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Anno 19, n. 7 - LUGLIO 2011 - Edizioni OCD Roma - Sped. in abb. post. D. L. 353/2003 (conv in L. 27/02/2004 n° 46, Comma 2) DCB - Fil. di Roma - Italia - Mensile - 2,00

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Briciole di luce

3 Briciole di luce Insegnami a mendicare

4 Sguardo biblico Davide e il «caso Betsabea»

12 Didaché Elogio della debolezza

22 Nova et vetera Dio ha sete che abbiamo

sete di Lui

24 La preghiera dell’umile

26 orizzonti Identikit del povero che prega

30 Voci dal Carmelo La beatitudine della povertà

34 Quando la preghiera si fa lamento

36 Testimoni La preghiera diventa carità:

Angelo Paoli

42 Contesti La radice dell’uomo è la povertà

46 Lo scaffale di Pregare Edith Stein.

«In grande pace varcai la soglia»

Sommario

PREGAREanno XIX – numero 7Luglio 2011Rivista del CarmeloTeresiano d’Italia

EDITORE©Associazione Carmelo Teresiano Italiano Edizioni OCDVia Anagnina 662/b 00118 Romatel.(+39) 06.7989081fax (+39) 06.79890840E-mail: [email protected] web: www.edizioniocd.it

Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 639 del 5-12-1992Con approvazione ecclesiastica dell’Ordine

DIRETTORE RESPONSABILEP. Claudio (Enzo) Truzzi

DIRETTORE REDAZIONALEP. Roberto Fornara

REDAZIONEVia Anagnina 662/b 00118 Romatel. (+39) 06.79890838 fax (+39) 06.79890840E-mail: [email protected] web: www.pregare.org

ABBONAMENTIVia Anagnina 662/b 00118 Romatel. (+39) 06.79890823 fax (+39) 06.79890840 E-mail: [email protected]

Quote di abbonamento annuale 2011Italia € 20,00Europa € 35,00Altri continenti € 45,00Un fascicolo sciolto € 2,00Versamenti sul c.c.p. 39054481 intestato a: Pregare, Via Anagnina, 662/b 00118 Roma

Progetto grafico: Matteo Borelli

Fotografie: Foto Giò, Erreffe, Archivio Pregare

Stampa – Tipografia Città NuovaVia S. Romano in Garfagnana, 23 00148 Roma

Questo numero è stato stampato nel mese di Giugno 2011

Insegnami a mendicare

Signore,insegnami a mendicare,fammi identificare in Te

povero e mendicante,usami come strumento

in cui passi la tua misericordia e raggiunga ogni uomo che mendica

l’Amore, il senso,la pienezza di Vita che Tu sei.

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Davide e il «caso Betsabea»Sguardo biblico

Ora, la contrizione non è altro che il dispiacere del peccato in quanto questo è un’offesa a Dio e ferisce (o uccide) l’amore di cari-tà. La contrizione è, dun-que, un dispiacere ispirato dall’amore. Soltanto l’amore può dispiacersi per la mancanza d’amore.

L’amore: sarebbe interessante rileg-gere tutta la vita di Davide da questa prospettiva. L’amore attraversa tutta la storia di Davide: Saul ha amato Davi-de (1Sam 16,21) per poi odiarlo; Gio-nata, figlio di Saul, ha amato Davide di un’amicizia profonda e a prova di osta-colo, e si trattava di un’amicizia recipro-ca. Davide, inoltre, ha amato e ha avuto molte donne: sei prima di diventare re a Gerusalemme, e dopo l’ascesa al trono

a Gerusalemme ci viene detto semplicemente che ne ebbe altre. D’altra par-te, saranno i figli di queste prime sei donne i protago-nisti dei drammi in cui si

frammischieranno conflitti familiari e potere.

La più conosciuta delle donne di Davide è Betsabea, che la Scrittura de-finisce sempre la moglie di Uria l’Hit-tita. Una sera, Davide esce sul terrazzo e scorge una donna che fa il bagno. Si informa riguardo a lei; insieme al suo nome, apprende che è sposata con uno dei suoi soldati. Nonostante ciò, la man-da a prendere, giace con lei e ciò che po-teva succedere succede: la donna rimane incinta.

«E, dopo averlo rimosso dal re-gno, suscitò per loro come re Davide, al quale rese

questa testimonianza: Ho trovato Davi-de, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri» (At 13,22).

Davide è fondamentalmente un uomo secondo il cuore di Dio. Ciò detto, la Scrittura non dice che Davide sia un modello di perfezione. Anzi, egli appa-re tutto sommato come un uomo simile agli altri uomini, con i costumi del tem-po, anche se all’occasione sembra saper-sene distaccare. Non è l’impeccabilità morale o religiosa a spiegarci perché Dio dica di lui che è un «uomo secondo il mio cuore». Uno dei possibili luoghi in cui cercare e in cui non abbiamo l’abi-tudine di guardare troppo spesso è il peccato, non tanto il peccato in se stesso

(che non riveste alcun interesse), quan-to l’atteggiamento di Davide dopo aver preso coscienza del male commesso e la sua capacità di rivolgersi verso Dio.

Nel ciclo di Davide, vi è per questo un luogo privilegiato: il “caso Betsabea”.

«Davide aveva fatto ciò che è giusto agli occhi del Signore e non aveva tra-viato dai comandi che il Signore gli ave-va impartiti, durante tutta la sua vita, se si eccettua il caso di Uria l’Hittita» (1Re 15,5).

Nella Bibbia è questo il peccato di Davide. Questo adulterio avrà, d’altra parte, conseguenze sorprendenti: per l’autore sacro, il conflitto fra Davide e il figlio Assalonne scaturisce da qui (cf 2Sam 12,10-12).

Contrizione: questa parolina potreb-be far pensare a certa cattiva teologia del secolo XIX e spaventare qualcuno.

Giuseppe della CroCe

Davide e il «caso Betsabea»

Soltanto l’amore può dispiacersi

per la mancanza d’amore

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Davide e il «caso Betsabea»Sguardo biblico

Davide allora fa torna-re Uria dalla guerra nella speranza che vada a gia-cere con la moglie: in tal modo il bambino sarebbe ritenuto il figlio legittimo di Uria. Ma Uria rimane fedele alle leggi di guer-ra (che richiedevano la continenza) e non scende dalla moglie. Davide allora si organizza perché Uria venga ucciso in combattimento. Davi-de, guerriero valoroso, qui dà prova di vigliaccheria per evitare lo scandalo e il disonore. L’omicidio che egli commis-siona non è un crimine passionale: è un crimine ordito a sangue freddo, finaliz-zato a salvaguardare il proprio onore.

Ecco il lato oscuro di Davide: vi è in lui un calcolatore freddo e crudele. In questo caso, Davide è talmente obnubi-lato dal timore del giudizio degli uomini che dimentica completamente il Signore. Agisce proprio come Saul (di fatto, i due personaggi sono costruiti l’uno in rap-porto all’altro: Saul è una sorta di anti-

tesi di Davide, soprattutto nel libro delle Cronache). Per Saul la paura degli uomini era più grande del timore di Dio, e fu questo a trascinarlo alla disobbe-dienza (1Sam 15,24). Ciò detto, bisogna aggiungere che, a differenza di Davi-

de, Saul non nutriva una vera fiducia in Dio: agiva come se non fosse sicuro del sostegno divino.

Tuttavia, il Signore non permette che Davide s’inabissi e soprattutto che rimanga invischiato nel proprio peccato: gli manda il profeta Natan che, attraver-so l’espediente di un’astuta parabola, fa prendere coscienza a Davide della gravi-tà di ciò che ha commesso.

Questo faro puntato sul peccato (pri-mo passo della contrizione) è un appello alla responsabilità. Certo, non dev’es-sere stato facile per Davide riconoscersi nel ricco spietato della parabola di Na-tan. Ma, mediante tale espediente, Dio prende sul serio Davide, prende sul serio

C. Cornelisz van Haarlem, Het toilet van Bathseba

Il peccato ha in sé un’utilitàMi sono determinato a scrivere un’apologia in difesa di Davide non perché egli

abbia bisogno di questo favore, ma perché molti si chiedono come mai un così gran-de profeta non sia riuscito ad evitare il peccato di adulterio e di omicidio... Possiamo anche intendere che il peccato ha addirittura in sé un’utilità... Lo stesso apostolo Paolo avverte che Dio, nostro Signore, si preoccupò che anche nei santi il loro ani-mo di uomini non si inorgoglisse per la sublimità delle verità rivelate loro e per una costante riuscita delle loro opere... Dio permise che si insinuasse anche in loro la colpa, così che capissero anch’essi d’aver bisogno dell’aiuto divino per salvarsi. Infatti Paolo confessa che la debolezza umana fu per lui di vantaggio; rispose Dio, mentre l’Apostolo lo pregava di allontanare da sé gli stimoli della carne: «Ti basta la mia grazia: la mia forza infatti si realizza nella tua debolezza». Giustamente si gloria, dunque, delle proprie debolezze: sapeva infatti che per eccessiva fiducia in sé moltissimi, anche santi, irrimediabilmente erano periti.

(Sant’ambrogio, Apologia di Davide, 2,8)

Durante tutto l’arco di tempo che va dall’adulterio all’omicidio di

Uria sembra che Davide si dimentichi completamente di Dio

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Davide e il «caso Betsabea»Sguardo biblico

rimprovero e una senten-za senza sentirsi scosso e rifiutato (ricordiamo che Dio toglie a Saul il regno, ma non si dice da nessuna parte che gli tolga il suo amore).

