project financing e ppp - anselmi & associati€¦ · !!project!financing!e!ppp (avv. daniela...
TRANSCRIPT
PROJECT FINANCING E PPP
(Avv. Daniela Anselmi)
Milano, 29/30 marzo 2012
1. Le diverse configurazioni ammissibili di società di progetto
Innanzitutto, su un piano generale, appare utile ricordare che il project
financing costituisce, in base al disposto dell’art. 3, comma 15 ter del D.lgs. n.
163/2006, una tipologia di contratto di partenariato pubblico-privato.
I contratti di partenariato pubblico-privato sono definiti dalla sopramenzionata
disposizione come “contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la
progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un'opera pubblica o di
pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il
finanziamento totale o parziale a carico di privati, anche in forme diverse, di tali
prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi
comunitari vigenti”.
Tra le forme di partenariato pubblico-privato il comma 15 ter in esame fa
rientrare, a titolo esemplificativo, la concessione di lavori, la concessione di servizi, la
locazione finanziaria, il contratto di disponibilità l'affidamento di lavori mediante
finanza di progetto, le società miste, nonchè l'affidamento a contraente generale ove il
corrispettivo per la realizzazione dell'opera sia in tutto o in parte posticipato e
collegato alla disponibilità dell'opera per il committente o per utenti terzi
Sempre su un piano più generale, è importante evidenziare come, a livello
europeo, la collaborazione tra il pubblico e il privato appaia favorevolmente accolta.
Il 30 aprile 2004 la Commissione delle Comunità europee ha pubblicato il Libro
Verde dei partenariati pubblico-privati (PPP) definendoli forme di “cooperazione tra
le autorità pubbliche e il mondo delle imprese che mirano a garantire il
finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di
1
un’infrastruttura o la fornitura di un servizio”.
Tra le diverse forme di partnership si individuano le cd. “istituzionalizzate”
(IPPP), che implicano la creazione di un’entità detenuta congiuntamente dal partner
pubblico e da quello privato: si tratta in altre parole delle società miste pubblico-
privato.
Diverse sono le società in cui opera un soggetto privato selezionato con
procedimenti ad evidenza pubblica, perché questi schemi organizzativi (PPP) si
collocano nell’ampio contesto dell’esternalizzazione dei servizi, una pratica che è
ancora oggi apprezzata come uno degli strumenti principali di innovazione nei sistemi
sociali occidentali.
Le PPP non hanno una definizione comunitaria, ma hanno trovato una generica
identificazione nel citato Libro Verde, che le individua laddove si instaura una
qualunque forma di cooperazione tra le autorità pubbliche e il mondo delle imprese, al
fine di garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la
manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio.
Si distinguono due principali forme di partnership tra pubblico e privato:
- contrattuale;
- istituzionalizzato.
Nel primo caso il legame tra pubblico e privato ha natura solamente
convenzionale e può assumere la forma di appalto o di concessione.
Invero, la descrizione contenuta nel Libro Verde riguardo i PPP contrattuali
appare molto generica, considerato il significato generalmente attribuito al termine
partnership.
E’ difficile intravedere in molti appalti di lavori e servizi una “forma di
cooperazione tra le autorità pubbliche ed il mondo delle imprese”; ad avviso della
dottrina, solo quando il contratto prevede qualche condivisione dei principali fattori
economico-politici necessari all’attività oggetto del rapporto si può definire
propriamente una cooperazione tra contraenti.
2
La partnership istituzionalizzata ovvero IPPP - Institutionalised Public Private
Partnership - si ha quando il pubblico e il privato stringono un legame più stretto di
quello semplicemente convenzionale, assumendo un rapporto di carattere societario
con cui condividere le strategie, la gestione, gli investimenti, i rischi e i risultati.
Le PPP istituzionalizzate sono state descritte nella comunicazione interpretativa
della Commissione europea del 5.02.2008 come una cooperazione tra pubblico e
privato che avviene attraverso la costituzione di un’entità di capitale misto (dotata di
personalità giuridica propria) per l’esecuzione di un contratto o una concessione
pubblica.
Non rileva se il nuovo organismo deve essere appositamente costituito oppure
se la compartecipazione si realizza mediante l’acquisto di quote di una società
pubblica già esistente, da parte del privato, o viceversa.
Anche il numero dei soggetti pubblici e privati non è sottoposto a limiti
particolari.
Si potrebbero distinguere inoltre partnership in cui gli enti locali posseggono
essi stessi quote di partecipazione dell’organismo in comune con il privato, che
potremmo definire dirette; e partnership a valle di società pubbliche già esistenti,
quando si creano società partecipate per l’associazione con i privati a cui delegare una
parte delle proprie funzioni, oppure assumere nuove iniziative: questi casi si possono
definire partnership indirette.
La dottrina ha individuato alcuni elementi che caratterizzano l’IPPP:
- la durata relativamente lunga della collaborazione, avuto
riguardo segnatamente al tempo necessario al recupero degli investimenti, intesi
sia come capitali che come avviamento di un servizio complesso;
- le modalità di finanziamento del progetto, garantito dal partner
privato, (ma eventualmente anche in parte dal soggetto pubblico);
- il ruolo importante dell’operatore privato, attraverso una
partecipazione pregnante alla realizzazione dell’opera (progettazione,
realizzazione, attuazione, finanziamento, successiva gestione) o alla conduzione
3
del servizio; non è infatti sufficiente la semplice partecipazione al capitale.
La realizzazione di progetti e la gestione di attività attraverso una partnership
pubblico-privato istituzionalizzata possiede chiare affinità con il project financing.
Come si è visto, la PPP può avere, secondo la Ue, diverse declinazioni, tra le
quali si ricordano in particolare quella contrattuale e quella “istituzionalizzata” (IPPP),
che prevede la costituzione di una società mista.
Anche il project financing può assumere forme diverse:
a) il modello “pubblico”, che implica la costituzione di una società pubblica di
scopo (detta anche SPV - Special Purpose Vebicle, oppure Società di Progetto);
b) il modello “IPPP”, quindi con la costituzione di una società, ma questa volta
mista;
c) il modello “privato”, in cui la società di scopo viene costituita con capitali
interamente privati.
Nel primo e nell’ultimo caso il rapporto con il privato è basato su un rapporto
contrattuale.
In base alle definizioni molto ampie della Commissione può già definirsi una
PPP.
