora non più.”

6a. L’esistenza di questa sorta di gemme nere, ripetuta nella Guida (p. 42, nota 1), è attinta direttamente dal Pechinoli (Cronaca, p. 27).

9. I lavori di preparazione dei suoli alla semina venivano eseguiti, come comunemente avveniva nella Campagna Romana, secondo tecniche e con strumenti rudimentali che si rifanno almeno al Medio Evo: “Una rubrica del quattrocentesco statuto di Ferentino […] prevede che i terreni a riposo siano arati sei volte (una volta in febbraio e in marzo, due volte in aprile e maggio); per il Tiburtino le arature attestate salgono addirittura a sette. L’elevato nu-mero di lavorazioni (non se ne richiedono altrove più di o quattro) induce a pensare, una volta di più, all’impiego di quell’aratro leggero e simmetrico, di antica tradizione mediterranea, con il quale ‘il rovesciamento delle zolle’ poteva ottnersi soltanto praticando ‘arature ripetute e incrociate’ (Cortonesi 1988:45)” (vd. anche Glossario, s.vv. rinquartatura e rompitura). Per spiegare meglio lo svolgimento delle varie opere, ricorriamo ad una pagina del Metalli (1976:64-65): “I diversi lavori dell’aratro si fanno trasversalmente l’uno dall’altro, per e-vitare che l’aratro passi due volte nel medesimo solco. Nell’eseguire poi questi lavori i bifolchi si orientano per la direzione del solco, con le cime delle lontane montagne, chiamate contrapposta che spiccano all’orizzonte. Per ben tirare il solco si richiede una gran pratica e i buoni capoccetti invece vanno continua-mente scemando nelle nostre campagne. I lavori dell’aratro sono o, meglio, e-rano questi: 1° la rompitura, la quale ha luogo nella direzione da S. a N.; 2° la ricotitura, da N. N-O. a S. S-E.; 3° il solcomatto da S-O. a N-E.; 4° la rinquarta-tura, da O. a E.; 5° la sementa, da S. a N. conservando però una certa distan-za dal solco tracciato col primo lavoro. Lavorando invece con la perticara la terra ne risente un maggior beneficio poiché il primo lavoro riesce più profon-do di quello fatto con l’aratro e i successivi, eseguiti coll’aratro stesso – che sono appunto i quattro sunnominati – riescono di più grande efficacia trovan-do una rompitura più buona. […] Dice un proverbio: rompi come puoi e ricoti come vuoi; perché, difatti, nella rompitura l’andare più o meno profondo non dipende tanto dalla propria volontà quanto dalla natura e condizione del ter-reno, mentre che i lavori successivi offrono un’agevolezza maggiore”.

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Ma circa la terminologia non c’è completo accordo tra gli stessi studiosi ro-mani: p. 118, s.v. rompitura term. della Campagna Romana, prima aratura; p. 116 s.v. refenditura, term. della C.R., seconda aratura; p. 116 recotitura ter-mine della C. R., terza aratura. I nostri agricoltori dicono in proverbio: chi de maggio nun recòte – sempre pena e mmai nun gode; p. 118, s.v. rinquartatura, term. della C.R., quarta aratura (F. Chiappini, op. cit.). Per un esame della si-tuazione civitonica, vd. Craba, 1994:96-99.

10a. All’uso di conservare le granaglie in pozzi scavati nel vivo tufo fa rife-rimento sia il Pechinoli:

“con armata mano buttarono a terra la saracinesca di propria autorità scuo-privono i pozzi de’ grani, pigliandone gran quantità…” (Cronaca, p. 82), sia, in maniera più specifica, l’architetto cortonese Francesco Caparelli (1521-1570), incaricato di effettuare sopralluoghi nelle fortezze dello Stato Pontificio per ri-levarne lo stato di conservazione: “… è logo come me è referito che sempre è ben munito di grano: sì perché il territorio suo è grasso, come ancora li omini hanno gran comodità di conservarlo 4 o 5 anni e più nelle buche, le quali sono di una natura di tufo asciutto e facile da essere cavato” (Marconi, 1970:21). Le forme di questi piccoli granai sono ancora oggi visibili sulle pareti tufacee, che nel 1854 furono tagliate perpendicolarmente per incassare il tratto di strada tra l’ospedale Andosilla e la curva di San Salvatore e diminuirne così il disli-vello.

11a. L’elenco dei corsi d’acqua si riduce notevolmente, se si escludono dal novero quelli che raccolgono le acque piovane nella stagione autunno-inverno, ma durante l’estate rimangono completamente asciutti: questi ultimi dovreb-bero definirsi più propriamente con il termine dialettale di ‘carracci’. Nello sta-tuto comunale, che sottintende un criterio più rigoroso di classificazione, gli idronimi citati si limitano a quelli che hanno una portata d’acqua per tutto l’anno [L. V, Rubrica de chi cieca le acque, (e) rivi di Civita cap. 83]: “Ordinamo, (e) statuimo che nulla persona ardisca né presumi cecare, o far cecare, né con-taminare con calcina quanto con qualunque cosa si sia, nulla acqua de Civita, (e) massime l’infrascritte, cioè, Treia, Rivo Maggiore, Rivo Nassa et Rivo Filetto, Rivo Miccino, Lo(m)brica, Ricroveno, Ca(n)talopo, (e) generalme(n)te tutte le ac-que di Civita qua(n)to si este(n)de il teritorio di questa città”.

Il Treia, tributario di destra del Tevere, è il fiume più importante dell’Agro Falisco. Lungo il suo percorso e nel suo bacino idrografico si svilupparono i primi insediamenti del territorio e poi i più popolosi centri falisci (Falerii Vete-res, Narce). L’idronimo deve essere antico, se per la prima volta lo rinveniamo nell’elenco dei fondi di cui, all’inizio del IV secolo, l’imperatore Costantino fece donazione alla chiesa romana di Santa Croce in Gerusalemme: sub civitate Nepesina, possessio Anglesis praestat solidos CL…sub civitate suprascripta possessio Terega, quae praestat solidos CLX…(Liber Pontificalis, ed. Duchesne 1886-1892, p. 180); negli statuti e nella Cronaca il nome è considerato di ge-nere femminile: la Treia. Nei secoli XVI-XVII viene denominato anche Cremera (in realtà il Fosso Valchetta, presso Isola Farnese) come conseguenza dell’identificazione di Civita Castellana con l’etrusca Veio. La sua valle costituì per secoli una via di comunicazione con funzioni strategiche e commerciali (si pensi alla mola di Monte Gelato, alle villae del fondovalle e ai castella sorti su-gli speroni rocciosi, che dall’età tardoantica sono abitati fino al basso medioe-

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vo). Al XVI secolo risale la notizia di un progetto o tentativo, che dovette fallire o non avere seguito, di renderlo navigabile: “Li signori dell’Anguillara provorno gl’anni passati di ridurre navigabile la Treia di Civita Castellana, ch’esce dal la-go Cimino hoggi di Vico, che navigarsi affermai con Strabone” (Degli Effetti, 1675:231).

b. La nota è identica a quella di Guida, p. 43, nota 2.

13. Il Tarquini, a giustificazione dell’elenco, opportunamente aggiunge: “Crederei conveniente nominare tutte le altre sorgenti di acqua pura, in uso del-la pastorizia, ed agricoltori, quali scaturiscono in altre parti del territorio, e ciò non lo credo superfluo, e né degradante ad un uomo conoscitore della campa-gna” (2004:50). Egli riporta a p. 36 le sorgenti e le fonti delle tre contrade di Valle Falisca, Staccia e Goliano e a pp. 50-52, quelle dell’ OltreTreia, Valsiaro-sa e Chievo. I due elenchi in buona parte corrispondono e si integrano a vi-cenda. Avevo previsto di riportare su mappa il sito di tutte le sorgenti e di tut-te le fontane, ma, a parte i limiti di tempo, l’impresa si è rivelata subito diffi-coltosa al punto che per ora ho deciso di desistere.

14. Gli stessi dati sono ripetuti in Guida, p. 41, nota 1.

18a. Gli storici locali sono propensi a far derivare il toponimo Goliano (varr.: Gogliano, Gugliano) dal fundum Tibilianu, menzionato nell’epigrafe del vescovo Leone (VIII sec. d. C.), prediale di origine romana.

b. Guida, p. 81. All’iscrizione di Q. Fulvius Chares, ricco coactor argentarius (CIL XI, 3156), cui venne dedicata l’epigrafe con la statua onoraria perduta, ai porti e al traffico fluviale sul Tevere dedica alcune pagine il Tarquini (2004:64-68). L’esistenza di un portus vinarius trova riscontro nelle iscrizioni urbane CIL, VI 9189 e 9190. Tutti gli storici locali senza alcuna eccezione hanno iden-tificato il portus vinarius superior con quello di Goliano, in realtà sembra che l’impianto possa ‘localizzarsi in Roma sulla sponda del Tevere circa all’altezza di Ponte Sant’Angelo’ (Di Stefano Manzella 1981:122, n. 3156).

c. Cronaca, p. 28. Riporto la citazione per esteso: “et il Tevere lontano dalla città circa due miglia come non rende l’aere umido, né caliginoso, così non toglie la comodità a’ cittadini di condurre a Roma e portare nella città le biade, i frutti et altre sorte di mercanzia”.

d. La navigazione con i battelli a vapore lungo il corso Tevere, per ridurre il trasporto passeggeri e i costi del tiro delle imbarcazioni, comincia nel 1842. Il 29 giugno di quell’anno Alessandro Cialdi, colonnello della marina pontificia, salpa da Londra dopo aver preso in consegna i tre rimorchiatori commissionati dal governo pontificio. Il 22 agosto, dopo aver agganciato alcune imbarcazioni che trovò a Fiumicino, le trainò fino a Roma, accolto da una moltitudine fe-stante di cittadini lungo le sponde del Tevere. Il servizio di battelli, che arriva-va fino a Ponte Felice, venne incrementato con il varo di altri battelli a vapore costruiti nell’arsenale fuori Porta Portese: veniva effettuata una media di dieci corse mensili, trainando oltre 500 imbarcazioni all’anno, ed una corsa setti-manale per il trasporto dei soli passeggeri. Il 4 gennaio 1866 avviene l’inaugurazione della ferrovia Roma-Orte-Foligno, che verrà ampliata negli an-ni successivi. L’affermarsi del trasporto su rotaia segna il progressivo declino della navigazione fluviale. Nel 1878, in seguito alla costruzione provvisoria del

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ponte di Ripetta, la navigazione a nord di Roma, già gradualmente ridotta, viene definitivamente soppressa (G. Nasetti, 2002:42-44) .

19a. Vd. Guida, p. 2 e p. 78. La prima campagna di scavi ebbe luogo nel 1886 (Pasqui, NSA,1887). Dopo il rinvenimento del tempio negli scavi eseguiti a cura del Ministero della P. I., si “costituirono anche due società private di ri-cerche archeologiche con regolare riconoscimento statale, le quale incomincia-rono i loro lavori in contrada ‘Penna’ e ‘Valsiarosa’ ove già apparivano este-riormente indizi di antiche tumulazioni” (Dottorini, 1929:10). I materiali ritro-vati furono trasferiti a Roma, dove costituirono il primitivo nucleo del Museo di Villa Giulia.

b. Per gli scavi del cosiddetto tempio di Apollo allo Scasato, vd. A. Cozza, NSA, 1888. Per le schede relative alle terrecotte e ai materiali fittili, vd. Comel-la 1993.

c. L’autore deplora il trasferimento dei materiali archeologici nel museo ro-mano sia nella Miscellanea (cap.19, p. 31) che nella Guida (pp. 61-62).

Anche un articolo comparso su ‘Il Rinnovamento’ (III, n. 101, 18 feb. 1888, p. 1), senza firma, ma attribuibile ad O. Del Frate, esprime considerazioni ana-loghe: “Se con piacere mi sono altra volta occupato a parlare degli oggetti rin-venuti nei nostri scavi, con altrettanto rammarico oggi ho da annunziarvi co-me gran parte dei detti oggetti si allontanano da noi per andare ad arricchire il Museo Nazionale di Roma. Con essi parte dal nostro pensiero quell’idea che abbiamo accarezzato tante volte e che in parte credevamo realizzare, della co-stituzione di un museo cittadino, il quale avrebbe richiamato fra noi gli amato-ri e cultori delle scienze archeologiche con grande lucro e decoro della città. Giorni fa infatti venivano spediti a Roma 35 casse e 5 colli, parte del materiale archeologico già detto. Così a noi discendenti di quegli Etruschi che precorsero la civiltà romana e ne furono poi soggiogati, non rimane che il conforto di sa-pere che tanti tesori restituiti alla luce del sole non sono caduti in mani stra-niere, ma verranno, diligentemente restaurati e classificati, esposti all’ammirazione dei visitatori nei grandi musei della capitale”.

20a. Delle ‘strade antiche’ (strada falisca-latina, strada Flaminia, cava Fu-riana) come anche delle strade modificate (strada provinciale di Nepi, strada Flaminia modificata) l’autore tratta diffusamente anche in Guida (pp. 65-68, compresa nota 1 di p. 65). Sul sistema viario del territorio alcuni cenni si pos-sono cogliere in Tarquini (pp. 27, 29, 33, 45, 54). Sul sistema viario dell’Ager Faliscus, la Via Amerina, le varie diramazioni e diverticoli, vd. Frederiksen- Ward Perkins, 1957.

b. Vd. Guida, p. 67. Con l’esecuzione dei lavori, collocabile tra gli anni 1787 (Pulcini, 1974:245, CICC 104) e 1789 (Pulcini, 1974: 245, CICC 103), si realiz-za un raccordo di 15 miglia, che collega la Cassia, a partire dall’altezza del XXV miglio, con la strada Flaminia modificata, probabilmente recuperando in parte un tracciato antico. Si apre così un un percorso preferenziale di colle-gamento tra Marche, Umbria e Roma.

c. Vd. Guida, p. 28 e Cronaca, p. 59. Nella Guida (p. 68) ricorre per mero errore tipografico il nome Pio V, anziché quello di Paolo V, il pontefice che nel 1609 fece deviare l’antica via consolare Flaminia fin sotto la città, interrom-

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pendo così l’antico tracciato, che, attraversando per alcune miglia un territorio desolato, offriva occasione ai briganti per agguati e rapine. La modifica del tracciato ed i successivi interventi di manutenzione e di ripristino sono cele-brati con epigrafi commemorative (Pulcini, 1974: 231, CICC 71: papa Urbano VIII; 233, CICC 80, p. 233, Innocenzo XII).

22a. Per la descrizione del sito della città e la suddivisione in rioni, vd. Gui-da, p. 45, tuttavia il numero e i nomi dei rioni sono desunti dalla Cronaca: “Divisero parimente la città in quattro rioni, il primo chiamato Massa, perché quivi si congregavono li cittadini, comincia dal capo della città, e stende per trit-to filo da ogni lato alle case de’ Gaij, il secondo il quale ministrando già alli ani-mali bruti erbesti paschi chiede il nome di Prato al rione ed alla piazza, sotto la quale sono antichissime, e fortissime volte comprende le case delli redi di Marco Fantibasso e si termina per tritta linea da ogni parte alle case delli redi di Anto-nio Ciani, il terzo nominato di Mezzo, perché nell’umbilico della città contiene la casa di Placido Florenzolo continuando per quadrangolo sino alla casa di Loren-zo Rosi, il quarto ed ultimo detto di Posterla come la porta pigliando dalle case di Giovanni Angelo ed Orazio Vellula, e di Sebastiano Albanesi rinchiude il resto della cella città, e questi e questi rioni furono partiti in contrade come Piazzarel-la, Castelletto, la Rosa e Panico” (Cronaca, pp. 32-33). Per quanto riguarda i primi due rioni, la spiegazione del Pasquetti differisce (cap. 15, p. 24): “il primo de’ quali venne denominato Rione di Massa, perché sulla piazza di esso erano soliti radunarsi li cittadini per conciliarsi a vicenda nel stabilire le lavorazioni campestre dei giorni della settimana; l’altro fù detto Rione de’Prati, perché sulla piazza di esso ne’ giorni assegnati riunivasi il bestiame di commercio”.

b. L’attribuzione della fontana ad Antonio da Sangallo il vecchio è un’incongruenza cronologica, stante il fatto che il monumento risale al 1585, cioè al pontificato di Gregorio XIII (vd., al riguardo, la nota 27, h).

c. A proposito del borgo alessandrino dalla cronaca apprendiamo che: “Ol-tre a ciò, desiderando il duca (scil.: Valentino) di nobilitar la città volse che li padroni della case buttate a terra per dare ampio sito alla fabbrica della rocca le redificassero a sue spese nel Scasato, la cui nuova strada, ordinò che alla comparazione della reale ed illustre strada che il papa fece nel borgo di Roma dal nome di quella si chiamasse Alessandrina, la quale però non fu perfetta-mente dritta né usata sino agli ultmi anni del governo di Giovanni Salviati […] impetrò ancora il Duca che ogni cardinale e prelato di Roma edificasse un pa-lazzo nel Scassato, quali diceva voleva riempire di più maggiori abitazioni” (Cro-naca, p. 49). In alcuni documenti si distingue tra ‘borgo di sotto’ e ‘borgo di so-pra’. Comunque i confini del borgo sono ben individuati da Del Frate: la chiesa rurale di Santa Susanna e la vecchia stazione della ferrovia Roma-Nord (la pa-lazzina di fronte all’attuale cinema Flaminio).

23a. Sull’acqua fluviale e l’approvvigionamento idrico della città, vd. Guida, p. 45, n. 1, secondo la quale il cunicolo venne scavato sotto il pontificato di Clemente X. Sull’architrave del fontanone, che si trova all’angolo di Piazza del Duomo, compare in rilievo l’iscrizione: Aere publico 1840, cioè “A spese del pubblico erario 1840” (Pulcini, 1974: 251, CICC 115). Sui lavori che furono eseguiti ci informa con puntuale precisione il Tarquini: “I nostri antichi cittadi-ni del secolo passato XVII fecero un lavoro difficile, ed azzardoso. Scavarono un

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altissimo cunicolo da Faleri, fino al ponte di Terrano, lungo almeno cinque chi-lometri, incavato nel masso del tufo, che nella profondità maggiore misura un’altezza di trenta metri. Quivi scorreva a rivo l’acqua potabile, e nel 1841 que-sta acqua potabile fu rinchiusa nel sito istesso in tubi di terra cotta, e sopra scorrendo a rivo l’acqua impura. Traversa in un punto da un monte all’altro per mezzo di diversi archi di materiale ben costruiti; e cammina nelle viscere della terra del monte della Chiusa; passa sopra il ponte di Terrano s’introduce in cit-tà, la prima fa mostra di sé nella Piazza del Comune, la seconda impura nella piazza della Cattedrale, e quindi si suddividono in altre varie piazze, e parti del-la città, e mantengono fabbriche, concie, lavatoie, orti, e famiglie”.

Nella stessa pagina il Tarquini illustra altresì la situazione delle vie princi-pali: “La città era tutta lastricata a mattoni a coltello. Una parte esiste ancora avanti la chiesa di San Giovanni. A mio tempo anche la piazza dei Prati” (2004:48).

b. Una serie di delibere comunali ha come oggetto la costruzione del cimite-ro e la soppressione del convento dei padri cappuccini. Ne estrapolo l’elenco dal saggio del Cordovani (1991:381, nota 16): n. 231 del 9 aprile 1874; n. 341 del 28 aprile 1875; n. 345 del 16 aprile 1875; n. 61 del 23 agosto 1876; n. 32 del 1880 (dove si dice che il cimitero è protetto dalla ‘folta macchia del conven-to dei cappuccini’). Comunque le tumulazioni cominciarono fin dall’anno 1880, anche se nell’archivio del cimitero le registrazioni partono dal 1890 (‘Re-gistro delle tumulazioni nel pubblico cimitero l’anno 1890-1891’, n° 1, Cantoni Antonia, gennaio 1890).

c. Nell’atrio dell’asilo infantile di Via Gramsci sono apposte sulle due pareti, rispettivamente a sinistra e a destra del portone d’ingresso, due piccole lapidi: “L’ingegnere / Angelo Guazzaroni / progettò e diresse” (a sinistra) e “La coope-rativa Cosmati / costruì / MCMXIV – MCMXXI” (a destra).

24. L’esatte coordinate geografiche di Civita Castellana, che ha una super-ficie di 83,83 km2, sono: 42° 30’ 21’’ latitudine nord e 12° 20’ 57’’ longitudine est.

25. Il De Frate avrebbe reso un servizio più utile se, invece di riferire in maniera generica ed inesatta le antiche misure romane, avesse trascritto la tavola delle misure locali in uso sotto il governo pontificio, anche perché in queste ultime è possibile imbattersi consultando atti di compravendita e tran-sazione, registri di amministrazione di confraternite e monasteri, libri delle en-trate e delle uscite ecc., anteriori al 1870.

Per ovviare alla lacuna, riproduco il prospetto pubblicato dal Calindri (1829:504-505):

Divisioni lineari: 1 stajolo locale è palmi 5,314 in estensione, e metri 1,2846754759. Serve per i terreni. // 1 palmo locale è 12 oncie romane, però metri 0,2234218219. Serve per terreni, fabbricati, e legnami. // 1 piede locale è 12 oncie, eguale a oncie 16 di palmo romano, ed a metri

0,2978957625. Serve per fabbriche, e legnami. // 1 canna è 10 palmi, e-guale a metri 2,2342182190. Serve per i terreni.

Divisioni superficiali: Rubbio quadro è 4 quarte, e però stajoli 11.200 qua-dri. // 4 scorzi sono 1 quarta. // 4 quartucci sono 1 scorzo. // 175 stajoli quadri sono 1 quartuccio.

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Divisioni di capacità: 1 soma di vino sono 2 barili, dal peso in tutto di libbre 272; ogni barile è 24 boccali di libbre 5 oncie 8, diviso in 4 fogliette, e questa in 2 mezze. // 1 Soma di olio è libbre 5 oncie 4; 80 boccali sono 1 soma, di libbre 5 oncie 8, ciascuno diviso in 4 fogliette, ed ognuna di queste in 2 mezze, in 114 ed in 118 di foglietta. // 1 rubbio di grano pesa libbre 640; 8 mezze sono 1 rubbio, come lo sono 4 quarte; 4 scorzi sono 1 quarta; 4 qurtuccio so-no 1 scorzo, che si divide pure in 2 mezzi quartucci.

Divisioni dei pesi: 1 libbra è 12 oncie, la quale serve per qualunque peso. Tuttavia ritengo doveroso segnalare che non sussiste piena rispondenza

con la Tavola di ragguaglio dei pesi e delle misure già in uso nella varie provin-cie del Regno al sistema metrico decimale approvato con Decreto Reale 20 mag-gio 1877 n° 3836 (Roma 1877, Stamperia reale, Provincia di Roma, Circonda-rio di Viterbo, pp. 16-22).

26. A parte le esagerate affermazioni circa il numero, l’unico rilievo sulle torri esistenti nel centro storico è quello eseguito da M. L. Agneni (1997:195-206 + tavv. bn), nel quale, in base all’esame tipologico delle strutture, le torri vengono cronologicamente assegnate al XII secolo, datazione supportata da considerazioni sulla tecnica muraria adottata, simile al protoromantico viter-bese.

27a. Un esauriente elenco dei ‘principali cittadini di Civita Castellana’ alla metà dal XVI secolo è riportato dal Pechinoli (Cronaca, pp. 41-42), nel quale già figurano famiglie come i Ciotti, i Petroni, i Fantibassi, i Paradisi, Lepori, ecc.. .

b. La breve iscrizione, incisa sull’architrave dell’ingresso principale, è carat-terizzata da allitterazione e poliptoto Pia patet piis = (domus) pia patet piis (hominibus / papis) (Pulcini, 1974:251, CICC 117): “Molti papi certamente o-norarono con la loro visita questo palazzo, ma tra i più recenti: Pio VI, 15 giu-gno 1782, Pio VII, 3 luglio 1800 e Pio IX, 4 maggio 1857, per cui fu ispirato il motto, inciso sull’architrave della porta d’ingresso” (Cardinali, 1935:80-81). In tal modo il testo viene ad esplicare la doppia funzione di sentenza e di dedica.

Nella porta della Cancelleria figura l’iscrizione: 17 Cancillaria 52 (Pulcini, 1974: 244, CICC 99) nel muro esterno dell’oratorio del Cuore di Maria: Franc(iscus) M(aria) Forlani / Ep(iscop)us an(no) 1785 (Pulcini, 1974:245, CICC 101).

c. Il portale di casa Petti è in Via Don Minzoni, n° 2, ma lo stemma potreb-be appartenere all’estinta famiglia Miccinelli; l’altro di casa Cantini, con lo stemma raffigurante un leone rampante, si trova al n° 6; infine quello con l’emblema dei Coluzzi al numero n° 15 [stemma eraso; nel cartiglio sottostan-te: Sebastia/nus / Colutius (Pulcini, 1974:228, CICC 63)].

L’abitazione Paglia Guglielmi è al n° 31 (Pulcini, 1974:228, CICC 61: De /Guglielmis / Paglia)

Lo stemma (tre stelle, nella metà superiore / banda divisoria / compasso aperto, nella metà inferiore), che sormonta la porticina di via Don Minzoni n° 58, appartiene probabilmente alla antica famiglia Antonisi.

d. L’iscrizione commemorativa è in Via Rosa n. 16, all’altezza del balcone, sul lato destro (Pulcini 1974:250-251, CICC 113): In tempi per loro e per la pa-tria / invasa dalle armi straniere / non lieti /qui ebbero / modesta e cordiale

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ospitalità / 3 e 4 luglio 1800 / Carlo Emanuele IV e Clotilde di Savoia / sovrani esuli di Piemonte.

e. Il maestoso palazzo Ghelmino Grotti forma angolo tra via Roma e via Ga-ribaldi, con il portale principale in quest’ultima, mentre l’abitazione, apparte-nuta al signor Paolo Ciotti e passata poi al Francesco Basili (sigla sullo stem-ma BF), corrisponde al numero civico 38.

f. È la casa natale di un eminente figlio di questa città, il prof. Giuseppe Colasanti (Civita Castellana 1846 - Roma 1903). Conseguì giovanissimo la laurea in medicina e nel 1869 meritò la medaglia d’oro per il concorso in ana-tomia negli ospedali di Roma. Vinta una borsa di studio, intraprese un lungo viaggio di perfezionamento in vari istituti europei, in particolare a Strasburgo il laboratorio chimico-fisiologico di E.F. I. Hoppe-Seyler, a Bonn il laboratorio fisiologico di E.F. Pflugger, a Vienna l’istituto del patologo S. Stricker. Nel 1878 ottenne la libera docenza in fisiologia. Dopo una brillante carriera in vari atenei italiani, nel 1890 venne nominato docente straordinario di farmacologia presso la facoltà di medicina dell’Università di Roma, nel 1897 divenne ordina-rio. Fu tra più apprezzati docenti dell’ateneo romano, membro di numerose accademie e società scientifiche italiane e straniere. Il suo nome restò legato alla fondazione della rivista Archivio di farmacologia sperimentale e scienze af-fini, che iniziò le pubblicazioni nel 1902, solo pochi mesi prima della sua scomparsa. Il Colasanti, che negli ultimi anni aveva sofferto per una malattia cardiaca, si spense a Roma il 2 gennaio 1903 (DBI, XXVI:704-706).

g. Lo stemma della famiglia Panalfuccio è sull’architrave del portale al nu-mero 11 di Via Garibaldi.

h. Vd. cap. 22, p. 36. L’erronea attribuzione della fontana di Piazza Matte-otti a Paolo V, ripetuta nella Guida (p. 45), si ritrova anche in Tarquini (2004:48) e in qualche moderno autore (Morselli, 1988:44): “Una vasta piazza comunale, ed in mezzo una grande fontana semirotonda con quattro draghi che gettano acqua, emblema del costruttore, pontefice Paolo V”. Probabilmente a trarre in inganno Del Frate e gli altri è stato il fatto che pure sull’insegna di papa Borghese compare come emblema un drago. In realtà i quattro stemmi, scolpiti sui fianchi della vasca maggiore appartengono: quello che prospetta il palazzo municipale al card. Filippo Boncompagni, governatore della città, l’altro opposto al pontefice Gregorio XIII; dei due laterali uno è della comunità civitonica, l’altro probabilmente del vescovo diocesano. La costruzione della fontana fu terminata nel 1585, durante il secondo governatorato del cardinale, come inequivocabilmente attesta la lapide dedicatoria, affissa alla base del pa-lazzo Galiani-Miozzi: Philippo Boncompagno ecc…(Pulcini, 1974:223, CICC 51). Le date iniziali dei due mandati sono registrate dai repertori: gubernator 25 -7-1577 et iterum 3-4-1581 [Weber C. (a cura di), Legati e governatori dello Stato Pontificio 1550-1809, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Sussidi 7, 1994, p. 212]. Devono appartenere ad altra fontana, dello stesso papa oppure di Paolo V, i frammenti di due draghi, che sono stati recentemente ricomposti nel giar-dino delle monache clarisse di Civita Castellana.

i. Sia il palazzo Trocchi che l’iscrizione incisa sul portale principale di pa-lazzo Andosilla in Piazza di Massa n° 6 [stemma, Iulius Petro/nius (Pulcini, 1974:228, CICC 63)] rimandano alla nobile famiglia Petroni. Nel secondo caso

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la conferma viene da un’altra iscrizione, riutilizzata in due bozze di bugnato (NIVS; PETRO) appartenenti al paramento del lato che prospetta via santi Marciano e Giovanni, nn. 8-9. A questa famiglia appartenne il celebre medico Alessandro Petroni (primi del 1500 - + 1585), autore di uno notissimo trattato di igiene, De victu Romanorum et de sanitate tuenda libri quinque, edito nel 1573 e dedicato al pontefice Gregorio XIII, con l’aggiunta di Libelli duo de alvo sine medicamentis emollienda. Nel 1592, nemmeno venti anni dopo, l’importante opera fu volgarizzata da Basilio Paravicino da Como. Alessandro Petroni discendeva forse da quell’Alfonso Petroni, gentiluomo senese, che nel settembre 1492 fu preposto da papa Alessandro VI al comando della fortezza, dove nel 1590 troviamo, sempre per ordine del Sacro Collegio, un suo nipote, il capitano Simeone Petroni. Alessandro fu medico e filosofo di chiarissima fa-ma, che solo pochi al suo tempo riuscirono ad eguagliare. Secondo alcuni stu-diosi avrebbe medicato e guarito anche sant’Ignazio di Loyola “ridotto all’estremo per l’imperizia di un medicastro, per cui contrasse col santo una grandissima familiarità”. Tra le opere minori si annoverano: Proposita seu a-phorismi medicinales, Venezia 1535; De morbo gallico, Venezia 1566; De aqua tiberina ad Julium III Pont. Max., Roma 1552; Dialogus de re medica ad Chri-stophorum Madrutium principem tridentinum, Roma 1561.

l. L’ex abitazione Gori si trova in Via delle Palme n° 7.

m. Nel palazzo Andosilla, sullo scalone interno, è posta una lapide a ricordo dell’accoglienza, riservata a Pio VI nel febbraio 1782, mentre era in viaggio per Vienna, presso la corte dell’imperatore Francesco II, per regolare questioni ine-renti ai rapporti tra stato e chiesa. Di ritorno a Roma il 16 giugno dello stesso anno, il pontefice sostò di nuovo a Civita, ospite del vescovo Francesco Maria Forlani (Pulcini, 1974:246, CICC 107; 246, CICC 107).

n. Il palazzotto medievale di Via Vinciolino, che prospettava l’edificio scola-stico e che fu adibito a carcere (le famose ‘Carcerette’), fu abbattuto, durante uno dei mandati sindacali dell’on. Enrico Minio, per ampliare il giardino dell’asilo e far spazio al servizio di nettezza urbana. Lo stemma dei Petroni in quella circostanza fu trafugato.

o. Il monogramma bernardiniano con la sigla IHS, in genere sormontato da croce, entro nembo irraggiante si trova nel portale dell’ex albergo Aquila Nera in piazza Matteotti, n. 25 (Pulcini, 1974:227, CICC 60: Ihs /1497/ FNRIT).

p. La figura del sagittario incisa su un’irregolare lastra di marmo, non si trova in Via delle Palme, bensì sul muro esterno dell’abitazione sita in Via del-la Corsica nn. 31-33. E forse rappresenta lo stemma della famiglia Ciotti.

q. Lo splendido clipeo con il bassorilievo raffigurante il pavone era murato all’esterno della abitazione sita in Via del Castelletto n. 5. Fu trafugato intorno tra gli anni 1970-1980, durante un intervento di ristrutturazione.

r. Il motto augurale (l’albero fruttifero allude alla fecondità della famiglia o della stirpe) è inciso su una piccola targhetta marmorea che sormonta il porta-le, in via delle Palme, n° 31: Felix planta / maiora pira / feras (Pulcini, 1974:228, CICC 66).