Davide, invece, mostra a più riprese di aver posto tutta la propria fiducia in Dio e nel suo amore, e questo gli permette di accoglie-re nella pace il rimprovero e la sentenza divina. Infatti, rimprovero e sentenza non rimettono affatto in discussione l’amore di Dio per lui. Siccome essi si inscrivono in un rapporto più globale, Davide può accettare il giudizio, perché sa che Dio è un «Dio di tenerezza e di pietà, lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6). Pertanto, all’umile ri-conoscimento del peccato, Dio risponde subito con il perdono.

L’esperienza del proprio peccato e del perdono divino fa maturare Davide. Il “caso Betsabea” si situa, del resto, a un punto di svolta della sua vita. Ormai Da-vide si presenta a Dio non più come un giusto irreprensibile o come un uomo fortunato a cui tutto riesce bene: ormai si presenta a Dio come peccatore. E qui diventa il modello del peccatore peni-tente. Non è un caso se il Salmo 51, il salmo penitenziale per eccellenza, vie-ne attribuito a Davide. Ecco il titolo del salmo (che appare nelle Bibbie ma non nei breviari): «Salmo. Di Davide. Quan-do andò da lui il profeta Natan perché egli era andato verso Betsabea» (vv. 1-2). Nel testo ebraico va sottolineato questo duplice andare verso qualcuno: il movi-mento di Davide verso la donna carat-terizza il peccato dell’uomo, mentre Dio (attraverso la mediazione del profeta) è colui che fa il primo passo verso Davide,

rendendo possibile il pen-timento e il perdono.

Fino a quel momento tutto riusciva bene a Davi-de. «Fa’ quanto desideri in cuor tuo, perché Dio è con te» (1Cr 17,2). In un certo senso, era facile seguire Dio. Non vogliamo con

questo ridicolizzare la fiducia che Davi-de riponeva in Dio: egli era veramente radicato in Dio. Ma il “caso Betsabea” gli permette di fare un passo ulteriore: sco-prirà la gioia del perdono, la felicità di chi ha sperimentato il perdono divino.

Il Salmo 51, citato poco fa, non è semplicemente un salmo di peniten-za (in cui l’uomo non farebbe altro che battersi il petto implorando la misericor-dia divina). Esso contiene già germi di lode: «nell’intimo m’insegni la sapien-za. (…) Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato. (…) Liberami dal sangue, Dio, Dio, mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode». Davide penetra nel Cuore di Dio e vede fin dove arriva l’amore del Signore. Impara la fi-ducia nel peccato, e soprattutto nell’av-versità, il che lo fa uscire dallo schema retributivo “il giusto è benedetto e l’em-pio rigettato”.

Davide percorrerà questo cammino quando il figlio Assalonne si ribellerà contro di lui. «Così dice il Signore: Ecco io sto per suscitare contro di te la sven-tura dalla tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un tuo parente stretto, che si unirà a loro alla luce di questo sole; poiché tu l’hai fatto in segreto, ma io farò questo da-vanti a tutto Israele e alla luce del sole» (2Sam 12,11-12).

l’alleanza con lui: di fronte a lui c’è un essere libero e responsabile, capace di rispondere dei propri atti. «Amore e Verità si incon-treranno, Giustizia e Pace si abbracceranno» (Sal 85,11).

Nel “caso Betsabea”, Davide si è dimostrato uomo di sangue e ha disprezzato Dio che lo aveva col-mato di benefici e lo aveva preso sotto la sua protezione (cf 2Sam 12,7-13). Davi-de, il re d’Israele, che Dio aveva colma-to di beni e di onori, ha rubato l’unico bene di un povero soldato e, quel che è peggio, lo ha fatto mettere a morte per tradimento. È interessante notare che durante tutto l’arco di tempo che va dall’adulterio all’omicidio di Uria sem-bra che Davide si dimentichi completa-mente di Dio. Bisogna attendere l’inter-vento del profeta Natan perché Davide si ricordi nuovamente di Dio.

Attraverso la mediazione di Natan, Dio fa il primo passo verso Davide per trarlo fuori dall’abisso in cui si è caccia-to. Al di là dei fatti concreti, ciò che Dio vuol far toccare con mano al re Davide è in un certo senso la radice dei suoi atti:

l’uomo ha disprezzato Dio, il suo amore e tutta la sua benevolenza. Adulterio e omicidio non sono al-tro che la manifestazione esterna di una mancanza più profonda. Il peccato di Davide acquista realmen-te tutto il suo significato

solo se situato nel quadro dell’alleanza fra Dio e Davide. «Ho peccato contro il Signore!» (2Sam 13). Questo non rela-tivizza gli atti compiuti: li colloca nella loro vera prospettiva.

Potremmo domandarci qual è il nostro rapporto con il peccato e con il sacramento della riconciliazione: ci confrontiamo con una colpa commessa contro un codice morale, ci confrontia-mo con una colpa commessa contro Chi ha promulgato tale codice, o ci confron-tiamo con Colui di cui abbiamo disprez-zato l’amore (e il disprezzo è significato dal codice)?

Il re Saul, quando Samuele puntò il dito contro la sua colpa, si giustificò e cercò di arrampicarsi sugli specchi per non perdere la faccia davanti agli uo-mini. Non era abbastanza radicato nel-la fiducia in Dio per poter accettare un

Davide si presenta a Dio non più come un giusto irreprensibile,

ma come peccatore

L’esperienza del perdonoSe ottenne il perdono Pietro, per aver pianto una sola volta, quanto più lo otten-

ne Davide che ogni notte lavava di pianto il suo letto. Se dunque Gesù ebbe pietà di colui che si pentì e pianse, se guardò Pietro ed egli pianse, quanto più rimase sotto lo sguardo del Signore colui che pianse a lungo! Pietro negò e non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato; negò ancora e non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato; negò per la terza volta, Gesù lo guardò e subito pianse, e pianse amaramente. Perciò Davide, che non cessava di piangere, diceva: «I miei occhi sono sempre rivolti al Signore»; egli, che sempre era sotto lo sguardo di Cristo, diceva: «I miei occhi sono discesi in torrenti di lacrime».

(Sant’ambrogio, Apologia di Davide, 6,25)

Davide, guerriero valoroso,

dà prova di vigliaccheria per evitare

lo scandalo e il disonore

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Ecco la sentenza pro-nunciata dal profeta Na-tan: è l’annuncio della ribellione di Assalonne, che viene così presentato come il frutto del peccato di Davide. Scrive il grande esegeta domenicano Do-minique Barthélémy: «Bi-sognava che, a prezzo del suo peccato, Davide arrivasse a questa totale lacera-zione del cuore, perché gli potesse salire alle labbra quel grido (“figlio mio, potes-si morire io al tuo posto!”), che riempie il cuore di Dio quando vede i suoi figli

scegliere la morte rifiu-tando il suo amore (…). Bisog nava che andas-se in fran-tumi que-sto cuore

di figlio d’Adamo perché Davide diventasse dav-vero “secondo il cuore di Dio”, perché egli potesse profetizzare questa rispo-sta che Dio stesso rivolge a lui, Davide, e a tutti i figli ribelli (…). Il portavoce di Dio sono le labbra di pec-

catori il cui cuore è andato in frantu-mi ed è stato plasmato nuovamente da Dio».

Ecco il cammino che Dio ha fat-to percorrere a Davide. L’esperienza dell’ostilità di Assalonne ha potuto far comprendere a Davide il proprio pec-cato. Ma, in un certo senso, Davide va ancora più in là di un semplice dispia-cere per le proprie colpe. Dio gli fa spe-rimentare qualcosa della sua paternità. Lo fa penetrare più addentro nella cono-scenza del suo Cuore. Il “caso Betsabea”, forse, ha contribuito a fare di Davide un uomo «secondo il cuore di Dio».

Davide e il «caso Betsabea»Sguardo biblico

Il giudizio è più grave della colpa

Troviamo scritto nel Libro dei Re che Davide, mentre passeggiava in casa sua, vide la moglie di Uria che faceva il bagno, se ne innamorò immediatamente e co-mandò che gli fosse portata. Poi diede ordine che il marito della donna, che non aveva nessuna colpa (così almeno ce lo presenta la Scrittura), fosse opposto ai più feroci guerrieri perché venisse sopraffatto dalla forza dei nemici. Questi sono i fatti, nessuno lo nega: ma come possono essere giustificati? Ben a proposito ci ammo-nisce la lettura dei Vangeli che, anche quando il peccato è evidente, la sentenza del giudice deve essere improntata ad uno spirito di comprensione e soprattutto ognuno deve ricordarsi della propria condizione e di ciò che egli stesso meriterebbe. Spesso, infatti, nel giudicare è più grave la colpa che si compie emettendo il giudi-zio, che non quella di chi è stato giudicato. Chiunque si accinge a giudicare un altro, deve giudicare, sempre, prima se stesso e non condannare nell’altro peccati minori, quando egli ne abbia commessi di più gravi! Chi sei dunque tu che ti permetti di giudicare Davide, uomo giusto?

(Sant’ambrogio, Seconda Apologia di Davide, 2,5)

Il “caso Betsabea” ha contribuito a fare di Davide

un uomo «secondo il cuore di Dio»

«Il portavoce di Dio sono le labbra

di peccatori il cui cuore è andato

in frantumi ed è stato plasmato

nuovamente da Dio» (D. Barthélémy)

Caravaggio, David con la testa di Golia

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Elogio della debolezza

Se per caso qualcuno ha citato san Bernardo davanti a santa Teresa di Lisieux, deve averlo presentato

secondo gli stereotipi dell’epoca, come grande devoto di Maria, riformatore ca-pace di smuovere la Chiesa e predicatore ardente da crociata. Nel XX secolo que-sta immagine di Bernardo si è di molto affinata, come del resto quella di Teresa. Non al punto, però, di suscitare sponta-neamente in me il desiderio di confron-tare due spiritualità così lontane per la cultura teologica che le ha viste nascere. È stato un incontro provvidenziale a ri-svegliare in me un interesse per l’argo-mento, fino al punto di spingermi ad ap-profondire la materia delle somiglianze improvvisamente intraviste.

