tessa gratton, blood magic

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Estratto del primo capitolo. Silla è disposta a tutto pur di scoprire cosa è successo davvero la notte che i suoi genitori hanno perso la vita, anche a provare gli incantesimi del misterioso libro trovato sulla soglia di casa sua. E poi c’è Nick, il ragazzo che ha incontrato nel cimitero di fianco a casa: anche lui nasconde un segreto e conosce la magia del sangue. Uniti dal destino e da una fortissima attrazione, Nick e Silla dovranno combattere contro la presenza oscura che vuole entrare in possesso del libro e di tutto il suo potere.

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Page 1: Tessa Gratton, Blood Magic
Page 2: Tessa Gratton, Blood Magic

Titolo originale dell’opera: Blood Magic © 2011 by Tessa Gratton

This translation published by arrangement with Random House Children’s Books,a division of Random House, Inc.

I Edizione 2012

© 2012 - EDIZIONI PIEMME Spa20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)

Redazione e impaginazione: Conedit Libri S.r.l. - Cormano (MI)

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Tessa GraTTon

Traduzione di Simona Brogli

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Sono Josephine Darly, e ho intenzione di vivere per sempre.

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Silla

Non puoi capire chi sei veramente finché non passi un po’ di tempo da sola in un cimitero.

La lapide era fredda contro la mia schiena e mi spingeva la maglietta sottile contro il sudore che mi colava sulla pelle. Il crepuscolo pennellava di ombre il cimitero, facendone un luogo sospeso tra giorno e notte in un grigio istante bagnato di lacrime. Sedevo a gambe incrociate con il libro in grembo. Sotto di me, l’erba incolta nascondeva le tombe dei miei genitori.

Ripulii la copertina del libro. Era delle dimensioni di un romanzo tascabile e sembrava così piccolo e insignificante tra le mie mani. La copertina di pelle marrone rossiccio era morbida e consumata dall’uso di anni, scolorita agli angoli. Un tempo, doveva esserci una doratura sul taglio delle pagine, ma ormai si era stinta anche quella. Aprii il libro e tornai a leggere l’epigrafe, sussurrandola a me stessa per renderla più reale.

Appunti di Trasformazione e Trascendenza

Oh, se questa troppo, troppo lurida, solida carne potesse fondersi,

sciogliersi e risolversi in rugiada.Shakespeare

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Era stata una delle citazioni preferite di papà. Dall’Amleto. Papà era solito declamarla tutte le volte che Reese o io lasciavamo la stanza furi-bondi e imbronciati. Diceva che non avevamo niente di cui lamentarci in confronto al principe di Danimarca. Ricordavo i suoi occhi azzurri che si socchiudevano guardandomi da sopra il bordo degli occhiali.

Il libro era arrivato con la posta di quel pomeriggio, avvolto nella carta marrone e senza mittente. Semplici lettere a stampatello componevano il nome drusilla kennicoT, come un’intimazione. C’erano sei francobolli in un angolo. Odorava di sangue.

Quel particolare sentore di metallo grezzo l’avevo ancora in fondo alla gola, impregnava la mia memoria. Chiusi gli occhi e vidi lo schizzo di sangue che striava gli scaffali.

Quando riaprii gli occhi, ero sempre sola nel cimitero.All’interno della copertina c’era un biglietto piegato in tre,

carta spessa e senza righe.Silla, cominciava. Rabbrividivo tutte le volte che vedevo il mio

nome scritto a mano in quella grafia antiquata. Il fondo della s si avvolgeva su se stesso in spire senza fine.

Silla,soffro per la tua perdita come se fosse mia, bambina. Ho conosciuto tuo padre per gran parte della sua vita, ed è stato uno dei miei più cari amici. Mi spiace di non poter presenziare al suo funerale, ma confido che la sua vita sarà onorata e la sua morte assai compianta.

Se può esistere un piccolo motivo di conforto, spero sia questo. Nel libro che ti invio sono custoditi i segreti perfezionati da tuo padre. Decenni di ricerca, l’insieme delle conoscenze di una vita intera. È stato un mago e un guaritore di eccezionale talento, ed era fiero di te, fiero della tua forza. So che vorrebbe che fossi tu, ora, ad avere questo resoconto del suo lavoro.