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s. Oratio / Antona / 1633 / a (CICC 73, p. 231) Piazza Quintana, n° 2. Un’altra iscrizione relativa al proprietario del palazzo con lo stemma è in Via Panico, n° 26: Franci(sc)us / Spenditori/us.

t. A memoria dell’eroico patriota della repubblica romana (1848-49), sul balcone del numero civico 23, dal quale egli rivolse un appello ai cittadini, è apposta la lapide: Qui / Ugo Bassi / parlò / nell’aprile 1848’ (Pulcini, 1974:253, CICC 120).

u. Si tratta di una fontana ‘pellegrina’: il monumento dalle essenziali ed e-leganti linee barocche, dopo il restauro del 1730, sotto il governatorato dell’abbate Vespasiano Lalli, nobile romano, fu trasferito dal suo sito origina-rio (corso Bruno Buozzi, facciata dell’ex-palazzo della Pretura, cioè gli uffici comunali della anagrafe - stato civile ecc.), in via Vincenzo Ferretti, di fronte all’Ospedale Vecchio, e finalmente all’imbocco di via XII Settembre, in prossi-mità del ponte Clementino, dove è stata addossata alla parete sottostante il giardino dell’ex seminario diocesano (Pulcini, 1974:246, CICC 105).

v. Guida, p. 45, nota 3. Quasi tutte le vecchie pubblicazioni riguardanti Ci-vita Castellana riportano le due epigrafi che ornavano il Palazzo comunale, anche se la Cronaca cita soltanto la prima, cioè quella che esalta la munificen-za del pontefice Leone X: “Ma tra le grazie che risultarono a perpetuo ornamento della città fu il donativo, che le fece il papa in denari contanti, acciò si fenisse il palazzo publico che allora s’era principiato per la continoa residenza delli con-servatori. Onde ad eterna memoria di questo beneficio meritò per deliberazione del gratissimo popolo, che si scrivesse con solenne carattere in lettere maiuscole nel fronte del palazzo Leonis X Pont. Max. in Veios Liberalitate” (Cronaca, pp. 57-58; Pulcini, 1974:222, CICC 50); nell’altra si riafferma che la moderna Civi-ta Castellana sorge sullo stesso sito dell’antica Veio: Qui steterant Veios nunc renovare licet (vd. Veio Difeso, p. 18).

z. Il piedistallo in marmo bianco ha modanature assai consunte e specchio anepigrafe. Assieme ad altro materiale è stato riutilizzato per ridurre d’ampiezza l’ingresso della bottega in piazza Matteotti n° 21. Basandosi sulle poche logore lettere, il Gamurrini propose la seguente integrazione: GENIO POPVLI (Carta archeologica, 1972:239). Qualche anno fa, dopo la rimozione dello strato d’intonaco che ricopriva l’architrave in travertino, è venuta alla lu-ce un’iscrizione rinascimentale, mancante dell’incipit: [Utilitat]i (?) . e(t) . patrie . ornamento.

28. La lunga iscrizione, che commemora l’ispezione fatta nel 1597 dal pon-tefice Clementi VIII alle opere realizzate sul Tevere, tra le quali il Ponte Felice, è immurata nel pronao della cattedrale (Pulcini, 1974:225-226, CICC 56). Nel-la trascrizione di Del Frate intervengono errori sia nel testo che nella traduzio-ne: interea cum summa benignitate i (!) patritriosque(!) riti (!) et recte vivendum = ‘frattanto con somma benignità i patrizi bene e relativamente (!) vivere esortò’ > interea cum summa benignitate […] patritiosq(ue) ad rite et recte vivendum adhortatus ‘ = ‘frattanto con somma benignità […] esortò i patrizi a vivere con decoro e rettitudine’.

29a. L’origine falisca di Grazio, poeta minore dell’età augustea, è controver-sa. Al riguardo Ettore Paratore, uno dei maggiori latinisti moderni, scrive:

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“Sono da ricordare inoltre […] l’opera di Grattio, autore di un poemetto sulla caccia Cynegeticon, di cui ci sono pervenuti 541 esametri; non è neanche si-curo che l’opera constasse di un solo libro. Il frammento che possediamo fu scoperto ni Francia dal Sannazaro nel medesimo codice Vindobonensis che ci ha tramandato il frammento degli Halieutica ovidiani. Nell’epistola sedicesima del L. IV delle Epistulae ex Ponto Ovidio ricorda questo modesto e grigio poeta, cui è stato affibbiato il cognomen Faliscus, perché nel v. 40 del suo frammento egli chiama nostri i Falisci, e lo si è ritenuto perciò originario del territorio di Falerii. Del resto non possiamo farci un’idea esatta delle capacità di questo poeta, perché il frammento verte sulla parte più arida della trattazione, le rami e gli arnesi della caccia. Sembra che il suo intento sia stato di integrare una alcuna delle georgiche, ove ai cani e alla caccia erano dedicati solo alcuni cen-ni sporadici” (Storia della letteratura latina, Firenze 19612, Sansoni, p. 514. Per la bibliografia su Grazio, vd. Idem, La letteratura latina dell’età imperiale, Firenze 1969, Sansoni Accademia, p. 461).

La menzione di Grazio Falisco ci offre l’opportunità di accennare ad altri poeti dell’età degli Antonini: “Sullo scorcio del secolo (II secolo) fioriscono al-cuni poeti che si soglion chiamare poetae novelli, in base al termine novellus che il metrologo in versi Terenziano Mauro adoperava per loro. Recentemente si è voluto considerare quella dei cosiddetti poetae novelli una vera e propria scuola, residente nell’Agro Falisco […]. Il caposcuola di quest’indirizzo lo si vuol ravvisare in Anniano Falisco, nato agli inizi del secolo, amico di Gellio; nella sua produzione si son voluti distinguere i Fescennini dai Falisca, e la sua poesia, benché ce ne siano rimasti solo cinque versi, è stata giudicata come quella dei poeti successivi, improntata a un carattere schiettamente italico e popolaresco, con più tipica coloritura etrusco, anche per l’uso del cosiddetto metro falisco. Accanto a lui è da ricordare Settimio Sereno, che prima si rite-neva contemporaneo di Stazio; fu autore di opuscula ruralia, da cui si vogliono distinguere i docta Falisca. Di lui ci son rimasti una trentina di frammenti, di vario argomento (georgico, erotico, mitologico). Con questi due poeti si possono raggruppare Alfio Avito, autore degli Excellentes (scil. viri) in parecchi libri, medaglioni di illustri personaggi della storia di Roma, ma scritti nel popolare dimeter perpes, dei quali ci sono rimasti tre frammenti; Mariano, autore dei Lupercalia, di cui ci è rimasto solo un frammento, e che illustravano i riti con-nessi con quella festa; Giulio Paolo, che sembra essere stato acnhe un gram-matico” (Paratore, 1961:795-796).

31. Ce ne dà notizia il solito Pechinoli (Cronaca, p. 33) “ed acciò i cittadini ed i forestieri partecipassero scambievolmente delle fortune e delli commerci pu-blicorono la fiera franca, la quale cominciando alli 25 d’ottobre […] durava fre-quentissima per tutti il dì 11 di novembre concorrendo infenita moltitudine di popoli vicini”. Il cronista, in altra parte, accenna al ridimensionamento che manifestazione subì a casua dellla concomitanza di altre due importantissime e frequentatissime fiere (Cronaca, p. 59): “a questo danno s’angiunse il svia-mento della fiera causato per due nuove fiere, che due volte l’anno per ciascuna furono aperte in Viterbo, e da Farfa, dove li popoli concorrevano”.

32a. La composizione del Governo cittadino, l’organizzazione dei Consigli, le magistrature cittadine, la durata di permanenza in carica, gli ufficiali, le loro

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funzioni ed incombenze, il loro salario, sono desunti dal L. I degli statuti co-munali, intitolato appunto Degli Offici.

b. Del medico e del maestro di scuola si parla in due rubriche consecutive nel Libro di Riformanze (Ordine del medico, Ordine del mastro di scuola, carta 90v).

c. Del Frate descrive ‘l’abito di prammatica’ che il gonfaloniere, massima magistratura del Comune, indossava nelle cerimonie ufficiali: “il robbone di seta nero, con tocco e fascia d’oro”. Non molto dissimile era quello dei conser-vatori che ci descrive il Pechinoli (Cronaca, p. 38):

“che l’abito loro fosse negro e la cappa longa fino a’ talloni”. Difformi e più dettagliate sono le disposizioni contenute nello statuto (Libro di Riformanze, Ordine del vestimento di detti signori conservatori, carta 87v): “Item acciò l’officio sia onorato, e più ornato a maggior decoro, e civilità statuimo, e refor-mamo che chiasche conservatore debbia portare ma(n)tello negro monachino, o paonazzo di recipiente panno, di valore almeno di ducati cinque, e longo almeno fino a mezza gamba, senza scapolare, durante il suo officio, e similmente un ve-stito bono, o saio di detto colore longo almeno fino al ginocchio, e bone calze, e beretta di valore almeno di cinque altri ducati, in modo che per il suo vestire non computato lo giuppone, e camiscia spenda ducati dieci.”

33a. Nell’elenco dei pontefici e nella cronologia sono state apportate alcune rettifiche, rispetto a quanto scritto da Del Frate: Paolo VI > Paolo IV e Pio V 1556 > Pio V 1566. Lo statuto a stampa del 1566 nelle prime carte riporta, ol-tre al proemio (carta 4r), i brevi di approvazione di Paolo III (carta 2r-v: 20 gennaio 1535) e di Pio V (carta 3r-v: 30 marzo 1566). In quest’ultimo viene in-dicato come governatore della città il cardinale Francesco Pisani, vescovo o-stiense, il cui stemma è stampato sotto quello pontificio, a fianco di quello del-la comunità (carta 1r). L’atto di papa Pio V è molto importante, non solo per-ché accenna alle approvazioni dei suoi predecessori Calisto III, Eugenio IV, Pio II, Innocenzo VIII, ma anche perché rammenta i privilegi concessi da altri pon-tefici come Giulio III, Paolo IV e Pio III. Ulteriori elementi cronologici sono rica-vabili dallo stesso testo statutario: la lettera sui danni dati inviata da parte di Rodrigo Borgia al Consiglio generale in data 20 maggio 1489 e l’altra sul ma-cello del 23 novembre 1507 da parte del cardinale di San Giorgio.

b Vengono riportati unicamente i rubricari, cioè le tavole contenenti i titoli dei capitoli, che compongono i singoli libri degli statuti. In diverse parti della Guida (vd., in particolare, pp. 55-57) Del Frate cita la data del 1380; a p. 21 asserisce che durante il pontificato di Urbano VI la popolazione di Civita Ca-stellana incominciò a sentire il bisogno di nuove leggi, atte a regolare i diritti dei cittadini; e che queste leggi, composte nel 1380 in un solo corpo, formaro-no lo statuto.

La data è stata desunta dal Pechinoli: “circa l’anni del signore 1380 […] sta-tuirono le ragioni municipali distinte in sei volumi cioè Offizj Civili Malifizij, Dan-ni dati, Straordinarij, e Pedagij, all’osservanza delle quali si obbligarono tutti con sacramento e scrissero in lingua volgare, acciocché esendo meglio intese, e l’osservatori e li trasgressori di esse sapessero il premio e la pena, che avevano da conseguire, o patire, servandole, o prevaricandole” (pp. 33-34). Il cronista conferma che vi fu una revisione anche sotto il pontificato di Eugenio IV: “e

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diede piena facoltà a cittadini che per felice direzione del nuovo governo faces-sero ogni riformazione o nuova costituzione, che più avessero giudicata necessa-ria”. (Cronaca, p. 41). Più oltre aggiunge (Cronaca, p. 44): “Ma il successore di Paolo papa IV chiamando per un suo breve a Tivoli, dove egli si ritrovava, due più esperti cittadini furono eletti a ciò da Giovanni Fantibasso dottore di leggi, e Giacomo Panalfuzio, che poi fu creato cardinale, laureato non per denari, non per favori, ma per li suoi meriti, volle che si riformassero li statuti”.

En passant accenna pure allo statuto a stampa: “s’attese poi con autorità del consiglio e con intervento d’uomini periti a riformare li statuto nella forma, che oggi si vede impressa ultimamente per diligenza d’Antonio Politi e di Messer Jacopo Pelletronis conservatori” (Cronaca, p. 85).

In effetti il testo, che oggi noi possediamo, è quello dell’edizione a stampa del 1566 (in Roma appresso gli eredi di Valerio et Luigi Dorici fratelli), la cui stesura in volgare si deve retrodatare all’ultimo quarto del sec. XV (precisa-mente 1471-1484), come si evince dal proemio, oltre che dall’esame paleogra-fico di due frammenti manoscritti, riutilizzati come rinforzo nei dorsi dei volu-mi contenenti gli atti rogati da alcuni notai: “quali statuti furono prima ordinati, reformati, et moderati dalli prudenti huomeni cioè messer Giovanni Panalfuccio cavaliero, messer Alessandro Petronio dottor di leggi e messer Giovanni di ser Lorenzo similmente giurisperito sedendo Sisto (felice recordatione) papa IIII et RodoricoBorgia (bona memoria) detta città governando”.

In realtà la formazione degli statuti cittadini presenta un processo più lun-go e complesso, che si può anticipare, sulla scorta dei documenti disponibili, ai secoli XII-XIII. Sappiamo che nel maggio 1199 la comunità di Civita Castel-lana mandò due propri rappresentanti, P(etrus) Quintavall(e) de Conversano e il m(agister) Aldebr(andus), presso papa Innocenzo III ad implorare la revoca dell’interdetto, lanciato sulla città, per aver scelto come rettore, senza il con-senso pontificio, B. de Fordevolia (Ed. Baluze I, 383). Nel dicembre dello stesso anno il pontefice acconsentiva che fosse nominato a rettore un I. dei Prefetti (Ed. Baluze, I, 508). In linea generale, come desumiamo dall’ormai vecchio, ma solido saggio dell’Ermini: “Ai comuni che tornano alla chiesa sulla fine del XII secolo Innocenzo III e i suoi legati riconoscono senza eccezione, siano essi grandi o piccoli, il loro bonus status secondo gli statuti approvati e le bonae consuetudines communiter observatae, riconoscimento questo di quell’autonomia che si erano riusciti a conquistare a prezzo di lotte e di san-gue dall’impero e dai feudatari” (Ermini, 1926:95). Infatti, quando nel 1229 prende la cittadina sotto la sua protezione, Gregorio IX le concede lo ius sibi eligendi potestatem (Theiner, Cod. Dipl., I, doc. CIII), oltre al privilegio di eleg-gere gli statutati per redigere le costituzioni comunali e gli statuti, come già avevano ottenuto altre città del Patrimonio. Nel 1252, con un diploma inviato da Perugia al podestà, ai consiglieri e al Comune di Civita Castellana, papa Innocenzo IV approva gli statuti comunali: “Eapropter […] vestris iustis postu-lationibus grato concurrentes assensu, universa statuta civitatis vestrae a vobis in ea legitime condita auctoritate apostolica confirmamus”. Ma deve trattarsi di una delle tante conferme pontificie, perché sappiamo con sicurezza che già prima di tale data la città aveva un podestà e un consiglio: nella ‘relazione dell’invenzione del 1230’ (Mastrocola 1964:257, appendice V, 3), il vescovo Pie-tro effettua la ricognizione delle reliquie dei santi Marciano e Giovanni alla presenza delle autorità cittadine “necnon Matthaeo vicecomite Civitatis per do-

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minum Matthaeum Rubeum (scilicet: Orsini) potestatem, consiliariisque pluribus huius urbis”. Anche successivamente si trovano testimonianze analoghe: nell’epistola, con la quale nel 1323 il pontefice Giovanni XXII da Avignone e-sorta alcuni comuni e signori del Patrimonio ad aiutare gli ufficiali nella guer-ra contro i ribelli, tra gli altri si rivolge “Dil(ectis) filiis… potestati… consilio et communi Civitatis Castellane. Dil(ecto) filio nobili viro domino Paulo domini Petri de Quintavalle de civitate predicta”.

Non solo dal proemio dello statuto, ma anche dall’analisi interna si argui-sce che il testo fu sottoposto ad aggiornamenti e revisioni. È sufficiente citare solo due casi. Il libro primo degli Offici (cap. 2, carte 1r-3r) contiene il solenne giuramento che il Podestà subentrante presta coram populo, al momento di assumere il nuovo incarico, sulla scalinata della chiesa di san Francesco in Piazza di Prato.Verso la fine (carta 2v), dopo essersi impegnato ad adempiere a numerosi altri obblighi, aggiunge: “Iuro a(n)chora la strada dello borgo della Città predetta con tutte mie forze difendere, e la strada delli Scardafogli, e iusta mia possa estirpare e la detta strada delli Scardafogli e tutti confini dello territo-rio d’essa città de tre mesi in tre mesi personalmente a vedere, e richiedere an-darò…”. In questo caso il testo recepisce il documento del 1292, con il quale papa Nicolò III concede ai civitonici di deviare il percorso della via Flaminia sul ponte costruito di recente sul fiume Treia, per evitare in tal modo il tratto infe-stato da pericolosi briganti: “ex parte vestra fuit expositum coram nobis quod in territorio vestro per silvam videlicet que vulgariter dicitur Scardafolli, antiqua via seu strata communis habetur [scilicet: tratto della Flaminia compreso tra Pon-zano cave e Borghetto], in qua, propter loci solitudinem, nonnulli qui in rebus pessimis gloriantur plerumque insidiantur viatoribus per tandem et opportunita-te captata insiliunt eosque spoliant ed occidunt”. A questa autorizzazione fa se-guito l’impegno sottoscritto, a nome della comunità, dal procuratore e sindaco della città a non esigere alcun pedaggio né da parte dei cittadini né da parte di qualsivoglia viandante.

Durante la cattività avignonese, nella periodica relazione, che il legato pon-tificio trasmette alla corte papale, viene descritta brevemente la situazione amministrativa e tributaria dei signoli centri del Patrimonio (anni 1319-1320). Riguardo alla nostra città si registra: Civitas Castellana. Civitas ista modica est, et respondet in omnibus predictis, set multum gravatur a Romanis in iuri-sdictione et aliis oneribus (Breccola 2000:16, V). Si coglie un chiaro riferimento alla politica di espansione messa in atto dal comune di Roma nei primi decen-ni del XIV secolo, profittando del trasferimento del papa ad Avignone: con la forza delle armi il Campidoglio cerca di imporre il proprio dominio sui centri minori del Lazio (cfr. i casi di Magliano Sabino e di Toscanella). Allora si com-prende per quale motivo la comunità, una volta liberatasi dal vessatorio giogo di Roma e dalla signoria delle potenti famiglie feudali, abbia voluto inserire nello statuto un ferreo divieto (L. I, cap. 22, Rubrica del giuramento delli signori conservatori, carta 10v): “Inhibimo per la presente legge perpetuo valitura, (e) ordinamo che nullo co(n)servitore ardisca né presuma proporre né far proporre, che si elegga ad detto officio del potestà alcuno potestà romano, overo abita(n)te in Roma, né a(n)cho alcuno co(n)siglieri né a(n)cho chi in co(n)seglio si trovasse, questo presuma né ardisca co(n)sigliare, e se lo co(n)trario facessero incorrano subito in pena cischuno d’essi di ce(n)to scudi d’oro, confiscatione della metà della robba loro, e p(er)petuo ba(n)do de detta città. Ancho no(n) debbiano

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a(m)mettere per officiale di detto potestà niuno cittadino romano, o abita(n)te in Roma alla pena predetta”.

34. I dati sui divertimenti antichi sono desunti dallo statuto comunale del 1566, precisamente: il palio (L. I, cap. 40, Rubrica del palio, e balestra da cor-rere, f. 21 v), la corsa dei barbari (L. VI, Ordine del palio, f. 90 v), la corsa della balestra (L. I, cap. 40, f. 21 v), la corsa de mammoletti (L.I, cap. 40, f. 22v), il tiro al bersaglio con la balestra (L. I, cap. 40, f. 22r), la corsa dell’anello (L. I, cap. 40, f. 22r), la corsa degli asini (L. I, cap. 40, f. 22 r), la corsa col fantino (L. I, cap. 40, f. 22r).

Per quanto riguarda la giostra, alla quale Del Frate accenna anche in Guida (pp. 68-69), utilizzando le medesime parole del Moroni (vol. XIII, p. 289, col. 2, s.v. Civita Castellana), occorre ricordare che fu riesumata, con modalità diver-se per limitarne la pericolosità, nelle feste patronali del 1891.

Ecco come la descrive l’articolo apparso in ‘Il Rinnovamento’ (VI, n° 262, 4 ot. 1891, p. 3): “Tra i divertimenti annunziati per le feste di settembre quest’anno avemmo la giostra una novità perché fin dal 1848 non se ne dava-no più. Grande era l’aspettativa della nostra popolazione e quella dei paesi li-mitrofi per assistere a questo barbaro ed antico divertimento che ci ricorda i tempi medioevali. Nel piazzale di S. Giorgio venne costrutto lo steccato con for-ti palizzate pr prevenire ogni slancio pericoloso delle bestie. Festoni, insegne, e bandiere ornavano lo steccato. Il giorno 18 del corrente mese [scilicet: settem-bre n.d.r.], prima dlel’ora stabilita la folla erasi riversata nel recinto per pren-dere i primi posti, malgrado il sole tropicale. [….] Il popolo salutò con un frago-roso applauso l’entrata dei giostratori preceduti dai butteri. Uno squillo di tromba dette il segnale d’incominciare la giostra. Questa fu un’imitazione delel giostre spagnole, di lotta tra uomini e bestie vaccine e bufali. I giostratori for-tunatamente se la cavarono bene, perché non si ebbe a deplorare nessuna di-sgrazia. Più volte, dopo giostrate, vennero gettate a terra alcune vaccine, e ciò si può dire che fu il più divertente della giostra. Anche le bufale vennero gio-strate moderatamente, perché tra queste ve ne era una che diceva per davve-ro; però se la prese con un fantoccio vestito di rosso che dopo ripetute testate si ruppe. I giostratori mostrarono una certa abilità e coraggio e vennero più volte applauditi. Lo spettacolo si chiuse tranquillamente e senza nessun inci-dente”.

35. L’esistenza dei mulini idraulici lungo i corsi d’acqua che lambiscono la rupe di Civita Castellana è attestata fin dall’Alto medioevo, precisamente nella charta lapidaria del vescovo Leone (VIII sec.): clusura pomata in Tampiana sub balneum, / cum mola et ortum q(uae) p(onuntur) ad funtes, omnia in integr(um) (Cimarra et alii, 2002:56-60, n° 10, rr. 11-12).

L’attività molitoria è perdurata per secoli fino all’età moderna (la ‘mola di Biscotto’, l’ultimo mulino idraulico, cessa di macinare nell’anno 1962): il Pe-chinoli (metà del XVI secolo) parla della costruzione di nuovi (forse soltanto riattati) impianti lungo Treia (Cronaca p. 34 e pp. 93-95): “fondarono per la Treja tre molini per macinar grano, e dove pare loro bisogno per servizio delli uomini e delli giumenti spianarono, e lastricarono strade e fecero ponti”; il Tar-quini, a sua volta, ci ragguaglia su quelli funzionanti al suo tempo (seconda metà del XIX sec.) sia lungo il Treia: “Esistono per ora cinque macine a grano, che lavorano continuamente alla distesa, già descritte. Queste danno il lavorìo a

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circa venti famiglie mugnaie. Servono per la città, e molte popolazioni limitrofe e più alla Sabina”; sia lungo il Rio Maggiore: “serve alle mole a grano dette da Capo, e delle concie, quindi alle altre due di Porta Posterla, ed altra ad olio, e concimi” e “Ivi il ponte in parte distrutto dall’alluvione del 29 ottobre 1861 ove esistevano due macine a grano spettanti al nostro Municipio, ed altre a colori per macinare vernice alle fabbriche di terraglia” (2004:47, 70). Una traccia di questi ultimi è rimasta nell’odonimo ‘Via delle mole’, tra via XII Settembre (a metà salita) e Via delle rupi.

36a. La chiesetta suburbana della Madonna delle Piagge si trova ai piedi della rupe, su cui sorge la città, in prossimità della strada che discende tor-tuosamente nella valle di Rio Filetto

e che nei secoli passati si dipartiva dall’antica Porta Lanciana. L’edificio, che ne sostituisce uno più antico, è a navata unica con campaniletto a vela nella zona absidale. La facciata, nella sua semplificata e dimessa linearità, si rifà alla tipologia delle chiese rurali del sec. XVII.

b. La Madonna della Rosa è una modesta cappella suburbana, già menzio-nata nella Cronaca del Pechinoli. Si trova su un percorso antico, che fiancheg-gia la fortezza del Sangallo nel lato settentrionale e, dopo aver attraversato la porta borgiana, si immette nel centro abitato. La porzione di bassorilievo a motivi vegetali, immurata sullo spigolo destro della facciata, rimanda ad un’origine altomedievale. La parete di fondo è decorata con affreschi del XVII secolo raffiguanti i santi patroni Marciano e Giovanni e san Filippo Neri.

c. La chiesa rurale di Santa Susanna con annessi locali di pertinenza del primitivo convento si trova alla sommità di un diverticolo, che si diparte a si-nistra della Flaminia proprio di fronte al colle Lombrica. Sull’edificio, sulla sua tipologia, sulla sua planimetria originaria ad aula unica e le successive tra-sformazioni, vd. Rossi 1987:41-46.