L’incontro provvidenziale che ha provocato la mia riflessione risale al mese di maggio dell’anno 1996, al giorno in cui l’urna con le reliquie di Teresa so-stò nella mia comunità. Monaci e fedeli vi si stringevano per venerarla. Avevo deciso di rivolgere una parola di benve-nuto all’indirizzo della santa, scegliendo per l’occasione un testo che – pensavo – sarebbe piaciuto alla nostra carmelitana.

San Bernardo ne era l’autore, ma – per creare una certa suspense – avevo evitato di rivelarne l’identità prima di legger-lo. Quale fu la mia emozione quando il Padre carmelitano che accompagnava le reliquie di comunità in comunità mi confessò più tardi che, ascoltandolo, per un attimo aveva creduto che si trattasse di un testo autentico di Teresa.

Ecco il testo in oggetto, che ci per-metterà di entrare immediatamente nel vivo della questione. In esso san Ber-nardo commenta la scala dell’umiltà che san Benedetto propone ai suoi mo-naci. È deciso a salirla, ma sperimenta qualche difficoltà. Ci si ricorderà che Teresa si serve della stessa immagine e che, constatando la sua debolezza trop-po grande, che le impedisce di salire la scala della santità, ricorre all’immagine (ai suoi tempi moderna) di quel mezzo veloce che è l’ascensore. Ricordandosi del testo di Is 66,13.12 («Vi cullerò sulle mie ginocchia»), conclude che saranno le braccia di Gesù a servirle da ascensore per portarla in cima alla scala.

Al tempo di san Bernardo, non era ancora stato inventato l’ascensore: egli

andré louf

Elogio della debolezza

Catechesi in pillole

Didaché

Il progresso nell’esperienza di Dio non dipende dalle nostre forze,

ma si realizza a partire dalla

nostra debolezza

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Didaché Elogio della debolezza

non poteva utilizzare la metafora! Bernardo si rimette pertanto all’im-magine di una salita. Ascoltiamolo: «Vedo già il Signore che dall’alto si china verso di me, esul-to ascoltando la sua voce. Mi ha chiamato, voglio rispondergli. Tu, Signore, tenderai la mano alla tua creatura…, ma io sono uno scalatore lento, un camminatore pigro, cerco tante deviazioni… Pregate per me [si rivolge ora ai suoi monaci] voi che condividete i miei progressi… pre-gate l’Onnipotente di fortificare il mio piede pigro…».

La scala dell’umiltà gli ricorda im-mediatamente la scala apparsa in sogno a Giacobbe (Gn 28,12). Ora, Giacobbe – come si ricorderà – dopo aver lottato una notte intera con un angelo misterioso, aveva trionfato nella lotta, ma prima era stato ferito all’anca, e avrebbe portato per il resto della vita l’handicap di quel-la ferita (Gn 32,26-33). Questa ferita all’anca, che ci rende tutti così malati di fronte a Dio, costituisce piuttosto un’op-portunità agli occhi di Bernardo, il quale pensa che il progresso nell’esperienza di Dio non dipende dalle nostre forze, ma si realizza a partire dalla nostra debo-lezza: «Oh – chiede il santo – possa l’an-gelo colpire e far inaridire il nervo della mia anca, perché finalmente mi decida, forse, a fare dei progressi a partire da questa infermità, io che non posso che fallire quando agisco a partire dalla mia forza. Eppure ho letto in Paolo: “Ciò che è infermo, per Dio è più forte degli uo-mini” (1Cor 1,24). E lo stesso apostolo si è lamentato perché l’Angelo di Satana aveva colpito il nervo della sua anca. E ricevette come risposta: “Ti basta la mia

grazia” (2Cor 12,9)». Ecco uno dei temi ricorrenti in Bernardo, tema comune a Teresa e a san Paolo: è nella nostra piccolezza ac-cettata, nella nostra infer-mità accolta, che la grazia di Dio opera con maggiore potenza.

Ed ecco, sempre dalla penna di Ber-nardo, la descrizione pittoresca, ma spi-ritualmente molto densa, della sua asce-sa lungo questa scala, immagine dello sforzo umano, sempre vacillante nel suo dialogo con la grazia: «Appoggiandomi con forza sul piede della grazia, e trasci-nandomi dietro con dolcezza il mio pie-de malato, salirò con sicurezza la scala dell’umiltà… fino a raggiungere gli spa-zi sconfinati dell’amore… È così… che si sale la ripida scala, un piede dopo l’al-tro, e che, in modo sorprendente, si ar-riva con maggior sicurezza zoppicando, benché con maggiore pigrizia». Si arriva con maggior sicurezza zoppicando, cioè prendendosi carico del piede malato, che incessantemente ha bisogno di essere guarito dalla grazia.

In almeno due altri passi della sua opera, Bernardo, riutilizzando l’imma-gine della salita, si avvicina in modo quasi letterale alle espressioni di Te-resa. Si ricorderà che per quest’ultima l’ascensore, che la farà salire senza sfor-zo, coincide con le «braccia di Gesù». Per quanto concerne Bernardo, egli di-stingue due tipi di scalatori: coloro che salgono per mezzo delle «loro forze e del loro proprio genio», ma la cui ca-duta non si farà attendere; e coloro che «sono portati in alto» quasi loro mal-grado, e che potranno poi ridiscendere per «condividere con i piccoli, in modo da farsi comprendere da loro, ciò che

«Io non mi avvalgo né delle mie forze,

né delle mie capacità, né dei miei meriti, per pervenire alla

gioia di contemplare il Signore»

(S. Bernardo)

L’uomo viene allora con dolcezza a

fare esperienza dei propri limiti,

della propria finitezza, radicalmente incapace

di stringere l’infinito

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Didaché Elogio della debolezza

Pasque che indicano la strada, come al-trettante conversioni all’interno di uno schema che si ripete identico. Gli autori spirituali le hanno descritte con l’aiuto di immagini diverse dall’uno all’altro, ma che esprimono uno stesso ritmo. Ad un momento de-terminato, sorge un osta-colo su una strada che fino a quel momento sembrava dritta e senza insidie, un ostacolo che si rivela ben presto insormontabile.

Davanti a Dio, ardentemente cercato, l’uomo viene allora spinto con dolcezza a fare esperienza dei propri limiti, della propria finitezza, radicalmente incapace di stringere l’infinito.

Il percorso di Teresa conosce pertanto diverse soglie, progressivamente varcate. Ricordiamo sem-plicemente l’ultima e più importante: la prova del-la fede, che la gettò in un profondo smarrimento ne-

hanno visto nel loro rapi-mento spirituale». Questi ultimi pregano così: «Io non mi avvalgo né delle mie forze, né delle mie ca-pacità, né dei miei meriti, per pervenire alla gioia di contemplare il Signore. Ma del fatto che egli stesso mi baci con un bacio del-la sua bocca; detto in altre parole: che questo mi accada per mezzo della sua grazia. Non me l’aspetto né attraverso un insegnamento, né dalla natura, ma dalla sua grazia».

Bernardo descrive molto frequente-mente, e con una rara finezza psicolo-gica, i molteplici percorsi dei deboli e dei peccatori che si smarriscono lonta-no da Dio, ovvero: quella povertà in-guaribile che è proprio la nostra, nella quale ci possiamo riconoscere con tan-ta facilità.

È esperto in psicolo-gia del peccatore. Parla di esperienza? Forse. Bernar-do sa che il nome e l’abi-to del monaco non hanno fatto altro che coprire e nascondere i suoi peccati.

Confessa di aver sperimentato la vio-lenza bruta di tentazioni alle quali fu sul punto di cedere. Sa descrivere minuzio-samente il processo con cui poco a poco il fervore dei primi anni si estingue. Come Teresa, in ogni caso, è prontissi-mo a sentirsi vicino ai peccatori, forse con più ragioni della santa di Lisieux, dal momento che gli ambienti della loro giovinezza furono notevolmente diversi.

Nei loro rispettivi itinerari, lo Spirito Santo li ha condotti entrambi, per tappe successive, ad approfondire la loro espe-rienza. Spesso la vita dei santi presenta pertanto rotture decisive, che sono come

Per ottenere la grazia, una sola è

la via sicura: abbassarsi, farsi piccoli

«Chi ambisce cose elevate deve

prima sentire la propria debolezza»

(S. Bernardo)

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dei suoi fratelli troverà la grazia per loro come per se stesso.

Per ottenere la grazia, una sola è la via sicura: abbassarsi, farsi piccoli; lo imparerà a poco a poco. «Ecco un segreto – scri-ve – confidato soltanto ad alcuni amici. Certo, il Signore è eccelso, sublime, ma non ci viene proposto in questa forma. La sua grandezza è ogget-to di lode, ma non può essere imitata… Se ci venisse proposta la grandezza, cosa non farebbero gli uomini per salire fino ad essa… Sgomiterebbero con violenza, si calpesterebbero crudelmente. Strisce-rebbero impunemente per terra, usereb-bero mani e piedi per issarsi in alto, e per essere in grado di camminare sul-la testa dei vicini». Ma il Signore non si aspetta da noi un simile combattimento. È tutto infinitamente più semplice. Gesù ci chiede di imparare una sola cosa da lui: che egli è mite e umile di cuore. E san Bernardo conclude la sua esposizio-ne con una di quelle formule ben riuscite che si imprimono per sempre nella me-moria del lettore: «Humiliare et apprehen-disti», «Abbássati, dunque, fatti piccolo, e allora lo avrai conquistato».