I miei migliori auspici accompagnino te e tuo fratello.

Era firmato semplicemente Il Diacono. Nessun cognome, nessun recapito.

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I corvi risero, sbucando da lontano in mezzo alle lapidi. Il nugolo nero fendette l’aria tra uno sbattere d’ali e un rauco gracchiare. Li osservai, stagliati contro il cielo grigio, mentre volavano a ovest, verso casa mia. Probabilmente per terrorizzare le ghiandaie azzurre che popolavano l’acero del giardino sul davanti.

Il vento mi fece volare i capelli corti sulle guance, e io li tirai indietro. Mi chiedevo chi fosse questo Diacono. Sosteneva di es-sere amico di mio padre, ma non avevo mai sentito parlare di lui. E perché doveva suggerire cose tanto incredibili e ridicole come il fatto che mio padre fosse un mago e un guaritore, quando era stato solo un insegnante di latino del liceo? Eppure sapevo senza ombra di dubbio di avere tra le mani un libro scritto da mio padre: riconoscevo la sua scrittura elegante e minuta, con i minuscoli occhielli di ogni L maiuscola e le R perfettamente angolate. Aveva sempre detestato scrivere a macchina, e aveva l’abitudine di fare lunghe paternali a Reese e a me perché imparassimo a scrivere a mano in modo leggibile. Reese aveva trovato un compromesso con lo stampatello, ma io ero troppo affascinata dal corsivo bizzarro e curvilineo per preoccuparmi della leggibilità.

Quale che fosse la sua provenienza, quel libro era di papà.Mentre lo sfogliavo, vidi che ogni pagina conteneva righe su

righe di perfetta grafia e minuziosi diagrammi che si allargavano come tele di ragno. Nei diagrammi, cerchi concentrici, lettere greche, strani pittogrammi, rune. C’erano triangoli e ottagoni, pentacoli, quadrati e stelle a sette punte. Papà aveva scritto mi-nuscole annotazioni sui margini delle pagine, redatto paragrafi in latino e compilato elenchi di ingredienti.

Il sale era la sostanza prevalente di quegli elenchi, insieme a elementi riconoscibili tra cui zenzero, cera, unghie, specchi, zampe di gallina, denti di gatto e nastri colorati. Ma c’erano anche parole che non conoscevo, come carmot e agrimonia e nardo.

E sangue. Ogni elenco comprendeva una goccia di sangue.Erano formule magiche. Per ritrovare oggetti smarriti, benedire

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neonati e togliere maledizioni. Per proteggere contro il male. Per vedere a distanza. Predire il futuro. Guarire qualsiasi tipo di malattia e ferita.

Sfogliai, il cuore bruciante di stupore e paura. E un sapore di ec-citazione, come di elettricità in fondo alla gola. Poteva essere vero? Papà non era tipo da scherzi complicati, ed era tutt’altro che fanta-sioso, nonostante la sua passione per i vecchi libri e i racconti epici.

Doveva esserci un incantesimo che potessi provare. Per veri-ficarlo. Per capire.

Mentre ci pensavo, l’odore tornò a risalirmi in gola, sangue che saturava le mie narici e scendeva come una scia di fumo vischioso lungo l’esofago.

Mi portai il libro al naso e trassi un lungo respiro purificatore. E immaginai di poter sentire il suo odore nel libro. L’odore di mio padre. Non quello opprimente del sangue che aveva inzup-pato la sua camicia e la moquette sotto il suo corpo, ma l’aroma leggermente oleoso di sigarette e sapone di quando veniva a fare colazione la mattina, dopo una doccia e una fumatina veloce nel patio sul retro.

Mi lasciai cadere il libro in grembo e chiusi gli occhi finché mio padre non fu proprio lì, seduto davanti a me, una mano tesa a toccarmi il ginocchio destro.