37a. Non è agevole stabilire l’esatta cronologia sulla presenza dei france-scani nel nostro territorio, per le palesi discordanze che si rilevano tra gli stes-si cronisti dell’ordine. Per tracciare un quadro meno impreciso, occorrerebbe uno studio critico, attento a comparare e riordinare tutte le fonti disponibili. Sull’insediamento dei frati minori nel convento di Santa Susanna, vd. Pechi-noli:

“eglino a spese pubbliche ebbero edificato lontano dalla città circa un miglio, la chiesa di S. Susanna insieme al monastero per abitazione dei frati minori li quali secondo la nuova regola data loro da S. Bernardino portavano come oggi li zoccoli” (Cronaca, p. 43).

b. Il nostro cronista si sofferma più a lungo sull’erezione del monastero di Santa Chiara e degli sforzi sostenuti dalla comunità, per accogliere un gruppo di monache (Cronaca, pp. 85-86): “nell’anno 1548 del mese di settembre si die-de felicemente ad abitare da le sacre vergini il nuovo monasterio di S. Maria del-le Grazie dell’ordine di S. Cosmato di Roma Filippa da Città di Castello, Placida di Sermoneta, Agnese ed Angiola Petronie nostre cittadine ed espertissime mo-nache, acciò insegnassero a le nostre novizie la legge del Signore”. I dati con-cordano sostanzialmente con quelli che ho tratto dall’Archivio delle monache clarisse di Civita: “L’anno del Sig(no)re i 9 luglio fu fondato il monastero di S. Maria delle Grazie di C(ivita) Castellana del ordine di S. Chiara reformate. Laus

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Deo. Le prime monache che entrano nel nostro monastero di S. Maria delle Gra-zie del ordine di S. Chiara reformate in Civita Castellana. In prima suor Agnesia da Civita Castellana, suor Placida e suor Felippa di Città di Castello, suor Lodo-vica da Sermoneta e suor Angela romana, quale monache vennero da Roma dal Monastero di San Cosimato per fondare detto monasterio e la loro entrata fu di mercordì su hora de pranzo e fu fatta procesionalmente trovandovesi presente il reverend(issi)mo padre generale de’ frati zoccolanti” [Libro delle defunte e delle entrate in monastero, p. 1]. Nell’anno 1729 nel medesimo monastero, che era di stretta osservanza, vivevano 25 monache professe, 5 converse, 6 educande. Per risolvere le difficoltà di carattere amministrativo, dovute alle insufficienti risorse di cui il monastero disponeva, il vescovo istituì una speciale commis-sione di cinque uomini discreti (Status ecclesiae Civitatis Castellanae descrip-tus a venerabili servo Dei Iohanne Francisco Tenderini in relatione ad sacra li-mina pro utraque dioecesi de anno 1729).

c. La Cronaca allude al trasferimento dei Cappuccini da Roma al convento di S. Susanna, dove subentrarono ai Minori conventuali, che l’avevano abban-donato ‘sotto il pretesto di cattivo aere’. Su questi ultimi il cronista formula un duro giudizio, a causa della condotta non proprio irreprensibile, che essi me-navano, e della decisione, che alla fine presero, di abbandonare la città, al contrario dedica ai frati cappuccini parole di profondo rispetto: “la città tollerò con minor dispiacere la partita de’ Zoccolanti per la sperata consolazione, che riceve ogni giorno dall’angelica ed umile vita de’ Cappuccini, soddisfatti tanto della città e del luogo che a guisa di ospitalarj con le limosine che sopravengono al loro vitto, notriscono li confrati, che da diversi monasteri per infermità o per altro accidente passono da S. Susanna” (Cronaca, p. 119). Secondo il Cordova-ni (1991:375-376), negli annali manoscritti dei cappuccini (Roma, Via Vittorio Veneto) si legge che in Civita Castellana vi furono tre conventi dell’ordine: 1534, 1577, 1636, costruiti sempre per interessamento del vescovo e della cit-tà. Dunque dal primo sito anche i cappuccini dovettero ben presto allontanar-si: nel 1577 li accolse il convento costruito ex novo in contrada Nottiano (zona dell’attuale cimitero cittadino) ‘in cima ad un colle tra cerqueti’. Ed ancora, il papa Urbano VIII, con lettera dell’11 giugno 1636, indirizzata a padre Michele da Bergamo, architetto pontificio, autorizzava la demolizione del vecchio con-vento per costruirne uno nuovo dedicato a san Lorenzo martire (Cordovani, 1991:376:378). Nella visita ad limina del vescovo Tenderini si dice che “esisto-no parimenti due conventi di regolari, uno dei Padri Cappuccini fuori della cit-tà, l’altro all’interno, dei Minori Conventuali di san Francesco, una volta sop-presso, presentemente sottoposto alla giurisdizione dell’ordinario, dato che vi dimorano appena tre o quattro sacerdoti”. Alla fine del ‘700 un viaggiatore te-desco a proposito del sito osserva con una certa ironia: “I Cappuccini, per l’edificazione del proprio convento all’esterno della città, hanno scelto uno dei luoghi più deliziosi. La loro chiesa campeggia su di un ampio, meraviglioso bo-schetto, simile alla dimora di un principe” [W. Heinse, poeta tedesco (1749-1803), Sümmtliche Werke. Bd 7: Tagebücher I Von den Italiänischen Reise 1780-1783, Hrsg von Carl Schüddekopf, Leipzig 1909, Insel, pp. 91-100]. Una prima sintesi storica sui conventi dei cappuccini a Civita Castellana è tratteg-giata da Cordovani (1991:375-386), il quale, in chiusura del saggio (pp. 395-396), riporta l’elenco dei padri guardiani dall’anno 1596 al 1878.

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38a. Nella descrizione delle chiese Del Frate si attiene sostanzialmente a quanto già scritto dal Pechinoli (Cronaca, pp.30-32).

b. È possibile che la chiesa San Benedetto sia sorta sulle rovine di un edifi-cio sacro più antico: “l’altra parrocchiale dicono al Benedetto da Norcia, o per riverenza del proprio stato, la cui recolenda memoria, era in quei tempi ancora fresca, o forse in cambio della rovinata chiesa di S. Paolo, che era di quell’ordine” (Cronaca, p. 32). Qualche pagina prima il cronista accenna che la “chiesa di S. Paolo, che pure è rovinata, si ufficiava dalli monachi di S. Paolo di Roma dell’ordine di S. Benedetto” (Cronaca, p. 30). Sorgeva a pochi metri di di-stanza dalla chiesa di san Giovanni, dalla quale la divide Via Ferretti. Il suo impianto è tuttora riconoscibile: la facciata e il campaniletto a vela prospetta-no largo don Francesco Jannoni, il corpo della chiesa è costituito dalla casa parrocchiale, all’interno della quale si può individuare anche la parte absidale. Fu trasformata in abitazione dal vescovo Ercolani intorno al 1844 (Ciarrocchi, 1995:15, nota 12).

c. La chiesa ha origini antiche, se viene menzionata negli atti della prima invenzione dei corpi dei santi Marciano e Giovanni (intorno all’anno 1000). Del complesso, oggi del tutto abbandonato, adibito a ricovero per animali, rimane un’ampia cavità naturale di mt. 63 (Raspi Serra, 1976:64, fig. 30).

d. L’identificazione di S. Maria dell’Arco con l’antica cattedrale risale al Pe-chinoli: “si abbitava in quel tempo nella parte inferiore della città, dove la chiesa di S. Maria dell’Arco, detta così dall’arco per il quale si passava, serviva per cat-tedrale” (Cronaca, p. 30).

e. Il Pechinoli tramanda che “S. Sebastiano e la Madonna delle Grazie furo-no edificate per voto pubblico a tempi più recenti” (Cronaca, p. 30). Più precisa l’indicazione del Mazzocchi (Veio Difeso, p. 35), secondo il quale la chiesa sor-geva sì in prossimità della forra, ma nella parte opposta del pianoro: “[di cuni-coli] se ne vedono però molti pezzi circa le ripe, come appresso la chiesa di San Sebastiano, verso le Piaggie, sopra il Borgo”.

f. La piccola chiesa o, piuttosto, cappella, ridotta a civile abitazione si trova in Via San Giacomo (civitonico: Sa-gnachéllo), nel lato del palazzo rinascimen-tale Montalto-Belei. All’interno è ancora conservato un affresco del santo apo-stolo. L’edificio è tuttavia riconoscibile, perché la facciata è abbellita da un fre-gio altomedievale ascrivile al IX secolo, cioè una treccia a tre bande bisolcata incorniciata da un bordo liscio aggettante (Raspi Serra, 1974:96, n° 103, tav. LXV, fig. 119), aldisopra della quale è affisso lo stemma della Commenda di Santo Spirito: “sotto il medesimo governo s’intitolò una piccola chiesa a San Gi-rolamo, che oggi è serrata, ed un’altra a S. Giacomo maggiore che è commenda dell’Archiospedale di S. Spirito in Sassia di Roma” (Cronaca, p. 32).

g. Nella piccola chiesa della Madonna del Ponte, con facciata attribuibile ai secoli XVII-XVIII, era possibile ammirare, fino al 1990 circa, un affresco, de-turpato da ritocchi, della Madonna con Bambino. Alcune riproduzioni fotogra-fiche e una copia pittorica sono state eseguite dal prof. Bruno Bernardi.

h. La denominazione della chiesa dedicata alla Madonna del Vinciolino, che l’autore afferma essere regolarmente officiata e che dopo il 1914 venne incor-porata nell’edifizio scolastico in fase di costruzione, presenta delle varianti o-

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nomastiche, come Quinciolino, Manciolino. Nell’opera del Mazzocchi (Veio Dife-so, p. 42) è detta Madonna d’Angiolino.

i. Circa la cronologia del convento e della chiesa di S. Francesco, il Pechino-li sostiene che fu eretta, vivente ancora il poverello d’Assisi: “edificossi poi il convento per li frati, e la chiesa in honore di S. Francesco, il quale ancora viveva in terra, come ora gode in cielo li frutti della sua bontà” (Cronaca, p. 32). Stan-do, invece, al Wadding (Annales ad a. 1230, n. XXVI) la fondazione del conven-to si deve posticipare al 1230: “Mense Septembris, initium accepit conventus Civitatis Castellanae, industria Ministri Generalis, in qua urbe erat iudex ut di-ximus, quando se tradidit Minoribus. Adiecta est ei ecclesia, quae primo diceba-tur sancta Maria de Communi, in qua praedictus Generalis missam cantavit in traslastione corporum beatorum s(ancto)rum Marciani et Johannis)”.

l. La chiesa di San Clemente, una delle più antiche della cittadina, viene menzionata nella lapide del Vescovo Leone (metà dell’VIII sec; Cimarra et alii, 2002:56-60, n 10). Per la sua fabbrica furono riutilizzati frammenti di lapidi romane (Veio Difeso, pp. 42, 44-45): sugli stipiti della porta laterale (CIL XI, 3113 e 3187); sotto l’altare della sacrestia (CIL XI, 3164 e 3184). Questi mate-riali, dopo la soppressione della chiesa, furono smurati e trasferiti sotto il por-tico della cattedrale.

La famiglia Pelletroni vi possedeva la splendida “cappella di S. Silvestro… non meno dotata di possessioni, che adorna di bellissime figure” (Cronaca, p. 90), che era stata costruita e abbellita di sculture nel 1438 da Colella de Cau-satuni, un artista non altrimenti noto (L. Cimarra, Artisti ed opere d’arte a Ci-vita Castellana nei secoli XV-XVI, in ‘Biblioteca e Società’, a. XII, 30 giugno 1993, n. 1-2, p. 20, n. 2).

m. L’antica chiesa di San Giorgio, presso la quale erano le carceri della co-munità, era ubicata nella zona dello Scasato, cioè fuori dell’abitato. La strut-tura è ancora riconoscibile per la presenza del campanile. La facciata, che de-nuncia successivi rifacimenti, è costruita a conci di tufo, secondo una tecnica che rimanda all’architettura romanica. Attualmente è incorporata nell’edificio dell’istituto statale d’arte ‘Ulderico Midossi’. Subito dopo il 1870 l’area adia-cente venne adibita a cimitero.

n. “S. Antonio che è ancora in piede si governava dalli ministri delli Abati di S. Antonio di Roma” (Cronaca, p. 30). La dipendenza dell’oratorio dal Priorato degli Antoniani di Roma è attestata dai primi anni del XVI secolo e perdura fi-no allo scioglimento dell’ordine, che fu deciso fin dal 1775, anche se il priorato di Roma sopravvisse ancora per due anni. “Con breve del 17 dicembre 1777 Pio VII conferì tutti i beni già appartenenti al priorato, assieme alla biblioteca e l’archivio, alla Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici” (Enking, 1992:61). L’oratorio di Sant’Antonio con l’annesso terreno fu ceduta all’abate Bernardino Midossi, membro dell’Accademia. Alla sua morte, passò in eredità alla di lui famiglia (G. Scano, I testamenti chiusi dell’Archivio Capitolino e una carta Altie-ri, in ASRSP, 112, Roma 1989, p. 489, appendice, elenco dei testamenti disig-gillati 1598-1798: Midossi Bernardino 1795), alla quale è rimasta fino alla scomparsa dell’ultimo discendente, l’avv. Ulderico Midossi. Per lascito testa-mentario è diventata proprietà dell’avvocato Vittorio Cancella Midossi ‘con

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l’obbligo in perpetuo di far celebrare ogni anno la festa tradizionale al 17 gen-naio’.

Numerosi sono i documenti dell’archivio del Priorato di Roma relativi a Civi-ta Castellana: n° 5, Civita Castellana 22 luglio 1504-16 gennaio 1725; n° 21, Livres de comptes, aa.1605-1630, f. 292; n° 22, Liber repertorium F, aa. 1642-1685, p. 210 e p. 514; n° 24, Libro d’entrate del 1637, aa. 1637-1659, p. 195; n° 25, Instromenti di visite di chiese ecc., aa. 1601-1629, f. 742; n° 28, 1625 Recepte, aa. 1625-1642 f. 143r; n° 30, Visite, Civita Castellana; n° 37, G, aa. 1680-1700, p. 224; n° 38, 1701 Libro H, aa. 1701-1762, Civita Castellana; n° 46, 20 lettere da Civita Castellana (aa. 1705-1746); n° 72, Ancien inventaire des actes de la maison, fino al 1651, p. 47 Civita Castellana (22.07.1504); n° 53, Inventere des privilieges…, f. 1r n.n., Civita Castellana.

Gli affreschi, che ancora oggi adornano l’abside, raffiguranti i santi eremiti dell’antichità (al centro: S. Antonio abate; a sinistra: s. Gerolamo e s. Giovanni Battista; a destra: s. Caterina d’Alessandria e san Paolo eremita) e, nel catino, la deposizione di Cristo dalla croce, sono opera del pittore Rinaldo Jacopetti da Calvi, che li eseguì agli inizi del 1525 (L. Cimarra, Artisti ed opere d’arte cit., n. 1-2, p. 20, n. 2); Russo -Santarelli, 1999: 48-51. Santolini, 2001:94-97; Fagliari Zeni Buchicchio (in corso di stampa).

Nell’antifacciata è murato un portale composito con architrave cosmatesco. Le basi che sorreggono le colonnine incassate negli stipiti, recano in bassori-lievo due raffigurazioni di telamoni ‘dialoganti’. Nell’iscrizione ‘semivolgare’ [a - Teneas / cative, a/iuta / me; b – N(on) / pos/su(m) /q(ui)a / crepo], databile al XII secolo, è stata ravvisata un’attinenza con i vv. 130-139 del c. X del Purga-torio (per la relativa bibliografia, vd.Cimarra et alii, 2002:66-67, n° 13).

o. Alla cattedrale dedicano attenzione sia Del Frate (Guida, pp. 49-52) che Tarquini (2004:57). Poiché sull’argomento esiste un’ampia ed aggiornata bi-bliografia, mi limito a segnalare gli studi più significativi, ai quali rimando il lettore per gli opportuni approfondimenti: Cardinali 1935; Claussen 1987:67-69, 70-71, 82-91; Boscolo-Creti-Mastelloni 1993; Creti-Boscolo-Mastelloni 1995:101-130; Creti 2002, passim; Racioppa 2002; Raspi Serra 1972:102-102; Rossi, 1987:15-27; Parlato-Romano, 1992:265-272.

p. L’erronea lettura della data dell’arco trionfale (MCCIX da rettificare in MCCX) è già nella Guida (p. 51). In realtà nel sec. XIX alcuni studiosi arriva-rono ad esprimere il dubbio che l’iscrizione mancasse della parte finale: “La data 1210 che si legge nel musaico ed è generalmente accettata, è sembrata di soverchia antichità al Crowe ed al Cavalcaselle, i quali hanno congetturato che fosse mutilata in fine: MCCX…” (E. Stevenson, Mostra della città di Roma alla esposizione di Torino nell’anno 1884, Roma, Tip. de’ F.lli Centenari, p. 179; vd. anche G. Boni, The Roman marmorari by G.B., Rome 1893, Tip. Nazionale di G. Bertero, p. 7). Addirittura il Crowe e il Cavalcaselle ne riproducono il testo come se fosse compromesso da gravi lacune: Magister Iacobus civis Romanus cum…, sma fili….J.u… anis hoc opus anno dui MCCX… (Storia della pittura in Italia dal secolo II al secolo XVI, vol. I: Dai primi tempi cristiani fino alla morte di Giotto, Firenze, 18862, successori di Le Monnier, p. 152).

39a. Vd. Guida pp.16-40. Sarebbe troppo lungo illustrare singolarmente tutti i personaggi e tutti gli eventi concentrati nel presente capitolo. Da qui la

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decisione di ridurre il commento, tralasciando quelli riportati sia in altri capi-toli della Miscellanea che in altre pubblicazioni di storia cittadina.

b. Il 30 ottobre del 1981 fu organizzato nel Forte Sangallo un convegno, per commemorare l’ottavo centenario della morte di Alessandro III, avvenuta pro-prio a Civita nel 1181.

Numerosi furono gli interventi tesi ad approfondire l’opera e la figura di questo grande pontefice, che svolse un ruolo primario nella lotta dei Comuni contro il Barbarossa. Purtroppo sopraggiunte difficoltà nella gestione del bi-lancio comunale impedirono di dare alle stampe gli atti, copia dei quali è anco-ra conservata nella biblioteca comunale.

c. Vd. Guida, p. 24. L’accoglienza degli ambasciatori veneziani nella rocca del Sangallo fu ordinata, secondo quanto tramanda il Pechinoli, da Giulio II, il pontefice che completò la costruzione dell’imponente fortezza (Cronaca, p. 56): “[sotto il pontificato di Giulio II] nientedimeno io non so che succedesse cosa alcuna nella nostra città degna di memoria; eccetto che l’imbasciatori della re-pubblica di Venezia, li quali andavano a Roma per l’assoluzione delle censure, nelle quali il papa aveva innodata in quella memorabile lega se per ombra, per ordine dell’istesso papa furono ricevuti con tutti gli uffizi d’umanità nella nostra rocca”.

d. Il Pechinoli, per eccesso di amor patrio, come fa in altre circostanze, for-nisce una versione pro domo sua e si dilunga a descrivere gli armamenti, la rassegna delle forze schierate dai civitonici (Cronaca, pp. 64-71), addirittura tenta goffamente di imitare lo stile liviano con il ricorso all’artificio retorico dell’allocuzione, riferendo l’animosa concione pronunciata da uno dei cittadini più ragguardevoli: Toto Fantibassi. Ma c’è da aggiungere, anche se il cronista lo sottace, che la famiglia Fantibassi era parte direttamente coinvolta, perché possedeva alcune proprietà proprio al confine con la comunità di Sant’Oreste (Catasto Comunale di Santoreste del 1533, p. 151: “unum petium terrae situm a Monterotondo ab uno latere Fantibassi de Civitate Castellana…bona ecclesiae alias la Pieve, et a capite bona ser Bernardini Ioannis et Via Comunalis”), e Toto Fantibassi dovette addirittura sostenere una vertenza con i monaci di San Pa-olo (De Carolis, 1950:354 n. 3 e 358).

Ad una versione ridimensionata, più verosimile, dell’avvenimento, niente più che una scaramuccia nonostante le intenzioni bellicose dei civitonici, si attiene lo storico santorestese De Carolis: “Nell’anno 1523, per contese sorte fra i possidenti di Sant’Oreste e di Civita Castellana, per questioni di territorio, i civitonici, in numero di 1500, con alcuni pezzi di artiglieria, assaltarono Sant’Oreste. È tradizione che furono rinchiuse le donne e i bambini nell’antica chiesa di S. Biagio, allora parrocchia, a pregare il protettore sant’Edisto e il concittadino S. Nonnoso, e gli uomini si diedero alla difesa della terra, serven-dosi di quelle munizioni che il monte offriva, lanciando pietre e massi sull’esercito invasore.

Si venne allora ad un formale abboccamento, furono ristabiliti gli antichi confini, e fu stipulato atto solenne di concordia. A ricordo dell’avvenimento nell’anno 1527 si pose nel campaniletto della detta chiesa un’altra campana, con le parole ‘patriae liberationem’: era la seconda liberazione della terra” (1950:334).

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e. L’apporto de civitonici ai moti insurrezionali, alle guerre di indipendenza e alle imprese garibaldine viene appena accennata, omettendo peraltro i nomi dei valorosi cittadini che vi presero parte, in alcune pagine della Guida [p. 37, Prima guerra d’indipendenza 1848-49: “A Roma e nello Stato Pontificio, l’entusiamo per questa guerra fu meraviglioso, e in dieci giorni, diecimila vo-lontari e settemila soldati capitanati da Giacomo Durando, furono pronti a par-tire. L’università romana e i collegi diedero il contingente maggiore, formando le Legioni che successivamente passarono per Civita Castellana. A queste schiere di baldi giovani, s’unirono molti civitonici, per prender parte alla guer-ra”; p. 40, Tentativo di invasione dello Stato Pontificio da parte dei garibaldini 1867: “Civita Castellana rimasta sprovvista di soldati fu occupata da una co-lonna di garibaldini diretta dal maggior Nisi, alla quale diversi civitonici si uni-rono per andare poi ad azzuffarsi a Mentana e Monterotondo”].

In realtà l’attività cospirativa, ridotta nelle prime fasi del Risorgimento, si accentuò intorno al 1860. Nell’agosto di quell’anno vennero distribuiti piccoli stampati di propaganda anticlericale. Il 24 settembre la colonna di Cacciatori del Tevere, sotto il comando del col. Masi, penetrò in città ed occupò la rocca-forte, senza incontrare resistenza, dato che i soldati pontifici si erano dati alla fuga. Questi ultimi, inseguiti e raggiunti presso Rignano Flaminio, si arresero senza combattere e furono tradotti prigionieri a Civita Castellana. Dopo inten-se trattative diplomatiche, grazie alla mediazione autorevole dell’imperatore Napoleone III, l’occupazione del Viterbese ebbe termine e i garibaldini dovette-ro ritirarsi: il 10 ottobre alle ore 12,15 truppe francesi rioccuparono Civita Ca-stellana, poco più di un’ora dopo che la colonna di Masi l’aveva abbandonata. Il ripristino del governo pontificio e la reazione poliziesca provocarono un con-sistente numero di fuoriusciti: nel governo di Civita Castellana ne risultano 54, compresi i due che si erano arruolati come volontari. Furono operati per-quisizioni ed arresti. L’appello indirizzato al Parlamento nazionale dagli ‘Italia-ni della provincia di Viterbo’ fu sottoscritto anche da due cittadini civitonici: Rocco Trocchi e Domenico Coluzzi, rispettivamente maggiore della guardia na-zionale e presidente della commisione municipale di Civita Castellana (A.S.VT, D.A.V., C.P., busta 149, ff. 408-412).

40. All’orologio pubblico fa primieramente riferimento il Pechinoli (Cronaca, p. 33): “In capo della piazza rizzarono un’alta torre con l’orologio non indegno né della città né della piazza, la cui campana serve ancora per sonar all’arme, per ragunar consigli, e per altri bisogni publici”.

Del Frate ci informa, inoltre, che l’orologio con sfera illuminata fu installato nel 1852 (Miscellanea, cap 40, p. 83; cap. 49, p. 100).

L’invenzione dell’orologio meccanico ebbe profonde ripercussioni sulla con-cezione del tempo, sul suo calcolo e valore, causando una progressiva divari-cazione tra i riti liturgici della Chiesa e le esigenze della società civile: “Questo tempo, che comincia a razionalizzarsi, si laicizza nello stesso tempo. […] A questo tempo della Chiesa, mercanti e artigiani sostituiscono il tempo più e-sattamente misurato, utilizzabile per le faccende profane e laiche, il tempo de-gli orologi. La grande rivoluzione del movimento comunale nell’ordine del tem-po è rappresentata proprio da questi orologi rizzati dappertutto di fronte ai campanilio delle chiese. Tempo urbano più complesso e raffinato del tempo semplice delle campagne, misurato dalle campane rustiche…” (J. Le Goff,

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Tempo della Chiesa e tempo dei mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Me-dioevo, Torino 1984, Einaudi, p. 14).

41a. Il Ponte Clementino fu costruito su progetto dell’architetto Filippo Ba-rigioni (G. Pulcini, L’acquedotto di Nepi e il Ponte Clementino di Civita Castella-na hanno una firma: Filippo Barigioni, in ‘Biblioteca e Società’, II, 1980, 3, pp. 31-34). Sul crollo del ponte, provocato dalla disastrosa alluvione del 1861 pos-sediamo la testimonianza diretta del Tarquini (2004:48-49): “Questa smisura-ta mole il giorno 29 ottobre 1861 rovinò nel mezzo per causa di una alluvione mai succeduta, quasi direi, dopo il diluvio universale. In quell’anno la stagione autunnale tendeva a continuare piogge, e direttissime furono per otto giorni. In quel giorno le cateratte del cielo si erano aperte […] Fin qui percuoteva il timore: vi fu di peggio. Un gelacuore colpì tutti. Alle cinque ore della sera s’intese la caduta del ponte Clementino, alle sei quella del ponte Riofiletto, alle nove quella del ponte sulla Treja. Poteva essere di peggio? Tutte le mole a gra-no inondate, ricoperte di arena, e sassi, rotte le legate, non più ponticelli di trapasso, e prive di macinazione per vari giorni. Uomini, e donne che si trova-vano ai lavori campestri, e la pastorizia erranti al di là dei ponti caduti, privi di ricovero, senza pane, bagnati dalle continue pioggie per tre giorni seguiti, strepitavano dalle opposte rive delle correnti, muorirsi di fame; queste correnti non si potevano guadare per l’enorme altezza di esse; le si tirava qualche tozzo di pane dall’una e dall’altra sponda, legato con sassi la maggior parte cadeva nella corrente della Treja. Non lo ricordate, o lettori cittadini, quale era la no-stra situazione?”.

Per rimediare alla grave situazione, data anche l’urgenza di ripristinare i collegamenti e la viabilità, il pontefice “Pio IX […] spedì immediatamente inge-gneri da ogni parte dello stato a creare subito una provvisoria strada ruotabi-le, come in pochi giorni fu eseguita passando dal ponte di terrano riattato con tavoloni provvisori all’ovest sopr ali Tre Cammini, retrocedendo ad est lungo il piano di Catalano, riunendosi alla nazionale preso il Testaccio [cioè all’incirca all’altezza della ex-fabbrica Marcantoni - n.d.r.] al di là del ponte caduto” (ibi-dem, p. 49). I lavori di ricostruzione del ponte e di sistemazione del tratto stradale contiguo si protrassero fino al 1870. Sulla monumentale porta di ac-cesso, che agli inizi del ‘900 fu smantellata per consentire il transito della tramvia Civita-Viterbo sul viadotto, fu apposta a futura memoria l’iscrizione, attualmente conservata nel Forte Sangallo: […] pontem illuvie disiectum ab in-choato extruxit / molibus ad latera firmavit arcu ampliore / aquis torrentibus excipiendis tutiorem / prestitit viam laxavit direxit tumulis / subiectis aequavit portam instauravit ornavit […] (Pulcini, 1974:251-252, CICC 118).

Papa Leone XII (1823-1829), per evitare la forte pendenza dell’attuale Via XII Settembre, provvide a far aprire una deviazione, che dopo i luttuosi fatti del luglio 1948 venne intitolata al carabiniere Minolfo Masci (Tarquini, 2004: 48: “Quindi Leone XII tolse quella salita, e discesa, voltando la strada dal Ponte Clementino a sinistra sotto li giardini Seminario, e Trocchi, riunendosi alla via del Corso, antico mattonato”).

La grandiosa opera del ponte fu commemorata con l’emissione, non di una medaglia come generalmente si crede, ma di una piastra (o scudo, la moneta argentea di taglio più alto nella circolazione monetaria dello Stato Pontificio. Introdotta da Sisto V nel 1589, durò fino a Pio IX. Le sue dimensioni molto grandi, variava dai 38 ai 44 mm di diametro, permisero ai vari incisori di e-

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splicare tutta la loro arte) da parte della zecca pontificia (la foto bn del rove-scio, inserita tra le pp. 72-73 della Guida, fu eseguita da Ulisse Nelli):

SCHEDA: Dritto: CLEMENS * XI * - P * M * ANN * XI Stemma del pontefice, sormontato dalle chiavi e dal triregno, in cornice tri-

lobata. Rovescio: PROSPERVM . ITER . FACIET . In esergo: . PONS – CIVIT: / CASTEL-LANAE; ai lati dell’armetta del presi-

dente di zecca mons. Altieri, le lettere E. H. sigla dell’incisore. Veduta del Ponte “Clementino” a Civitacastellana. Argento; gr. 32,05; mm. 40,50. Rif. bibliogr.: Francesco Muntoni, Le monete dei papi e degli Stati pontifici,

Roma 1972, P.& P. Santamaria, vol. III, num. 9.

Il motto che compare sul rovescio si ispira al Ps. 67, 20: Prosperum iter fa-ciet nobis Deus salutarium nostrorum. Nella sigla E.H. è da riconoscere Erme-negildo Hamerani (Roma 1683-1756), membro di una famiglia di incisori, il cui capostipite fu Johann Hermannskircher, nativo di Monaco di Baviera, che si stabilì a Roma sotto il regno di Paolo V. La famiglia Hamerani trasmise di padre in figlio la carica di incisore-capo alla Zecca di Roma ininterrottamente dal 1676 al 1810, sebbene Alberto Hamerani (Roma 1620-1677) vi avesse la-vorato fin dal 1655. La dinastia vide anche varie donne impegnate nell’arte in-cisoria, come Anna Cecilia e, soprattutto, Beatrice Hamerani, sorella di Erme-negildo, la quale fu la prima (ed unica per circa due secoli!) donna ad incidere una medaglia annuale per un pontefice, nel 1702.