Diventa pertanto difficile distinguere le due fattispecie ed infatti si sostiene che
il Project e la PPP sono la stessa cosa.
Ancora prima dei documenti Ue, è stato indicato che la PPP è una fattispecie
più ampia del Project; difatti, il Project, come detto, è una forma di PPP.
Quanto al caso b), ovvero la società mista, tale società viene definita “di scopo”
o “di progetto” essendo il soggetto giuridico deputato alla realizzazione degli
interventi e alla loro successiva gestione.
Un’entità quindi autonoma rispetto a coloro che ne detengono le quote (nel caso
specifico soci pubblici e soci privati).
Questa separazione consente di tenere distinti e più facilmente controllabili i
4
flussi generati dal progetto da quelli relativi alle altre attività del promotore.
Questa configurazione presenta diversi vantaggi, tra cui i principali: in caso di
fallimento del progetto, il finanziatore non potrà rivalersi su beni del promotore diversi
da quelli di proprietà della società di progetto (salvo che non vi siano specifiche
garanzie richieste in sede di concessione del finanziamento); analogamente, qualora
sopravvenga il fallimento del promotore la società di progetto continuerà ad esistere
perseguendo le proprie finalità.
Come accennato sopra, tra le forme di partenariato pubblico privato vi è anche
il contratto di disponibilità, recentemente introdotto nel Codice dall’art. 44 del D.L. n.
1/2012.
Il comma 15 bis dell’art. 3 del D.lgs. n. 163/2006 definisce il contratto di
disponibilità come “il contratto mediante il quale sono affidate, a rischio e a spesa
dell'affidatario, la costruzione e la messa a disposizione a favore dell'amministrazione
aggiudicatrice di un'opera di proprietà privata destinata all'esercizio di un pubblico
servizio, a fronte di un corrispettivo. Si intende per messa a disposizione l'onere
assunto a proprio rischio dall'affidatario di assicurare all'amministrazione
aggiudicatrice la costante fruibilità dell'opera, nel rispetto dei parametri di
funzionalità previsti dal contratto, garantendo allo scopo la perfetta manutenzione e
la risoluzione di tutti gli eventuali vizi, anche sopravvenuti”.
La disciplina di tale figura è poi contenuta nell’art. 160 ter del Codice.
Venendo ora più specificamente al tema della società di progetto, ricordiamo in
primo luogo che la relativa disciplina è contenuta essenzialmente nell’art. 156 del
D.lgs. n. 163/2006, il quale dispone che:
“1. Il bando di gara per l'affidamento di una concessione per la realizzazione e/o
gestione di una infrastruttura o di un nuovo servizio di pubblica utilità deve prevedere
che l'aggiudicatario ha la facoltà, dopo l'aggiudicazione, di costituire una società di
progetto in forma di società per azioni o a responsabilità limitata, anche consortile. Il
bando di gara indica l'ammontare minimo del capitale sociale della società. In caso di
concorrente costituito da più soggetti, nell'offerta è indicata la quota di
5
partecipazione al capitale sociale di ciascun soggetto. Le predette disposizioni si
applicano anche alla gara di cui all'articolo 153. La società così costituita diventa la
concessionaria subentrando nel rapporto di concessione all'aggiudicatario senza
necessità di approvazione o autorizzazione. Tale subentro non costituisce cessione di
contratto. Il bando di gara può, altresì, prevedere che la costituzione della società sia
un obbligo dell'aggiudicatario.
2. I lavori da eseguire e i servizi da prestare da parte delle società disciplinate dal
comma 1 si intendono realizzati e prestati in proprio anche nel caso siano affidati
direttamente dalle suddette società ai propri soci, sempre che essi siano in possesso
dei requisiti stabiliti dalle vigenti norme legislative e regolamentari. Restano ferme le
disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali che prevedano obblighi di
affidamento dei lavori o dei servizi a soggetti terzi.
3. Per effetto del subentro di cui al comma 1, che non costituisce cessione del
contratto, la società di progetto diventa la concessionaria a titolo originario e
sostituisce l'aggiudicatario in tutti i rapporti con l'amministrazione concedente. Nel
caso di versamento di un prezzo in corso d'opera da parte della pubblica
amministrazione, i soci della società restano solidalmente responsabili con la società
di progetto nei confronti dell'amministrazione per l'eventuale rimborso del contributo
percepito. In alternativa, la società di progetto può fornire alla pubblica
amministrazione garanzie bancarie e assicurative per la restituzione delle somme
versate a titolo di prezzo in corso d'opera, liberando in tal modo i soci. Le suddette
garanzie cessano alla data di emissione del certificato di collaudo dell'opera. Il
contratto di concessione stabilisce le modalità per l’eventuale cessione delle quote
della società di progetto, fermo restando che i soci che hanno concorso a formare i
requisiti per la qualificazione sono tenuti a partecipare alla società e a garantire, nei
limiti di cui sopra, il buon adempimento degli obblighi del concessionario sino alla
data di emissione del certificato di collaudo dell'opera. L'ingresso nel capitale sociale
della società di progetto e lo smobilizzo delle partecipazioni da parte di banche e altri
investitori istituzionali che non abbiano concorso a formare i requisiti per la
qualificazione possono tuttavia avvenire in qualsiasi momento”.
6
Con specifico riguardo alle possibili “configurazioni” della società di progetto,
il primo comma del sopramenzionato art. 156 prevede, come visto, che detta società
può avere la “forma di società per azioni o a responsabilità limitata, anche
consortile”.
Al riguardo, è appena il caso di osservare che il riferimento alla società
consortile a responsabilità limitata non pare aver dato finora riscontro nella pratica.
Quanto alla scelta tra il modello della società per azioni e quello della società a
responsabilità limitata, essa non pare suscettibile di valutazioni aprioristiche, ma deve
essere relativizzata alle concrete esigenze di organizzazione dell’attività di impresa e
di regolamentazione delle relazioni tra finanziatori di rischio e finanziatori di debito.
Il giudizio di meritevolezza del contratto sociale della società di progetto deve
pertanto essere condotto attraverso la valutazione dell’idoneità delle pattuizioni, a
prescindere dal modello prescelto, a realizzare quell’utilità sociale che caratterizza,
quale limite interno, l’autonomia privata. Utilità sociale che, con riferimento alle
operazioni di project financing per la realizzazione di opere pubbliche, deve essere in
grado di armonizzare le esigenze dell’impresa con la realizzazione del pubblico
interesse.