Quando ero piccola, aveva l’abitudine di venire nella mia stanza appena prima che scoccasse l’ora di spegnere le luci e toccarmi il ginocchio mentre si abbassava per sedersi sul letto. La forza di gravità mi avvicinava sempre più a lui fino al momento in cui potevo posargli la testa sulla spalla o arrampicarmi sulle sue ginoc-chia mentre mi raccontava versioni condensate dei classici della letteratura. I miei preferiti erano stati Frankenstein e La dodicesima notte, e continuavo a chiederli all’infinito.

Nel cimitero, un altro corvo solitario gracchiò, volando senza fretta dietro i suoi cugini.

Sollevai il libro con tutte e due le mani e lasciai che si aprisse

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dove voleva. Quando il ventaglio delle pagine ebbe scelto come dividersi, lo abbassai e diedi uno sguardo all’incantesimo:

Rigenerazione.

Per dare vita. Da usarsi con cautela quando la carne è infetta o

necrotizzata. Per mantenere freschi i fiori.

Il diagramma consisteva di una spirale dentro un cerchio che si restringeva al centro come un serpente. Mi servivano soltanto sale, sangue e respiro. Facile.

Con un bastoncino, disegnai un cerchio nel terriccio del cimi-tero, poi tirai fuori una scatola di sale kosher dalla borsa di plastica che avevo portato con gli ingredienti più facili da reperire nella mia cucina. I cristalli luccicavano tra i fili d’erba sottili mentre li spargevo intorno al cerchio. Mettere il soggetto al centro del cerchio, aveva scritto papà.

Mi mordicchiai l’interno del labbro inferiore. Non avevo né tagli né carne morta. E l’autunno era troppo inoltrato per i fiori.

Ma contro la base della lapide di fronte a me si era raccolto un piccolo mucchio di foglie secche, quindi mi alzai per prenderne una adatta. Tornata al mio posto, deposi delicatamente la foglia d’acero avvizzita all’interno del mio cerchio. I bordi erano neri e arricciati, ma si vedevano ancora le linee scarlatte delle venature. Gli alberi intorno non perdevano foglie, perciò quella doveva essere rimasta lì dall’inverno precedente. Si era macerata per un bel po’ nel cimitero.

Adesso veniva la parte difficile. Estrassi il temperino dai jeans e feci scattare la lama. Con la punta già appoggiata al pollice sinistro, esitai.

Mi si annodò lo stomaco mentre pensavo a quanto avrebbe fatto male. E se il libro di incantesimi fosse stato un’enorme burla? Ero pazza anche solo a provarci? Era tutta un’assurdità. La magia non esisteva.

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Ma l’aveva scritto papà, e lui non era mai stato così meschino. E non era pazzo, checché ne dicessero. Papà aveva creduto in queste cose, o non ci avrebbe sprecato tempo. E io credevo in papà. Dovevo credergli.

In ogni caso, era solo una goccia di sangue.Spinsi il coltello contro la pelle, senza ferirla ancora. Tremavo

dalla testa ai piedi. Ero sul punto di scoprire se la magia esisteva davvero. Il brivido elettrico del terrore era aspro sulla mia lingua.

Tagliai in profondità.Dalle mie labbra serrate, sfuggì un grido soffocato mentre il

sangue affiorava sulla pelle, scuro come petrolio. Tesi la mano, fissando la grossa goccia che mi scivolava giù per il pollice. Il dolore fu una sofferenza sorda che risalì lungo tutto il braccio e si assestò fastidiosamente nella scapola prima di svanire nel nulla. Mi tremava la mano, e non avevo più paura.

In fretta, feci cadere una, due, tre gocce di sangue sulla foglia. Si raccolsero al centro, formando una piccola pozza. Mi chinai in avanti e guardai il sangue come se potesse restituirmi lo sguardo. Pensai a papà, a quanto mi mancava. Avevo bisogno che fosse vero.

«Ago vita iterum» bisbigliai adagio, lasciando che il mio respiro sfiorasse la foglia e scuotesse la minuscola pozza di sangue.

Non accadde nulla. Il vento tornò a scompigliarmi i capelli, e io misi le mani a coppa intorno alla foglia per ripararla. Guardai in basso, pensando che il mio latino fosse stato incomprensibile. Strizzandomi il pollice ferito, feci uscire e gocciolare altro sangue. Ripetei la frase.