Ermenegildo prese il posto del padre Giovanni Martino nel 1704 ed incise tutti i conii di monete e di medaglie ufficiali della Santa Sede fino alla data del-la sua morte, dal 1730 coadiuvato dal fratello Ottone.

Una notevole scheda dedica alla moneta e al ponte l’Alteri (Mirabilia Urbis in Nummis…, pp. 29-30): “... tuttavia Clemente XI al di fuori dei confini di Roma non si preoccupò soltanto della sua Urbino; una piastra dell’anno XI (1711-12) del suo pontificato, emessa dalla zecca di Roma, ci mostra il ponte di Civita Castellana.

Questa cittadina, a 50 km a nord di Roma, è sempre stata un punto nodale della viabilità, in quanto dalla sua posizione geografica si potevano controllare le vie Cassia e Flaminia, che dalla capitale conducevano nel centro Italia; inol-tre era proprio sul cammino dei pellegrini diretti a Loreto. Data, però la sua posizione su un colle tufaceo, era abbastanza difficoltoso inerpicarvisi; perciò i Pontefici pensarono di costruire un ponte che facilitasse, scavalcando le forre del rio Vicano (!), il collegamento con la via Flaminia e, quindi, con Roma. Do-po alcuni tentativi di Giulio II, fu Gregorio XIII a costruire, fra il 1574 e il 1576, un viadotto per rendere più agevole il transito ai pellegrini sulla via Lo-reto-Roma. Questo ponte ora, sebbene più volte restaurato durante il XVII se-colo, era ormai in condizioni estremamente precarie, per cui Clemente XI pre-se la decisione di ricostruirlo exnovo, incaricando dell’opera l’architetto Filippo Barigioni. Questi progettò un ponte lungo circa 70 metri ed alto 37 metri, su due ordini d’arcate in tufo e laterizio. I lavori cominciarono nel 1702, ma sol-tanto nel 1709 il ponte fu inaugurato, con il nome di “Ponte Clementino”, dal cardinal Giuseppe Renato Imperiali. Costato circa il quadruplo di quanto pre-ventivato, il ponte verso il 1720 comincerà a dar cenni di cedimento, tanto che

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dovrà ben presto esser restaurato a spese, questa volta, della Comarca e di Ci-vita Castellana. Ma anche in seguito sarà sempre in restauro, tanto che il pon-te odierno conserva ben poco di quello del Barigioni. Semidistrutto dai Fancesi nel 1799, sarà ricostruito ai tempi di Pio VII tra il 1802 ed il 1804, e consoli-dato di nuovo da Leone XII. Nel 1842, quando lo traverserà Gregorio XVI in vi-sita nelle Marche, sarà fornito di spallette di marmo, proprio perché il ponte era passaggio obbligato sulla strada per le località settentrionali di quella re-gione. Infine, minato dai tedeschi nella II Guerra mondiale, le arcate saranno sostituite da pilastri in cemento intorno al 1958, ma la stabilità rimarrà sem-pre precaria.

Per il rovescio di questa moneta, Ermenegildo Hamerani si servì assai pro-babilmente dei disegni di qualcuno, forse dello stesso architetto, oppure di un quadro, dal momento che riuscì a riprodurre con molta precisione sia il ponte sia il panorama circostante, con Civita Castellana sullo sfondo; inoltre, il raffi-nato Ermenegildo non si sarebbe mai mosso da Roma per andare ad osservare di persona un ponte, per poi disegnarlo e riprodurlo su un conio, moneta o medaglia che fosse! Comunque dei disegni o del quadro, se mai ci furono, non c’è rimasta traccia…”

Invece è poco o punto noto ai civitonici che, per la costruzione di Ponte Fe-lice, furono emesse delle vere e proprie medaglie, per le quali il discorso si pre-senta più complesso. Tutti gli studiosi di medaglistica papale sono concordi nel riferire al ponte di Borghetto, almeno due medaglie di Sisto V. La prima considerata “commemorativa”, emessa cioè quando il ponte era già finito o in via di completamento. È il tipo più comune:

SCHEDA: Dritto: * SIXTVS * PONT * MAX* nel giro; in basso: * AN * V *; NI BONIS

(firma dell’incisore) nel taglio del busto. Busto del pontefice a destra, con capo nudo e piviale arabescato. Rovescio: (fronda) PONS ( punto a forma di tre monti) FELIX In esergo: AN * DOM * M D* / LXXXIX Il ponte di Borghetto, con due costruzioni sulle due testate, ed una larga

“spalletta” centrale. Bronzo dorato; mm. 43,4; gr. 36; contorno perlinato. Rif. bibliogr.: John. G. Pollard, Medaglie italiane del Rinascimento nel Museo

Nazionale del Bargello, vol. II (1513-1640), Firenze 1985, S.P.E.S. Editore, num. 670.

La seconda medaglia viene da molti considerata la “annuale” del 1589. Fin dal 1540 circa, infatti, era invalso l’uso di emettere (e viene tuttora emessa) ogni anno in concomitanza con il 29 giugno, festa dei SS. Apostoli Pietro e Pa-olo, una medaglia in oro ed in argento (poi, dalla metà del ’600, anche in bron-zo) con il ritratto del papa e l’indicazione dell’anno pontificale sul dritto; sul rovescio, invece, vi è una raffigurazione che allude all’avvenimento (costruzio-ne di edifici, eventi ecclesiali, udienze particolari, ecc.) ritenuto più significati-vo dell’anno appena trascorso:

Dritto: * SIXTVS * V * PONT * MAX * nel giro; in basso : *AN. * V *; sotto il braccio: NI BONIS

Busto del pontefice a sinistra, con capo nudo e piviale in cui due icone di santi.

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Rovescio: PVBLICAE COMODITATI Il ponte Felice a Borghetto, con una larga spalletta. Argento; mm. 37,9; gr. 28; contorno perlinato. Rif. bibliog.: Ridolfino Venuti, Numismata Romanorum Pontificum praestan-

tiora, Romae MDCCXLIV, Bernabò & Lazzaroni, p. 71.

Entrambe i pezzi presentano la firma NI BONIS per Niccolò de Bonis, che nel 1574 incise una medaglia per l’inaugurazione del Collegio Germanico e fu regolarmente attivo come incisore a Roma tra il 1580 ed il 1596.

Una terza piccola medaglia, di autore ancora non identificato, è considerata come una “propina”, cioè un omaggio, a tutti coloro che si adoprarono per la celere e felice conclusione dei lavori:

Dritto: SIXTVS. V. PONT. MAX. AN. VI Busto del pontefice a destra, con camauro e piviale in cui due icone di san-

ti. Rovescio: PVBLICAE COMMODITATI Il ponte Felice a Borghetto, con i piloni “scoperti” dalla corrente del fiume;

presenta una lunga spalletta decorata a stelline ed una costruzione al centro, simile a quella che appare sulle altre medaglie.

Argento; mm. 25; gr. 8; bordo a doppia perlinatura. Rif. bibliogr.: John G. Pollard, Medaglie italiane del Rinascimento nel Museo

Nazionale del Bargello, vol. II 1513-1640, num. 674, Firenze 1985, S.P.E.S. Editore.

Esiste, infine, una quarta medaglia, rarissima (se ne conoscono soltanto due esemplari in oro), dall’impianto molto simile alle precedenti, che sarà og-getto di uno studio di imminente pubblicazione sulla medaglistica di Sisto V.

43. Le osservazioni sulle condizioni climatiche e la descrizione del paesag-gio variano secondo gli stati d’animo e le impressioni personali, gli atteggia-menti mentali, le stagioni. In una presentazione ufficiale del sito, risalente all’anno 1758, se ne esalta l’amenità e l’ordinata struttura: “È la città di sito giocondo e ameno, di aria temperata e consimile a quella di Roma, nel cui di-stretto è compresa. Hà le contrade maggiori per lo più lastricate di mattoni in costa, e di selci ecc. Vi si vedono più case nobili, e molti edifizj assi comodi, e civili ecc. è ornata di piazze, e di queste la principale si è quella del Prato, che forma un quadro longo assai spazioso con molte botteghe intorno di varie merci, nel cui mezzo sorge una bella fontana fatta di pietra con più gradini in-torno, che da quattro draghi, e dalla cima di essa getta dell’acqua in abbon-danza” (Summarium Die 20 Aprilis. Sessio secunda, n° 2).

Al contrario le note di vari viaggiatori o visitatori insistono sul clima malsa-no e sul paesaggio desolato della cittadina e della campagna circostante, so-prattutto durante la calura estiva. Come avviene nella descrizione tratteggiata da Felice Orsini nelle ‘Memorie’, quando il futuro attentatore di Napoleone III, dopo la conclusione del processo presso la Sacra Consulta di Roma, fu rin-chiuso per qualche tempo nel Forte Sangallo: “Purificati coi ’sacramenti catto-lici’, venimmo non molto dipoi incatenati a due a due, e spediti provvisoria-mente nella fortezza di Civita Castellana […] Essa giace nel mezzo di vasta pianura, appena qua e là ondeggiata da qualche poggio e collina: nell’estate vi sono acque stagnanti, in cui si putrefanno le piante, che colle loro esalazioni ammorbano l’aria. Gli abitanti della città, che porta lo stesso nome della for-

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tezza, e che vi è allato, sono d’aspetto giallognolo ed infermiccio; le erbe cre-scono sopra i tetti; e nei tempi di caldo, la maggior parte di essi giacesi nel let-to per febbri intermittenti e maligne. Il governo papale stabilì che nella fortezza di Civita Castellana fossero rinchiusi i prigionieri di Stato ad espiravi la pena. A tempo mio il maggiore Latini n’era il comandante; uomo severo, sospettoso, ed affezionatissimo al pontefice. Vi si trovavano da centoventi prigionieri: qua-ranta appartenevano alla causa di Viterbo del 1837, e la condanna loro di ga-lera era stata commutata in quella di reclusione, e venivano loro concessi in-strumenti da suonare e da lavorare. Il rimanente facevano parte degli arrestati per le cause di Bologna e delle Romagne del 1843 e 1845” (Memorie, pp. 34-35).

44a. Vd. Guida, p. 21. Civita Castellana risulta possesso baronale dei Sa-velli fin dal 1353 (Silvestrelli Città, castelli, p. 496), acquisito grazie alle capa-cità politiche e militari dei membri laici, che ne riescono a diventar signori (Carocci, 1993:420, nota 37). Città inobbediente, irriducibile propugnatrice dei propri diritti e della propria autonomia, era stata ceduta da Pietro di Vico a Luca Savelli. A proposito della resistenza opposta alla riconquista da parte pontificia, l’Antonelli scrive: “Al formidabile uomo [scil.: Albornoz] che aveva abbattuto il tiranno del Patrimonio, e restaurato ovunque l’autorità pontificia, non riuscì sottomettere quella piccola città” (Breccola, 2003:145). In effetti siamo in un periodo tormentato: la città, ribelle alla chiesa, nel 1354 si rifiuta di inviare i propri rappresentanti al parlamento di Montefiascone convocato dal card. Egidio d’Albornoz, poi resiste a lungo ai tentativi del legato pontificio di ridurla all’obbedienza; nel 1375 riprende le armi ed aderisce alla guerra de-gli ‘Otto santi’, che oppone Firenze e i più importanti comuni dell’Italia centra-le al papa (‘Cantare della guerra degli Otto Santi’, ot. 32, v. 2, in A. Mazzotti, Cantari del Trecento, Milano 1970, Marzorati, p.136).

Comunque il 14 giugno del 1376 il pontefice Gregorio XI con un breve con-ferma per otto anni a Luca Savelli il governo di Civita, a scomputo di quindi-cimila fiorini che doveva avere dalla Camera Apostolica (Lefevre, 1992:214, I, n° 781). L’11 ottobre 1445 nel suo testamento Battista Savelli assegna una toe di 6.000 fiorini a sua figlia Elisa, ed istituisce suoi eredi Pandolfo e Giacomo, assegnando loro i suoi feudi fra i quali Civica Castellana, Palombara ed altri, sostituendoli ad invicem in caso di morte senza prole (Lefevre, 1992:69, I, n° 13). Secondo il Pechinoli la città sarebbe stata concessa in vicariato a Giovan-ni Savelli, signore di Rignano, che avrebbe governato con saggezza (il quale mentre visse governò la città con giustizia come quello, che non dando luogo ad alcuno difetto, riteneva gli studj delli suoi maggiori), mentre suo figlio Pandolfo, che gli successe, avrebbe assunto un atteggiamento dissennato e dispotico (si diede tutto in preda all’ingiurie e a desiderj), al punto da provocare la rivolta popolare ed il ricorso al Pontefice. Il cronista conclude con amarezza: “Così Ci-vita Castellana […] cominciò a cascare dalla sua antica felicità” (Cronaca, pp. 35-41).

Sui possedimenti, sulla genealogia della famiglia Savelli, sulle schede bio-grafiche dei singoli membri nel XIV sec. vd. Carocci, 1993:421-422 + carta 13 e tav. 13.

b. Vd. Cronaca, p. 49. Sulle fasi costruttive e sulla struttura architettonica del Forte Sangallo rinviamo, oltre all’ormai datato Guglielmotti [1880:139-168,

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l. IV], agli studi più recenti: Chiabò - Gargano, 2003:47-153 (vari autori); Gar-gano, 2003:1-71. Sul il ciclo di affreschi e sulle diverse ipotesi di attribuzione (di volta in volta Zuccari, Aspertini, Matteo d’Amelia, Jacopo Ripanda), vd. Ca-vallaro 1983:262-288 e Castrichini 1996:194-199, Silvia Maddalo (in Chiabò-Gargano, 2003:113-127).

c. Nel ciclo decorativo del cortile maggiore i motti che inneggiano ai Borgia sono inseriti in composizioni in cui risaltano motivi araldici e simbolici. I nomi di Alessandro VI e di suo figlio Cesare sono inscritti entro targhe sormontate da tori alati o poste tra due cornucopie ecc.: Viva Caesar, Caesar Viva, Viva Alexander, Viva Borgia, Alexander VI, Caesar. Nessuno di essi tuttavia reca: Viva Giulio Cesare Borgia.

d. Antonio Gasparoni (Gasbarroni o Gasperone), nato a Sonnino nel 1793 e morto ad Abbiategrasso, dove era stato mandato in una sorta di domicilio co-atto dopo la liberazione, fu uno dei più celebri briganti del suo tempo ed in-carnò la figura del tipico brigante della Campagna Romana. Ecco come lo rap-presenta una descrizione della polizia nel 1818: “Di alta statura,

corporatura snella, viso ovale, bocca, mento e naso regolare, poco vaiolato, barba nascente color castagno, capelli simili legati a codino, avente alle orec-chie gli orecchini d’oro a navicella, vestito con pezze e cioce, calzoni curti, cor-petto e giacchetta di velluto blu, cappello di feltro negro tondo a cuppollone”. Si diede giovanissimo alla macchia, compiendo le sue ‘imprese’ criminose pre-valentemente nella zona montuosa e selvaggia del Lazio Meridionale. Divenuto temuto capobanda, ad un certo punto decise di consegnarsi alle autorità, al-lettato dalla promessa di un’amnistia e di un esilio in America, ma, grazie ad un tranello, dopo di lui fu catturata l’intera banda. Rinchiusi dapprima a Ca-stel S. Angelo, poi a Civitavecchia, a Spoleto ed infine a Civita Castellana, i briganti furono decimati dagli stenti e dai lunghi anni di detenzione. I sopra-vissuti, tra cui Gasparoni, vi rimarranno fino al 1870, quando Vittorio Ema-nuele II li fece scarcerare, accogliendo una loro supplica. Le ‘imprese’ e la vita del brigante ci sono note grazie al libro di Memorie, che egli e i suoi compagni dettarono in carcere e che fu pubblicato in diverse edizioni. Un ufficiale fran-cese, che nel 1866 incontrò il fiero capobanda nella fortezza di Civita, annota: “Eroe popolare di tanti racconti, di drammi e di quadri, il brigante degli Ap-pennini è entrato ormai nel regno dell’immaginazione e delle leggende roman-tiche”.

In effetti nella memoria popolare la figura del brigante Gasperone ha susci-tato simpatia e favore, circonfusa com’era da un alone di avventurosa audacia. Si tramanda ancora di generazione in generazione, arricchita di particolari fantasiosi, la leggenda che egli sarebbe riuscito ad evadere dalla fortezza con un strano, quanto ingegnoso stratagemma: con la mollica della razione giorna-liera di pane avrebbe dapprima formato un’enorme palla; sarebbe, quindi, fug-gito, introducendosi nello scarico della latrina. Facendo rotolare il malloppo davanti a sé, avrebbe nettato le nauseanti pareti della fogna e, ritrovatosi fi-nalmente al ciel sereno nella valle di Rio Maggiore, si sarebbe subito involato. Il suo aspetto truce e minaccioso viene evocato nel modo di dire civitonico: me pari ‘o bbrigande Gasberó (dicesi di persona dall’aspetto trascurato e trasanda-to).

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45. Nella Guida (p. 54, nota 1) è riferito un altro breve elenco in parte diffe-rente: “Ricciotti Nicola, Vito Fedeli, Fiuro Giorgio, Pietro Giansanti, Marcello Parca, Guardabassi, Colantoni, Nannini, Pietro Calmieri, Ferdinando Serafini, Francesco Perfetti, Ghini, Fabbri, Masini, ecc.”; a p. 37 (nota 2) vengono men-zionati alcuni di quelli che, dopo l’indulgenza pontificia, si unirono ai rivoltosi del Sercognani: “Ferdinando Serafini, Francesco Perfetti, Ghini, Masini, Fabbri ecc., Monitore Bolognese del 5 marzo 1831, n. 8, p. 4, col. prima”.

Nelle celle della fortezza furono rinchiusi a languire alcune centinaia di pa-trioti (vd. supra nota 43), come si desume dall’elenco, anch’esso parziale, di Mario Franci (Nuovi canti falisci, pp. 91-92, nota 26: Nicola Ricciotti – fucilato insieme coi fratelli Bandiera – Francesco Guardabassi, Felice Orsini, Mattia Montecchi – uno dei triumviri della Repubblica Romana – Cesare conte Gallo, Torello avv. Cerquetti, Vincenzo conte Fattiboni, Papis conte Giovanni, Vito Fedeli, Ercolano colonnello Erculei, Bartolomeo dott. Rubini, Luigi cav. Barto-lucci, Edoardo conte Fabbri, Adamo dott. Petrarca ecc.) e, soprattutto, da due immagini, conservate al Museo Civico del I e II Risorgimento di Bologna, raffi-guranti il ‘prospetto dell’interno del Forte di Civita Castellana coi rilegati poli-tici in esso esistenti a tutto giugno 1823’, seguito dai nomi dei medesimi per un numero di 126.

Per la verità Del Frate menziona essenzialmente i nomi dei patrioti deceduti durante la prigionia, per ciascuno dei quali sarebbe doveroso tracciare un pro-filo storico, dal momento che il loro contributo risultò determinante nel pro-cesso che portò all’unità d’Italia. A scopo esemplificativo cito il caso del reca-natese Vito Fedeli, maestro di casa del principe di Musignano, già carbonaro nel 1821. Profugo dopo il fallito moto del 12 dicembre 1830, venne arrestato ad Oriolo Romano e poi imprigionato a Sutri. Trasferito quindi a Roma, rico-nosciuto e denunciato, fu condannato a morte, pena che gli fu commutata in 20 anni di carcere. Tradotto nella fortezza di Civita Castellana morì logorato dai patimenti il 18 ottobre 1832. Non bisogna, infatti, dimenticare che le con-dizioni di vita nel carcere erano dure, al punto che il 24 settembre 1845, sul finire del pontificato di Gregorio XVI, scoppiò una rivolta dei detenuti.

46. Il capitolo rimane nel vago, senza fornire dati circostanziati. Per es. per quanto riguarda la Repubblica Romana (1848-49), noi sappiamo che il 21 gennaio 1849 nella provincia si svolsero le elezioni per la Costituente e a Civi-ta risultò eletto G. B. Luciani. Il 26 successivo apparve sulla piazza principale un cartello con la scritta: “Per comando del ministero, morte ai preti! Non più si tardi!”. Non solo i dipendenti civili dello Stato, ma anche alcuni addetti alla custodia del Forte sottoscrissero l’atto di adesione alla Repubblica (B. Di Por-to, Un triennio del Risorgimento viterbese (1847-1849) nelle carte della polizia pontificia, Estratto dalla ‘Rassegna Storica del Risorgimento’ a. LV, fasc. III, lug.-sett. 1968, pp. 439-460).

47a. Vd. Guida, p. 25 e Cronaca pp. 72-73, dove la data relativa al sacco di Roma è errata (come già rilevava un’annotazione apposta a margine). La vi-cenda, narrata succintamente da Del Frate, è desunta direttamente dal Pechi-noli, dal quale solitamente il nostro dipende e attinge (un cenno all’episodio compare anche nel cap. 22, p. 37 e nel cap. 47, p. 97). Il cronista, a sua volta, dedica ben tre pagine per descrivere il saccheggio cui fu sottoposto il borgo a-lessandrino, la strage di lanzichenecchi menata dai civitonici sotto la guida del

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colonnello Florenzuolo (lo stesso che aveva organizzato il piccolo esercito citta-dino che attaccò di Sant’Oreste nel 1523) e la liberazione della figlia di messer Perusco, comandante della rocca (così nella Cronaca, non Altoviti, come erro-neamente scrive Del Frate).

b. Vd. Guida, p. 35. Nell’opuscolo ‘I XXXII giorni della difesa di Civita Castel-lana’, dato alle stampe dal tenente colonnello Lazzarini nello stesso anno, l’episodio viene rievocato come un decisivo fatto d’armi, in realtà si trattò di una semplice scaramuccia.

Cade qui l’opportunità di rettificare la didascalia dell’immagine inserita nel-la recente ristampa delle ‘Notizie istoriche’ (2004:12, ft bn). Le popolane in fu-ga, rappresentate nel dipinto, non sono “terrorizzate presumibilmente per via dell’alluvione che il 29 ottobre 1861 causò il crollo di tutti i ponti, primo fra tutti il ponte Clementino”. Il quadro, opera del pittore svizzero Léopold Robert (Eplatures 1794 - Venezia 1835), è un olio su tela (cm. 83 x 64,5), firmato e datato in basso a sinistra “Lld Robert 1831”, conservato nel Kunstmuseum di Basilea. Come spiega il catalogo pubblicato in occasione della mostra romana presso il museo napoleonico: “Il dipinto è stato interamente eseguito a Firenze, durante il primo soggiorno che Léopold Robert fece nella città dopo la sua par-tenza da Roma. Il viaggio, in compagnia degli amici Ziegler, Bonstetten e De Portualès, era stato difficile a causa dei moti rivoluzionari che tenevano in agi-tazione gli Stati Pontifici. Passarono, in particolare, per Civita Castellana e poi per Terni, dove Robert ebbe un lungo colloquio con il principe Napoleone Bo-naparte, marito di Carlotta Bonaparte, il quale doveva morire poco dopo in circostante misteriose. Di qui risalirono per Spoleto e Perugia verso Firenze. È probabile, quindi, che gli avvenimenti raffigurati da Léopold Robert nel quadro riflettano una visione diretta, colta sul vivo” (Léopold Robert - Catalogo, De Lu-ca - A. Mondadori, 1986, p. 50, col.3).

c. Vd. p. 83. La conquista della roccaforte di Civita avvenuta il 12 settem-bre del 1870 fu commemorata nel 1889 (Pulcini, 1974:253, CICC 122) con l’apposizione di una solenne lapide alla sommità di Via XII Settembre (‘a salita de Gustinetto). La rievochiamo con un racconto scevro da enfasi e da toni reto-rici: “Nella notte tra l’11 e il 12 settembre il Cadorna fa occupare i ponti di confine e si dirige su Civita Castellana con il 40° fanteria, il 35° battaglione bersaglieri, due squadroni di lancieri di Aosta ed unità del genio zappatori e di artiglieria: il tutto in avanguardia alla 12° divisione che pure avanza. Un mor-to e sette feriti costituì il prezzo di questa prima giornata, nella quale il presi-dio della cittadina (230 uomini) si arrese ben presto, dopo aver sofferto tre feri-ti. Tra i liberati, nel forte, vi fu il celebre brigante Gasperone con il suo stato maggiore” (Andreotti, 1967:83).

Sull’avanzata delle truppe italiane e l’occupazione della cittadina non man-cano curiosità e aneddoti. Innanzi tutto la reazione di un fraticello (probabil-mente un cappuccino), alla vista dei ‘feroci’ Italiani, che egli incrocia sulla strada di ritorno al convento: “Un solo frate mostrò d’aver paura dei soldati e fu vicino a Civita. Veniva innanzi con un somarello verso un battaglione di bersaglieri, pallido e tremante, e giunto a pochi passi dai primi soldati, si fer-mò e giunse le mani in atto di chieder grazia. – “Fa nen ‘l farseur” – gli disse un caporale. Gli altri gli domandarono notizie del Santo Padre. Qualcuno gli offrì del pane. Rassicuratosi, pareva matto dalla contentezza” (De Amicis,

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1928:132). E poi la ‘calorosa’ accoglienza riservata ai ‘liberatori’, con l’amicizia tra i bersaglieri e le belle ragazze di Civita Castellana (Andreotti, 1967:103). E, infine, i dati sull’esito del plebiscito: “di tanto in tanto veniva sospeso lo scru-tinio per leggere ad alta voce i messaggi da fuori: ΄A Civita Castellana ottima-mente; anche vecchio ottuagenario accompagnato dal figlio ha deposto il vo-to΄”(Andreotti, 1967:113).

48. Del relativo progetto dà notizia con un palese senso d’orgoglio il breve articolo ‘Rete telefonica’ apparso in ‘Il Rinnovamento’ (IX, n° 333, 11 mar. 1894, pp. 3-4), firmato con lo pseudonimo Ossi (= Midossi?): “Nel regno, se non erriamo, pochi mandamenti godono i vantaggi che arreca all’umano con-sorzio una rete telefonica come quella che progettiamo. Nella provincia romana poi saremo i primi ad attivare un sì importante e delicato servizio”.

49a. Vd. anche cap. 57, p.111. L’elettrificazione costituì un fondamentale passo in avanti per l’ammodernamento e il progresso della comunità civitoni-ca, vd. ‘Il nuovo impianto della luce elettrica’, in ‘Il Rinnovamento’( VII, n° 280, 15 mag. 1892, p. 2).

b. La disposizione è contenuta nel Libro di Estraordinarii [Di quelli va(n)no dopo il terzo sono della ca(m)pana del Co(m)mune, cap. 70].

50. Ne è rimasta memoria nell’odonimo ‘Via delle conce’, in prossimità di Piazza di Massa, tra Via del Forte e Via delle Rupi, non molto lontano dalle delle ‘ripe’ di Rio Maggiore. L’attività delle concerie perdurò, data la presenza di numerosi corsi d’acqua, fino al XX secolo. Ne parla già il Pechinoli (Cronaca, p. 27). Lo statuto poi contiene disposizioni sull’igiene e la pulizia della città, soprattutto di Piazza di Prato (Libro de Estraordinarii, Rubrica che la piazza di Prato sia sgombrata, cap. 29, carta 68v: “Ancora volemo che nesciuna persona faccia ponere in la piazza canepe manciolata, pelli, o corij sconci di qualunque bestia sia, né ce possano esser corij in detta piazza, né intorno ad essa radere per li calzolari, né altri…”). Il Tarquini (2004:70), a sua volta, scrive che nel 1874 in città c’erano ’varie concie di pellame’ e ‘varie caldaie per li bachi da se-ta’. Del Frate (Guida, p. 47) risulta al riguardo più circostanziato: “Anche l’industria e il commercio sono largamente rappresentati dalle quattro fabbri-che di terraglie; da due concie di pellami; da due fabbriche di saponi; da una fabbrica di gazzosa, nonché da una fabbrica di mattoni in cemento”.

51. I nomi indicati coincidono solo in parte con quelli contenuti nelle ‘Anno-tazioni delle giustizie eseguite da Gio(vanni) Battista Bugatti e dal suo succes-sore Vincenzo Balducci (1796-1870)’, rinvenuto dall’Ademollo [Supplizi e sup-pliziati in Roma dal secolo decimoquarto in poi, Sala Bolognese 1984, Forni ed. (rist. anastatica dell’ediz. di Città di Castello, 1886)]. La mancata corrispon-denza dipende in parte dal fatto che Del Frate riporta talvolta solo il sopran-nome (Mentuccia) o il nome proprio (Germano). Ad ogni modo le esecuzioni (per lo più decapitazioni) avvenute nel comune di Civita Castellana, secondo le sopracitate ‘Annotazioni’ sono soltanto cinque: Bernardo Fortuna ‘impiccato e squartato’ a Ponte Felice li 22 aprile 1806, per avere grassato il corriere di Francia [n° 89, p. 313]; Pietro Bidei per omicidio e grassazione, ‘decapitato’

li primo aprile 1840 [n° 321, p. 331]; Germano Projetti reo fu ‘decapitato’ li 18 ottobre 1855 [n° 453, p. 326]; Francesco Elisei di Velletri di anni 23, per omicidio volontario ‘decapitato’ li 22 dicembre 1857 [n° 482, p. 327]; Vincenzo

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Lodovici, di anni 33, per omicidio deliberato ‘decapitato’ li 8 gennaio 1859 nel-la fortezza di Civita Castellana [n° 492, p. 328].