Non appare dunque corretto condurre l’indagine sulla scelta del modello
societario secondo un criterio apriorisitico di ‘neutralità’ della veste giuridica al fine
del perseguimento dell’interesse sociale e della concretizzazione della tutela dei
numerosi centri di interesse coinvolti nell’operazione.
Pur in presenza di un elevato grado di libertà concesso, dalla riforma del diritto
societario, all’autoregolamentazione dei soci di una società per azioni, la dottrina ha
rilevato come tale potere trovi nelle società a responsabilità limitata ancor più spazio.
A voler sintetizzare -pur sempre senza indicare un criterio operativo assoluto-
pare potersi affermare che il maggior grado di ‘flessibilità’ operativa attribuito
dall’ordinamento alla società a responsabilità limitata si segnala per la sua idoneità a
realizzare le segnate esigenze che caratterizzano le attività di una società di progetto in
vista della tutela dei numerosi e diversificati interessi coinvolti.
7
Tuttavia, pur essendo consentito plasmare convenzionalmente lo statuto di una
s.r.l. in senso maggiormente protettivo dalle vicende esterne, la maggiore
procedimentalizzazione e formalizzazione delle regole di governance fisionomiche
della società per azioni si dimostrano più adatte per le ipotesi nelle quali -ad esempio
per i progetti di grandi dimensioni, per i quali può essere necessario il ricorso al
mercato finanziario estero- è opportuno un maggior rigore nell’esercizio dei poteri di
controllo e di gestione dall’esterno dell’attività di impresa.
Sembra ragionevole l’osservazione secondo la quale tale rigore procedimentale
e formale, unitamente ad una puntuale disciplina dei conflitti di interesse, alla
dialettica tra funzione gestoria e proprietaria, alle più dettagliate regole contabili, fa
presumere una preferenza, in particolare dei finanziatori (in grado di incidere su tali
scelte dei promotori) per il modello azionario.
Sempre con riguardo alla “veste” che può assumere la società di progetto,
occorre evidenziare che la pubblica amministrazione, oltre a rivestire il ruolo di
amministrazione aggiudicatrice, può svolgere un ruolo anche operativo nella
realizzazione e gestione di un’opera pubblica da realizzarsi secondo le regole del
project financing, allorquando, già in sede di programmazione o di bando, si preveda
che vi sia una compartecipazione al capitale azionario della società di progetto.
L’amministrazione aggiudicatrice può pertanto imporre l’obbligo per il
promotore che si sia aggiudicato la concessione di costituire una società di progetto
nella cui compagine sociale debba esserle riservata una partecipazione al capitale
sociale.
Al riguardo, la dottrina ha osservato che la partecipazione della pubblica
amministrazione all’attività di impresa della società di progetto trova la sua
legittimazione nella prospettiva della realizzazione del principio costituzionale di buon
andamento, consentendo ancor di più la possibilità di controllare le modalità di
realizzazione e gestione dell’opera pubblica, sino ad incidere sulle stesse scelte
negoziali e commerciali, anche al fine non irrilevante di scongiurare deviazioni degli
investimenti da parte della società di progetto.
8
Sempre con riguardo alla disciplina delle società di progetto, si segnala, per
maggiore completezza, la recente modifica introdotta dall’art. 41 del D.L. n. 1/2012,
che ha sostituito l’art. 157 del D.lgs. n. 163/2006 relativamente alla possibilità per
dette società di emettere obbligazioni.
L’art. 157 del Codice ora dispone che “1. Le società costituite al fine di
realizzare e gestire una singola infrastruttura o un nuovo servizio di pubblica utilità
possono emettere, previa autorizzazione degli organi di vigilanza, obbligazioni, anche
in deroga ai limiti di cui all'articolo 2412 del codice civile, purché destinate alla
sottoscrizione da parte degli investitori qualificati come definiti ai sensi del
regolamento di attuazione del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58; dette
obbligazioni sono nominative e non possono essere trasferite a soggetti che non siano
investitori qualificati come sopra definiti.
2. I titoli e la relativa documentazione di offerta devono riportare chiaramente ed
evidenziare distintamente un avvertimento circa l'elevato profilo di rischio associato
all'operazione.
3. Le obbligazioni, sino all'avvio della gestione dell'infrastruttura da parte del
concessionario, possono essere garantite dal sistema finanziario, da fondazioni e da
fondi privati, secondo le modalità definite con decreto del Ministro dell'economia e
delle finanze di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”.
I cosiddetti project bond rappresentano, in sintesi, un nuovo strumento
finanziario utile a raggruppare ingenti risorse private nella realizzazione di grandi
infrastrutture (trasporti, energia, reti telematiche) in un momento storico in cui le casse
di molti Paese sono piene di debiti e di interessi passivi.
La differenza rispetto alle altre forme di obbligazioni già esistenti, e ripagate
con canoni e pedaggi, consiste nel fatto che i project bond finanziano la fase di
realizzazione dell’opera, quando questa non produce ancora risorse con cui
autofinanziarsi.
9
2. Pianificazione e gestione dei rischi
Una adeguata pianificazione di progetti complessi, come quelli che tipicamente
vengono realizzati attraverso i project financing, deve contemplare uno schema di
trasferimento e gestione dei rischi connessi all’iniziativa.
Per rischio si intende qualunque evento in grado di modificare gli effetti o le
conseguenze previste dalla realizzazione del progetto.
Questa importante attività si svolge lungo tutto l’arco di sviluppo e realizzazione
del progetto e si compone di quattro fasi:
1) vanno in primo luogo previsti i principali rischi che condizionano il successo
dell’iniziativa;
2) successivamente, i rischi vanno quantificati per poterne determinare la sostenibilità:
ogni iniziativa porta con sé delle pericolosità. La valutazione dei rischi ha dunque lo
scopo di verificare il rapporto tra rischi e benefici attesi;
3) successivamente va pianificata l’allocazione contrattuale dei rischi ovvero la
ripartizione di questi tra i diversi soggetti coinvolti: soggetti pubblici, soggetti
privati, finanziatori, nonché utenti interessati. Da intendersi anche riguardo la
misura: un rischio può essere infatti ripartito tra più soggetti. Va peraltro
sottolineato che da questa ripartizione scaturisce conseguentemente la
pianificazione della ripartizione dei proventi dell’iniziativa, infatti non ci sono
dubbi sul fatto che quanti più rischi un soggetto è disponibile a sopportare, tanto più
alta sarà la quota dei profitti che pretenderà;
4) infine l’assetto dei rischi va tenuto monitorato per anticipare i possibili effetti
negativi derivanti dalle variazioni nel tempo delle iniziali previsioni: solo attraverso
un controllo costante si possono mettere in campo quelle manovre correttive che
possono scongiurare l’insuccesso maturato durante la fase di gestione.