La foglia rabbrividì sotto il mio respiro, e i bordi si distesero come i petali che crescono in un attimo nei documentari sulla natura. Il centro scarlatto si allargò, raggiunse le punte e si trasformò in un verde intenso e luminoso. La foglia giacque lì, all’interno del cerchio, liscia e fresca come appena colta.

Una specie di suono rauco oltre il prato attirò di colpo la mia attenzione.

Un ragazzo mi osservava a occhi spalancati.

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Nicholas

Mi piacerebbe poter dire che ero andato al cimitero in cerca del mio passato, per sentimentalismo o per nostalgia. Ma la realtà è che ci ero andato per allontanarmi il più possibile da quella psicotica della mia matrigna.

Avevamo cenato insieme, lei, mio padre e io, al lungo tavolo della pretenziosa sala da pranzo. Tormentavo il lino bianco della tovaglia e mi chiedevo se, in caso ci avessi versato sopra qualche goccia di vino, Lilith avrebbe rovesciato gli occhi all’indietro e cominciato a recitare versetti della Bibbia al contrario.

«Sei impaziente di tornare a scuola, domani, Nick?» chiese mio padre, portando il bicchiere da vino alla bocca. Riteneva di dovermi far conoscere l’alcol poco a poco e sotto la sua supervi-sione, come se l’alcol e io non avessimo già stretto amicizia nei bagni della scuola quando avevo quattordici anni.

«Quanto di scivolare giù per una collina di lame di rasoio.»«Non sarà così male». Lilith fece scivolare via dalla forchetta

un grosso pezzo di bistecca afferrandolo con i denti: la sua versione di un sorriso di provocazione.

«Giusto. Una nuova scuola proprio all’ultimo anno, nel bel mezzo del fottutissimo nulla. Sono sicuro che sarà fantastico.»

Le sue labbra al Botox si contrassero. «E dai, Nick, dubito che

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qui avrai più problemi a isolarti e a farti emarginare di quanti ne hai avuti a Chicago.»

Misi giù il bicchiere con violenza voluta, rovesciando il vino rosso sulla tovaglia.

«Nick!» Mio padre mi guardò male. Portava ancora la cravatta, anche se era a casa da ore.

«Papà, non hai sentito cosa...»«Hai quasi diciotto anni, figliolo, e devi smetterla...»«Lei ne ha trentadue! Credo che se c’è qualcuno, qui, che deve

comportarsi da persona matura, la precedenza spetti a lei.» Mi alzai in piedi con irruenza. «Ma immagino che questo è quello che ti ritrovi quando sposi una che ha tredici anni meno di te.»

«Fuori di qui» disse mio padre con calma. Lui era sempre calmo.«Fantastico.» Afferrai un gambo di asparago e con quello feci

il saluto a Lilith. Aveva vinto quel round, ma in fondo vinceva sempre, perché si rigirava mio padre come voleva.

Mentre uscivo nell’atrio a grandi passi, sentii Lilith dire: «Non c’è niente di cui preoccuparsi, caro. È a questo che serve la candeggina».

Digrignando i denti, mi fermai un attimo davanti all’armadio dell’ingresso, agguantai una felpa con il cappuccio e uscii sbattendo la porta. Se fossi stato a casa, avrei potuto farmi una corsa lungo l’isolato e arrivare da Trey, poi saremmo andati in un caffè oppure da Mikey, a sparare a qualche alieno sulla sua Xbox. E invece ero solo, fuori da un cascinale del Missouri, senza nient’altro nelle vicinanze se non un vecchio cimitero in rovina. Finii di masticare il gambo di asparago mentre percorrevo deciso il vialetto di ghiaia e chiudevo la cerniera della felpa.

Il sole era sceso dietro i boschi che circondavano la casa, perciò era piuttosto buio. Sopra, però, il cielo era ancora chiaro, e da quel chiarore traspariva solo una manciata di stelle. Cacciai le mani nelle tasche della felpa e mi diressi verso gli alberi. Dalla mia camera da letto vedevo il cimitero, e quello era un momento buono come un altro per scoprire se riuscivo a trovare la tomba del nonno.