Farsi piccoli non è un riflesso auto-matico. Tutt’altro: Bernardo, nel suo ser-mone 34 sul Cantico dei cantici, redige una lista impressionante di figure bibli-che che, in un primo momento, hanno disprezzato se stesse, tendendo sponta-neamente ad un grado troppo elevato di intimità con Dio, e che la pedagogia divina, con dol-cezza, ha strapazzato, umi-liato, ridotto al primissimo livello «dal quale – scrive san Bernardo – avrebbe-

ro dovuto cominciare»: Mosè, Giobbe, Davide, la stessa sposa del Cantico, i due figli di Zebedeo, la Cananea, Maria Maddale-na; e perfino, non ultimo, Simon Pietro in persona. Nulla di più normale, com-menta l’abate di Clairvaux:

«Poiché chi ambisce cose elevate deve prima sentire la propria debolezza… Tu dunque, se ti sembra di essere umilia-to, prendilo come un segno favorevole, come la prova che la grazia si avvicina».

«Occorre – scrive – che l’uomo si ag-grappi a questo Dio che lo abbassa, e che non nasconda l’umiliazione ai pro-pri occhi, ma collabori con Dio che lo sta abbassando, con tutta la tenerezza del proprio amore filiale». Collaborare con Dio che ci rende piccoli nella debolezza, accettare amorevolmente la sofferenza dell’abbassamento, ecco ciò che il pec-catore incallito non sa ancora fare; ma neppure il giusto incallito, oserei dire, lo sa fare, dal momento che nasconde la propria debolezza ai suoi stessi occhi. Bernardo si sente un mendicante della misericordia.

Ecco, credo, un’immagine di Dio che avrebbe affascinato Teresa: un Dio così vicino al peccatore da spiare il momento della caduta per stendere la mano, non per punirlo, ma per metterla sotto di lui, affinché non soccomba sotto il peso dello scoraggiamento ma scopra la sua misericordia.

In un passo particolarmente elo-quente, si augura anzi di conoscere la propria debolezza, per poter fare allo stesso tempo l’espe-rienza della forza di Dio che lo rialza: «O optanda

gli ultimi diciotto mesi di vita, e di cui esita addirittura a confidare i partico-lari alla sua priora, per paura di cedere alla tentazione di bestemmiare.Anche san Bernardo sperimentò crudamente la propria povertà. Gli inizi della sua esperienza monastica, tuttavia, furono radiosi e promettenti. Circondato da una trentina di amici, si inserisce in una «nuova comunità» dell’epoca, quella di Cîteaux, in Borgogna, fondata da una ventina d’anni, ma già in declino e, da un punto di vista umano, senza futu-ro. L’arrivo di questo gruppo cambia le cose. A distanza di pochi anni, Cîteaux comincia a sciamare, e Bernardo stesso, appena compiuti i venticinque anni di età, si ritrova alla testa di una di queste fondazioni, a Clairvaux, ai confini tra Borgogna e Champagne.

È qui che lo attende la prova, fin dai primi anni del suo ministero di aba-te. Oltre ad una grave malattia, di cui soffrirà i postumi sino alla morte, deve

fronteggiare una prova ben più seria, allo stesso tempo psicologica e spiri-tuale. Essa riguarda i suoi rapporti con i fratelli. Si è prodotta un’incomprensione reciproca. Quando Bernardo insegna, i suoi fratelli si sentono impari di fronte a propositi troppo ambiziosi. E quando questi ultimi si recano da lui, aprendogli il cuore riguardo alle loro tentazioni, co-muni a tutti, Bernardo non può accettare confidenze che giudica troppo umane in esseri che egli «credeva fossero angeli». Bernardo ne è profondamente turbato, finché Dio non viene a rivelargli il senso del suo smarrimento. Impara così a sfu-mare un ideale spirituale un po’ troppo rigido. In quell’occasione – dice il suo biografo – gli fu data una comprensione più personale «del misero e del povero, del peccatore penitente che implora per-dono». Fino a quel momento, Bernardo non aveva ancora trovato la propria «pic-cola via». Ormai sa per esperienza che solo facendosi piccolo con i più piccoli

Didaché Elogio della debolezza

Il luogo contemplativo per eccellenza è

quello della propria povertà, laddove

abbondanza di peccato e sovrabbondanza di grazia si intersecano

Bernardo si sente

un mendicante della misericordia

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infirmitas!», esclama, «o debolezza desi-derabile! Chi mi darà non solo di essere debole, ma di essere distrutto e di mo-rire interamente a me stesso, per essere reso stabile dalla potenza del Signore? Poiché – aggiunge, ricordandosi del-le parole di san Paolo –, la forza di Dio raggiunge tutta la sua potenzialità nella debolezza».

Non è strano, dunque, che Bernardo, come Teresa, diffidi di una vita religiosa il cui scopo è di accumulare meriti per sé o per gli altri. Il commento di Teresa è luminoso: «Non voglio accumulare me-riti per il cielo, voglio lavorare solo per il vostro Amore… Alla sera di questa vita, comparirò davanti a voi a mani vuote, perché non vi chiedo, Signore, di conta-re le mie opere. Tutte le nostre giustizie sono imperfette ai vostri occhi».

Per Bernardo come per Teresa, non ci sono dunque altri meriti all’infuori della misericordia stessa del Signore. Essere giusti o essere peccatori: la differenza, per così dire, non conta. Anzi, in un cer-to senso, i più poveri si trovano in una condizione privilegiata, perché è in essi che Dio rinnova di preferenza le meravi-glie del suo amore.

Teresa ha compreso che il vero luogo dell’incontro fra Dio e la sua creatura, il luogo contemplativo per eccellenza, è quello della propria povertà, laddove ab-bondanza di peccato e sovrabbondanza di grazia si intersecano. Non è più, dun-que, a partire dai propri meriti che osa offrirsi come vittima all’Amore, ma a partire dal proprio nulla: «Sono solo una bambina impotente e debole; tuttavia è proprio la mia debolezza a darmi l’auda-cia di offrirmi come vittima al tuo Amo-re, o Gesù!». E Teresa stessa commenta la propria preghiera con una riflessione teologica di sorprendente profondità:

«Sì, perché l’Amore sia soddisfatto pie-namente, bisogna che si abbassi, che si abbassi fino al nulla e che trasformi in fuoco questo nulla». Scrivendo ad uno dei sacerdoti suoi corrispondenti, dirà: «Ah! fratello mio, quanto poco sono co-nosciuti la bontà, l’amore misericordioso di Gesù!... È vero che per godere di que-sti tesori bisogna umiliarsi, riconoscere il proprio nulla, e molte anime non lo vogliono fare».

Tale è il messaggio di Bernardo come quello di Teresa. Per ridirlo an-cora una volta con le parole dell’abate di Clairvaux: «Comincia dalla mise-ricordia, non parla che di misericor-dia, si conclude con la misericordia». Che tale messaggio sia ancora attuale per la Chiesa dei nostri giorni, lo vo-glio dimostrare semplicemente con una prova, attinta dal riavvicinamento ecumenico delle nostre confessioni cri-stiane, settore in cui Bernardo e Teresa, ancora una volta, sono molto vicini. Si sa che l’abate di Clairvaux è stato, con sant’Agostino, uno dei due Padri della Chiesa che hanno trovato grazia agli occhi di Lutero. Forse è meno risaputo che un celebre teologo riformato del se-colo XX, che non è mai stato tenero nei confronti delle dottrine propriamen-te cattoliche, Karl Barth, confessò un giorno, dopo aver letto una tesi di dot-torato dedicata al magistero di Teresa: «Se il cattolicesimo è veramente que-sto, anch’io sono cattolico!». Bernardo e Teresa, figure evangeliche in grado eminente, figure di Chiesa, figure ecu-meniche. Perché l’uno e l’altra hanno trovato il cuore del messaggio di Gesù: «Non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori» (Mt 9,13). «Se non diven-terete come bambini, non entrerete nel Regno» (Mt 18,3).

Didaché Elogio della debolezza

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Dio ha sete che abbiamo sete di Lui

Conquistato da tale realtà, S. Co-lombano passa spontaneamente dalla lettura del testo biblico alla preghiera per ottenere tale “acqua”. La preghiera, cancellando limiti di tempo e di spazio, infatti, ci rende contemporanei di Cristo, partecipi degli episodi della salvezza, facendoci rivivere, non tanto una scena immaginata, ma un incontro salvifico con il Signore. Come nel tempo della sua vita terrena, infatti, Gesù passava sanando i malati del corpo e dell’anima, così anche adesso, con la forza del suo Spirito, può guarire l’uomo dalla sua ar-dente sete d’Amore.

«L’amore di Dio è salute dell’ani-ma», ha scritto S. Giovanni della Croce (Cantico spirituale, strofa 11, 11-13); «co-lui che sente in sé la malattia d’amore, e cioè che manca di amore, lo possiede in parte, poiché, per mezzo di quello che ha, vede quello che gli manca». L’anelito dell’uomo a saziare pienamente la sua

sete d’amore s’incontra, quindi, col desi-derio di Dio di colmare di Sé il suo cuo-re. Molti esegeti interpretano, infatti, il grido di Gesù sulla Croce: «Ho sete!» non solo come l’espressione di una sete materiale, ma, soprattutto, del suo de-siderio di donare lo Spirito d’Amore all’umanità, perché sia rinnovata “dal di dentro”.

Il Catechismo della Chiesa Catto-lica (2560) esprime magnificamente quest’incontro tra le due “seti”, quella di Dio e quella dell’uomo: «La meravi-glia della preghiera si rivela proprio là, presso i pozzi dove andiamo a cercare la nostra acqua: là Cristo viene ad incon-trare ogni essere umano; egli ci cerca per primo ed è lui che ci chiede da bere. Gesù ha sete; la sua domanda sale dalle profondità di Dio che ci desidera. Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di Lui».