10
Vi sono rischi che incombono in generale su tutti i progetti e su tutto l’arco
temporale dell’operazione. Si tratta ad esempio del:
- rischio finanziario, legato alla possibile variazione del tasso di inflazione e dei tassi
d’interesse;
- rischio amministrativo: è il rischio che la Pubblica Amministrazione, nella sua
autonomia di valutazione e decisione, abbia comportamenti contraddittori o dilatori
o, peggio, che violi impegni già assunti verso privati, soprattutto banche; inoltre, si
può trattare dell’incertezza che può occorrere sull’interpretazione delle norme.
- rischio politico: è un rischio legato a quello amministrativo e manifesta i suoi effetti
quando cambia lo scenario politico e vengono modificate le norme amministrative.
Si tratta di una delle cause maggiori di disaffezione del settore privato agli
investimenti di lunga durata con la pubblica amministrazione.
In dottrina vengono distinte tre categorie di questo genere di rischi.
La prima nel nostro paese può essere considerata di basso profilo, perché riguarda i
rischi di espropriazione, quelli di conversione e di trasferimento valutari, nonché
quelli di sconvolgimenti politici (guerre, sabotaggi, terrorismo, ecc.).
La seconda categoria invece è particolarmente importante anche in Italia perché
comprende i rischi di modifiche normative impreviste o di insuccesso del governo
(o degli organi competenti) nel ritoccare le tariffe in ragione di considerazioni
politiche.
La terza categoria concerne i rischi pseudocommerciali che potrebbero scaturire nel
caso in cui il progetto preveda l’intervento di fornitori o clienti pubblici con una
discutibile capacità o disponibilità a onorare le obbligazioni contrattuali assunte nel
progetto stesso.
- rischio legale.
Altri, invece, si distinguono particolarmente nella fase di realizzazione e in quella
successiva di gestione.
Nella prima fase le criticità sono legate a:
11
a) progettazione;
b) ottenimento delle necessarie autorizzazioni;
c) tecnologia da adottare;
d) rispetto degli impegni contrattuali.
Nella successiva fase di gestione dell’opera o del servizio i rischi maggiori si
individuano nei seguenti elementi:
a) domanda inferiore a quanto previsto (rischio di mercato) che può scendere al
di sotto del limite minimo per la sostenibilità dell’operazione;
b) variabilità del mercato di approvvigionamento dei prodotti e servizi necessari
alla gestione dell’attività o degli altri costi di esercizio in misura maggiore al previsto
(ad es. incremento del costo delle materie prime, del costo del personale e in generale
dei costi di gestione);
c) cattiva gestione dell’attività;
d) scarso rendimento dell’opera realizzata.
E’ chiaro che questa attività di pianificazione dei rischi è cruciale per iniziative di
questo genere ed è anche un’attività molto difficile da compiere per gli enti pubblici
per varie ragioni, quali la mancanza di competenza specifica, la carenza di strutture, la
mancanza di risorse finanziarie che potrebbero consentire di affidarsi a competenze
adeguate esterne, ecc.
Per agevolare la rilevazione e gestione dei rischi può essere utile redigere la
matrice dei rischi, con cui identificare anche il soggetto su cui si ritiene debbano
gravare.
Al riguardo, la dottrina ha osservato come un’attenta gestione del procedimento
possa risolvere in parte questi difficili aspetti, ovvero la determinazione e l’allocazione
dei rischi dell’iniziativa.
Infatti, l’iter del project financing consente una discreta elasticità e apertura alla
discussione con il promotore e gli altri soggetti interessati.
12
Come si è accennato, nelle varie fasi del processo, sino alla messa in gara finale
del progetto, possono intervenire tutta una serie di modifiche dell’impostazione
iniziale.
Sotto il profilo in esame, la giurisprudenza è venuta recentemente a supportare
questa lettura della normativa, fornendo importanti elementi di chiarezza sulle
modalità del procedimento di formazione del PF: “... la scelta del promotore è
caratterizzata da un altissimo livello di discrezionalità da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice, che nel valutare le proposte tiene conto di scelte di carattere
economico e tecnico non sindacabili...”; “...l’amministrazione deve valutare le
proposte progettuali in funzione dell’interesse pubblico perseguito, giudicando la loro
idoneità a dare attuazione ad un programma non definito nei suoi contenuti
progettuali” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 8 febbraio 2011, n. 843; in senso
conforme, Ad. Plen. 15 aprile 2010, n. 1).
Come chiarisce il giudice amministrativo vanno infatti tenute distinte due fasi
caratterizzate da diversi modi di agire:
1) la prima, nonostante sia “procedimentalizzata”, ha carattere solamente
preliminare ed ha lo scopo di individuare con piena discrezionalità il promotore e non
“...alla scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed
economici preordinati, ma alla valutazione stessa di un interesse pubblico che
giustifichi, alla stregua della programmazione delle opere pubbliche, l’accoglimento
della proposta formulata dall’ aspirante promotore”;
2) la seconda, invece, avviene quando è stato definito l’oggetto delle attività ed
è quindi finalizzata al loro affidamento; pertanto va trattata come una gara specifica
soggetta ai principi comunitari e nazionali dell’evidenza pubblica.
Il modus procedendi è improntato alla logica della collaborazione, in funzione
del perseguimento del pubblico interesse, tra promotore ed amministrazione che ispira
tutta la fase preliminare di scelta e di approvazione della proposta di project financing;
sarà poi questa proposta oramai definita con maggiore dettaglio ad essere sottoposta a
pubblica gara.
13
Questo rapporto collaborativo tra soggetto promotore e pubblica amministrazione
può dunque consentire di discutere preventivamente e impostare una allocazione dei
rischi dell’operazione che tenga conto, da un lato, dell’interesse dell’amministrazione
ad alleggerire l’eventualità di esito negativo e, dall’altro, di mantenere un sufficiente
livello d’interesse da parte del mercato, un interesse che può anche essere del tutto
compromesso da un eccessivo carico di rischiosità, come spesso le pubbliche
amministrazioni tendono a fare.