52a. Da correggere in Léon de Lamoricière, generale francese (Nantes 1806 - Prouzel 1865). Datosi giovanissimo alla carriera delle armi, prese parte alla spedizione di Algeri (1830) e a tutte le operazioni di guerra, ottenendo la pro-mozione al grado di colonnello nel 1837 e a quello di tenente generale nel 1843.

Nel 1846 fu eletto deputato e, rientrato in patria, fu designato come mini-stro della Guerra. Partecipò alla rivolta contro Luigi Filippo d’Orléans, ma poi avversò l’elezione del principe Luigi Napoleone a presidente e della repubblica. Contrario al colpo di stato del 2 dicembre, fu arrestato e internato ad Ham, in-fine, condotto alla frontiera, trascorse alcuni anni d’esilio in Belgio. Solo nel 1857 gli fu concesso di rientrare in patria. Tre anni dopo, accettando l’invito del prefetto delle armi, Saverio de Merode (1820-1874), assunse il comando dell’esercito pontificio, nel quale militavano legittimisti di varie nazionalità, cercando di riorganizzarlo, e fece fortificare la città e il porto di Ancona. Scon-fitto a Castelfidardo dall’esercito italiano del generale Cialdini, si ritirò ad An-cona, dove sostenne per alcuni giorni un assedio per terra e per mare. Dopo la resa, si allontanò via mare e attraverso Genova rientrò in patria, da dove poté recarsi di nuovo a Roma, accolto con benevolenza da parte del pontefice Pio IX. Conservò il titolo di generale in capo dell’esercito pontificio, ma, ottenuto il congedo, si ritirò in Francia dove strinse relazioni col partito legittimista e con quello clericale.

b. Primodan > Georges Pimodan de Rarécourt, marchese de la Vallée (Parigi 1822 - Castelfidardo 1860). Membro dell’aristocrazia francese, frequentò le scuole di cavalleria di Saint Cyr e di Wiener Neustadt; venne poi nominato uf-ficiale di un reggimento austriaco di stanza a Verona fino allo scoppio della ri-voluzione del 1848. L’anno seguente partecipò alla campagna contro gli Un-gheresi, rimanendo ferito nella battaglia di Moor. Nel 1860 offrì i suoi servigi alla Santa Sede. Divenuto capo di stato maggiore del Lamoricière, affrontò la colonna di garibaldini che cercava di penetrare nello Stato della Chiesa dal confine toscano, poi cadde combattendo nella battaglia di Castelfidardo il 18 settembre 1860. La sua salma fu tumulata a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi.

c. Ritengo che sia da identificare con il generale svizzero Massimiliano Al-fonso Pfyffer (1834-1890), il quale, a partire dal 1852, prestò servizio nell’esercito napoletano e si distinse nella difesa di Gaeta nel 1860. Ritornato in seguito in Svizzera, salì i più gradi nell’esercito federale.

53a. Al decesso improvviso, susseguito ad una breve, quanto letale malat-tia, accenna il fratello Domenico in una nota del ‘Veio difeso’, opera pubblicata un mese dopo la morte di Virgilio, nella quale riporta anche il testo dell’iscrizione funeraria, con tutta probabilità da lui stesso dettata:

“Mentre si stampava il presente libro, essendo andato Virgilio mio fratello per ricreatione alla festa di settembre, che si fa de’ nostri Santi in Civita Castellana, il secondo giorno vi s’infermò, e dopo nel decimosettimo con dispiacere universa-le se ne passò a miglior vita. Onde mi è parso il dovere con questa opportunità

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di fargli l’ultimo onore con pubblicare al mondo la presente inscrittione della sua sepoltura” (nota, p. 122; epigrafe, p. 123; Pulcini, 1974:233, CICC 76).

L’iscrizione è riportata in numerose pubblicazioni, tuttavia in tutte quelle che io ho potuto finora consultare viene omessa la citazione biblica (Ps. CXVIII, 54), incisa sul listello sovrastante la nicchia a conchiglia che accoglie-va il busto del musicista, dal quale negli ’80 è stata trafugata la testa ad opera di ignoti. Con il versetto veniva sottolineato il carattere prevalentemente sacro dell’attività musicale svolta da Virgilio: Cantabiles mihi erant justificationes tuae / in loco peregrinationis meae.

b. Del Frate ha in mente l’articolo ‘Progetti e ingiusti oblii’, apparso su ‘Il Rinnovamento’ (IX, n° 334, 31 mar. 1894, pp. 2-3), nel quale si vagheggia, fra l’altro, l’istituzione di un teatro cittadino: “Si parla di costruire un teatrino, servendosi dei vecchi locali sotto la pretura, acquistando, per ingrandire gli ambienti, un piccolo tratto d’orto del seminario. Quanto alla spesa, per una metà concorrerà il Comune, e per l’altra i soci. Lo denomineremo (Teatro Virgi-lio Mazzocchi). Il Mazzocchi fu un grande maestro; il Fetis lo annovera tra i ce-lebri compositori di musica sacra dei tempi passati”.

54a. Per l’esattezza vd. Cronaca, p. 43. Il merito della prima installazione è attribuito alla benevolenza del card. Rodrigo Borgia, nominato governatore perpetuo della città nel 1455: “procurando […] che per laudare maggiormente Iddio si fabbricassero l’organi, li quali poi a nostro tempo furono fatti in più ele-gante forma per diligenza di Giovanni Sernuzio arciprete, e di Pier Angelo Pechi-nolo e di Lodovico Marutij santesi della chiesa”. Sul moderno organo della cat-tedrale e sul suo recente restauro, vd. Q. Palozzi, Il restauro dell’organo “Aletti” 1890, Civita Castellana 2002.

b. Del tutta fantasiosa risulta la spiegazione del termine tiorba, che a Roma era conosciuta con il nome di chitarrone: il lemma relativo allo strumento non figura nella fondamentale opera di E. La Stella T., Dalie dedali e damigiane. Dal Nome proprio al nome comune. Dizionario storico di deonomastica (Zanichel-li-Olschki, 1990). Il GDLI (XX:1052) dichiara che la voce è di etimo incerto. Più articolata la scheda in DELI (5:1340, s.v.): “′strumento simile al liuto, con doppio manico e sino a quattordici paia di corde di metallo da pizzicarsi con un plettro tipico del XVI sec.′ (1585, T. Garzoni cit. dal VEI; 1598, Florio; 1640 G. B. Doni: “Tiorba, trovata in quei medesimi tempi [circa il 1575] in Firenze da Antonio Naldi detto il Bardella”, ma l’affermazione è contraddetta dalla pre-senza nell’ultina ediz., postuma, della Zaninotela di T. Folengo, av. 1544, dei vv.: hic sonant pivas, cifolos, tiorbas, / hicve sampognas, piferos, ribebas’, 230-231). Voce di orgine sconosciuta. Per G. D’Alessio, che parte dal presupposto che il centro d’irradiazione sia Venezia, dove tiorba potrebbe essere variante, come in altri casi, di tuorba, pensa (!) allo slavo torba ‘sacca da viaggio che si porta a tracolla, bisaccia’, passata per scherzo ad indicare lo strumento porta-to a tracolla dai mendicanti. L’ipotesi, per alquanti suoi lati oscuri, non con-vinse A. Prati. Vi si è immesso, comunque, orbo, trattandosi di uno strumento usato dai mendicanti ciechi”.

55. Vd. cap. 57, p. 112. Dati utili riguardanti la storia della ceramica, a partire dalla fine del XVIII secolo, si trovano nella Guida (pp. 62-65), in Tar-quini (2004:69-70) e nella relazione di A. De Simone (Visita alle fabbriche di

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Civita Castellana, in ‘Bollettino del Min. di Agricoltura, Industria e Commercio, a. IX, vol. I, serie C, fasc. 4, Roma, Aprile 1910, pp. 37-49).

Da esse dipendono in maniera diretta le pubblicazioni successive (ad es., La Scuola Statale d’Arte ceramica, in ‘Miscellanea di Studi Viterbesi’, Viterbo 1962, Agnesotti, pp. 55-61). Una cronologia esauriente degli insediamenti produttivi, a partire dalla fine del XVIII secolo sino al 1970 circa, è reperibile nel recente lavoro di Abruzzese (2002:93-109, cap. IV), che utilizza i documen-ti attinti all’Archivio di Stato di Roma e alla CCIAA di Viterbo.

56. Un breve cenno all’ospedale compare anche alla fine del cap. 23 (p. 39). Naturalmente l’autore allude al cosiddetto ‘Ospedale vecchio’, che il Tarquini nel 1874 definisce ‘maestoso ospedale di nuova costruzione’ (2004:70). Altri interventi per l’ampliamento e il completamento della struttura furono eseguiti nel 1894 dalla ‘Società Cooperativa di produzione e lavoro’, che per questo fu premiata all’esposizione di Milano.

Al primitivo edificio, che sorgeva nell’immediato suburbio, fa riferimento, invece, il Pechinoli: “Per albergo d’infermi e de pellegrini dotarono e edificarono fuori della città l’ospedale” (Cronaca, p. 34). Il cronista torna a citarlo, a propo-sito della controversia sulla gestione, insorta tra il Comune e la Compagnia Santa Croce (Cronaca, p. 106). Nel 1729 gli ospedali erano due, entrambi sog-getti all’ordinario diocesano: il primo per gli infermi amministrato dalla Società di San Giovanni Battista, il secondo per i pellegrini, sotto il titolo della Santis-sima Trinità. Anche gli archivi di queste importanti istituzioni sono andati quasi totalmente perduti, tuttavia un documentato excursus storico-amministrativo si può proficuamente consultare Ciarrocchi 1995.

57a. Riassumo in una scheda la storia di questa infrastruttura, che ha as-solto per decenni un servizio fondamentale, collegando la cittadina alla capita-le e al capoluogo di provincia. Un primo progetto era stato redatto fin dal 1895 dall’ingegnere E. Angelelli (Progetto di una tramvia a vapore fra Roma e Civita Castellana, Roma 1895, Tip. dei Tribunali). Ma l’ipotesi cominciò ad assumere una certa concretezza solo il 28 settembre 1904, quando fu costituita a Bru-xelles, presso lo studio del notaio Edward Von Halteren, la “Société Tramways et Chemins de Fer Electriques de Roma-Civita Castellana-Viterbo”, i cui titola-ri erano i signori Ryckaert e Renders. Come indicava chiaramente la denomi-nazione, lo scopo era la costruzione e l’esercizio di una linea ferroviaria, a tra-zione elettrica, per assicurare il collegamento tra la capitale e i due principali centri della Tuscia. Nonostante le polemiche, le riserve, le modifiche del pro-getto e il cambiamento della ragione sociale, la società riuscì a realizzare la ferrovia Roma-Civita Castellana in tempi relativamente brevi: il 31 marzo 1906 fu effettuata la prova dei binari di corsa, il 23 settembre fu compiuto il primo viaggio sperimentale. La tratta urbana fu aperta il 10 ottobre e, quasi allo sca-dere dell’anno, il 27 dicembre ebbe inizio l’esercizio sull’intera tratta. Il servizio pubblico sulla percorrenza Roma- Civita cominciò il 1 gennaio 1907.

La costruzione della tratta Civita-Viterbo fu ritardata di qualche anno, per-ché intervennero vari ostacoli, non ultime le difficoltà, anche di ordine econo-mico, nella gestione dell’esercizio.

Tuttavia i lavori, una volta ripresi, procedettero alacremente: il 9 ottobre del 1912 venne aperta all’esercizio la tratta Civita-Fabrica di Roma; il 6 dicembre dello stesso anno quella seguente Fabrica-Vignanello. Anche nell’anno succes-

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sivo il ritmo si mantenne intenso: il 19 marzo 1913 era pronta la tratta Vigna-nello-Soriano e finalmente il 1 ottobre la linea era ultimata fino a Viterbo. Il 9 dello stesso mese la ferrovia venne inaugurata per l’intero percorso.

b. Vd., più in dettaglio, cap. 49, p. 100. Anche secondo la testimonianza di Mario Franci (Nuovi canti falisci, Milano-Roma 1914, Soc. Ed. Dante Alighieri di Albrighi e Segati, p. 77) fin dal 1890 cominciò ad essere erogato il servizio di illuminazione elettrica dall’officina Paolelli, costruita lungo il Rio Maggiore, al-dilà del ponte di Terrano. Dunque, Civita Castellana sarebbe stato il terzo cen-tro in Italia ad utilizzare il nuovo sistema. L’officina doveva essere moderna e bene attrezzata, se era in grado di fornire lo stesso servizio ai comuni limitrofi di Nepi e Castel S. Elia.

59. Il Pechinoli, ricorrendo ad un topos encomiastico, elogia la fertilità del territorio e l’abbondanza di selvaggina, di cui la città ai suoi tempi godeva: “l’ampio come comodo territorio abbonda di quasi tutte le cose necessarie all’humana vita, perché è appropriato a grano et ad altre biade, a vino, ad olio, a legumi ed erbaggi, et ad ogni sorte de frutti; e copioso d’acque, di legna, e da pascoli per bovi, cavalli, porci, pecore e per altri animali bruti et è dotato di bel-lissime caccie di caprij, di lepori, di faggiani e di starne” (Cronaca, p. 28).

Purtroppo, sia dell’attività venatoria che di quella piscatoria Del Frate ci tramanda solo elenchi di nomi, senza fornire descrizioni, seppure sommarie ed indicative, degli attrezzi, dei congegni o dei sistemi e del loro pratico impiego. Ne consegue che, in alcuni casi, non è stato possibile rintracciare l’esatto si-gnificato dei termini, nonostante la consultazione dei repertori e le interviste mirate con i vecchi cacciatori / pescatori di Civita.

Tuttavia è evidente che alcune voci si rifanno alla secolare terminologia ci-negetico-alieutica e si ritrovano nei trattati: “S’uccella poi o con reti o con vi-schio e con uccelli. Alle reti s’appertengono le maglie e gli anelli, le corde, l’armatura, le ballazuole, le saccole, le stagge, il cavalletto; e così c’è la rete da uccelli grossi e minuti, la ragnuola, la pantiera, i lacci, e la rete da tratta coi ri-chiami, il boschetto, il capannetto; e poi il covolo, con la cantarella e il quagliaro-lo; e appresso il copertore col can da rete. Dall’altro canto c’è il vischio, o da sole o da acqua, i cannoni, le panie, la civetta con la crociola sua, e la foglietta e ‘l zufolo e ‘l carniere e ‘l boschetto, ove intervengono molte azioni, finché, fatta la tesa, si prendono uccelli e si portano a casa” (Garzoni, II:836-837).

Sempre il Garzoni (II:836: “cercando l’orme delle fiere, borrendo quelle, in-contrandole, seguendole, cacciandole, ferendole, prendendole vive, uccidendo-le…”) riporta il corrispettivo verbale di aborrita, termine venatorio tuttora vivo nelle parlate del Viterbese, che trova riscontri nell’Italia centro-settentrionale: “borì, v. [lombardo; veneto borìr(e), ladino centrale, nel Comelico: burì; friulano burì; emiliano: burìr con varianti] ‘levare, scovare la selvaggina’. Significati af-fini s’incontrano nel ferrarese borì ‘slanciarsi, assalire’; nel mantovano tor la sborda ‘prendere la rincorsa’; nel laziale (ab)urìta ‘il levarsi improvviso degli degli ucelli’, al quale corrisponde l’ampezzano buriada. Etimologia molto di-scussa, ma che sembra rifarsi ad un germanico *burjan, forse più precisamen-te longobardo ‘far alzare, levare’, usato dapprima e soprattutto nel linguaggio venatorio” (M. Cortelazzo-C. Parlato, I dialetti italiani. Dizionario etimologico, Torino 1998, UTET, p. 85, s.v. borì).

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60. La pescosità del fiume Treia e degli altri corsi d’acqua minori è attestata per i secoli trascorsi da varie fonti, in particolare dagli statuti comunali [III.19: De chi tolle nasse, overo tovarelli de le acque de Civita; V.72: Del vendere, pe-scare de l’acqua di Treia; V.73: In che modo si venda il pesce in Civita; VI, carta 91v: De la pesca del ponte di Treia]. Di non minore interesse un passo del Pe-chinoli: “Siede questa città sopra un sublime ma piano sasso […], cinta d’alte e scoscese ripe alle quali fanno letto limpidissimi rivi d’acque vive non solo buone per bere, e ripiene di barbi, squali, lamprede e di altri sapidi pesci, ma sufficien-ti ancora per macinar grano, et oglio, per conciar corami, e per fare polvere e salnitro” (Cronaca, p. 27) [squalo, con le varr. dialettali squale, squalétto, è termine tuttora corrente per designare localmente il ‘cavedano’ (Leuciscus ce-phalus L.). Il nome rimanda al lat. squalus ‘coperto di scaglie, squamoso’, co-me ben si conviene al nostro pesce. Come ittionimo squalus è già citato in Var-rone: squalos et mugiles pisces (De re rustica, 3.3.9)].

Un elenco più completo della fauna ittica, presente nel bacino idrografico del fiume, viene offerto dal medesimo Del Frate (Guida, p. 44, n. 2): “In questi corsi d’acqua si pescano: barbi, Cyprinus barbus; cefali, Mugil cephalus; an-guille, Murena; lamprede, pitromyzon fluviatilis; gamberi, astracus fluviatilis; granchi, carcinus maenas; lupole, morella, roviglioni, dei quali non sappiamo i nomi zoologici” [Propriamente: barbo = Barbus plebeius Val.; anguilla = Anguil-la anguilla L.; lampreda = Lampreda fluviatilis / L. planeri; gambero = Austra-potamobius pallipes; granchio = Potamon fluviatile; lupola = ital. ‘ghiozzo’ (Go-bius nigricans); morella = ital. ‘vairone’ (Telestes souffia muticellus); roviglione = ital. ‘triotto’ (Rutilus rubilio Bp.)].

Il termine ‘pasta’ per designare un impasto, nel quale venivano frammi-schiate a farina sostanze ittiotossiche, è antico, vd., al riguardo, Garzoni (II:838).

61a. Il capitolo ‘usi e costumi’ risulta, al pari di tutti gli ultimi, sommario e generico. Ciò nonostante fornisce elementi utili per la conoscenza delle tradi-zioni locali: ad es. la consuetudine

di intonare brindisi augurali in onore della coppia di sposi novelli. Non manca l’accenno alla parata e alla intravata (in Toscana laccio o serraglio, in Abruzzo fettuccia), una specie di sbarramento con nastri o travi lungo il per-corso del corteo nuziale, per rappresentare simbolicamente il tentativo della comunità o del gruppo familiare di opporsi alla sottrazione della giovane don-na.

b. A tempi immemorabili risale l’usanza di riprovare il matrimonio dei vedo-vi con schiamazzi e rumori. Questa chiassata, nota nell’Italia centrale con il nome di ‘scampanata’ (civitonico: scambanacciata), era un tempo molto diffusa in area italiana con una pluralità di denominazioni, per es.: bacilèda (roma-gnolo), bidonata (fanese), tintinedda (sardo), cocciata o scocciata (Acquasparta), scempanata (Montefiascone), in qualche centro del Lazio meridionale muttiglia-ta (dall’imbottavino o pevera, che funge da megafono) o vurniata (dal nicchio o buccina, che serve da corno). Secondo l’AIS (carta 816, Band IV, II Teil, 1932), il fenomeno si rarefa solo nell’Italia meridionale. Comunque la manifestazione folklorica, carica di forte pregnanza rituale, è comune a gran parte d’Europa, da cui si è irradiata in altri continenti extraeuropei (per es. nelle Americhe): basti menzionare il francese charivari (con molteplici varianti nei dialetti fran-

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cesi, ma presente anche nel piemontese zanzivari), lo spagnolo cencerrada (da cencerro = ‘campanaccio’) ed il tedesco katzenmusik (con riferimento a katz = ‘gatto’, per indicare soffi, fischi, grida scomposte, frizzi e lazzi, che compone-vano la chiassata): uno schiamazzo assordante ed indiavolato con campanac-ci, tamburi, battole, pentole e coperchi, padelle, bidoni e barattoli, corni e buccine, insomma con ogni sorta di strumenti improvvisati. Con essa la co-munità stigmatizzava pubblicamente situazioni che giudicava riprovevoli o il-lecite: un vedovo o una vedova che si risposavano troppo presto e con persone troppo giovani per loro, mogli bisbetiche che maltrattavano e/o picchiavano i mariti, mogli o mariti infedeli, coppie notoriamente litigiose ecc.

La ‘scampanata’ presenta una notevole affinità con le ‘trentavecchie’ o ‘ten-tavecchie’, altro rito rumoroso, che nelle nostre campagne veniva ripetuto nel triduo antecedente l’Epifania. Se oggi l’aspetto burlesco e satirico, quasi car-nevalesco, risulta prevalente, non sfugge il primitivo significato magico-rituale e la valenza apotropaica per tenere lontane le potenze malefiche e, nel caso, del matrimonio tra e/o di vedovi, lo spirito revenant dei defunti. Una rubrica dello statuto comunale (Libro di Riformanze, Vieto d’atti dishonesti contra don-ne, carta 91r) dimostra che la ‘scampanata’ era antica di secoli: “Statuimo, (e) ordinamo ad evitare ogni incivilità, e dishonestà che per alcun tempo che le donne vedove se remaritano, e vanno a lor secondi mariti si sogliono fare, (e) anche al te(m)po di carnevale gravi strepiti, tintinnate, zifoli, clamori, e molte al-tre simili dishonestà, e parole incivili incitose alle questioni molto certamente in-civili, (e) indecenti alla città, (e) politico vivere del che ne potria succedere grande errore, (e) questioni sca(n)doli, (e) poi disturbo della città, qualunque persona di qualunque età si sia che in dette tintinnate di rumore, (e) clamore si trovasse in-corra in pena di doi giulij per ciascun di quattordici a(n)ni in giù, (e) quattro giulij da quattordici a(n)ni in su…”.

c. Per la processione dell’inchinata il Pasquetti indica un diverso itinerario (cap. 14, p. 23): “l’immagine del Salvatore dipinta sul legno [attualmente con-servata nel Museo diocesano d’arte sacra di Orte - n.d.r.], quale si vede nella così detta machina, che ne’ stabiliti tempi si espone alla pubblica venerazione, e la sera del quattordici agosto processionalmente si conduce alla porta del Borgo, sopra la quale si vede altra pittura antica rappresentante una consimi-le”.

d. Riferimenti alla giostra si ritrovano passim in diversi altri capitoli: cap. 2, p. 5; l cap. 34, pp. 71-72; vd., in particolare, il commento relativo al cap. 34.

62. In una nota della Guida (p. 43, nota 1), per prevenire eventuali obiezio-ni, Del Frate puntualizza che i dati riferiti sono frutto di una paziente osserva-zione e di un rilevamento diretto pluriennale: “Questi dati li abbiamo tolti dalle note di osservazioni climatologiche e meteorologiche, da noi dedotte, per lunga serie di anni”. Tali sistematiche registrazioni comprovano ancora una volta il vivo interesse che il nostro manifestò per il metodo induttivo e per le discipline scientifiche.

63. Vd. Guida, pp. 71- 83. Il ricorso, talora indiscriminato, al semitico per spiegare l’etimologia dei poleonimi e degli etnici era molto in voga nei secoli trascorsi [per esempi a noi vicini, vd. Vallerano (Poscia, Vallerano e il suo tem-pio della Madonna del Ruscello, Vignanello, rist. del 1982, p. 21): “Secondo al-

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tri invece - tra i quali il Calindri e il Palmieri - Vallerano sarebbe di origine fe-nicia e la stessa etimologia del nome, che vogliono derivi da ‘Baal eran’ che in lingua caldaica significa ‘luogo delle scolte’, confermerebbe questa tesi”; e Ve-tralla: “Un tal nome rispondevami aperto Beth arel ossia, tolto secondo il solito l’ain iniziale della seconda voce, Beth-rel, ‘casa dell’incirconciso’ (A. Scriattoli, Vetralla. Pagine di storia municipale e cittadina da documenti di archivio, 19712, p. 69)].

Una documentata proposta su base glottologica è reperibile nel saggio della Giacomelli (1961), mentre il successivo contributo di Di Stefano Manzella (1976-1977) approfondisce piuttosto il problema di identificazione topografica mediante un minuzioso riesame delle testimonianze classiche. Merita di essere segnalata l’ipotesi recentemente avanzata da Semerano (2000:867-868), che reinterpreta i materiali riuniti dalla Giacomelli nell’ambito delle lingue semiti-che, ma in un contesto culturale e linguistico più organico: “Viene postulata la notissima base FALA. Tale base corrisponde ad accadico bēlu, semitico ba’al, aramaico Ba’lā, appellativo comune della divinità maschile per i Semiti. […] FALA, dunque, significa originariamente “cielo” ma anche altura, perché il cul-to di Baal ha come luogo abituale le bāmōth “i luoghi elevati”, persino le ter-razze dei templi o delle case (v. Palatino). […] Si chiarisce così quali rapporti abbiamo le φάλαι: όροι, σκoπίαι o il βαλόν τòν ουρανόν di Esichio; e anche la base di falado, etrusco per “cielo”, (cfr. lat. palatum, Palatinum), corrisponden-te e Ba’al (v. Παλλάς, Παλλάδιον). Falerii richiama altri toponimi italici come Falerus, Falernus mons; la città dei Falisci, che una tradizione vuole pelasgica, richiama anche con il suo nome Φάλαρα, Φαλωρία città tessaliche, il capo Φά-ληρον dominante l’antico porto di Atene forme che escludono il rotacismo di una base *Phales-. Le basi originarie di Falerii, dunque, che ha il significato di “parte alta del paese”, corrispondono a Fal-, di cui ci è nota la identità con Baal, e, nella seconda componente -erii, ad accadico -ēri, genitivo di accad. ē-ru, errum, sumero uru, ebraico ‘īr (‘town, city, village, capital’)”.

Ad ogni modo il rapporto etimologico di Falerii con fala era stato prospetta-to fin dall’antichità: Faleri oppidum a fale dictum (Paulus Festus, p. 81 Lin-dsay).

64. Nella Guida (pp. 57-59) viene annoverato tra i cittadini illustri anche De Parentibus Giovanni “generale dell’ordine di S. Francesco. Il cadavere di questo dotto religioso è sepolto nella chiesa dei p(adri) Minori Osservanti a Campagna-no (famiglia estinta)”. L’attribuzione è condivisa da Theuli-Coccia (1967: 65-68 e 68), poggiando su una antica, ma malfida, tradizione locale; al contrario ri-sulta che Giovanni Parenti era di origine toscana, precisamente di Carmigna-no, presso Firenze, dove nacque intorno al 1180. Divenuto generale dell’ordine in luogo di Frate Elia, il Parenti, di ritorno dal capitolo generale di Anagni fece sosta con un seguito di 200 frati nella nostra cittadina, dove il 18 ottobre 1230 poté assistere alla seconda invenzione delle reliquie dei santi patroni Marciano e Giovanni. Prima di vestire il saio francescano, egli aveva compiuto studi di giurisprudenza, poi aveva insegnato per qualche tempo all’università di Bologna ed aveva espletato l’incarico di giudice in vari comuni della Tuscia: nel 1207 era judex potestatis a Viterbo (Kamp, 1963:95, ACV Perg. 1007). Nel 1211, proprio mentre ricopriva la stessa carica a Civita, sarebbe accaduto l’episodio che determinò la sua decisione di rinunciare al mondo e di entrare nell’ordine di San Francesco: “Cum…esset iurisperitus et iudex in civitate Ca-

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stellana, semel per fenestram respiciens vidit quemdam custodem porcorum porcos includere non valentem, edoctus a socio ipsos his verbis incantavit: Por-ci, porci, intrate in castellum, sicut iurisperiti et iudices intrant infernum. Quo dicto statim porcorum multitudo sine mugitu intravit. Et ob hoc, divino timore percussus, Ordinem Minorum intravit” (Theuli-Coccia, 1967:64, nota 2). Diven-ne ministro provinciale di Spagna nel 1219 e poi ministro generale dell’ordine nel 1227, carica che mantenne fino al 1232, quando gli subentrò di nuovo fra-te Elia. Il Del Frate (p. 80, n. 1) attribuisce a lui l’erezione del convento di S. Susanna, fraintendendo un passo del Pechinoli (Cronaca, p. 119). Comunque al 1230 gli storici dell’ordine datano la fondazione del convento minoritico at-tiguo alla chiesa di San Fancesco.

66. Anche della piccola raccolta di ‘Bollarii e notizie patrie’ si è persa ogni traccia. Pure in questo caso la colpa è da attribuirsi alla nequizia dei tempi? Non sarà piuttosto l’incuria degli uomini?!

67. Che i ventres falisci siano da identificare con la civitonica mazzafégheta è mera supposizione di Del Frate. In effetti sull’esatto significato non c’è ac-cordo neppure tra i filologi, come evidenziano le traduzioni delle fonti classi-che, che citano il tipico salume: il De Lingua Latina di M. Terenzio Varrone (O-pere, a c. di A. Traglia, Torino 1996, UTET, V, 22, 111, pp. 124-125): “Un tipo di salsiccia fatta con l’intestino crasso del maiale chiamano luganiga, perché i nostri soldati l’hanno imparata a fare dai Lucani, come chiamano ‘ventresca falisca’, il salume che hanno imparato a conoscere a Falerii” e poi un epi-gramma di M. Valerio Marziale (Epigrammi di M. Valerio Marziale, a c. di G. Norcio, Torino, 1995, UTET, IV, 48, v. 8, pp. 310-311, nota): “il ventre di porco farcito era una specialità della cucina falisca”.