Carmelitane sCalze - Villair de Quart

Dio ha sete che abbiamo sete di Lui

Preghiere della tradizione

Nova et vetera

Eleviamoci per bere alla sorgente d’acqua viva che zampilla per la vita eterna (cf Gv 4,14). Oh, se tu,

o Dio misericordioso e Signore pietoso, ti degnassi di chiamarmi a questa sor-gente, perché anch’io, insieme con tutti quelli che hanno sete di te, potessi bere dell’acqua viva, che scaturisce da te, viva sorgente!… Oh, Signore, tu stesso sei questa fonte eternamente desiderabile, di cui continuamente dobbiamo disse-tarci e di cui sempre avremo sete. Dacci sempre, o Cristo Signore, quest’acqua perché si trasformi anche in noi in sor-gente di acqua viva che zampilli per la vita eterna!

(S. Colombano, Istruzione 13 su Cri-sto, fonte di vita, 2-3, breviario, Ufficio delle Letture, giovedì XXI settimana del tempo ordinario, 1996, p. 149).

Due episodi del Vangelo di Giovanni sono richiamati da quest’elevazione del monaco irlandese S. Colombano, vis-suto a cavallo tra il VI e il VII secolo. Il primo è l’incontro di Gesù con la Sama-

ritana (Gv 4,1-30), durante il quale Egli si presenta come il donatore dell’acqua viva, di quel Dono divino, vale a dire, che è capace di estinguere l’ardente sete di senso, d’amore, di gioia, di pace, cioè di vita piena, che da sempre tormenta il cuore dell’uomo.

Il secondo è ambientato durante la fe-sta delle capanne, nel corso della quale gli ebrei celebravano il ricordo del soggiorno di quarant’anni nel deserto (Gv 7,37-39). La festa comportava, tra gli altri, riti di commemorazione del miracolo dell’ac-qua scaturita dalla roccia (cf Es 17,1-7). In tale occasione, Gesù presenta se stesso come questa roccia, sorgente d’acqua viva per dissetare il nuovo popolo di Dio pere-grinante verso la Patria celeste.

L’apostolo Giovanni identifica qui chiaramente tale acqua viva con lo Spiri-to Santo: «Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui». Lo Spirito Santo sgorgherà abbondante-mente, “zampillerà”, dal Corpo glorifi-cato del Risorto dopo la sua elevazione sulla Croce, per riversarsi nel cuore del credente, saziando così la sua “sete”.

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La preghiera dell’umile penetra le nubi,

finché non sia arrivata, non si contenta;

non desiste finché

l’Altissimo

non sia intervenuto,

rendendo soddisfazione

ai giusti e

ristabilendo l’equità.(Sir 35,17-18)

minimac
Testo inserito
andrei a capo prima della "e"
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Identikit del povero che prega

Il povero compie il miracolo di do-nare a Dio, nella preghiera, il tempo che non ha. Il tempo che gli manca.

Il tempo necessario, non quello su-perfluo. E lo dà con larghezza, senza misurare.

Attraverso la preghiera, il povero si fida dell’intervento di Dio “nell’istante”.

«Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle au-torità, non preoccupatevi come discol-parvi, o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11).

La preghiera povera è la preghiera sobria, discreta, dimessa.

Il povero che prega non ha paura della debolezza, non si preoccupa del numero, della quantità, del successo.

Il povero che prega scopre la forza della debolezza!

«Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10).

Il povero non cerca gratificazioni

emotive nella preghiera. Né elemosina facili consolazioni.

Sa che l’essenza della preghiera non consiste nella gioia sensibile.

Il povero cerca Dio anche quando Dio lo delude, si nasconde, sparisce nel-la notte.

Lui sta lì, senza cedere alla stanchez-za, aggrappato alla volontà più che al sentimento, nella fedeltà di un amore disposto ad accettare qualunque prova.

Sa che l’incontro, qualche volta, si re-alizza nella festa.

Ma, più spesso, si consuma in una veglia interminabile.

La “notte oscura”, il freddo, l’ango-scia, la non risposta, la lontananza, l’ab-bandono, il non capire nulla, sono il “sì”

Orizzonti

La povertà rappresenta un atteg-giamento fondamentale nella pre-ghiera.

Povertà come manifestazione del proprio nulla ed esplorazione, coraggio-sa e discreta, del tutto di Dio.

Se l’attesa è espressione della spe-ranza, la povertà è espressione di fede.

Nella preghiera è povero colui che si riconosce dipendente da un altro.

Rinuncia a fondare la vita su se stes-so, sui propri progetti, le proprie risor-se, le proprie sicurezze, ma le aggancia a Dio.

Il povero rinuncia a fare dei conti. Preferisce “contare” su Qualcuno!

Il povero si fida del Dio che interviene, ma anche del Dio che non si fa sentire.

Del Dio che si manifesta, come del Dio che non dà alcun segno…

Si tratta di arrendersi ad un Dio che ti dice quando è ora di partire (subito!), ma non ti rivela quando arriverai.

L’unica costante è la provvisorietà.L’unico conforto la precarietà.L’unica ricchezza una promessa.L’unico fatto una Parola.

L’orante non è un benestante dello spirito, ma un accattone inguaribile, che elemosina frammenti, schegge di luce.

La sua sete lo fa diffidare delle ci-sterne, ma lo porta a ricercare incessan-temente la sorgente.

La preghiera non è degli “arrivati”, ma dei pellegrini, la cui bisaccia sfo-racchiata non contiene un gruzzolo che aumenta, bensì il necessario che si esau-risce la sera stessa.

Soltanto chi è povero di tempo riesce a regalare del tempo a Dio!

Difficilmente chi possiede del tempo in abbondanza (e lo sperpera disinvol-tamente) trova tempo per pregare. Al massimo, si limita a dare gli scarti.

Identikit del povero che prega

Preghiera degli indiani Sioux

Grande Spirito, la cui voce sento nel vento,il cui soffio dà vita a tutto il mondo, ascoltami!Io vengo davanti al Tuo volto come un Tuo figlio.Ecco, io sono debole e piccolo davanti a Te;ho bisogno della Tua forza e della Tua sapienza.Fammi gustare la bellezza del creato e fa’ che i miei occhicontemplino il tramonto rosso di porpora.Le mie mani devono essere piene di rispettoper le cose che Tu hai creato e per gli insegnamentiche Tu hai nascosto in ogni foglia e in ogni roccia.Io desidero la forza, non per essere superiore ai miei fratelli,ma per poter combattere il mio più pericoloso nemico: me stesso.Fammi sempre capace di venire a Te con mani puree con sguardo sincero, affinché il mio spirito,quando la vita svanirà come il sole al tramonto,possa giungere a Te senza doversi vergognare.

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Orizzonti Identikit del povero che prega

più costoso che il povero è chiamato a dire nella preghiera.

Il povero si ostina a tenere aperta la porta a questo Dio che si nega.

La lampada accesa non ha lo scopo di riscaldare.

Ma di segnalare una fedeltà sofferta.Se non accetti che la preghiera ti

spogli delle apparenze, ti liberi dagli in-gombri, ti prenda tutte le cose inutili, ti strappi le maschere, non sperimenterai mai che cos’è la preghiera.

La preghiera è un’operazione di per-dita.

Non si prega perché si vuole avere. Ma perché si acconsente a perdere!

Nella preghiera Dio ti fa scoprire, prima di tutto, ciò di cui non hai biso-gno, di cui devi fare a meno.

C’è un “troppo” che deve lasciar po-sto all’essenziale.

C’è un “di più” che deve dare spazio all’unico necessario.

Pregare non significa accumulare, ma spogliarsi, per ritrovare la nudità e la verità del proprio essere.

La preghiera è un lungo, paziente lavoro di semplificazione della propria vita.

Pregare = voce del verbo sottrarre!!Fino a far annegare la nostra mi-

nuscola isola di soddisfazione, per la-sciarci sommergere dall’oceano di Dio, dai progetti folli del Suo Amore; fino ad ottenere il miracolo del nulla che sfiora l’Infinito!

Il tutto di Dio si colloca unicamente in quel niente, che è uno spazio, aperto dalle mani vuote e da un cuore puro.

La preghiera è destinata a coloro che non si rassegnano al fatto che le cose debbano restare così come stanno.

Quando un uomo si confessa insod-disfatto e desidera tendere verso qual-cos’altro, allora è adatto per la preghie-ra.

Allorchè uno è disposto a perde-re tutto per tentare l’avventura, per ri-schiare il nuovo, per abbandonare le abitudini, allora la preghiera fa per lui.

La preghiera è per chi non si arrende!

Qualcuno ha definito il cristiano “un contento insoddisfatto”.

Contento di ciò che il Padre è per lui e fa per lui, insoddisfatto del suo modo di essere figlio, fratello e cittadino del Regno.

La preghiera è infatti, allo stesso tempo, causa di gioia e principio d’in-quietudine.

Pienezza e tormento. Tensione tra il “già” e il “non ancora”.

Sicurezza e ricerca.Pace e… brusco richiamo a ciò che

resta da fare!

Nella preghiera restiamo sbalordi-ti di fronte alla grandiosità illimitata dell’invito del Padre, ma avvertiamo la sproporzione tra la Sua offerta e la no-stra risposta.

Si imbocca la strada della preghiera solo dopo aver coltivato germi d’inquie-tudine.

Qualcuno di noi è soddisfatto quan-do “ha detto le preghiere”.

Dobbiamo scoprire, invece, che l’in-soddisfazione costituisce la condizione della preghiera.