Oltre a quanto sopra descritto, vanno tenuti in considerazione altri aspetti che
possono soccorrere la pubblica amministrazione impegnata nella pianificazione di
interventi tramite project financing.
La letteratura economica evidenzia alcuni accorgimenti per gestire i punti nodali
di queste operazioni, che, se adottati e bene impiegati, possono ridurre il rischio di
insuccesso.
I) Uno riguarda il rischio di mercato che grava sulle opere destinate a svolgere un
servizio rivolto al pubblico.
Tali iniziative esigono indubbiamente un certo livello di domanda per potersi
sostenere.
Questo peso grava sul soggetto incaricato della gestione dell’opera/servizio
oggetto dell’iniziativa.
Quando esiste questo genere di rischio è opportuno che il soggetto a cui fa capo
sia lo stesso che inizialmente si deve occupare della progettazione e della costruzione,
in quanto in questo modo sono maggiori le garanzie di qualità costruttiva e di rispetto
dei tempi di realizzazione.
Vanno dunque accorpate tutte le fasi (bundling): progettazione, costruzione,
finanziamento, gestione e manutenzione. Questo vantaggio viene massimizzato
quando esiste un legame tra la qualità dell’infrastruttura e il livello dei costi di gestione
e manutenzione.
II) Un altro punto da curare particolarmente riguarda la fase di attribuzione dei
rischi tra i diversi soggetti coinvolti, affinché la ripartizione sia adeguata ed efficiente.
14
Tale operazione, che è stata sopra descritta, deve essere svolta con riguardo alle
effettive capacità dei singoli di poter controllare i rischi.
Vi sono anche degli strumenti utili a meglio gestire questa attribuzione nel
tempo:
- la previsione di un sistema di incentivi destinati a remunerare l’efficienza
economica dell’operazione. A questi possono essere associati anche dei meccanismi di
penalizzazione legati ai risultati (penali);
- un sistema di livelli qualitativi minimi dei servizi, insieme ad un sistema di
controlli, di incentivi e di penalizzazioni;
- è poi opportuno considerare la durata generalmente lunga di queste operazioni e
dunque la possibilità di prevedere ipotesi di riequilibrio dei rapporti da applicare
quando si verificano circostanze che possono alterare l’andamento economico e
finanziario della gestione rispetto a quanto originariamente previsto. Questa possibilità
è consentita ovvero caldeggiata dalla stessa Commissione europea nel documento
interpretativo pubblicato nel 2008 sulle PPP. Si tratta di un tema molto importante ma
anche delicato, perché interviene su aspetti che sono stati oggetto di procedimenti ad
evidenza pubblica volti all’individuazione del soggetto privato a cui affidare le opere
e/o i servizi.
Nell’ambito di queste facoltà di riequilibrio andrebbero previsti anche
meccanismi di riconoscimento alla pubblica amministrazione dei benefici economici
in eccesso conseguiti da alterazioni positive che potrebbero intervenire nel tempo.
Tra i meccanismi che possono essere impiegati per questo genere di
regolamentazione delle variazioni economiche di un affidamento si sottolinea la
possibilità di ancorare la gestione ad un piano di sviluppo economico e finanziario,
come già accennato precedentemente.
Questo sistema diventa percorribile se già nella fase di selezione dell’affidatario
si è data questa impostazione.
La proposta economica infatti può essere richiesta su alcuni elementi di un piano
base proposto (business plan), specificando che il piano offerto può essere modificato
15
solo in alcune parti ma che deve comunque dimostrare di mantenere gli indicatori di
equilibrio e di redditività nell’ambito di valori prestabiliti.
Qualora nel tempo si verifichino fatti esogeni alla gestione che modificano alcuni
elementi del piano base tra quelli non modificabili dall’offerente, si può considerare
cambiato il contesto nel quale la proposta dell’affidatario era stata formulata.
In tali casi può pertanto essere intrapresa l’eventuale modifica delle condizioni
economiche praticate.
III) Nella Ue si registra l’orientamento di qualche paese alla standardizzazione
dei rapporti con gli affidatari per conseguire una serie di vantaggi.
Questa politica necessita evidentemente dell’iniziativa dell’amministrazione
centrale, ovvero dell’impegno a predisporre una contrattualistica e i relativi elaborati
correlati da mettere a disposizione delle amministrazioni periferiche.
Allo stesso scopo possono essere ascritti tutti quegli esempi di regolamentazione
nazionale delle modalità di gestione dei rapporti con l’affidatario.
3. Metodi di selezione del socio industriale e del socio finanziario
Il socio industriale, o operativo, viene selezionato con procedure di pubblica
evidenza non solo in base alla sua storia ma anche alla luce del piano imprenditoriale
ed industriale presentato per la gestione e lo svolgimento del servizio messo in gara.
Il socio finanziatore, tipicamente di capitale e non necessariamente imprenditore,
viene valutato invece su basi differenti, attendendo la società da lui un puro
versamento di somma di denaro.
Il socio industriale svolge una prestazione tipica ed accessoria rispetto allo scopo
sociale.
Ad esso si ritiene applicabile la disciplina di cui all’art. 2345, comma 2, c.c., in
forza del quale il trasferimento potrà essere effettuato solo previo consenso dell’organo
amministrativo.
16
La ratio della norma appare chiara: la società ha il precipuo interesse a
mantenere un certo standard nella prosecuzione dell’attività svolta e quindi, a meno
che non ci si trovi in presenza di un altro socio in possesso di caratteristiche analoghe
o migliori, il trasferimento delle partecipazioni non potrà essere consentito.
Questo assunto merita almeno due precisazioni: la prima è che la valutazione
dell’organo amministrativo non può dirsi meramente discrezionale, ma fondata su
ragioni di opportunità e di proiezione verso il futuro dell’operatività per il bene della
società e della collettività per cui essa opera; la seconda, fortemente legata alla prima,
è che la società opera appunto per un bene della res publica superiore di qualità e
livello rispetto ai fini sociali e che quindi la cessione della partecipazione ad un socio
operativo di livello non adeguato a quello uscente potrebbe determinare un
decadimento dei livelli del servizio reso o, addirittura, la cessazione del servizio per
esser venuto meno il presupposto dello stesso.
In questo caso la procedura di selezione del socio a favore del quale si verifica il
trasferimento della partecipazione non può che essere analoga a quella cui si è
verificata la selezione iniziale del socio industriale.