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GLOSSARIO

I lemmi sono ordinati secondo l’alfabeto tradizionale. Per i verbi, si dà l’infinito, ove attestato, altrimenti la forma ricostruita tra parentesi quadre; lo stesso procedimento viene adottato per i nomi, registrati al singolare, e per gli aggettivi, registrati nella forma maschile singolare. L’organizzazione del lemma tiene conto della categoria morfologica, della definizione con l’aggiunta, in al-cuni casi, di una breve nota, posta tra parentesi quadre, relativa alle attesta-zioni antiche o coeve, anche in latino medievale; dopo i due punti segue l’elenco delle occorrenze, secondo l’ordine di pagina. Il punto e virgola ha fun-zione separativa delle singole occorrenze.

abbeveraggi<ament>o, s.m., ‘abbeveraggio’ [se non è un lapsus calami, è for-mazione estemporanea ottenuta con aggiunta di doppio suffisso]: 39.

abbeveratoia, s.f., ‘tipo di caccia che consiste nell’appostare la selvaggina, per abbatterla, presso i luoghi dell’abbeverata’ [Perosino, II:10, s.v. abbevera-toia]: 114.

abborrita, s.f., ‘cacciare alla borrita, esercitare la caccia agli animali che si le-vano davanti al cacciatore che procede senza cani, pronto al colpo’ [Perosi-no, II:84, s.v. borrita; DEI, I:566, s.v. borrita]: 114.

abolitione, s.f., ‘abrogazione’, ‘revoca’, annullamento’: 63 (III.80, abolizione); 64 (IV.54, pl.).

[admenare], v.tr., ’malmenare’, ’percuotere’: 62 (III.41, admena). [adoppiare], v.tr., ‘raddoppiare’: 64 (IV.55, se adoppino). [aggiustare], v.tr.,‘adeguare lo strumento di misurazione al campione approva-

to o alle norme stabilite dal Comune’ [in GDLI, s.v. aggiustare manca la de-finizione qui addotta]: 65 (V.18, aggiustino) .

alberetto, s.m., ‘alberello’, ‘pianta, in genere di rovere, alta meno di dieci metri, situata in un bosco ceduo e solo parzialmente sfrondata. Nella corteccia si piantano paniuzze opportunamente invischiate. Era caccia soprattutto de-dicata ai fringuelli, in tempo di passo’ [Perosino, II:31, s.v. alberello; F., Mancini, Voc. del dialetto todino, SFI, XVIII, 1960, p. 325, s.v. alberèllo]: 114.

amenda, ‘indennità’, ‘risarcimento del danno’: 64 (IV.44). [anitre], s.f., ‘anatra selvatica’: 114 (pl.). anquintana, s.f., ‘giostra della quintana’: 71. [apparare], ‘otturare’, ‘ostruire’, ‘sbarrare’: 64 (IV.35, appara); 65 (V.13, appa-

ra). [appellatione], s.f., ‘ricorso in appello’: 60 (II.35, pl.); 62 (III.5, pl.). [appicciolato], s.m., ‘membro o consigliere subentrante’: 68 (VI.12, pl.). ara, s.f., ‘aia’: 64 (IV.48). arbore, ‘albero’ [in coppia sinonimica con insiti; ar- con grafia etimologica]: 64

(IV.18); 67 (V.88). [arcavolo], s.m., ‘antenato’: 48 (pl.), 123 (pl.). [archetto], s.m., strumento per la cattura di uccelli arboricoli, consistente in

un laccio teso alle estremità di una bacchetta flessibile piegata ad arco, col-locato su un ramo dell’albero o su un arbusto e fornito di esca (insetti, lar-ve, ecc.) [GDLI, I:620, s.v., archetto8]: 114 (pl.).

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archifagno, vd. infra: diavolaccio: 114. [arobare] v.tr., ‘rubare’: 62 (III.61, arobate). arte, s.f., arte meccanica o manuale, mestiere che richiede lavoro manuale per

la fabbricazione di oggetti di uso pratico: 63 (III.77); 65 (V.1); 65 (V.4). artificio, s.m., ‘lavoro artigianale’: 65 (V.4). [artista], s.m., ‘artigiano’, ‘artiere’, ‘membro di un’arte’: 61 (II.52, pl.); 65 (V.2,

pl). assegnamento, s.m., ‘garanzia’, ‘pegno di pagamento’ [GDLI, I:753, s.v. asse-

gnamento5]: 67 (V. 91). [assegnare], v.tr., ‘riconsegnare’: 63 (III.75). attore, s.m., ‘chi agisce in giudizio’: 59 (II.9). autriaco, s.m., ‘austriaco’ [nella Guida compare esclusivamente ‘austriaco’; se

non è un lapsus calami, si può pensare ad una forma ricalcata sul francese Autriche, autrichien]: 82 (pl.), 82 (autro-aretine), 97 (autro-aretine-russe).

avvezzo, s.m., ‘adescamento dell’animale selvatico mediante l’esca’ ‘disporre l’esca nel modo più opportuno per attirare la selvaggina a distanza utile per il tiro, in una trappola ecc.’ : 114.

[bandimento], s.m., ‘bando’, ‘pubblico annuncio effettuato nei luoghi deputati’ [assente il GDLI il lemma bandimento]: 64 (IV.23, pl.).

bandita, s.f., ‘riserva di caccia, di pesca, di pascolo’: 88. [barbaro], s.m., ‘cavallo barbero’, ‘cavallo da palio’[GDLI, II:61, s.v. barbero1]:

70 (pl.). barzetto, s.m., ‘caccia che si svolge di notte e consiste nell’appostamento alla

lepre nei luoghi ove si conosce che si reca solitamente alla pastura’ [Perso-sino, II:65, s.v. balzello; GDLI, II:26, s.v. balzello2]: 114.

[basciare], v.tr., ‘baciare’: 62 (III.43, bascia). [bastrica], vd. infra: castrica. [bestia], s.f.. ‘animale domestico’: bestie grosse (64, IV.25); bestie vaccine e ca-

valline (69, VI. 54) [bestie grosse ‘animali di grossa taglia, come equini e bo-vini’ vs. bestie minute / animali minuti (64, IV.47) ‘animali di piccola taglia, come ovini e caprini’].

beverino, s.m., ‘rete da caccia, che si tende sul tratto d’acqua ove gli uccelli vanno a dissetarsi nell’estate’ [GDLI, II:201, s.v. beverino2]: 114.

boattiere, s.m., bovaro: 106. bolognino, s.m., ‘moneta bolognese’ [tipica moneta bolognese dalle origini du-

centesche della zecca cittadina. Per il suo peso e valore rispetto al ducato, vd. F. Panini Rosati, La zecca di Bologna (1192-1861), premessa all’omonimo Catalogo della mostra (15 nov. 1978 - 10 dic. 1978), Bologna, Arti grafiche Tamari, 1978. In ogni caso il bolognino piccolo era moneta di lega, mentre il ducato largo, sul modello veneziano, era moneta d’oro. La coniazione del bolognino d’oro risale al 1380 (F. Malaguzzi Valeri, La zecca di Bologna, Milano, Cogliati 1901. Il bolognino d’oro recava il motto “Bono-nia docet”, mentre su quello d’argento (in realtà un ‘grosso’) compariva la scritta “Mater studiorum”]: 70 n. 25, 70 n. 25, 70 n. 25.

boschetto, s.m., ‘uccellagione consistente nel piantare determinati alberi o ar-busti in modo che attirino nelle reti o nelle panie gli uccelli’ [Perosino, II:84, s.v.; GDLI, II:322, s.v. boschetto2]: 114.

bossolo, s.m., ‘urna per le votazioni o per l’estrazione dei nomi dei magistrati’ [GLI:94, s.v. buxolus ‘bossolo’, ‘scatola’, con es. padovano del XIII sec.;

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GDLI: assente la definizione qui addotta]: 58 (I.21); 68 (VI.3); 68 (VI.4); 68 (VI.7); 68 (VI.8).

[brasanella], s.f., ‘bressanella’ o ‘brescianella’, ‘luogo per uccellare, formato da un corridoio di alberi chiuso da alte reti (nelle quali incappano gli uccelli quando cercano di fuggire dagli alberi, spaventati dagli uccellatori’ [voce lombarda, cfr. milan. bresana, -èla, da bresàn ‘bresciano’, (di Brescia); Pe-rosino, II:91, s.v. brescianella; DEI, I:596; GDLI, II:365, s.v. bressana, bressanella (brescianella); REWS 1318a, s.v. Brixia]: 114.

cacciarella, s.f., ‘posta al cinghiale’, ‘(in certe zone dell’Italia centrale) caccia al cinghiale con battute eseguite da cani e battitori’ [GDLI, II: 481, s.v.]: 114.

calascione, s.m., ‘colascione’, ‘strumento musicale simile al liuto, di sonorità aspra, provvisto di quattro corde e di sedici tasti sul manico [GDLI, II:481, s.v. colascione]: 105.

calende, s.f., ‘primo giorno del mese’: 65 (IV.65). camerlengo, s.m., ‘tesoriere’: 61 (I.54); 62 (III.53); 65 (V.26); 68 (VI.9, pl.); 71. canarone, s.m., ‘incannicciata’ ‘dispositivo di pesca a stazione fissa. Di un

grosso fascio di canne si lega con il fil di ferro un’estremità, poi si stendono le canne dell’altra a ventaglio con i bordi rialzati. Si posiziona a piano incli-nato, facendo emergere fuori dell’acqua e contro corrente il vertice e bloc-cando con sassi il graticcio sul fondo. Il pesce, che risale la corrente, si tro-va incanalato lungo il graticcio sommerso, avanza finché rimane all’asciutto e muore’: 115.

[capomandro], s.m. ‘recinto all’aperto per il pernottamento del bestiame’ [voce attestata nel territorio da odonimi, come Via del capomandro (Calcata), e da toponimi, come Lo capomandro (Mazzano: località tra Li Sòrvi, Pancallo e e Montestrada) o Capomantri (Bassano Romano, tratto di Via Roma in fondo al Monticello)]: 64 (IV.34, pl.).

carcasso, s.m., ‘faretra’, ‘turcasso’: 70. [carlino], s.m., ‘moneta d’argento o anche d’oro coniata nel regno di Sicilia (da

Carlo I d’Angiò nel 1278), dove ebbe vario valore; in seguito il nome passò ad indicare monete sabaude e papali del valore di pochi centesimi’: 70, 70 (26), 70 (26), 70 (26), 70 (26).

castaldo, s.m., ‘funzionario del Comune delegato alla convocazione, alle cita-zioni e ai pignoramenti’ [GLI:134, s.v. castaldus, castallus; GDLI: assente la definizione qui addotta]: 59 (I.37, pl.); 60 (II.25).

[castrato], s.m., ‘castrato’ [GLI:186, s.v. crastatus ‘castrato’: de carnibus de crastatis et porcinis, Castel Fiorentino 1305, 55]: 68 (VI.35).

[castrica], s.f., ‘averla’ (Lanius collurio) [GDLI, II:864, s.v. castrica]: 114. cavaliero, s.m., ‘cavaliere di corte, che coadiuva il podestà con funzioni esecu-

tive’ [GDLI, II:908, s.v. cavaliere12; l’uso del sing. -ieri in testi antichi, le cui tracce persistono nelle moderne parlate dialettali non solo della Toscana occidentale (nel civitonico è forma arcaica), è ‘dovuto all’influsso dei nomi propri -ari, -eri, -ieri di origine germanica, come osserva A. Castellani (Note su testi antichi, in SFI, XVI 1958, p. 7)]: 58 (I.7); 58 (I.8, cavalieri) (sing.).

[celata], s.f., ‘copricapo antico per uomini d’arme, di forme svariatissime e di-stinto dell’elmo per non avere né cimiero né cresta’: 53 (pl.).

centurione, s.m., ‘cintura per la balestra’: 70. [cerqua], s.f., ‘quercia’: 69 (VI.39, pl.).

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[ciecare], v.tr., ‘avvelenare le acque corrente con calce viva per catturare il pe-sce’: 67 (V.83).

chiacchio, s.m., ‘giacchio’, ‘rezzaglio’,‘rete da pesca a campana, piombata al pe-rimetro, che viene lanciata in acqua in modo che cada ad ombrello e, giun-ta sul fondo, si chiuda rinserrando i pesci’: 115.

chiarone, s.m., ‘rete ad imbuto, simile al bertovello, tenuta aperta da cerchi di varia circonferenza e dotata di ritrosi interni’: 115.

chiocchio, s.m., ‘chioccolo’, ‘fischietto usato per attirare gli uccelli imitandone il verso’, ‘caccia con le panie, in cui si usa questo strumento di richia-no’[GDLI, III:84, s.v. chioccolo]: 114.

[chioda], s.f., ‘zattera’ [termine ancora noto a Civita Castellana, di Magliano Sabino (registrato nella tradizione orale presso generazioni anziane) e a Or-te (Nasetti, 2002:33-35); arianti kjodèe, kjodare in dialetti dell’Umbria ‘zat-tera dei contadini abitanti tra Pretola e Deruta’ (M.C. Moretti, 1990:265)]: 29.

cioccolatte, ‘color cioccolata’ [non si tratta di errore; cfr. Panzini, 1935, s.v. cioccolata: ‘una ditta di Torino mi scrive: “cioccolato? ciocolato? cioccolato? cioccolatte? cioccolatta? Insomma una vera babilonia nella qualifica del prodotto”. Allora fra le cinque scritture si consiglia la sesta: cioccolata’]: 11.

citare, v.tr., ‘citare in giudizio’: 68 (VI.5). colto, s.m., ‘coltivo’, ‘terreno posto a coltura’[GDLI, III:332, s.v. cólto2]: 15, 15,

15, 15 (pl.); 64 (IV.47). commandamento, s.m., ‘comando’, ‘ordine’: 69 (VI.55). [commandare], v.tr., ‘comandare’, ‘ordinare’: 62 (III:28, commanda). [comunista], s.m., ‘chi fa parte della popolazione di un comune’, ‘chi partecipa

al godimento di un uso civico’ [GDLI, III:448, s.v. comunista]: 16 (pl.). constringere, v.tr., ‘costringere’, ‘obbligare’: 60 (II.44); 62 (III.49, constringa). contestazione, s.f., ‘comunicazione formale dell’imputazione di reato effettuata

dall’autorità giudiziaria nei confronti della persona interessata: 59 (II.7, contestazione di lite).

[convenzionale], agg., ‘concordato’, ‘convenuto’, ‘stabilito per convenzione’: 60 (II.30, pegni convenzionali).

dato, s.m., ‘dativa’, ‘tributo’, ‘dazio’: 64 (IV.42). denanti, prep., davanti: 60 (II.40). diaccio, vd. supra: chiaccio. diavolaccio, s.m., ‘congegno per la caccia notturna degli uccelli: consiste in

una lampada posta sopra un palo, circondata da una trama di bacchette e funi, nella quale incappano gli uccelli volando verso la luce [F. Mancini, Voc. del dialetto todino, p. 339, s.v.; GDLI, IV:332, s.v. diavolaccio3]: 114.

ducato, s.m., ‘inizialmente moneta d’argento coniata in Puglia nel 1140 e nel 1156, poi quella coniata a Venezia nel 1202 dal doge Enrico Dandolo (chiamata poi anche grosso) e la moneta d’oro purissimo emessa dal doge Giovanni Dandolo nel 1284 (detta poi zecchino); in seguito ducati d’argento furono coniati anche negli altri stati italiani’: 70 (pl), 70 (ducato d’oro), 70 (25), 70 (25), 70 (26), 70 (26), 71 (ducato d’oro).

emenda, vd. supra: amenda. espedizione, s.f., ‘decisione di una controversia, da parte di un giudice, come

atto formale conclusivo di un procedimento’: 62 (III.32).

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estraordinari, s.m.pl., ‘straordinari’, ‘libro degli statuti che contiene argomenti extra ordinem, cioè che non è possibile inserire negli altri libri (per es. ar-gomenti relativi all’igiene pubblica, alla manutenzione delle strade, al cor-retto uso dell’acqua delle fontane, ecc.’ [assente in GDLI la definizione spe-cifica qui addotta, V:461, s.v]: 67 (V.100); 67 (V.101).

famiglia, s.f., ‘gruppo di funzionari, ufficiali e guardie al seguito del podestà’ [GDLI, V: 622, s.v. famiglia2]: 58 (I.19).

[famiglio], s.m., ‘assistente di grado inferiore nell’esecuzione degli ordini di un magistrato o di un pubblico ufficiale, guardia, sbirro’ [GDLI, V:624, s.v. fa-miglio3]: 63 (IV.3, pl.).

fante, s.m., ‘garzone’ [in coppia sinonimica con garzone; GDLI, V:654, s.v. fan-te2]: 65 (V.6).

ferie, s.f., ‘giorni festivi durante i quali era vietato esercitare il potere giudizia-rio’ [GDLI, V:819, s.vv. feria2, feria3]: 60 (II.16).

fora1, prep., ‘fuori’: 60 (II.47: prep.). fora2, avv., ‘fuori’: 62 (III.38); 67 (V.96, di fora). forastiero, s.m., ‘forestiere’: 60 (II.43, pl.); 62 (III.39, pl.); 62 (III.62, pl.); 64

(IV.28, pl.); 64 (IV.29, pl.); 66 (V.61, pl.); 66 (V.62, forestiere); 66 (V.63, pl.); 66 (V.64); 67 (V.75); 67 (V.76); 67 (V.77, pl.); 67 (V.78); 67 (V.93, pl.) // agg. 62 (III.63)

forchetta, s.f., ‘fiocina’: 115. formola, s.f., ‘formula di giuramento’: 58 (I.2). frascone, s.m., ‘trappola per catturare animali’, ‘frasconaia’ [GDLI, V:304, s.vv.

frasconaia e frasconata]: 114. fraude, s.f., ‘frode’, ‘dolo’: 33, II, rub. 31; 65 (V.23). [furare], v.tr., ‘rubare’ [GDLI, VI:485, s.v.]: 61 (III.8, fura); 61 (III.23). gabbja scaricatoia, s.f., ‘congegno (per lo più munito di ritroso) costituito di

sbarre e di reti, con struttura rigida o anche floscia, di forma varia con cui si catturano animali vivi (uccelli, pesci, ecc.), gabbia ritrosa, gabbia scarica-toia, gabbia fonda, gabbia a scatto’ [GDLI, VI:518, s.v. gabbia3]: 114.

gallinaccio, s.m., ‘tacchino’ [GDLI, VI:558, s.v.]: 71. garbino, s.m., ‘vento di ponente’: 118. [girella], s.f., ‘rotella della balestra’[assente la definizione qui addotta in GDLI]:

70 (pl.). grascia, s.f., ‘ogni sorta di genere alimentare o di vettovaglie e, in particolare,

di quelle che costituivano l’approvvigionamento di una città, di una comu-nità, di un esercito soprattutto nel M.E.; in particolare cereali, granaglie’ [GLI, p. 274, s.v. grassa, grascia; GDLI, VI:1064, s.v. grascia]: 60 (II.47); 66 (V.55).

[gravare], v.tr., imporre gravami pecuniari’: 59 (II.12, gravi). [guardiano], s.m., ‘ufficiale incaricato della sorveglianza’: 63 (IV.1) (guardiani in

danni dati); 63 (IV.2, pl.). gubito, s.m., ‘cubito’, ‘misura’: 100. hostiere, s.m., ‘oste’, ‘taverniere’: 65 (V.21, hostieri); 65 (V.22, ostiere); 66

(V.66). ianna, s.f., ‘ghianda’: 64 (IV.19). imbossolamento, s.m., ‘imbussolatura‘, ‘introduzione nel bossolo delle pallotte

con i nomi da estrarre’: 68 (VI.19).

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imbossolare, v.tr., ‘introdurre nel bossolo delle pallotte con il nome da estrarre’ [GDLI, VII:306, s.v.] : 58 (I.21).

inettitudine, s.f., ‘inefficacia’, ‘nullità’: 61 (III.8). [iniurato], s.m., ‘ingiuriato’: 62 (III.47, pl.). [iniuroso], agg., ‘ingiurioso’: 62 (III.43, femm.). [insito], s.m., ‘innesto’ [in coppia sinonimica con piante e arbori; Sella,

GLI:221, s.v. ensitus ‘innesto’: Bagnoregio 1373, p. 170; GDLI, VIII:209, s.v. inseto (insito)]: 64 (IV.51); 67 (V. 88).

ire, v.intr., ‘andare’: 58 (I.10). [istromento], s.m., ‘atto notarile’ [Sella GLI, p. 295, s.v. instrumentum ‘atto’]: 59

(II.3); 60 (II.31). iudice, s.m., ‘giudice’: 58 (I.18, iudice e cavalieri); 60 (II.24); 66 (V.52). iudicio, s.m., giudizio’: 60 (II.20). iuramento, s.m., ‘giuramento’: 58 (I.2); 58 (I.18); 59 (I.26); 59 (I.27); 59 (I.37);

59 (II.10, iuramento di lite decisivo); 60 (II.9); 61 (III.24). iuramento della calunnia, s.m., ‘giuramento, solenne promessa di non mentire,

che nei processi, si esigeva sia dall’accusatore che dall’accusato’ [GDLI, VI:894, s.v. giuramento]: 59 (II.8).

iurare, v.tr., ‘giurare’: 58 (I.1). [iurato], s.m., ‘giurato’: 59 (I.38, pl.). lanciatoia (lanciatora), s.f., ‘rete munita di manico che, nella caccia notturna

con lampade (oggi proibita), viene lanciata sugli uccelli che si trovano tra le stoppie o sui rami bassi degli alberi’: 14.

[lanzichenetto], s.m., ‘lanzichenecco’ [nella Guida la forma esclusiva è ‘lanzi-chenecco’ o ‘lanzo’; registrato nei dizionari, al pari di ‘lanzichenecco’, il lemma presenta varianti plurime, tutte ormai desuete: GDLI, VIII: 759, s.v.]: 37, 37.18 (pl.).

larzillo, s.m., ‘tafano’ [con concrezione dell’articolo det.]: 65 (IV.57). libello, s.m., ‘domanda giudiziale’, ‘esposto presentato dall’attore’: 59 (II.2). libra, s.f., unità di peso e unità monetaria’: 59 (II.2). [libro], s.m., ‘registro’: 58 (I.16); 65 (VI.51). [lumacone], s.m., ‘buccina’, ’grosso nicchio ritorto di molluschi gasteropodi,

usato come rustico strumento di richiamo’: 116 (pl.). [luminaria], s.f., ‘fiaccolata’[definizione assente in GDLI]: 59 (I.39, pl.). [macchia], s.f., ‘bosco’, ‘boscaglia’: 17 (pl.). [macellaro], s.m., ‘macellai’: 66 (V.68, pl.); 68 (VI.35, pl.). maggese, s.f., ‘maggese’ (s.m.): 15, 15, 15, 16. maleficio, s.m., ‘delitto’, ‘reato’ [Sella, GLI:341, s.v. maleficium ‘delitto’]: 61 (ta-

vola de malefici); 61 (III.1, pl.); 61 (III.9, pl.); 62 (III.30); 62 (III.35, pl); 63 (III.79, pl.); 63 (III.81).

mammoletto, s.m., ‘bambino’ [GDLI, IX:595, s.v. màmmolo]: 70 (pl.), 71. [manciolare], v.tr., ‘magliare’, ‘mazzolare la canapa’, ‘scotolare’ [Sella, GLI:343,

s.v. mancinulare, manciolare, ‘mazzolare’]: 66 (V.37, mancioli). [mandarino], agg., ‘castrato’ [GDLI, IX:702, s.v. mannerino ‘ agnello castrato’

(voce data come toscana); Sella, GLI:346, s.v. mannarinus, mannaritius, porco ‘castrato’; GLI:454, s.v. porcus (mandarinus porcus, Campagnano sec. XIII; lummorum porcorum mannarinorum, Fondi a. 1399; porcus mandare-nus, Velletri sec. XVI); DEI, III:2351, s.v. mannerino]: 66 (V.40, porci man-darini).

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maremma, s.f., ‘regione pianeggiante prossima al mare tra Lazio sett. e Tosca-na mer.’: 69 (VI. 46).

martavella, s.m., ‘bertuello’, ‘bertovello’,’rete ad imbuto formata da bocca, par-te centrale contenente i ritrosi e fondo cieco, all’interno del quale è convo-gliato il pesce catturato’ [da * VERTABELLUM: REW 9251]: 115.

martavellone s.m., ‘cogollo’, ‘grande rete trappola, affine al bertovello, a maglia fitta con ali di incanalamento’: 115.

massaro, ‘esattore e custode del tesoro’: 59 (I.28). mattaccio, s.m., ‘sistema o dispositivo per la pesca non identificato’ [la voce

non trova riscontri nella memoria collettiva]: 115. [mazzafegata], s.f., ‘salsiccia di fegato’: 123 (pl.). metereologico, agg., ‘meteorologico’: 118. [mezzagna], s.f., ‘parte del terreno da non seminarsi’: 15 (pl.). mezzaiuolo, s.m., ‘mezzadro’: 15, 15. mezzeria, s.f., ‘mezzadria’: 15, 15. moderanza, s.f., ‘moderazione’: 63 (III.70). mondezza, s.f., ‘immondizia’: 66 (V.33). monire, v.tr., ‘ammonire’: 68 (VI.5). Montagnola, top., la zona orientale e nordorientale dei monti Cimini (Vignanel-

lo, Vallerano, Carbognano, Caprarola, Fabrica di Roma, Canepina): 16, 1092.

mostra, s.f., ‘rassegna’, ‘parata’, ‘ispezione’ [GDLI, X:1005, s.v. mo-stra6;GLI:372, s.v. monstra e GLI:374:374, s.v. mostra ‘rivista delle truppe’]: 58 (I.6).

musolo, s.m., ‘mussola’, ‘tessuto estremamente leggero, morbido e trasparente, prodotto per lo più con filati unici e con intreccio tela’: 71.

nanti, prep., ‘prima’: 59 (II.12); 66 (V.60); 67 (V.76). [nassa], s.f., ‘nassa da pesca con ritrosi, fatta con listelli di canna, rami flessi-

bili di salice o di nocciolo ’: 61 (III.19, pl.), 115. negassa, s.f., vd. supra: martavello [GDLI, XI:322, s.v. negossa; DEI, IV:2564;

Sella, GLE:235, s.v. negossa, rete per pesci “negossa est rete admodum ri-valis”, Pier Crescenzi, f. 144; Ferrara, Gabella, 1371, 180]: 60.

nocetta, s.f., ‘specie di caccia al fringuello col fucile a fermo, sparando da un capanno nascosto, detta anche in dialetto frascone o seccaró’ [DEI, IV:2593, s.v.; F. Mancini, Voc. del dialetto todino, p. 352, s.v.]: 114.

[notaro], s.m., ‘notaio’: 58 (I.18, pl.). nullo, agg. indef. neg., ‘nessuno’: 61 (III.10); 67 (V.36); 67 (V.37). nullo, pron. indef. neg., ‘nessuno’: 60 (II.21); 63 (IV.10); 63 (IV.13 ); 64 (IV.48);

67 (V.38), 67 (V.45); 67 (V.51); 67 (V.59); 68 (V.76); 68 (V.85). officiale, offiziale, s.m., ‘funzionario preposto a singoli settori amministrativi o

gestionali del Comune’: 58 (I.4, pl.); 58 (I.6); 58 (I.11, pl.); 58 (I.19, pl.); 58 (I.21, pl.); 63 (IV.3); 63 (IV.12); 67 (V.84, offiziali); 67 (V.85, offiziale); 68 (VI.3, pl.); 68 (VI.14, pl.); 68 (VI.19, pl.); 69 (VI.52, pl.).

offizio, officio, s.m.,’incarico’ [in toscano il nesso latino -ti- + voc. dà indifferen-temente i due esiti -zi- o -ci- (come uffizio / ufficio)]: 58 (I.1, -zio); 58 (I.4, -cio); 58 (I.16, -cio); 59 (I.26, -cio); 59 (I.27, -cio); 59 (I.28, -cio); 59 (I.31, con resa grafica latineggiante: -tio); 59 (I.33, -cio); 59 (I.35, -cio); 59 (I.36, uffi-cio); 63 (IV.1, -cio); 65 (V.10, -cio).

orfanatrofio, s.m., ‘orfanotrofio’: 42, 46.

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ospitalità, s.f., ‘ospedale’: 67 (V.96 pagliaro, s.m., ‘pagliaio’: 65 (V.28). pallotta, s.f., ‘piccola palla usata nel sorteggio dei candidati alle cariche comu-

nali’, ‘piccola palla che si metteva da ciascun consigliere nel bossolo per fa-re partito’: 68 (VI.8).

pallottolare, v.tr., ‘inserire i nomi dei candidati in una pallotta’,‘esprimere il vo-to con la pallotta’ [DEI I:250, s.v. appallottare ‘ballottare’; GDLI: assente la definizione qui addotta]: 68 (VI.8).

[palombaccio], s.m., ‘palombo selvatico’ (Columba palumbus): 114 (pl.). [palombo], s.m., ‘piccione torrigiano’: 66 (V.42, pl.). parataio, s.m., ‘paretaio’: 114. partire, v.tr., ‘suddividere’, ‘ripartire’: 61 (II.51, se partano). pasta, s.f., ‘esca per pesci o per animali selvatici confezionata con sostanze ve-

lenose’ [GDLI, XII:785, s.v. pasta6]: 115. [percussione], s.f., ‘percossa’: 62 (III.37, pl.); 62 (III.44, pl.). pizza, s.f., ‘esca a forma di focaccia confezionata con sostanze ittiotossiche’:

115. poma, s.m., ‘pomo’, ‘frutto’ [la forma è rifatta sul neutro plurale latino; cfr.