«Guai a voi che ora siete sazi!» (Lc 6,25)

(www.piccolifiglidellaluce.it)

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La beatitudine della povertà

per cui la lascio qui per iscritto è che non la di-mentichiate dopo la mia morte; finché vivo, infatti, ve la ricorderò io stessa, conoscendo per esperien-za il gran profitto che si ottiene dal metterla in pratica. Meno si possiede, più si è liberi da preoccupazio-

ni, e il Signore sa che mi pare di avere maggiore pena quando le elemosine abbondano che non quan-do ci mancano. Non so se ciò avvenga per avere or-mai visto che il Signore ci

viene subito in aiuto. Sarebbe ingannare il mondo se fosse altrimenti: farci pas-

Voci dal Carmelo

1. Non pensate, sorelle mie, che, trascurando di assecondare il mondo, non dobbiate avere di

che mangiare, ve l’assicuro io. Non cer-cate mai di sostentarvi con espedienti umani, perché morirete di fame e giu-stamente. Tenete gli occhi fissi sul vostro Sposo; è lui a dovervi provvedere del necessario. Una volta che egli è conten-to di voi, anche coloro che vi sono meno affezionati vi daranno da mangiare, loro malgrado, come l’esperienza vi ha fatto costatare. Se poi, così facendo, doveste morire di fame, fortunate le monache di san Giuseppe! Non dimenticatelo mai, per amor di Dio: poiché avete rinunzia-to alle rendite, rinunziate ugualmente a ogni preoccupazione circa il vostro nutri-mento, altrimenti tutto sarebbe perduto. Coloro che, per volere di Dio, hanno sif-fatte preoccupazioni, le abbiano pure! È giustissimo, perché essi seguono la loro strada, ma per noi, sorelle, è una pazzia.

2. Contare sulle rendite altrui è, se-condo me, pensare vanamente a ciò di cui il prossimo gode; come se con que-sto gli altri possano cambiare parere e si sentano ispirati a farvi l’elemosina. Lasciate questa cura a colui che può toccare tutti i cuori ed è il padrone delle rendite e di chi le possiede. Noi siamo venute qui seguendo la sua chiamata; le sue parole sono veritiere, perciò si rea-lizzano sempre: passeranno piuttosto i cieli e la terra. Non veniamogli meno noi e non temiamo che egli ci venga meno. E, se talvolta egli ci verrà meno, sarà per un maggior bene, come accadeva ai santi, che, quando venivano uccisi per il Signore, vedevano aumentare la gloria a causa del martirio. Bel cambio sareb-be farla presto finita con tutto e godere l’eterna felicità!

3. Considerate, sorelle, l’importanza di questa raccomandazione; il motivo

santa teresa di Gesù

La beatitudine della povertà

Tenete gli occhi fissi sul vostro Sposo;

è lui a dovervi provvedere

del necessario

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La beatitudine della povertàVoci dal Carmelo

sare per povere, senza es-serlo nello spirito, ma solo esteriormente. Me ne farei uno scrupolo di coscienza, come suol dirsi, e mi sem-brerebbe d’essere una di quelle ricche che chiedono l’elemosina. Piaccia a Dio che non sia così, perché là dove esistono queste preoccupazioni esagerate di avere elemosine, una volta o l’altra si finisce col contrarne l’abitudi-ne e con l’andare a chiedere ciò che non è necessario a chi forse ha più bisogno di noi. Anche se i benefattori, lungi dal perdere alcunché, non po-trebbero che guadagnare, noi perderemmo di sicuro. Dio non voglia, figlie mie! Qualora ciò dovesse acca-dere, preferirei che aveste rendite.

4. In nessun modo, dunque, dove-te preoccuparvi di questo; ve lo chiedo come un’elemosina per amor di Dio; e se la più giovane tra voi venisse a scoprire per caso una tale propensione in questa casa, invochi Sua Maestà e lo faccia pre-sente alla sorella maggiore. Con umiltà le dica che è in errore e che, così facen-do, a poco a poco si arriverà alla perdita della vera povertà. Io spero nel Signore che ciò non avvenga e che egli non ab-bandonerà le sue serve. A tal fine, se non altro, quanto mi avete chiesto di scrivere servirà a ricordarvelo.

5. Credetemi, figlie mie, per il vostro bene Dio mi ha fatto ca-pire qualcosa dei tesori racchiusi nella santa po-vertà, e quelle tra voi che ne faranno esperienza lo capiranno; forse, però,

non tanto come me, per-ché io non solo non sono stata povera di spirito, malgrado ne avessi fat-to il voto, ma insensata. La povertà è un bene che

racchiude in sé tutti i beni del mondo; ci assicura un gran dominio, intendo dire che ci rende padroni di tutti i beni ter-reni, dal momento che ce li fa disprez-zare. Che m’importa, infatti, dei re e dei potenti, se non voglio le loro ricchezze, né intendo compiacere ad essi, quando per causa loro mi può accadere di dover

dispiacere, sia pur poco, a Dio? E che m’importa dei loro onori, se sono convin-ta che il più grande onore per un povero è quello di essere veramente povero?

6. Mi sembra che onori e quattrini vadano sempre di pari passo. Chi desi-dera gli onori non aborrisce le ricchezze, mentre chi aborrisce le ricchezze poco si cura degli onori. Si cerchi di capi-re bene questo, perché, a mio avviso, il desiderio degli onori trae sempre con sé un qualche attaccamento a rendite e a denari; è assai raro, infatti, che sia og-getto di onori, nel mondo, chi è povero; anzi, sebbene ne sia degno, è tenuto in poco conto. La vera povertà trae con sé un onore così grande che sarebbe qua-si insopportabile; ma la povertà che si abbraccia solo per Dio non ha bisogno, ripeto, di contentare nessuno tranne lui; ora, è fuor d’ogni dubbio che, non aven-

do bisogno di nessuno, si abbiano molti amici. Io l’ho costatato per mia esperien-za personale.

(Cammino di perfezione 2,1-6)

Le sue parole sono veritiere,

perciò si realizzano sempre

Meno si possiede, più si è liberi da preoccupazioni

La povertà è un bene che racchiude

in sé tutti i beni del mondo

Il più grande onore per un povero è quello di

essere veramente povero

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Ma le mie urlaferisconocome fulminila campana fiocadel cielo

Sprofondanoimpaurite

(giuseppe ungaretti)

Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?Fino a quando nell’anima mia addenserò pensieri,tristezza nel mio cuore tutto il giorno?

(Salmo 13)

Quando la preghiera

si fa lamento

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La preghiera diventa carità: Angelo Paoli

vissuto l’Eucarestia come fonte della carità.

Angelo Paoli nacque nel 1642 in un ridente pa-esino della Toscana, Argi-gliano, in provincia di Massa Carrara. La sua famiglia era numerosa, perché i genitori avevano avuto sette figli, ma tutti insieme lavoravano per procurarsi di che vivere. A diciotto anni sentì di es-sere chiamato al Carmelo ed entrò nel convento di Siena. Da lì si trasferì per gli studi prima a Pisa e poi a Firenze. Il 7 gennaio 1667 fu ordinato sacerdote. La sua salute cagionevole non gli permise di proseguire gli studi, ma si dedicò con ardente passione ad alleviare la soffe-renza fisica e spirituale di tutti coloro che gli stavano intorno. Incaricato della formazione dei giovani, a Firenze pro-pose ai novizi di privarsi di una parte della propria colazione per portarla ai poveri. Nel programma formativo dei giovani frati, p. Angelo aveva inserito la visita frequente all’ospedale Santa Ma-ria Nuova. Solo in questo modo i futuri religiosi e sacerdoti avrebbero potuto conoscere direttamente le miserie degli uomini, esercitandosi a scorgere in essi il volto di Gesù sofferente. Questi primi segni saranno la caratteristica di tutta la sua vita di Carmelitano. Il 22 agosto 1683 il registro del Convento di Fivizza-no ne annota la presenza, come mem-bro stabile, incaricato della sacrestia ed organista. Qui rimarrà per quattro anni, distinguendosi per il suo amore verso i poveri e per la sua profonda ed intensa vita di preghiera.

Nel 1687 il Priore Generale lo trasferì a Roma, presso il convento di S. Marti-no ai Monti, dove fu nominato maestro dei novizi. Centro della sua giornata ed occupazione primaria del suo cuore era

l’amore verso l’Eucarestia, dinanzi alla quale trascor-reva lunghe ore, specie quelle che sottraeva al ri-poso notturno. Presiede-

va la Liturgia con grande devozione ed insegnava a tutti a fare altrettanto. Tal-volta, quando si accorgeva che qualcuno dei fedeli per comodità rimaneva seduto durante le celebrazioni, invece di alzar-si o inginocchiarsi, lo rimproverava con fermezza, perché comprendesse che ciò a cui partecipava era il segno dell’Amore di Cristo e l’evento più importante della vita della Chiesa. Dopo la celebrazione eucaristica, rimaneva per molto tempo nel silenzio del ringraziamento e in quei momenti, allo stesso modo di quando era occupato a servire i malati, non vo-leva essere disturbato da nessuno. Tra le sue mansioni abituali rientrava la cura degli arredi della chiesa: i calici, le tova-glie... Egli si dedicava a questo incarico con grande cura, dicendo che quelli non erano utensili come tanti altri, perché erano a contatto con l’Eucarestia. Tra le tante giaculatorie che era solito reci-tare preferiva ripetere spesso una delle

Persone e comunità

Testimoni

Molte volte nel corso dell’anno 2009 il cardinale Agostino Val-lini, Vicario del S. Padre per la

diocesi di Roma, ha ribadito che il per-corso diocesano sarebbe stato segnato da una verifica sui punti basilari della vita di una comunità ecclesiale: l’Eucarestia, culmine e fonte della vita della Chiesa, e la carità, che per il credente deve es-sere al di sopra di tutto (1Cor 13). Sono questi i due poli su cui si muove tutta la vita della Chiesa, perché dall’Eucarestia scaturisce la carità. E mentre la Diocesi di Roma era in fermento per preparare l’av-vio del nuovo anno pastorale, il 3 luglio 2009 il Santo Padre Benedetto XVI ave-va autorizzato la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il Decreto sul miracolo attribuito all’intercessione

del Venerabile Angelo Paoli, carmelitano, morto a Roma nel 1720.