Solo questa procedura appare, infatti, in grado, da un lato, di tutelare la società
affinché inserisca nella propria compagine, in sostituzione del socio uscente, un nuovo
socio che garantisca prestazioni rapportabili a quelle del primo e, dall’altro, garantisca
parità di trattamento tra potenziali soci intenzionati a comporre la compagine sociale.
Diversa è invece la questione che riguarda il trasferimento della partecipazione
del socio finanziatore.
La prestazione che statutariamente gli viene chiesta è, infatti, legata soltanto al
finanziamento, ossia alla fornitura di adeguato substrato economico, alla gestione dei
servizi tipici della società mista.
In questo caso, dopo la selezione iniziale del socio privato, non si avrebbe alcuna
necessità di attivare altre forme di pubblica evidenza, laddove la cessione della
partecipazione tra diversi privati, che tra loro si susseguono, non coinvolgerebbe se
non marginalmente la società e, di conseguenza, le attività da questa realizzate.
17
Questa parrebbe la lettura più coerente col dettato normativo e alla luce dei
principi dell’ordinamento.
Sotto il profilo in esame, la dottrina ritiene comunque opportuno aver cura di
porre, come regola statutaria ovvero contenuta nei patti parasociali, una precisa
disciplina delle modalità di trasferimento delle partecipazioni sociali.
4. Le società conferitarie delle reti e degli impianti ex art. 113 D.lgs. n. 267/2000: la sentenza Corte cost. n. 320/2011
La separazione tra l’attività di gestione e la proprietà delle reti, degli impianti
e delle altre dotazioni infrastrutturali destinati alla produzione ed erogazione dei
servizi pubblici aventi rilevanza economica costituisce un pilastro delle recenti riforme
“liberalizzatorie”, di matrice europea.
La disciplina nazionale di questo aspetto era, infatti, contenuta nell’art. 23 bis,
comma 5 del D.L. n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008, il quale disponeva che
“Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a
soggetti privati”.
Come noto, il citato art. 23 bis è stato abrogato ad esito del referendum
tenutosi il 12-13 giugno 2011.
Disposizione identica a quella contenuta nel comma 5 sopra menzionato è
stata peraltro poi inserita al comma 28 dell’art. 4 del D.L. n. 138/2011, convertito in
legge n. 148/2011 ("Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al
referendum popolare e alla normativa dell'unione europea").
Con riguardo alla questione de qua, ricordiamo che il comma 2 dell’articolo
113 del D.lgs. n. 267/2000, prevede che “Gli enti locali non possono cedere la
proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all’esercizio dei
servizi pubblici, salvo quanto stabilito dal comma 13”, il quale stabiliva che “Gli enti
locali, anche in forma associata, nei casi in cui non sia vietato dalle normative di
settore, possono conferire la proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni
patrimoniali a società a capitale interamente pubblico, che è incedibile (…)”.
18
Con riferimento al predetto comma 13, è importante sottolineare che, secondo
quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 320 del 25 novembre 2011,
tale disposizione deve ritenersi tacitamente abrogata, per incompatibilità, dal comma 5
dell’art. 23-bis del D.L. n. 112/2008, il quale, come si è visto, aveva stabilito il
principio secondo cui le reti sono di «proprietà pubblica», principio in contrasto con il
richiamato comma 13, che consentiva, invece, il conferimento delle reti in proprietà a
società di diritto privato a capitale interamente pubblico.
Più precisamente, nella sentenza n. 320/2011, la Corte costituzionale ha
precisato che “Non può opporsi all’indicata abrogazione tacita del comma 13 dell’art.
113 del TUEL il fatto che tale comma non è stato inserito dall’art. 12, comma 1,
lettera a), del regolamento di delegificazione di cui al d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168
(Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma
dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito,
con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), tra le disposizioni del medesimo
art. 113 abrogate ai sensi dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008.
Va precisato in proposito che l’art. 23-bis ha previsto due diverse modalità di
abrogazione delle norme previgenti: a) nella lettera m) del comma 10 ha affidato al
Governo il potere di «individuare espressamente», con regolamento, le disposizioni
abrogate ai sensi dello stesso art. 23-bis; b) nel successivo comma 11, con riferimento
al solo art. 113 del TUEL, ne ha disposto l’abrogazione «nelle parti incompatibili con
le disposizioni» del medesimo art. 23-bis. Nel primo caso, l’effetto abrogativo è stato
differito – conformemente all’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400
(Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei
Ministri) – al momento dell’entrata in vigore del regolamento di delegificazione; nel
secondo caso, invece, tale effetto è conseguito immediatamente dalla vigenza dell’art.
23-bis ed è accertato direttamente dall’interprete. La speciale disciplina
dell’abrogazione per incompatibilità prevista per l’art. 113 del TUEL ha, dunque, lo
specifico significato di far discendere l’effetto abrogativo di tale articolo unicamente
dal comma 11 dell’art. 23-bis e, di conseguenza, di rendere non operante il disposto
della lettera m) del precedente comma 10, che, perciò, si riferisce soltanto alle norme
19
previgenti diverse dall’art. 113 del TUEL. Ciò trova indiretta conferma nell’alinea del
comma 1 dell’art. 12 del citato regolamento di delegificazione, il quale – riferendosi
cumulativamente alle disposizioni abrogate sia dell’art. 113 del TUEL (indicate nella
lettera a), sia del d.lgs. n. 152 del 2006 (indicate nelle lettere b e c) – precisa che tali
disposizioni «sono o restano abrogate». Con tale espressione, evidentemente, il
Governo ha inteso distinguere le disposizioni di cui all’art. 113 del TUEL (lettera a),
che «restano» abrogate perché l’effetto abrogativo si era già perfezionato all’atto
della entrata in vigore dell’art. 23-bis, dalle altre disposizioni (lettere b e c), che
«sono abrogate» a séguito dell’entrata in vigore del regolamento e, cioè, nel momento
al quale la legge delegificante differisce l’effetto abrogativo.
In altri termini, il fatto che il menzionato regolamento di delegificazione non
abbia ricompreso il comma 13 dell’art. 113 del TUEL tra le disposizioni abrogate non
esclude che l’effetto abrogativo si sia già verificato a far data dalla promulgazione
della lex posterior (art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008). E ciò
indipendentemente dalla circostanza che il ricordato regolamento – adottato, come si
è visto, sulla base del comma 10, lettera m), dell’art. 23-bis – è stato ormai privato del
suo fondamento normativo dall’art. 1, comma 1, del d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113
(Abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’art. 23-bis del decreto-legge n.