Rohlfs, GSLID, 1968 par. 368, ‘Il tipo le ossa (le sacca)’]: 63 (IV.16); 67 (V.74).

ponere, v. tr., ‘porre’: 67 (V.81). [porcaro], s.m., ‘porcaio’: 67 (V.90, pl.). [portonaro], s.m., ‘portonaio’,‘custode addetto alla vigilanza della porte urbi-

che’: 59 (I.35, pl.). pregione, s.f., ‘prigione’, ‘carcere’: 62 (III.48). prencipio, s.m., ‘inizio’: 68 (VI.3). presentia, s.f., ‘presenza’: 59 (II.4). prestanza, s.f., ‘prestazione’: 65 (V.9). prevedere, v.tr., ‘provvedere’: 68 (VI.37). principale, s.m., ‘debitore’: 60 (II.19); 60 (II.20). quarteria, s.f., ‘avvicendamento delle colture secondo un ciclo quadriennale,

con il primo anno a riposo o a maggese’ [GDLI, XV:79, s.v.]: 15, 15. quarto, s.m., ‘appezzamento di terreno coltivato’: 15, 15 (pl.), 15. [quistione], s.f., ‘processo penale per reati gravi’: 63 (III.78, questioni criminali). racchetta, s.f., ‘posatoio per falchi e civette, costituito da un ripiano di rete col-

locato sopra una pertica’: 114. ragione1, s.f.,’amministrazione della giustizia’: 59 (II.11); 60 (II.39); 60 (II.43);

63 (III.78, si tenga ragione). ragione2, s.f., ‘rendiconto’, ‘giustificazione contabile’: 60 (II.29). ragna, s.f., ‘rete per uccellare con maglie molto fitte e sottili’ [GDLI, XV:368,

s.v.]: 114. [rappicciolato], s.m., ‘membro subentrante’: 53 (pl.). razzuola, s.f., vd. supra: martavellone [in italiano con significato di ‘rete simile

ad una sciabica corta, usata per la pesca litorale, ‘rete fissa da posta che si cala al passaggio di un branco di pesci: GDLI, XV:978, s.v. rézzola]: 115.

rebeca, s.f., ‘ribeca’, ‘viola di origine araba per lo più con tre corde e con fondo ricurvo, suonata con l’archetto, usata per l’accompagnamento del canto o del ballo’: 105.

recolta, s.f., ‘pegno’, ‘malleveria’: 61 (III.3); 61 (III.6).

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recorso, s.m., ‘rivalsa sull’eredità’ [GDLI, XVI:153, s.v., ricorso4]: 60 (II.45). [redurre], v.tr., ‘ricondurre’: 33(IV.34, se reducano). [refomanza], s.f., ‘riformagione’, ‘atto normativo deliberato dal consiglio del

comune, autonomo e per lo più con valore di legge speciale o temporanea, in deroga agli statuti comunali [GDLI, XVI:281, s.v.]: 67 (pl.), 70 (pl.).

refutanza, s.f., ‘rinuncia a esigere un credito o il pagamento di un’imposta’, ‘rinuncia a un proprio diritto a favore di altre persone’ [GDLI, XV:685, s.v.]: 60 (II.22).

[represaglia], s.f., ‘rappresaglia’, ‘azione di rivalsa esercitata da un’autorità ter-ritoriale (o da un singolo cittadino autorizzato dall’autorità competente) su cittadini di altri territori (mediante sottrazione, anche violenta, di beni, o mediante la cattura e la prigionia) allo scopo di ottenere l’adempimento di un’obbligazione, il pagamento di un debito, il risarcimento di un danno su-bito ecc., anche coinvolgendo in ciò estranei concittadini del debitore o dell’obbligato, considerati corresponsabili ‘in solido’’ [GDLI, XV:477, s.v.]: 68 (VI.31, pl.).

resedere, v.intr., ‘risiedere’: 60 (II.24). ricuotere, v.tr., arare il terreno per la seconda volta con solchi trasversali ri-

spetto a quelli della prima aratura [GDLI, XVI:660, s.v. recuotere]: 15 (11). rifendere,v.tr., ‘arare la terza volta’ [GDLI, XVI:246, s.vv. rifendere2 e rifenditu-

ra]: 15 (11). rinfrescatura, s.f., ‘operazione finale dell’aratura per rendere il terreno più

friabile’ [GDLI, XVI:538, s.v. rinfrescare15; GDLI, XVI:541, s.v. rinfrescatu-ra4]: 15 (11).

rinquartatura, s.f., ‘quarta aratura del maggese nello stesso anno’ [GDLI, XVI:577, s.v. rinquartare4]: 15 (11).

[ristretto], s.m., ‘coltivo o vigneto chiuso da muro, recinto o da siepe viva’: 64 (IV.21); 68 (VI.42, ristretti di vigne).

[ritenuto], s.m., ‘detenuto in prigione’: 68 (VI.31, pl.). roccolo, s.m., ‘appostamento fisso di uccellagione formato da capanno e da un

pergolato semicircolare o a ferro di cavallo in cui sono collocate vertical-mente le reti’ [GDLI, XVII:16, s.v.; Panzini 1935:603, s.v., ‘voce ampiamente dialettale che vale, pressappoco, ragna, sottilissima rete, usata per uccella-re’]: 114.

rompitura, s.f., ‘prima aratura’ [GDLI, XVII:59, s.v. rompere8 e GDLI, XVII:76, sv. rompitura3; REWS 7442, s.v. rŭmpĕre; Sella, GLE:293, s.v. reterzare, a-rare per la terza volta “rumpere, remenare, reterzare” Chart. Imolese, I, p. 139, a. 1146; “rustici qui permittunt laborare possessiones, teneantur ar-rumpere, rimenare et reterzare et quarto loco seminare” Bologna 1250; Sella, GLI:493, s.v. rompere, ‘rompere il terreno sodo’]: 15, 15 (11).

rubeca, vd. supra: rebeca 105. rubrica, s.f., ‘capitolo degli statuti comunali’: 58, 59, 61, 63, 65, 68 (VI.22). [rumore], s.m., ‘rivolta’, ‘sommossa’ [in coppia sinonimica con risse; GDLI,

XVII:243, s.v. rumore6, con valore attenuato: ‘principio di sollevazione’, ‘fermento di rivolta’]: 58 (I.10).

ruspetto, s.m., ‘sistema o dispositivo per l’uccellagione’: 114. sacramento, s.m., ‘giuramento’: 60 (II.38). [saetta], s.f., ‘dardo’, ‘freccia’: 70 (pl.). savio, s.m., ‘giurisperito chiamato ad arbitrare controversie’: 59 (II.15).

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[sbandito], s.m., ‘esiliato dalla città’: 62 (III.61, pl). [sbarare], v.tr., ‘sbarrare’, ‘ostruire’: 63 (IV.15, sbara). sbarbagliare, v.tr., ‘sradicare’: 69 (VI.39). [scampagnato], agg., ‘situata in aperta campagna’: 118 (femm.). [sciacquatore], s.m., ‘condotto di scolo’, ‘piccola fogna per lo scolo delle acque’

[Sella, GLI:226, s.v. exaquatorium ‘scolo di acque’]: 66 (V.34, pl.). scoltura, sf., ‘scarsità o assenza di colture’ [s- con valore privativo od errore

per diplografia?]: 90. [sconfinare], v.tr., ‘rimuovere’: 62 (III.57, sconfinasse). [scrittura], s.f., ‘registro contabile’, ‘brogliaccio’: 61 (II.52, pl.). selce occhialino, s.m.,’ leucitite’: 11, 110. [selva], s.f., ‘bosco’: 64 (IV.50, selve del Comune). servitù, s.f., ‘servitù d’uso’, ‘diritti (come quelli di pascolo, di boscatico, ecc.)

appartenenti tradizionalmente a comunità agrarie su terreni comunali o privati’: 152 (servitù di pascolo), 88 (s. di querciali), 88 (s. di spica ), 88 (s. di dogana), 88 (s. di dogarella).

sfilzo, s.m., ‘caccia al rastello’, sistema di caccia che in questo territorio consi-ste nel percorrere a coppia in parallelo i cigli di canaloni o vallatelle (dial. carracci), per colpire tordi e merli, dopoché i battitori dal fondovalle ne hanno provocato con rumori la levata’: 114.

sicurtà, s.f., ‘garanzia’, ‘fideiussione’: 59 (II.6); 60 (II.19); 60 (II.20, secortà). [sindaco], s.m., ‘sindacatore’, ‘magistrato che sottopone a giudizio gli atti e

l’operato dei magistrati uscenti’: 58 (I.19, sindaci del potestà); 59 (I.29, sin-daci generali del Comune); 59 (I.30, sindaco del Comune); 68 (VI.20, sindaci generali del Comune); 68 (VI.21, sindici del potestà); 68 (VI.22, sindici delli conservatori).

[soccida], s.f., ‘soccita’, ‘contratto agrario di natura associativa per l’allevamento del bestiame e l’esercizio delle attività connesse, che prevede una collaborazione tra colui che dispone del bestiame (soccidante o socio maggiore ) e chi deve allevarlo (soccidario o socio minore), ripartendo spese ed utili’: 65 (V.7).

[sodo], ‘terreno lasciato incolto’ [Sella, GLI:536, s.v. sodus]: 64 (IV.22). [soprastante], s.m., ‘preposto ad un ufficio’, ‘soprintendente’: 68 (VI.24, pl.). sop[r]’erba, s.f., ‘tipo di uccellagione vietato, che si pratica con una ragna di

tre panni e una cantarella per catturare le quaglie’ [GDLI, XIX:473, s.v.]: 114.

sparviero, s.m., vd. supra: chiacchio [GDLI, XIX:730, s.v. sparviero6]: 115. spinetto, s.m., ‘sistema o dispositivo per l’uccellagione’: 114. spozzatoio, s.m., ‘bilancia per la pesca, manovrata a mano con pertica o stan-

ga, cui sono appesi gli staggi e la rete’: 115. state, s.f., ‘estate’[con aferesi della voc. iniziale protonica]: 59 (I.34). [stimatore], s.m., ‘incaricato di effettuare la stima del valore di un bene mobile

o immobile, in particolare ai fini di imposizione fiscale, o dei danni subiti da una proprietà’ [GDLI, XX:186, s.v.]: 59 (I.32, stimatori in danni dati).

stramazzo, s.m., ‘sistema o dispositivo per l’uccellagione’: 114. [targhetta], s.f., ‘scudo rotondo’: 53 (pl.). targhetta, s.f, ‘bersaglio’: 712. [tavernaro], s.m., ‘taverniere’: 66 (V.66, pl.).

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terrazzano, agg., ‘appartenente all’abitante del luogo (terra, castello o borgo)’ [contrapposto a: forestiero; GDLI, XX:950, s.v. terrazzano1]: 15.

terziaria, s.f., ‘metodo di coltivazione consistente nell’alternare un anno (o due) di sfruttamento del terreno a due (o uno) di riposo o di maggese produttivo [GDLI, XX:967, s.v. terzeria]: 9.

tesa, s.f., ‘rete o dispositivo congenere per l’uccellagione, che si tende come trappola’ [GDLI, XX:974, s.v. tesa6]: 114.

tièlla, s.f., ‘schiaccia’, ‘stiaccia’, ‘trappola di tipo elementare per catturare uc-celli o topi: lastra di pietra o tavola di legno appoggiata per uno spigolo al suolo e tenuta in bilico da stecchi, alla base dei quali si sparge l’esca (bri-ciole di pane, chicchi di grano, minuzzoli di formaggio), per attirare l’animale. Questo, per mangiare, provoca la caduta della lastra che lo schiaccia’ [cfr. Lazzari, 2005.93, s.v. tjèlla; GDLI, XVII:978, s.v. schiaccia; assente la definizione qui addotta in GDLI, XX:1027, s.v. tièlla]: 114.

[tollere], v.tr., ‘togliere’: 61 (III.17); 66 (V.49, se tollano); 67 (V.84, si tollono). [tontello], s.m., ‘campano’ [Statuto di Civitavecchia, II, rub. LV rubrica dei mal-

sani: “Quelli e quelle persone sono infecte del morbo de la malaria non ardi-scano stare o ire per la terra…et lo messo loro qule sia per le elemosine per epsi deve portare lo tondello o vero campanella sonando (Annovazzi 1977:LX-LXI); Statuto di Fabrica (1556, inedito), IV:XXX ‘Delle bestie che devono portare il tontello’; Sella,GLI:581, s.v. tintillus, ‘campanello’, “tintillos seu campanellas”, Velletri sec. XVI]: 64 (IV.35, pl.).

torchietto, s.m., ‘cero’: 54. tovarello, s.f. ‘bertuello’ [erroneo il significato fornito da Sella, GLI:588, s.v. to-

varellus, ‘nasone, pesce’]: 61 (III.19). [trasciminio], agg., ‘che si trova aldilà dei Cimini’ [la forma, che appare anche

in Guida (p. 6 n. 2), è desunta dal Buti]: 4 (femm.), 5 (sost. plur.). travicello, s.m., ‘palamite, propriamente il filo principale del palamite, che si

tende da una sponda all’altra di un corso d’acqua e da cui pendono, a rego-lare distanza, le esche’ [la voce non trova riscontri nella tradizione orale del luogo. Per individuarne il significato, è stata accostata al toscano trave ‘corda principale del palamite’ (Franceschini 1994:177, s.v.); cfr. presumi-bilmente in rapporto a situazioni tosco-occidentali (Fanfani, Uso tosc., s.v. palamite), nonché per Orbetello ed Isola del Giglio (ove però il tr-) Nesi 1989:151; analogamente, sul Trasimeno, stanga, Ugoccioni 1982:143, s.v.]: 115.

[ucellare], v.tr., ‘uccellare’: 67 (V.93, ucellano). [vacuo], agg., ‘privo di armi offensive’, ‘senza armi’ [assente la definizione qui

addotta in GDLI, XXI:616-617, s.v.]: 62 (III.37, mano vacua). vallonea, sf., ‘pianta del genere Quercia, alta fino a 15 mt., originaria della pe-

nisola balcanica e in Italia spontanea solo in alcune zone della Puglia, le cui ghiande erano usate un tempo per la concia delle pelli’: 101.

vestimento, s.m., ‘vestito’: 68 (VI.11). [viale], s.m., ‘ufficiale del comune che soprintende alle strade’ [GDLI, XXI:840,

s.v. viale2; GLI:621, s.v. vialis ‘sorvegliante alle vie’]: 59 (I.31, pl.). [vicinale], agg., ‘(strada) di comunicazione tra luoghi ed abitazioni vicine, e-

sterna all’abitato’: 65 (V.13, pl.). vieto, s.m., ‘divieto’: 68 (VI.30). vignarolo, s.m, ‘vignaiolo’: 16.

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villareccio, agg., ‘villereccio’, ‘rurale’: 89 (abituro villareccio). vischione, s.m., ‘panione’, ‘strumento da caccia formato da un bastone spal-

mato di vischio e usato per uccellare (può far parte di congegni più com-plessi, che comprendono anche esche, trappole, uccelli di richiamo, reti)’ [GDLI, XII:484, s.v. panione]: 114.

[vitato], agg., ‘maritato a vite’: 16 (alberetti vitati).

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INDICE DEI NOMI PROPRI DI PERSONA DI LUOGO E DELLE COSE NOTEVOLI

Per i nomi di papi, principi, re ed imperatori la cronologia segnalata è quella relativa al periodo in cui rimasero in carica. Se il nome ricorre più di una volta nella stessa pagina, le occorrenze vengono indicate con esponente aggiunto al numero di pagina. Tutte le voci inerenti la nostra cittadina, il suo territorio e la sua storia sono riunite ed ordinate sotto la voce ‘Civita Castellana’.

Abbazia delle Tre fontane, antica ab. benedettina: 32.

Acquaviva, sede dell’antica diocesi sulla Flaminia, presso Civita Ca-stellana: 1 n. 2.

Acquaviva [AP]: 932. Adriano, imperatore romano (117-

138 d.C.): 30. Adriano IV, Nicholas Breakspear,

papa (1154-1159): 81, 87. Agamennone, re di Argo e Micene: 7,

81. Alessandro III, Rolando Bandinelli,

papa (1159-1181): 81. Alessandro IV, Rainaldo dei conti di

Segni, papa (1254-1261): 3, 87. Alessandro VI, Rodrigo Borgia, papa

(1492-1503): 7, 82. Alesio, mitico fondatore di Falerii: 7. Altoviti, comandante della rocca di

Civita Cast.: 97. Ancona: 94, 97. annali etruschi: 2 n. 3. antiche misure lineari: 41. Apollo, divinità greco-romana: 30. Aquila: 93. Arciospedale di Santo Spirito in Sas-

sia: 872. Aretino (Guido d’Arezzo), teorico mu-

sicale e monaco benedettino (990 ca -1050): 104.

Argo, antica città della Grecia: 7. Augusto, imperatore romano (27 a.C.

- 14 d. C.): 48. Avignone, città della Francia: 91. Baccelli, Alfredo, uomo politico e let-

terato (1863-1955): 99.

Bagnorea (attuale Bagnoregio) [VT]: 93.

Baluzio, (Stefano), storico francese (1630-1718): 47.

Bande Nere (compagnia delle): 3 n. 5. Barbier de Montault, storico dell’arte

medievale: 79 n. 31. Baronio, Cesare, cardinale e storico

della chiesa (1538-1607): 97. Bassano (in Teverina) [VT]: 1 n. 2. Bassano (Romano) [VT]: 1 n. 2. Bassi, Ugo, sacerdote e patriota

(1801-1849): 46. Battifré [Bo]: 93. Boito (Camillo), storico dell’arte me-

dievale: 79 n. 31. bollari e notizie patrie: vd. sub Civita

Castellana. Bologna: 932. Bomarzo [VT]: 1 n. 2. Bonifacio IX, Pietro Tomacelli, papa

(1389-1404): 56, 82. Bonvicini (> Bononcini), Giovanni,

compositore e violoncellista (1670-1747): 106.

Borbone (di), Carlo III, conestabile di Francia (1490-1527): 37, 47, 82, 98 (conestabile di Borbone).

Borbone (di), Carlo VII, re di Napoli (1734-1759): 822.

Borgia, famiglia di origine aragonese: 45, 92.

Borgia, Cesare, uomo politico e con-dottiero (1475 ca - 1507): 82, 92, 103.

Borgia, Rodrigo: 56, 91[vd. Alessan-dro VI].

Brescia: 11.

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Buti, Francesco, storico locale di Montefiascone: 4, 4 n. 6, 5.

Cadalvo [>Pietro Cadalo], vescovo di Parma e antipapa (1061-1072): 81.

Cadorna, (Raffaele), generale dell’esercito italiano (1815-1897): 83, 97.

Caio Flaminio, censore romano (III-II a. C.): 33.

Caio Marcio Rutilio, console romano: 81.

Calcata [VT]: 1.2, 98. Calisto III, Alfonso Borgia, papa

(1455-1458): 56, 56 n. 24 [Calisto IIII > III], 57, 105.

Camera Apostolica: 513, 872, 88. Camerino [MC]: 93. Canepina [VT]: 1 n. 2. Capaccini (fratelli) (tipografia): 98. Cappelletti, Giuseppe, studioso di

storia eccl. (XIX sec.): 78, 78 n. 29. Capranica [VT]: 1 n. 2. Caprarola [VT]: 1 n. 2. Carlo Emanuele IV, re di Sardegna

(1796-1802): 44. Castel di Sangro [AQ]: 93. Castelnuovo di Porto [RM]: 2, 34, 82. Castel Sant’Angelo: 103. Castel S. Elia [VT]: 1 n. 2, 26, 98. Cesena [FO]: 94. Cinegetico (Il), poema latino: 48. Chia [VT]: 1 n. 2. Cibo, Camillo, cardinale (1681-1743):

79. Cicerone, (Marco Tullio), oratore e

scrittore latino (106 - 43 a.C.): 48. ____________________________________

CIVITA CASTELLANA: 12, 1 n. 2, 32, 45, 42 (Civita) 5, 73, 9,

10 (Civita), 16 (Civita), 172, 182,18 n. 12, 28, 30, 31 (Civita), 335, 364, 362 (Civita), 37 n. 18, 385, 402, 43, 46 (Civita), 472, 47 (Civita), 50, 51 (Civita), 51, 522, 53 (Civita), 562, 57, 58 (I.5, Civita), 58 (I.9, Civita), 58 (I.15), 60 (II.47, Civita), 61 (III.19, Civita), 62 (III.38, Civita), 62 (III.60, Civita), 62 (III.64), 62

(III.65, Civita), 63 (III.72, Civita), 63 (IV.14), 64 (IV.49), 64 (IV.52), 65 (V.28), 66 (V.37, Civita), 66 (V.40, Civita), 66 (V.55, Civita), 67 (V.73, Civita), 67 (V.86, Civita), 67 (V.90, Civita), 67 (V.93, Civita), 67 (VI.1), 68 (VI.29, Civita), 69 (VI.47, Civita), 70 (Civita) 71 (Civita), 73 (Civita), 75, 77, 77 (Civita), 78, 8113, 8219, 82 (Civita), 84 (Civita), 852, 875, 893, 90, 91, 94, 954, 952 (Civita), 973, 97 (Civita), 988, 1002, 1003 (Civita), 102 (Civita), 102 (Civita), 103, 103 (Civita), 106, 1072, 1097, 109 (Civita), 1103, 1102 (Civita), 111, 1182, 119, 121 (Civita).

Dati Storici e storia antica: Faleri (= Falerii Novi, Fàleri): 2, 2

n.1, 4, 52, 322, 64 (IV. 30, Falla-ri), 82, 119.

Faleria (= Falerii Veteres, attuale Civita Castellana): 15, 1 n. 2, 22, 3, 47, 4 (Falerio), 4 n. 6, 7, 302, 33, 36, 48 (Faleria Argiva), 484, 813, 97, 110.

Falerii (veteres): 31. Falisci:1, 2 n.3, 22, 4, 5, 5 (Argivi

Falisci), 34, 48, 71, 815. Falisci: 2. Helesus: 1, 73, 81. Iunonia Romana: 2. 81. Phalerium Argivum: 1, 4. porto vinario superiore: 28. ventres falisci: 123.

Storia medievale: bollari e notizie patrie: 122. Castellana: 2. Castellania: 2. Civitas Castellana: 3. Jovanni [ > Iohannes] Faleritanae

episcopus: 2. Massa Castellana: 3, 81 (Massa

Castellina). Rodericus Castellanae episcopus:

2.

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Attività produttive e pubblici servizi: acquedotto: 38. cimitero: 39. Cola, statua dell’orologio civico:

84. concerie: 102. cunicoli e pozzi: 50. edificio scolastico: 39. fontane pubbliche: 39, 44. giardini pubblici: 39 illuminazione pubblica: 83, 100. latrine e vespasiani: 38: lavatoi pubblici: 38. località assegnate ai supplizi: 102. locande: 46 (L’Aquila nera). mattatoio: 39. mulini idraulici: 73 orfanotrofio: 42, 46. orologio pubblico: 84. ospedale Andosilla (= ospedale vec-

chio): 39, 46, 108. pavimentazione: 38 pozzi per granaglie: 17, 36. rete fognante: 38. Scuola dell’Arte della Ceramica: 9. seminario: 76.

Porti fluviali: porto di Goliano: 284, 75.

Ferrovie: Ferrovia Roma-Civita Castellana:

83 (tranvia Roma-Civita Castel-lana), 109.

Ferrovia Roma-Civita Castellana-Viterbo: 109, 111.

Ferrovia Roma -Foligno: 83, 103.

Linee telefoniche: Borghetto-Magliano: 83. Civita-Magliano Sabino: 98. Civita-Fabrica di Roma-Corchiano:

98. Civita-Faleria-Calcata: 98. Civita-Nepi-Castel S. Elia: 98.

Divertimenti pubblici, usi e co-stumi:

corsa a piedi: 70. corsa degli asini: 71.

corsa dei bàrberi: 70. corsa dei mammoletti: 70. corsa del bufalo: 71, 117. corsa del gallinaccio: 71. corsa del saraceno: 71. corsa della quintana: 71. fiere: 51. giostra: 117. nozze: 116. scampanata: 116. tiro a bersaglio con la balestra: 71.

La religione e i luoghi di culto (chiese, cappelle, romitori, edi-cole): cattedrale di S. Maria: 58 (I.23),

78, 80. chiesa dei Cappuccini: 78. chiesa del Carmine: 46, 76, 77,

79. Madonna dell’Arco: 75, 76, 77. Madonna del ponte: 77. Madonna del Quinciolino: 77. Madonna delle Piaggie: 74. Madonna della Rosa: 74, 91 (cap-

pelletta), 97 (località). Madonna delle Grazie: 77. chiesa di S. Battista: 77. chiesa di S. Benedetto: 772. chiesa di S. Clemente: 773. chiesa di S. Francesco: 52, 54, 76,

77. chiesa di S. Giacomo Maggiore: 77

(San Iaghello). chiesa di S. Giorgio: 772, 78. chiesa di S. Giovanni (decollato):

77, 78, 117. chiesa di S. Gregorio da Capo: 772. chiesa di S. Gregorio di Corte: 45,

46, 77, 78. chiesa di S. Paolo: 77. chiesa di S. Pietro: 542, 76, 77. chiesa di S. Quirico Acquarecciaro:

772. chiesa di S. Sebastiano: 77. chiesa di S. Antonio: 71, 772, 78. chiesa di S. Chiara: 78. chiesa di S. Chiara: 78. chiesa di S. Cristina: 772.

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chiesa di S. Susanna: 37, 70, 71, 75, 75 n. 28.

chiesa di Sant’Ippolito: 77. edicola della Madonna

dell’Appianata: 74. oratorio del Purgatorio: 80.

Monasteri e conventi: monastero delle Grazie: 75. monastero di Santa Chiara: 752,

76, 772, 78, 103.

Processioni: processione dei santi patroni: 117. processione del Corpus Domini:

117. processione dell’Inchinata: 116. processione di Cristo Morto: 117.

Culto dei santi: Gratiliano e Felicissima, santi

compatroni di Civita Castella-na: 49, 79.

Marciano e Giovanni, santi patroni di Civita Castellana: 7, 44, 117.

Rioni: Massa: 36. Mezzo: 36. Prato: 36. Pusterula: 36.

Famiglie e Palazzi: Albani: 45. Andosilla: 45, 47. Arselli: 45. Baroni: 45. Basili Francesco: 44. Botti: 105. Cantini: 43. Carolis: 44, 45. Cencelli: 45. Cicuti: 43, 47. Ciotti: 19, 44. Ciotti Paolo: 44. Colamedici: 45. Colapaoli: 45. Colasanti: 44. Colonnelli: 45. Colutius, Sebastianus: 43. Coluzzi: 43, 472, 85, 105.

Cori: 44. De Angelis: 4 n. 6. De Angelis: 83, 98. Del Frate: 462. Del Frate, Oronte: 83, 982, 99. Ettorre: 47. Federici: 44. Feroldi Antonisi Rosa: 44, 114. Finesi: 42. Florenzuolo: 97. Forcella: 44. Franci: 45. Galiani: 44, 85 (cascina Galiani). Gori: 44 (vd. Cori). Gremino-Grotti [> Ghelmino-

Grotti]: 44. Grotti: 44. Guglielmi: 43, 47. Lepori: 47. Lernutio [> Sernutio], Giovanni:

105. Mazzocchi, Domenico: 104. Mazzocchi, Virgilio: 1046. Midossi: 45, 472. Midossi, (Ulderico): 80. Morelli: 42, 47. Morelli, Edmondo: 47. Morelli, Francesco: 4. Morelli, Marco: 45. Nelli, Ulisse: 85. Paradisi: 45. Paglia: 28 n.15, 43, 46, 47. Paglia-Guglielmi: 43, 105. Panalfuccio: 442. Panalfuccio, Giovanni: 56. Paolelli: 46, 83. Pechinoli, Angelo: 54. Pechinoli, Francesco: 3 n. 5, 4, 10

n. 9, 28, 362, 75, 77, 782, 101, 102, 105, 114.

Pelinga: 46. Pelletronio: 75. Pelletronio, Giacomo: 56. Peretti: 452. Petrini: 45. Petroni: 442, 45. Petroni, Agnese: 75. Petroni, Alessandro: 56. Petroni, Angela: 75.

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185

Petti: 47. Petti Anastasio: 432. Pistola: 45, 46. Polito, Antonio: 56. Quatrini: 43, 47. Ribaldi: 44. Riccioni: 44. Sacchetti: 44. Sacchi: 47. Serlorenzo (di), Giovanni: 56. Stella: 45. Sterpatori: 45. Tarquini, Francesco: 33. Tomassi: 47. Trelli: 49. Trocchi: 44.

Associazioni politiche e società segrete: Adelfi: 95 n. 37. Artisti del dovere: 95 n. 37. Bersaglieri americani: 95 n. 37. Carboneria: 95, 95 (carbonari). Difensori della patria: 95 n. 37. Figli di Marte: 95 n. 37. Fratelli: 95 n. 37. Giacobini: 95. Giovane Italia: 952. Illuminati: 95 n. 37. Massoneria: 95. Massoni riformati: 95 n. 37. Turba: 95 n. 37.

Detenuti politici rinchiusi nella fortezza Sangallo: Arnuzzi, Giuseppe: 93. Bellini, Sante: 93. Benedetti, Pacifico: 93. Falciatori, Enrico: 93. Fedeli, Vincenzo: 93. Fedeli, Vito: 93. Fiori, Alessandro: 93. Grammatica, Nicola: 93. Lombardi, Giuseppe: 93. Menichetti, Luigi: 93. Natali, Natale: 93. Paccioni Rocco: 93. Palmieri, Pietro: 93. Pasini, Giuseppe: 93. Perfetti, Francesco: 94.