La sua causa di Beatificazione era stata avviata nel 1723, ben 288 anni orsono. Tutto questo tempo, però, non è trascorso invano. P. Angelo, che ha vissuto a Roma la maggior parte del suo ministero sacerdotale, si è rivelato un modello vivo di ciò che il cardinale aveva proposto alla diocesi per l’anno 2009-2010; una figura di santità da pro-porre alla spiritualità di tutti i fedeli; un modello romano non di nascita, ma di adozione. Il cardinale Vallini lo ha pro-clamato Beato nella cattedrale di S. Gio-vanni in Laterano domenica 25 aprile 2010, offrendo a tutta la comunità dio-cesana ed alla Chiesa un nuovo esempio di sacerdote religioso, che a Roma ha

Giuseppe midili

La preghiera diventa carità: Angelo Paoli

Dall’Eucarestia scaturisce la carità

Raffigurazione di Angelo Paoli

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Abitando sul colle Op-pio e dirigendosi spesso verso l’ospedale S. Gio-vanni passava molto vici-no al Colosseo. Era preso da una grande tristezza per lo stato di abbandono in cui si trovavano quelle zone. Egli vedeva le ruote dei carri at-traversare le grandi arcate di pietra per abbreviare il tragitto. I cavalli calpesta-vano le zolle su cui i primi credenti ave-vano sparso il loro sangue per la fede in Cristo. La notte, poi, egli sapeva che il Colosseo era luogo di rifugio per i bri-ganti e spesso zona di ritrovo per gente di dubbia moralità. Spinto dal desiderio di restituire al luogo la sua dignità sa-crale ed anche per impedire la corruzio-ne dei costumi, P. Angelo chiese al papa Clemente XI di poter chiudere le vie di accesso. Trasformatosi in muratore, con l’aiuto di tanti volontari chiuse gli ar-chi con mura di pietra. Quindi lo rese di nuovo area sacra per la preghiera, is-sandovi al centro una croce. Da allora propose molte volte ai novizi il Colos-seo come meta di itinerari penitenziali, specialmente durante la quaresima, per meditare sulla sofferenza e sulla fede di tanti uomini e donne che vi erano stati martirizzati per amore del Cristo.

Un giorno, mentre usciva dal san-tuario della Scala Santa, si fermò a guardare l’Ospedale di San Giovanni e subito gli venne in mente la grande sofferenza che vi regnava. Sin dal tempo in cui aveva vissuto a Firenze, a Siena e a Fivizzano era diven-tato esperto nel modo di servire i malati e sapeva quali stratagemmi usare per poter servire con amo-

re. Preferiva sempre le ore in cui le persone avevano bisogno dei servizi umi-li. Si fermava dai più soli e dai più gravi. A quelli che erano depressi e tristi per il loro male racconta-va fatti allegri e divertenti.

Aneddoti che egli stesso inventava per far sorridere e portava in dono frutta, dolciumi, piccoli scacciapensieri, che realizzava egli stesso. Inoltre condu-ceva compagnie di suonatori e cantori nell’ospedale, perché si sollevasse un po’ il morale. Era convinto infatti che il buon umore dei malati favorisse la loro guarigione.

Nelle sue visite all’ospedale aveva notato che i malati, specialmente quel-li più poveri, quando venivano dimessi s’aggiravano presso la vicina Porta di S. Giovanni ancora deboli e non del tutto guariti. Per questo motivo molti ricade-vano nella malattia e spesso morivano. P. Angelo, che conosceva molti nobili a Roma, aiutava i convalescenti collocan-doli presso alcune famiglie, ma questa soluzione non risolveva il disagio, perché i malati erano tanti. Maturò quindi l’idea di costruire un ospizio per i convalescen-ti, così da ospitarli fino a quando non fos-sero stati perfettamente in forma.

Narra il suo primo biografo, il Cac-ciari: «Disegnò di erigere un ospizio, in cui questi convalescenti fossero man-tenuti per dieci, quindici ed anche più

giorni, quando in Roma non avessero casa, con-giunti, e fossero talmente privi di sussidi che neces-sitati fossero a starsene per le vie pubbliche ed a cibarsi di nutrimento cat-tivo».

strofe dell’antico inno di ringraziamen-to Te Deum, che dice: Soccorri i tuoi figli,

Signore, che hai redento con il tuo Sangue prezioso.

Testimoni La preghiera diventa carità: Angelo Paoli

Il beato Angelo Paoli si distinse per il suo amore verso i poveri e per la sua profonda

ed intensa vita di preghiera

Era convinto che il buon umore

dei malati favorisse

la loro guarigione

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E così fra molte difficol-tà istituì un ospizio nello “stradone” fra il Colosseo e la basilica di San Giovan-ni, in cui erano accolti tut-ti coloro che ne facevano richiesta. Il Cacciari nar-ra che «giammai si potrà esprimere l’allegrezza che egli provava in ricevere dentro a quel luogo i conva-lescenti. Egli pensava a mandarli a pren-dere, se non erano in tali forze, che da sé medesimi colà potessero trasportarsi. Egli su la porta dell’ospizio stava aspet-tandoli, ove giunti correva ad abbracciarli dicendoli tutto pieno di giubilo: venite fratelli, questa è casa vostra, di qui non farete partenza, se non quanto perfetta-mente sarete guariti».

All’interno dell’ospizio c’era una cap-pellina con un piccolo organo. All’ingres-so di ogni nuovo ospite p. Angelo si sede-va all’organo e suonava in segno di festa.

Il vero centro di tutta la vita di p. An-gelo rimase sempre la Basilica di S. Mar-tino ai Monti. In chiesa, davanti all’Eu-carestia, egli trovava la forza per il suo apostolato con i malati. Qui venivano a trovarlo i tanti benefattori che sosteneva-no la sua opera. Alla porta del convento bussavano ogni giorno i poveri che rice-vevano cibo, vestiti, una parola di con-forto, un sorriso, un abbraccio. Ciò che si riassume in poche righe costituì l’impe-gno principale della vita del religioso per quasi vent’anni, fino a quando fu pron-to a concludere la sua esi-stenza in preghiera e spirò nella sua cella il 20 gennaio 1720.

Padre Angelo non col-pisce per l’originalità del-le sue iniziative, né per la novità di ciò che escogita

dal punto di vista pasto-rale. È un uomo semplice, che crede profondamente nella sua missione sacer-dotale e dedica tempo alla preghiera e al ministero. Sperimenta su di sé che l’amore verso il Padre di-

viene concreto nelle situazioni di ogni giorno e dedica la sua vita alla soffe-renza degli altri. È generoso e infatica-bile, come moltissimi sacerdoti di oggi. Potrebbe confondersi tra il clero di una comunità parrocchiale qualsiasi. Eppure è unico, perché solo lui poteva aiutare quelle persone concrete. Solo lui poteva essere vicino a quella porzione di popo-lo santo, che Dio gli aveva affidato, pre-gando ed amministrando i sacramenti. Lo stesso accade oggi. Esistono molti luoghi di carità e di preghiera, centri di Adorazione Eucaristica. Ci sono tante persone che pregano, che dedicano la loro vita al culto eucaristico o alla cari-tà verso il prossimo. La mia preghiera, però, è speciale; la mia carità è unica: mi appartiene. È il frutto di un percorso di discernimento che lo Spirito suscita in me, è il segno dell’agire divino nel mio cuore. Non sono migliore degli altri, ma sono unico, Dio mi ha fatto a sua imma-gine perché io riproponga la sua imma-gine. Per questo non guardo estasiato le opere che Angelo Paoli ha compiuto nel suo tempo, non penso alla sua preghie-ra, ma ispirandomi al suo amore verso

Dio, mi fermo in adorazio-ne di fronte all’Eucarestia. Dedico tempo ai fratelli che soffrono, convinto che il mio dono è speciale, per-ché è unico: Dio oggi vuo-le compiere la sua opera attraverso di me.

Testimoni La preghiera diventa carità: Angelo Paoli

«Venite fratelli, questa è casa vostra, di qui non farete partenza, se non quanto perfettamente

sarete guariti» (beato Angelo Paoli)

L’amore verso il Padre diviene concreto nelle

situazioni di ogni giorno e si apre alla sofferenza degli altri

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La radice dell�uomo è la povertà

castello ordinati e puliti rimandano a tutta l’esistenza, complessa ed essenzia-le nello stesso tempo, di chi in essi ripo-sa o si dispera, piange o sogna ancora.

A distanza di pochi metri apri una porticina e mi inviti ad entrare; è una cappella piccola piccola; pochi banchi, l’altare, il tabernacolo e accanto la luce che indica la Presenza costante del Po-vero tra i suoi più poveri. Al centro della cappella la salma di un tuo compagno di stanza deceduto durante la notte espri-me una dignità e una semplicità disar-mante. Mi guardi e dici: “I parenti non sono venuti, dovevano lavorare… que-sta è la povertà più grande: la solitudine. Sarà così anche per me”.

«E disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”» (Mt 26,38).

La tua condivisione mi lascia senza parole per la dignità con cui racconti e la ricchezza interiore che comunichi attra-verso un’apparente “povertà”. Mi sento piccola e incapace di ascoltare le solitu-dini profonde mascherate spesso dalle apparenze.

Grazie, Francesco, per avermi aiutato a riconoscere la mia povertà interiore, la mia incapacità di condividere che affido al Signore Gesù, Povero tra i poveri.