112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, e successive
modificazioni, nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale
n. 325 del 2010, in materia di modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici
locali di rilevanza economica), il quale ha dichiarato l’intervenuta abrogazione
dell’intero art. 23-bis per effetto dell’esito del referendum popolare indetto con d.P.R.
23 marzo 2011”.
Nella pronuncia in esame, la Consulta ha altresì precisato che il piú volte
menzionato comma 13 “non ha ripreso vigore a seguito della dichiarazione – ad
opera dell’art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 113 del 2011 – dell’avvenuta abrogazione
dell’intero art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 (in questo senso,
specificamente, sentenza n. 24 del 2011).
20
Questo quadro normativo non è stato modificato neppure dal decreto-legge 13
agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo), convertito, con modificazioni, dal comma 1 dell’art. 1 della legge 14
settembre 2011, n. 148. Il comma 28 dell’art. 4 di tale decreto, nel riprodurre
letteralmente il contenuto del comma 5 dell’art. 23-bis del d.lgs. n. 112 del 2008 –
abrogato, come si è visto, in seguito a referendum popolare –, ha ripristinato il
principio (dettato in generale per i SPL di rilevanza economica) secondo cui, «Ferma
restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti
privati»”.
Sempre con riguardo alla proprietà pubblica delle reti, la Corte costituzionale
ha avuto modo di osservare come essa implichi, “indubbiamente, l’assoggettamento di
queste al regime giuridico del demanio accidentale pubblico, con conseguente divieto
di cessione e di mutamento della destinazione pubblica. In particolare le reti, intese in
senso ampio, vanno ricomprese, in quanto appartenenti ad enti pubblici territoriali,
tra i beni demaniali, ai sensi del combinato disposto del secondo comma dell’art. 822
e del primo comma dell’art. 824 cod. civ”.
Nel caso di specie, la Corte costituzionale ha dunque dichiarato l’illegittimità
costituzionale dei commi 2 e 4 dell’art. 49 della legge della Regione Lombardia 12
dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale.
Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di
risorse idriche), introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera t), della legge della Regione
Lombardia 27 dicembre 2010, n. 21, recante «Modifiche alla legge regionale 12
dicembre 2003, n. 26, in attuazione dell’articolo 2, comma 186-bis, della legge 23
dicembre 2009, n. 191».
Le predette disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime
rispettivamente prevedevano che: (comma 2) “Gli enti locali possono costituire una
società patrimoniale d’ambito ai sensi dell’articolo 113, comma 13, del d.lgs.
267/2000, a condizione che questa sia unica per ciascun ATO e vi partecipino
direttamente o indirettamente mediante conferimento della proprietà delle reti, degli
impianti, delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico integrato e, in caso di
21
partecipazione indiretta, del relativo ramo d’azienda, i comuni rappresentativi di
almeno i due terzi del numero dei comuni dell’ambito” e che (comma 4) la società
patrimoniale d’àmbito “In ogni caso (…) pone a disposizione del gestore incaricato
della gestione del servizio le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali” e che
“L’ente responsabile dell’ATO può assegnare alla società il compito di espletare le
gare per l’affidamento del servizio, le attività di progettazione preliminare delle opere
infrastrutturali relative al servizio idrico e le attività di collaudo delle stesse”.
Ad avviso di chi scrive non appare peraltro condivisibile l’iter argomentativo
della Corte, laddove traccia il predetto “doppio binario” di abrogazione.
La portata abrogatrice dell’art. 23 bis rispetto alle norme previgenti era stata,
infatti, correlata dal legislatore all’adozione del regolamento, cui era stata
espressamente destinata (anche) la funzione di specifica individuazione delle norme da
ritenere abrogate in quanto incompatibili (ciò che in concreto è stato fatto con il DPR
n. 168/2010).
D’altro canto introdurre un doppio regime abrogativo nell’alveo della stessa
norma e nei confronti di una stessa norma comporta -come si è visto- un doppio effetto
temporale di abrogazione, che appare incoerente ed è idoneo a creare incertezze, che,
invero, erano proprio ciò che si voleva evitare attraverso l’emanazione di un
regolamento che individuasse specificamente le disposizioni da abrogare.
La posizione della Corte può forse essere compresa laddove si consideri la
problematicità -sotto il profilo della stessa legittimità costituzionale- del rinvio da
parte dell’art. 23 bis allo strumento regolamentare quale mezzo per introdurre delle
abrogazioni a norme di legge rafforzate.
In ogni caso, seppur criticabile, per le anzidette ragioni, si deve comunque
tener conto del principio statuito dalla Corte Costituzionale ed occorre pertanto
esaminare alcune questioni che costituiscono immediata conseguenza delle relative
statuizioni.
22
Anzitutto l’aspetto di maggior rilievo concerne il momento temporale in cui
può ritenersi intervenuta l’abrogazione dell’art. 113, comma 13 del D.lgs. n. 267/2000
da parte dell’art. 23 bis.
L’art. 23 bis è entrato in vigore il 25 giugno del 2008 (ivi compreso il comma
5°, che come visto è la disposizione che secondo la Corte avrebbe determinato
l’abrogazione implicita del comma 13° dell’art. 113 del TUEL).
In considerazione di ciò si può ritenere che tutte le società costituite
anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 23 bis (cioè il 25 giugno del 2008) si
appalesano legittime.
La loro costituzione è, infatti, avvenuta in vigenza di una norma che le
legittimava -e cioè l’art. 113, comma 13- e siffatta norma è stata abrogata solo
successivamente alla costituzione di tali società.
In buona sostanza, gli effetti dell’abrogazione dell’art. 113, comma 13
(secondo l’impostazione della Corte) non possono che valere per il futuro, e cioè non
può andare ad incidere su situazioni societarie sorte anteriormente.
D’altro canto, laddove si ragionasse diversamente, si addiverrebbe a
conseguenze paradossali, in quanto si perverrebbe all’affermazione per cui le società
che vengono costituite sulla base di norme giuridiche, che ne consentono la
costituzione, e procedono nella propria vita sociale, possono essere “caducate” laddove
venga in essere, anche in epoca molto successiva, un qualche intervento abrogativo
della norma sulla cui base tali società sono state costituite.