Petrarca, Adamo: 93. Raboni, Giuseppe: 93. Ricciotti, Giacomo: 93. Sabatini, Domenico: 93. Saglia, Domenico: 93. Serafini, Ferdinando: 94. Simo, Giorgio: 93. Tommasetti, Luigi: 93. Veccia, Giuseppe: 93. Venturi Longanesi, Agostino: 93. Vignuzzi, Sebastiano: 93.

Malfattori giustiziati in Civita: Bidei, Pietro: 102. Celi: 102. (Proietti), Germano: 102. Mentuccia: 102.

Ponti: Ponte Celle: 25, 85.

Ponte Clementino: 18, 82, 852. Ponte di Casa Ciotti: 19. Ponte di Rio Filetto: 85. Ponte di Terrano: 85. Ponte di Treia: 7 (ponte della

Treia), 66 (V.58), 66 (V.59), 68 (VI.32), 77, 85.

Ponte di Rio Gruè: 85. Ponte Ritorto: 85. Ponte sul fosso dei Cappuccini:

85. Ponte sul fosso dei Tre Camini: 85. Ponte sul fosso di Borghetto: 85. Ponte Valle: 18, 19, 85.

Fortezze e Torri: Forte Sangallo: 45, 91. Torre Chiavello: 32. Torre di Pirolo: 42. Torre Paranzana: 32. Torre Rossa: 32. Torre Vagno: 32.

Strade antiche: Cava Furiana: 33 Strada falisca-latina: 322. Strada (Via) Flaminia: 282, 324,

333, 36, 822, 89, 109. Via Amerina: 32.

Page 214: Miscellanea Civitonica Di O. Del Frate

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Strade modificate: Strada provinciale di Nepi: 33. Strada Flaminia modificata: 33.

Porte: Porta di Borgo: 70. Porta Clementina: 33.

Piazze e Vie: Piazza de’ Prati (o Piazza del Co-

mune): 54, 65 (V.29), 702, 71, 84, 102.

Piazza del Comune: 71. Piazza del Duomo: 43. Piazza della Beneficenza: 1022. Piazza della Quintana: 46. Piazza detta Fontana per Civita:

102. Piazza di Massa: 45. Piazza Maggiore (o Piazza del Co-

mune): 44. Piazza san Clemente: 45. Piazza sant’Adriano: 71. Piazza Vittorio Emanuele II (> Piaz-

za del Comune): 36. Stradale di Santa Susanna: 71. Strada Romana: 61 (III.16). Via Civita Castellana- Borghetto:

33. Via del Castelletto: 45, 46. Via del Corso: 44. Via del Duomo (> Via Garibaldi):

42, 44. Via del Tiratore: 45. Via delle Palme: 44, 46. Via di Borghetto: 33. Via di Corsica: 45. Via di Corte: 45. Via Giulia (> Via Regina Margheri-

ta): 43. Via Panico: 42. Via Quinciolino (o Via Vinciolino):

42. Via Regina Margherita (> Via Don

Minzoni): 43. Via Rosa: 43, 44. Via san Clemente: 42. Via san Gregorio: 45. Via Vinciolino: 45, 84. Vicolo del Governo Vecchio: 45.

Ambiente naturale e territorio: Agro civitonico: 9, 10, 132, 892,

118. clima- meteorologia: 118. confini: 26. malaria: 89-90, 118. posizione astronomica: 40.

Geologia: tufo litoide: 9, 10. argilla: 9. travertino: 10. arenaria: 10. breccia: 11. lava basaltica: 11. trachite: 11. lapillo: 11. rocce combustibili: 11. selce piromica: 12. acque minerali:12. marne: 14.

Contrade: Amatuccia: 27. Chievo: 10, 113, 192, 25, 27, 33. Città: 27. Millecori: 11, 25, 27. Oltretreia: 102, 13, 18, 19, 21, 27,

85. Terrano: 10, 27. Valsiarosa: 10, 27, 30.

Valli: Valle del Treia: 20. Valle di Rio Filetto: 20.

Toponimi: Borghetto: 1 n. 2, 11, 19, 25, 26,

326, 333, 832, 103, 109. Borgo Alessandrino: 36, 71 (Bor-

go), 78. Campo Grande: 32. Campo Treia: 20, 32. Canciano: 2. Carcarasi: 32, 32. Casa Ciotti: 19. Casale Malatesta: 32. Castagneti (i): 18, 18. Cava Cacciano: 32, 33. Cava Furiana: 33. Celle: 10, 30.

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Cerqueto Grosso: 33. Cocchieto: 20. Colle: 32. Colle Rosetta: 109. Coste di Ponticelli: 32. Fabrece: 6, 18. Giacanti: 32. Goliano: 10, 20 (Gugliano), 284. Grassano: 11. La Penna: 302, 33. Le Colonnette: 4, 18, 33. Le Serre: 252. Lo Scasato: 30, 30 n. 16, 36, 64

(IV.49), 97. Lumbrica: 3 n. 5. Macchia del Parco: 18 (Ronciglio-

ne). Macchia di Borgo: 32, 33. Melleta: 182. Monte della Conca: 32. Monterone: 3 n. 5, 31. Muro del Peccato: 32. Ombricia: 70 vd. Lumbrica. Passo della Villa: 19. Passo di S. Felicissima: 49. Paterno: 3 n. 5, 81. Piani: 13, 20. Piano del Quarto: 19. Piano di Catalano: 18. Piano di San Francesco: 32. Piano di Santa Maria: 33. Piano di Tento: 32, 33. Piazzano: 19. Saletti: 11, 12, 20. Sant’Agata, (castello presso Civita

Castellana): 28 n. 15. Sassacci: 11, 25, 33. Sassi Caduti: 33. Sustra: 18. Terria: 50. Tiratore: 33. Umbricia, 3 n. 5 (vd. Lumbrica). Valle: 10, 65 (V.16), 85. Valle Como: 32. Vignale: 10, 362, 50.

IDROGRAFIA FONTANE E SORGENTI

Fontane Oltretreia: Fontana alla Casetta: 21. Fontana alla Ceppeta: 21. Fontana alla Macchia di campo

Treia: 21. Fontana alla Pietrara: 21. Fontana alla svolta di Mario: 21. Fontana al passo di Stabia: 21. Fontana al Saletto: 21. Fontana Cagnanello: 21. Fontana Cagnanello (cattedrale):

21. Fontana Cagnanello (monache):

21. Fontana Cappellania Rifugio Pon-

ticelli: 21. Fontana Citerno Del Frate: 22. Fontana Citerno: Ercolini: 22. Fontana Citerno Sasseto: 22. Fontana Colle Monache: 21. Fontana Costa Paranzana: 21. Fontana Coste di Sacchi: 21. Fontana del Cerro allo Stradale:

21. Fontana del Moro: 22. Fontana della Pietra Malatesta: 21. Fontana dell’Umbrico: 22. Fontana di Casa Paglietta: 21. Fontana di sant’Anna: 22. Fontana Fontaroli: 21. Fontana Frattacci forma rio: 22. Fontana Giorgione: 21. Fontana Gogliano: 21. Fontana Grande Piscina: 21. Fontana Grassano (Rosa): 21. Fontana Grassano (Trocchi): 21. Fontana Montebello: 21. Fontana Muro del peccato: 22. Fontana Pechinoli: 22. Fontana Persica: 19, 21. Fontana Piazzano: 21. Fontana Ponticelli sorgente forma

rio: 21. Fontana Primavera: 21. Fontana Salvatico: 21 Fontana Sambuco: 21.

Page 216: Miscellanea Civitonica Di O. Del Frate

188

Fontana Sant’Agata: 21. Fontana Sant’Agata (Rote): 21. Fontana Santa Susanna: 22. Fontana Sargorre Ponte Ritorto:

21. Fontana Scocciabuzzichi: 21. Fontana sotto al rupe can. Epifa-

nia: 21. Fontana Vici (beneficio): 22. Fontana Vigna Cangano: 22. Fontana Vigna Palazzetto: 22.

Fontane contrada Terrano: Fontana del Passo dei Tre Camini:

22. Fontana presso la stazione elettri-

ca: 22. Fontana Ziretto: 22.

Fontane contrada Valsiarosa: Fontana Castelfusaro: 22. Fontana Cavacocie Fantibassi: 22. Fontana Celi: 22. Fontana Chiesa delle Piaggie: 22. Fontana Fabbrece: 22. Fontana Fabbrica di Treia: 22. Fontana Guazzaroni: 22. Fontana Lunga: 22. Fontana Monte Ciocco: 22. Fontana Sassi Caduti: 22. Fontana sorelle Giovannoli: 22. Fontana sorelle Ricciotti: 22. Fontana Terria: 22. Fontana Torelli: 22. Sorgenti alle Coste di Millecori: 22.

Fontane contrada Chievo: Fontana alla Legata: 23. Fontana alle Colonnette: 23. Fontana Amatuccia: 22. Fontana Cargarasi: 22. Fontana Casa Ciotti: 22. Fontana della Pagnotta: 23. Fontana del Pozzo: 23. Fontana di Cocchieto: 22. Fontana Pizzo Corvo: 22. Fontana Ponte Celle: 23. Fontana Sassacci: 22.

Corsi d’acqua: Fosso dei Cappuccini: 18, 85. Fosso dei Sassacci: 25. Fosso dei Tre Camini: 18, 85. Fosso dell’Umbrica: 192, 70. Fosso di Borghetto: 85. Fosso di Catone: 18. Fosso di Francesco di Paola: 70. Rio Caditore: 118, 19. Rio Caffaria: 19. Rio Casone: 19. Rio Castiglione: 19. Rio Cavamarina: 19. Rio Celleto: 18. Rio Ceppeta: 192. Rio Cerasolo: 18. Rio della Caduta: 19. Rio della Legata: 18. Rio della Macchia: 19. Rio del Piano di Paradiso: 18-19. Rio di Ponte Ritorto: 18. Rio di torre Chiavello: 18. Rio Fabrece: 18. Rio Felciosa: 19. Rio Filetto: 183, 202, 36, 85, 118. Rio Fontaroli: 19. Rio Fossatelle: 19. Rio Giacanti: 192. Rio Giorgione: 19. Rio Gruè: 19, 85. Rio Maggiore: 18, 192, 252, 36,

732, 852, 91, 110, 118. Rio Pertuso: 18. Rio Piazzano: 182, 19. Rio Pozzolo: 18. Rio Purgatorio: 18. Rio Ritorto: 32. Rio Rosciolo: 18. Rio Scocciabuzzichi: 19. Rio Selvatico: 19. Rio Vicano: 18. Tevere: 13, 17, 18, 19, 19 n.13,

283, 36, 109. Treia: 7, 13, 186, 195, 19 n. 13, 20,

32, 33, 36, 65 (V.16), 66 (V.72), 73, 853, 115.

____________________________________

Page 217: Miscellanea Civitonica Di O. Del Frate

189

Claudio il Gotico, imperatore romano (268-270 d.C.): 49.

Clemente III, Guiberto di Ravenna, antipapa (1080-1098 / + 1100): 812.

Clemente VII, Giulio de’ Medici, papa (1523-1534): 45.

Clemente VIII, Ippolito Aldobrandini, papa (1592-1605): 47, 82.

Clemente XI, Gianfrancesco Albani, papa (1700-1721): 33, 82, 85.

Comarca (antica), subregione del La-zio: 109.

Commenda di S. Spirito: 77, 88. Corchiano [VT]: 1 n. 2, 126, 98. Cosma (Cosmati), architetto e mar-

moraro: 79. Cosmati, famiglia di marmorari sec.

XII-XIV: 795, 79 (scuola dei Co-smati).

Didron, studioso dell’arte medievale: 79 n. 31.

Diocleziano, imperatore romano (284-305 d. C.): 49.

Dionisio [Dionigi d’Alicarnasso], stori-co greco (60-7 a. C.): 48.

Donegani, Gaetano, ingegnere: 1 n.2, 18 n.12, 32 n.17.

Enrico IV, re di Germania e d’Italia (1039) e imperatore (1046-1059): 81.

Ercolani, (Fortunato Maria), vescovo di Civita Castellana (1822-1847): 43.

Etruria: 1. Etruria annonaria: 28 (Annonaria),

28 n.14. Etruria cisciminia: 4. Etruria marittima: 1. Etruria trasciminia: 4. Etruschi, popolo antico: 1, 25, 302,

90. Eugenio III, Bernardo Paganelli, papa

(1145-1153): 81. Eugenio IV, Gabriele Coldumer, papa

(1431-1447): 57, 82. Europa: 52.

Fabrica (di Roma) [VT]: 1 n. 2, 19, 26, 98.

Fabrizi, Gaetano, architetto del XVIII sec.: 79 n. 30.

Faleri (= Falerii Novi, Fàleri): vd. sub Civita Castellana.

Faleria (= Falerii Veteres): vd. sub Ci-vita Castellana.

Faleria (= antica Stabia) [VT]: 5, 26, 98, 111.

Falerii (veteres): vd. sub Civita Castel-lana.

Falisci: vd. sub Civita Castellana. Falisci: vd. sub. Civita Castellana. Fano [PS]: 93. Federico I Barbarossa, re di Germa-

nia e dei Romani (1152) e impera-tore (1155-1190): 81.

Federico II di Svevia, imperatore del sacro romano impero (1214-1250) e re di Sicilia: 81.

Fermo [AP]: 93. Ferrara: 93. Fescennia, antica città falisca: 4. Fidenati, antico popolo del Lazio: 81. Firenze: 30 n.16. Foglia (fraz. di Magliano Sabino): 26. Foligno [PG]: 83, 103. Forlì: 93. Frosinone: 932. Fulvio Carete, coactor argentarius:

28, 28 n. 15. Furio Camillo, condottiero romano

(V-IV sec. a. C.): 33, 81.

Galimberti, (Tancredi), uomo politico (1856-1939): 99.

Gallese [VT]: 1 n. 2, 81. Garrucci (Raffaele), archeologo (1812-

1885): 5. Gasperone, (Antonio), brigante del

XIX sec.: 92. Giacomo (della famiglia Cosmati), ar-

chitetto e marmoraro: 79. Giulio II, Giuliano della Rovere, papa

(1503-1513): 45, 822, 91. Giunone, divinità greco-romana: 22,

7, 25, 71, 111. Glizio Gallo, nobile romano, I sec. d.

C.: 46.

Page 218: Miscellanea Civitonica Di O. Del Frate

190

Grande Genovese (= Mazzini), pensa-tore e uomo politico (1805-1872): 95.

Grazio Falisco, poeta latino: 48. Grecia: 7, 48. Greci: 104. Gregorio II, papa (715-731): 22. Gregorio V, Brunone di Carinzia, pa-

pa (996-999): 3, 81. Gregorio IX, Ugolino dei conti di Se-

gni, papa (1127-1241): 81. Gregorio XI, Pierre Roger de Beaufort,

papa (1371-1378): 91. Gregorio XVI, Bartolomeo A. Cappel-

lari (1831-1846): 82. Guglielmotti, Alberto, studioso di sto-

ria navale (1812-1893): 91 n. 35. Guido d’Arezzo, monaco e musicologo

(990 ca -1050): 104.

Helesus: vd. sub Civita Castellana.

Iahan, militare: 103. Innocenzo I, papa (401-417): 78, 81. Innocenzo IV, Sinibaldo Fieschi, papa

(1243-1254): 812. Innocenzo VIII, Giovanni Battista

Cybo, papa (1484-1492): 57. iscrizioni: 43, 463, 47, 73, 792, 80,

86, 92. Isola Farnese [RM]: 4. Italia: 15, 56, 83, 104. Iunonia Romana: vd. sub Civita Ca-

stellana.

Jacobus (Cosmati): 792, 80. Jovanni [ > Iohannes] Faleritanae epi-

scopus: 2. Jus ( = ‘diritto’): 88 (de jure civico), 88

(de jure concessionis), 88 (de jure dominii), 48 e 111 (jus feciale), 52 (jus sanguinis).

Lamolisier [> Lamoricière] (Leon de), generale in capo dell’esercito pon-tificio: 103.

Lazzarini, (Giovanni): 94, 972. Leone X, Giovanni de’ Medici, papa (

1513-1521): 45. Leone, vescovo di Civita Castellana

(metà VIII sec.): 78.

Livio, (Tito), storico romano (59 a. C. – 17 d. C.): 2.

Lorenzo (Cosmati), architetto e mar-moraro: 78.

Macerata: 93. Mack, (Karl), generale comandante

dell’esercito napoletano: 82. Magenta (battaglia di): 96. Magliano Pecorareccio (ora ‘Romano’)

[RM]: 1 n. 2. Magliano Sabino [RI]: 83, 98. Malavolta, famiglia feudale romana:

87. Mancinelli Scotti, (Francesco), arche-

ologo (sec. XIX): 88. Manlio Torquato Attico, console ro-

mano (III sec. a. C.): 2, 81. Mantovani, (Paolo), geologo (sec. XIX):

9 n. 8. Marcia, gens romana: 2 n. 4. Marè, spia della polizia pontificia:

952. Maremma: 36. Massa Castellana: vd. sub Civita Ca-

stellana. Mastro Titta (Giov. Battista Bugatti),

carnefice dello Stato Pontificio: 102.

Matelica (MC): 93. Mattei, costruttore di orologi (sec.

XIX): 84. Mazzini, (Giuseppe), uomo politico e

pensatore (1805-1872): 95. Mazzano (Romano) [RM]: 1 n. 2. Modena: 48. Mons Faliscorum (= Soratte): 42, 52. Montagnola, versante orientale dei

Cimini: 16, 1092. Montefiascone [VT]: 43, 4 n. 6, 52. Monterosi [VT]: 1 n. 2. Monte Severo [BO]: 93. Moroni, (Gaetano), studioso di storia

eccl. (1802-1883): 1. Mugnano [VT]: 1 n. 2. Museo Etrusco di Firenze: 30 n.16. Museo Falisco di Roma (Villa Giulia):

2, 4, 30, 110.

Page 219: Miscellanea Civitonica Di O. Del Frate

191

Napoleone I, imperatore dei Francesi (1804-1821): 111.

Napoli: 82. Nepi [VT]: 12, 12, 332, 73, 98, 110. Nicolò V, Tommaso Parentuccelli, pa-

pa (1447-1455): 80. Norba: 1. Normanni, popolazione scandinava:

81, 82.

Onorio II, (Pietro Cadalo), antipapa (1061-1072): 81.

Ordine di Santa Chiara: 75, 75 (mo-nache di santa Chiara).

Orosio, (Paolo), scrittore latino cri-stiano (sec. IV-V d. C.): 2.

Orte [VT]: 1. Orvieto [TR]: 1. Osteria di Stabia: 323, 33. Otricoli [TR]: 32. Ottone III, imperatore del sacro ro-

mano Impero (996-1002): 81. Ovidio (Publio O. Nasone), poeta lati-

no (43 a. C. – 17 d. C.): 2, 7, 111.

Palmieri, (Adone), storico dello stato pontificio (sec. XIX): 119.

Paludi Pontine: 118. Paolo III, Alessandro Farnese, papa

(1534-1549): 56, 57, 75, 88. Paolo IV [< Paolo VI], Gian Pietro Ca-

rafa, papa (1555-1559): 57. Paolo V, Camillo Borghese, papa

(1605-1621): 33, 44, 82. Papiro, III sec. a. C.: 2. Parenti, Giovanni, generale

dell’ordine francescano (sec. XIII): 75.

Parigi: 82. Pelasgi, popolo antico: 1. Peretti, famiglia di papa Sisto V: 452. Perugia: 1, 93, 103. Pesaro: 93. Phalerium Argivum: vd. sub Civita

Castellana. Piffer [> Pfyffer] (Alfondo Massimilia-

no), generale dell’esercito pontifi-cio: 103.

Pio II, Enea Silvio Piccolomini, papa (1458-1464): 57.

Pio IV, Giovanni A. Medici, papa (1559-1565): 57.

Pio V, Antonio M. Ghislieri, papa (1566-1572): 57.

Pio VI, Giovanni A. Braschi, papa (1775-1799): 33.

Pio VII, Gregorio B. L. Chiaramonti, papa (1800-1823): 823.

Pio IX, Giovanni Mastai Ferretti, papa (1846-1878): 82, 85, 883.

Pirani, Giovanni (tipografia): 48. Plinio (il Giovane), scrittore latino

(61/62-113 ca d.C.): 4, 48, 48 n. 19.

Pofi [FR]: 93. Poggetto (= Poggio Sommavilla) [RI]:

26. Ponte Milvio: 28. Ponte Mollo: vd. supra ponte Milvio. Ponzano Romano [RM]: 26. Porto di Ripetta: 28. Portogallo: 105. porto vinario superiore: vd. sub Civita

Castellana. Primodan [> Pimodan] (Georges de

Rarécourt), tenente colonnello dell’esercito pontificio: 103.

Promis, (Carlo), storico dell’architettura (1808-1872): 79 n. 31.

Quatremèr[e] de Vincy, storico dell’arte medievale (sec. XIX): 80 n. 33.

Quinto Lutazio Cercone, console ro-mano: 2, 81.

Ravenna: 93. Ravesina: 93. Recanati [MC]: 932. Regno d’Italia: 9 (Regno), 96. Rignano [Flaminio] [RM]: 1 n. 2. Ripatransone [AP]: 93. Rivarola, (Agostino), cardinale e lega-

to pontificio (1758-1842): 95. Rodericus Castellanae episcopus: vd.

sub Civita Castellana. Roma: 1, 22, 43, 10, 282, 28 n. 14,

292, 30, 32, 36, 38, 45, 48, 52, 56, 69 (VI finis), 752, 77, 814, 82, 833,

Page 220: Miscellanea Civitonica Di O. Del Frate

192

87, 892, 93, 95, 972, 100, 1032, 104, 1093, 110, 111.

Romani: 2, 2, 48, 90. Ronciglione [VT]: 1, 18. Ruggini (attore comico): 37 n. 18. Russi [Ravenna]: 93.

Sabatini: 9. Sabina: 16, 28 n. 14, 109. Saltara (presso Fano): 93. San Bernardino da Siena: 46, 75 n.

28. Sangallo (Antonio Giamberti) archi-

tetto (1455-1534): 36, 442, 91, 91 (Antonio da Sangallo).

San Lino (papa): 78. San Martino (battaglia): 96. San Pietro (papa): 78. San Silvestro (monastero del Soratte):

2. Sant’Agata, (castello presso Civita

Castellana): vd. sub Civita Castel-lana.

Santa Serena, patrona di Foglia: 49. Sant’Oreste [RM]: 1 n. 2, 26. Santorestesi: 82. Sardegna: 103. Sartori (tipografia): 97. Savelli, Luca, signore feudatario (sec.

XIV): 91. Savona: 95. Schneider, Carlo, generale austriaco:

82. Sercognani, (Giuseppe), generale e

patriota (1780-1844): 97. Siculi, antico popolo: 1. Siena: 1. Sisto IV, Francesco della Rovere, pa-

pa (1471-1484): 56, 91. Soliani (tipografia): 48. Soratte: 2, 42, 32. Soriano [VT]: 1. Stabia (attuale Faleria): 1 n. 2, 52, 26,

1112. Stati della Chiesa, 52, 56, 56 n. 22

(Stato Pontificio), 75, 83 (Stato Pon-tificio), 96 (Stato Pontificio), 111.

Strabone, storico e geografo greco (63 ca a. C. - 19 ca d. C.): 5.

strumenti musicali: 105.

Sutri [VT]: 12, 81. Svizzeri (soldati): 103.

Tarquinia [VT]: 1. Tasso, (Torquato), poeta italiano

(1544-1595): 4. Tavola Peutingeriana: 1. Tenderini (Francesco Maria), vescovo

di Civita Castellana (1718-1739): 792.

Teodorico, re degli Ostrogoti (+ 526 d. C.): 30.

Terni: 84. Terre di Santo Spirito: 88. Tiorba: 105 n. 39. Tivoli [RM]: 100. Todi: 93. Torelli (Luigi), patriota e senatore del

Regno (1810-1887): 89, 89 n. 34, 118.

Trascimini, popolazioni falische aldilà del Cimino: 5.

Trevisan, Giovanni (detto Volpato), di-segnatore e ceramista: 111.

Tuscania [VT]: 1. Tuscolani, (conti), famiglia patrizia

romana: 872.

Ughelli, (Ferdinando), studioso di sto-ria eccl. (1595-1670): 78.

Valentino, (duca): 82, 103 [vd. Borgia, Cesare].

Vannucci, Atto, storico e filologo (1810-1883): 94, 95.

Veienti, antica popolazione etrusca: 81.

Veio, antica città etrusca: 44. Venezia: 82. ventres falisci: vd. sotto Civita Castel-

lana. Vico (lago): 18. Vico, (vulcano): 9. Vignanello [VT]: 1 n. 2. Villa Giulia, museo nazionale etrusco:

2, 110. Villa Rostrata, antica villa romana

(attuale Castello di Morolo): 1 n. 2. Viterbo: 51, 81, 83, 87, 1092, 111.

Page 221: Miscellanea Civitonica Di O. Del Frate

193

Volpato: 111 [vd. Trevisan, Giovanni]. Volterra [PI]: 1. vulcani sabatini-cimini: 9.

Zuccheri [> Zuccari], fratelli pittori del Rinascimento: 92.

Page 222: Miscellanea Civitonica Di O. Del Frate
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195

INDICE

PREMESSA........................................................................................................... VII INTRODUZIONE .................................................................................................... IX OPERE E SCRITTI di O. Del Frate ........................................................................XVI BIBLIOGRAFIA citata da O. Del Frate. ................................................................XVII BIBLIOGRAFIA ....................................................................................................XIX PREFAZIONE....................................................................................................XXVII 1 Origine di Civita Castellana.................................................................................. 1 2 Controversie sulla Faleria etrusca oggi Civita Castellana...................................... 4 3 Notizie preistoriche .............................................................................................. 6 4 Notizie leggendarie ............................................................................................... 7 5 Cenno geologico sull'agro civitonico...................................................................... 9 6 Cenno mineralogico dell'agro civitonico .............................................................. 10 7 Origini e composizione dei terreni costituenti l'agro civitonico ............................ 13 8 Gli emendamenti del suolo civitonico alle marne ................................................ 14 9 Cenno sulla rotazione agraria del territorio civitonico......................................... 15 10 Topografia dell'agro civitonico .......................................................................... 17 11 Idrografia ......................................................................................................... 18 12 Le valli ............................................................................................................. 20 13 Le sorgenti ....................................................................................................... 21 14 Superficie dell'agro civitonico ........................................................................... 24 15 Irrigazione........................................................................................................ 25 16 Confini............................................................................................................. 26 17 Contrade.......................................................................................................... 27 18 Traffico fluviale ................................................................................................ 28 19 La necropoli ..................................................................................................... 30 20 Strade antiche ................................................................................................. 32 21 I paghi e vichi .................................................................................................. 34 22 Topografia di Civita Castellana......................................................................... 35 23 Lavori edilizi e igienici ...................................................................................... 37 24 Posizione astronomica di Civita Castellana....................................................... 39 25 Misure antiche lineari romane ......................................................................... 40 26 Le torri............................................................................................................. 41 27 Stemmi gentilizi, ornamentazioni simboliche e religiose ................................... 42 28 Nobiltà civitonica ............................................................................................. 46 29 Antica cultura falisca ....................................................................................... 47 30 I cunicoli e pozzi .............................................................................................. 49 31 Le fiere............................................................................................................. 50 32 Ordinamenti antichi municipali di Civita Castellana ........................................ 51 33 Lo statuto municipale ...................................................................................... 55 34 Divertimenti pubblici antichi............................................................................ 69 35 Mulini idraulici ................................................................................................ 72 36 I romitaggi ....................................................................................................... 73 37 Conventi e monasteri ....................................................................................... 74 38 Parrocchie antiche e chiese .............................................................................. 76 39 Indice storico cronologico di Civita Castellana.................................................. 80 40 Orologio pubblico............................................................................................ 83 41 I ponti.............................................................................................................. 84

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196

42 Servitù di pascolo .............................................................................................86 43 L'agro civitonico in rapporto alla coltivazione ....................................................89 44 Il Forte del Sangallo..........................................................................................91 45 I detenuti politici rinchiusi nel Forte.................................................................93 46 Associazioni politiche........................................................................................95 47 Rivoluzioni .......................................................................................................97 48 La prima rete telefonica mandamentale del regno impiantata a Civita

Castellana da Oronte Del Frate e De Angelis .....................................................98 49 Illuminazione pubblica ...................................................................................100 50 Concerie .........................................................................................................101 51 Località assegnate ai supplizi .........................................................................102 52 Presidi militari................................................................................................103 53 Musica ...........................................................................................................104 54 Antichi istrumenti musicali ............................................................................105 55 Dell'arte ceramica...........................................................................................107 56 Ospedale Andosilla .........................................................................................108 57 Compimento della linea tranviaria Roma - Civita Castellana - Viterbo.............109 58 Idee democratiche ..........................................................................................112 59 Modi di caccia usati nel territorio ...................................................................114 60 Modi di pesca usati nel nostro territorio .........................................................115 61 Usi e costumi .................................................................................................116 62 Clima .............................................................................................................118 63 Faleri romana e altri avanzi antichi ................................................................119 64 Cittadini illustri ..............................................................................................120 65 Autori che illustrarono la nostra città .............................................................121 66 Bollarii e notizie patrie....................................................................................122 67 Ventres falisci.................................................................................................123 NOTE .................................................................................................................. 125 GLOSSARIO ........................................................................................................ 169 INDICE DEI NOMI PROPRI DI PERSONA DI LUOGO E DELLE COSE

NOTEVOLI........................................................................................................ 181