Con affettoIgnazia...

Pregare nel quotidiano

Contesti

Caro Francesco,

il tuo nome rimanda al santo della semplicità e povertà per eccellenza: S. Francesco d’Assisi. Mentre ti ascolto la figura di questo santo si impone, ri-spolverando il desiderio di conoscere il valore della sua povertà per diventare ricchi della sua santità. Racconti la tua vita sottolineando in ogni avvenimento la povertà materiale (e non solo) spesso vissuta.

Quest’ultima ha condizionato già da piccolo i tuoi sogni, le speranze, le pro-spettive e le possibilità di realizzarle.

Nato in un paesino del sud da fami-glia contadina, hai dovuto guadagnarti e conquistarti ogni piccola cosa con il lavoro. Ma i sogni a volte si impongono e per raggiungerli si cercano scorciatoie più facili, passando attraverso incontri che coinvolgono la buona fede fino a cambiarti. Così hai provato l’esperien-za del carcere. Hai scontato tutto e ora, a cinquant’anni, fai un bilancio del tuo vissuto rimettendo in gioco i valori ere-ditati dalla famiglia rimasti assopiti per tutti questi anni. Ti apri in un dialogo li-

beratorio sottolineando quasi l’urgenza di condividere. Dici: “Sono povero non perché vivo in un centro di accoglienza, ma perché ho perso la mia vita rincor-rendo sogni irraggiungibili impegnando il tempo, gli anni in cose vane con l’illu-sione di essere sempre ad un passo dal raggiungere la ricchezza. Vorrei tornare indietro, avere la possibilità di comin-ciare di nuovo, di impostare di nuovo la vita a partire dai valori ereditati. Ora è tardi”.

La tua mamma anziana ti aspetta ancora al paese ma tu non hai il corag-gio di ripresentarti così, i tuoi fratelli preferiscono non vederti; dici: “perché adombrare le loro posizioni sociali, l’im-magine che si sono costruiti?”.

Stai in bilico tra la speranza che si ripropone e la fatica di ricominciare da solo.

In silenzio mi fai cenno di seguirti. Entriamo in un corridoio dove scorgo due modeste sale; una adibita a refet-torio arredata dell’essenziale: le sedie poggiate sopra i tavoli fanno pensare alle persone sole ma gioiose per un pa-sto caldo donato; nella seconda i letti a

iGnazia Collu

La radice dell’uomo è la povertà

Questa è la povertà più grande: la solitudine

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versalità riconoscendo nel povero Colui che si è fatto Povero per raggiungerci, e in Lui ogni povero, ogni uomo. Questo riconosci-mento smaschera la nostra povertà che continuamen-te tentiamo di nascondere per non guardarla, per la presunzione di essere, anche se di poco, superiori in qualcosa al povero che i no-stri occhi identificano come tale.

Guardare la propria povertà significa ammettere il profondo bisogno di signi-ficato, di senso, di pienezza che nessuna cosa umana può donarci perché è una necessità dell’anima che abbraccia tutta la persona e solo un Altro può colma-re. «Gesù le risponde: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”» (Gv 4,12-14).

Cristo è la risposta completa a que-sti bisogni, risposta racchiusa e donataci nell’estrema povertà della grotta di Bet-lemme, nella modesta casa di Nazaret, nella vita pubblica quando non aveva dove posare il capo. «Gli rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”» (Mt 8,20). Ma il culmine di questo dono sta nel consegnarci se stesso, il suo Spirito, il suo Corpo e il suo Sangue nell’Eucaristia.

È davanti all’Eucaristia, alla risposta perfetta al nostro bisogno di essere amati che la no-stra povertà diventa im-mensa, diventa invocazio-ne, mendicanza perché la sproporzione è esagerata.

In questo atteggiamen-to il Suo Amore si mostra in tutta la sua preziosa es-senza, povero e spoglio di tutti i contorni che appe-santiscono la nostra per-sona, ci consegna il senso del nostro essere, della vita che si lascia schiacciare

dall’esteriorità soffocando lo splendore e la profondità di un Amore che è da sempre, ci abita, di una tenerezza che continua a venirci incontro e che spesso respingiamo per lo sguardo inquinato dalla bellezza e dall’appagamento pas-seggeri della vita terrena.

Immersi e abitati dal mistero, ci muoviamo e viviamo in esso. Eppure andiamo a tentoni alla ricerca della Luce che ce lo sveli, che renda i nostri occhi capaci di definirne i contorni quasi come se gli occhi umani potessero contenere lo sguardo infinito in cui l’uomo piccolo, fragile e povero vive. Siamo avvolti den-tro un mistero di cui conosciamo la cosa più necessaria: l’Amore troppo grande di un Padre, Amore che ci viene conti-nuamente donato nei sacramenti.

La radice dell’uomo è la povertà per-ché tutto riceve. Questa consapevolezza spalanca il cuore alla necessità di men-dicare il Tutto. Nel riconoscerci poveri, spogliandoci di tutto, si dilata lo spazio alla ricchezza del suo Amore, ci riveste della sua Presenza perché l’Amore sia riconosciuto e incontrato nella nostra povertà.

Solo così possiamo vivere pienamen-te, con gioia ciò che il Si-gnore ci chiede: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come Io vi ho amato» (Gv 15,12).

Contesti La radice dell�uomo è la povertà

La povertà che vediamo con gli oc-chi ci aiuta a penetrare l’esteriorità fino a giungere al cuore stesso della pover-tà interiore per incontrare e riconoscere Gesù povero mendicare il nostro amore.

«Giunge una donna samaritana ad at-tingere acqua. Le dice Gesù: “Dammi da bere”» (Gv 4,7).

Con questo sguardo la solidarietà ha uno spessore eterno, si apre cioè all’uni-

Guardare la propria povertà significa

ammettere il profondo bisogno di significato, di senso, di pienezza

che solo un Altro può colmare

La radice dell’uomo è la povertà perché

tutto riceve

«Dammi da bere» (Gv 4,7)

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Edith Stein «In grande pace varcai la soglia»

Edith Stein muore martire del na-zismo nel 1942. Al processo per la sua beatificazione, qualcuno, sottovalutan-do non poco la sua figura e accostan-dola alla già venerata santa Teresina, si arrischia nel dire: “non sarà una Santa popolare”. Un’osservazione particolar-mente imprecisa alla luce del giudizio poi generalmente diffuso che ha ricono-sciuto in Edith “una delle grandi donne del nostro tempo”, sia per la sua santità che per la stessa vastissima cultura.

Al centro di questo volume, da in-tendere pure come un omaggio alla sua sensibilità di donna e filosofa, è la vicenda di Edith ebrea-cristiana. Con l’autorevolezza di fonti dirette, memo-rie personali e testimonianze ufficiali, è tracciato un percorso che la vede ora educata da un ebraismo blando e for-malistico, ora alla ricerca di una verità filosofica e di Qualcuno ancora non ben definibile, infine illuminata e pervasa dalla fede cristiana.

Dei passaggi decisivi della sua vita se ne isolano tre: quello in cui varca la so-glia del cristianesimo, quello della clau-sura carmelitana e infine quello della camera a gas.

Sullo sfondo sta quel suo nome nuo-vo, di carmelitana consacrata: suor Te-resa Benedetta della Croce. La croce che ha incontrato a 31 anni con la conver-

sione e che conosce ancor più nell’orrore della furia nazista.

AutoreP. Rodolfo girardello, carmelitano

scalzo, teologo e scrittore, è Direttore Generale del Centro Interprovinciale del suo Ordine a Roma.

Edith Stein«In grande pace varcai la soglia»

rodolfo girardello

Edith Stein«In grande pace varcai la soglia»

Edizioni OCD

Roma 2011

444 pp. - 19,00 Euro

Dopo oltre dieci anni dalla sua pubblicazione, esce in una nuova edizione riveduta l’avvincente biografia

su Edith Stein di P. Rodolfo Girardello

Per ordinazioni

Edizioni OCD - Via Anagnina 662/b 00118 ROMA Tel. 06.79.89.08.1 - Fax 06.79.89.08.40 - web: www.edizioniocd.it - E-mail: [email protected]

Lo scaffale di PregareInvito alla lettura

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già
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Testo inserito
, è Maestro dei Novizi a Trento.
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Edizioni OCD

Luciano Pascucci

La Santa MeSSaCatechismo eucaristico

2011, pp. 102, € 8,00

Cibo e bevanda di salvezza, una carica d’amore per il mestiere di vivere

Edizioni oCd Via Anagnina 662/b 00118 RoMA Tel. 06.79.89.08.1 Fax 06.79.89.08.40

Web: www.edizioniocd.it E-mail: [email protected]

Nella Messa, o anche a distanza da essa, ma sempre nella sua lunga ombra, si svolge la trama della vita cristiana.

È questo il luogo di un incontro, sempre nuovo e diverso per ciascu-no, con il Risorto. E fondamental-mente è la celebrazione di un ban-chetto in cui ognuno è compartecipe e insieme testimone.

Questo libro ripercorre tutte le fasi dell’evento liturgico, dai riti iniziali fino al momento in cui il fedele, trasformato o semplicemente rinnovato dal mistero della comunione sponsale, abbandona la Chiesa e continua a camminare per la strada della vita, forse più buono e cresciuto nella fede, ma certamente più responsabile.

Chi legge questo libro vi troverà momenti della propria biografia, pen-sieri e sentimenti che credeva perduti o verità che non ha mai affrontato, ma che gli permettono di entrare nel cuore dell’Eucaristia e assaporare il culmine dell’Alleanza d’amore tra Dio e il suo popolo, firmata nel sangue di Cristo: segno e sorgente di gioia cristiana, tappa per la Festa eterna.