Come detto, tale conseguenza è inaccettabile, in virtù del fondamentale
principio di certezza del diritto.
Occorre poi osservare che le considerazioni espresse nella sentenza della Corte
Costituzionale riguardano soltanto gli assets di proprietà degli enti locali.
Difatti nei propri passaggi la Corte fa espressamente riferimento a: “le reti,
intese in senso ampio, vanno ricomprese, in quanto appartenenti ad enti pubblici
23
territoriali, tra i beni demaniali, ai sensi del combinato disposto del secondo comma
dell’art. 822 e del primo comma dell’art. 824 cod. civ.”.
Diverso è il discorso laddove si prendano in considerazioni gli assets che sono
di proprietà di soggetti diversi dagli enti pubblici (ci si riferisce in particolare agli
assets degli soggetti privati).
L’art. 113, comma 14 prevedeva che: “se le reti, gli impianti e le altre
dotazioni patrimoniali per la gestione dei servizi di cui al comma 1 sono di proprietà
di soggetti diversi dagli enti locali, questi possono essere autorizzati a gestire i servizi
o loro segmenti, a condizione che siano rispettati gli standard di cui al comma 7 e
siano praticate tariffe non superiori alla media regionale, salvo che le discipline di
carattere settoriale o le relative Autorità dispongano diversamente. Tra le parti è in
ogni caso stipulato, ai sensi del comma 11, un contratto di servizio in cui sono
definite, tra l’altro, le misure di coordinamento con gli eventuali altri gestori”.
Si tratta della nota norma sulle autorizzazioni nei confronti di soggetti privati
che sono proprietari degli assets.
Questa disposizione è stata abrogata dal regolamento attuativo dell’art. 23 bis
(D.P.R. n. 168/2010) a far data dalla sua entrata in vigore e cioè dal 27 ottobre 2010.
Da ciò consegue che soltanto in ordine agli impianti che sono stati realizzati
successivamente a tale data può ritenersi che gli stessi non possono essere considerati
di proprietà privata.
Per converso tutti i beni ed impianti che sono stati realizzati anteriormente al
27 ottobre 2010 possono continuare a ritenersi legittimamente di proprietà privata,
mentre solo quelli realizzati successivamente debbono essere considerati pubblici.
Peraltro le considerazioni sopra espresse riguardano esclusivamente i beni che
sono stati realizzati dai soggetti rientranti nella disposizione di cui all’art. 113, comma
14 del D.lgs. n. 267/2000.
In conclusione si osserva che le posizioni societarie e proprietarie che si sono
consolidate in vigenza delle rispettive norme (in epoca antecedente alla loro
24
abrogazione) non possono ritenersi intaccate dalle statuizioni della Corte
Costituzionale.
5. L’assetto e la governance nelle società di progetto
La governance è la disciplina della direzione esecutiva e dei rapporti tra i diversi
soggetti ed interessi coinvolti.
Questo tema riceve una generale attenzione indipendentemente dalla presenza di
soci pubblici ed infatti è oggetto di corpose discipline e regolamentazioni, soprattutto
quando sono coinvolti i risparmiatori che operano nei mercati, appunto,
“regolamentati”.
Le società pubbliche però hanno delle particolarità ed invero la loro governance
è stata oggetto di uno specifico documento dell’OCSE (Guidelines on Corporate
Governance of State-owned Enterprises) che può costituire un valido punto di
riferimento.
Oltre a questo, in ambito nazionale Assonime ha pubblicato un suo testo
specifico (“Principi di riordino del quadro giuridico delle società pubbliche”,
settembre 2008) in cui vengono proposte delle linee guida sugli orientamenti a cui si
possono ispirare gli enti pubblici nell’elaborazione dell’assetto di governo delle
proprie società preposte alla gestione di servizi pubblici.
Agli enti locali non spetta il compito di disciplinare in generale il possesso di
partecipazioni societarie, bensì l’obbligo solamente di rispettare queste norme.
Ad essi spetta però il compito di regolamentare il rapporto con la società ai fini
della gestione del servizio.
In estrema sintesi, per quanto di interesse degli enti locali, dai documenti sopra
richiamati emergono alcuni elementi fondamentali da osservare.
a) L’ente pubblico non dovrebbe essere coinvolto nella gestione operativa delle
attività affidate alle società pubbliche, che dovrebbero godere di piena autonomia
25
operativa per raggiungere gli obiettivi assegnati, nell’ambito delle regolamentazioni
stabilite. L’ente dovrebbe quindi limitarsi ad una funzione di supervisione, indirizzo e
controllo, il che significa lasciare ai rappresentanti privati l’assunzione dei ruoli
esecutivi, in modo che possano godere della libertà di esercitare le proprie
responsabilità in modo indipendente.
b) L’ente pubblico deve mantenere rappresentanze in seno agli organi societari
adeguate al ruolo che deve rivestire e, quindi, in misura sufficiente per mantenere
quella funzione di controllo descritta sopra.
c) L’esercizio dei diritti di proprietà deve essere chiaramente identificato
nell’ambito della pubblica amministrazione, il che significa avere chiari processi di
formazione delle decisioni e delle modalità di espressione nell’ambito degli organi
societari.
d) L’ente pubblico deve stabilire delle regole ben strutturate e trasparenti per la
nomina dei propri rappresentanti, tenendo conto delle capacità necessarie
all’assolvimento di tali responsabilità.
e) Vanno strutturati e mantenuti dei meccanismi di comunicazione con e tra gli
organi di controllo e revisione.
f) Vanno elaborati dei meccanismi di remunerazione degli organi esecutivi che
favoriscano l’interesse a lungo termine della società e in grado di attrarre e motivare
professionisti qualificati.
g) Va mantenuto un alto livello di trasparenza tra i vari soci e i vari portatori di
interessi sulla società e sulla gestione dei servizi.
h) Va istituita e mantenuta una attiva politica di comunicazione e consultazione
con i diversi portatori di interessi.
i) Va tutelato l’esercizio dei diritti delle partecipazioni minoritarie, consentendo
loro di contribuire all’assunzione delle decisioni più importanti, come l’elezione degli
organi esecutivi.
l) Dovrebbe essere promossa l’implementazione dei codici etici, attraverso anche
sistemi di controllo interno come ad esempio quelli disciplinati dalla D.Lgs. n.
231/2001.
26
27