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Il nonno era morto durante l’estate e aveva lasciato tutto il suo patrimonio a me. Io che l’avevo incontrato una volta sola, a sette anni, e ricordavo soltanto di essere stato malato per la maggior parte del tempo, mentre lui urlava contro mia madre per qualcosa che non capivo, ma immagino che l’età giochi strani scherzi alle persone, e io ero il suo unico parente in vita oltre alla mamma, che però non parlava più con nessuno dei due.

Già, proprio una bella storia familiare.Poi Lilith e papà erano calati su quello che con ogni probabilità

era stato un incantevole casolare e avevano strappato dai muri tutta la pittoresca carta da parati per sostituirla con uno squallore bianco e nero Art Déco. Se solo la loro vita sessuale fosse stata altrettanto insipida...

Lilith aveva passato parecchi giorni a diffondersi in gridolini di ammirazione sulla campagna. «Che atmosfera perfetta per una scrittrice!», «Oh, caro, lo adoro! Guarda che panorama!» e «Non spenderò mai più tremila dollari per un cappotto firmato!». D’ac-cordo, magari l’ultima frase non l’aveva detta, ma avrebbe dovuto.

La parte peggiore era che papà si era organizzato in modo da stare quattro giorni a settimana a Chicago per mantenere i contatti con i suoi clienti bisognosi. Quindi, non solo mi trovavo in una cittadina di provincia il cui punto di ritrovo più popolare era il Dairy Queen, ma c’ero intrappolato da solo con Lilith.

Se non altro, dovevo vivere in questo posto solo per qualche mese prima del diploma. E se non altro, avevo perso soltanto un mese di scuola, perciò sarei stato davvero in grado di diplomarmi.

Entrai nel bosco. Anche nelle condizioni migliori non distinguo una quercia da un olmo, ma con il sole basso, nella macchia era buio pesto e tutti gli alberi mi si accalcavano intorno come verdi grattacieli di uffici per scoiattoli. E poi era pieno di insetti e rane, che facevano un tale chiasso, ronzante e lagnoso, che non sarei riuscito a sentire la mia stessa voce. Il terreno era ricoperto di strati di vecchie foglie, e quando li sollevavo con i piedi, sentivo l’odore

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di cose deliziose come putrefazione e muffa. Rischiai di inciampare un paio di volte, ma agitai convulsamente le braccia e riuscii ad aggrapparmi a un albero. Era divertente avanzare schiaffeggiando le foglie e i cespugli più bassi, proprio com’era divertente correre tra i mucchi di foglie rastrellate nel giardino di casa nostra quando ero bambino. La mamma era solita far danzare le foglie, e quelle si libravano intorno alla mia testa per poi scendere in picchiata a bombardarmi. Diceva che erano i piccoli aerei degli scarabei e...

No. Ecco perché non volevo essere a Yaleylah. Tutto mi ricor-dava la mamma e altre cose a cui non avrei dovuto pensare. In casa, mi fermavo davanti a ogni porta chiedendomi quale stanza avesse occupato. In cucina, mi chiedevo se avesse imparato da sola a fare quel terrificante sugo per gli spaghetti o se sua madre le avesse dato una mano. Aveva fissato il cimitero dalla finestra come avevo fatto io prima di andare a letto, la sera precedente? Erano tutte cose che non avrei mai saputo perché lei se ne era andata in Arizona fingendo che non esistessi.

Uscii dai boschi del tutto inaspettatamente. Non mi ero neppure accorto che la luce fosse aumentata. Una strada, solo l’impronta di due ruote invasa dalle erbacce in realtà, si interponeva tra me e il muro fatiscente del cimitero. Attraversai raggiungendo le pietre che si sgretolavano e le scavalcai con facilità. Un sottile spicchio di luna mi sorrise tra qualche stella sparsa. Il cielo era violaceo e sereno. E il cimitero si estendeva per almeno quattrocento metri prima di terminare davanti a un’enorme siepe che lo separava dalla casa del nostro vicino più prossimo.

Sembrava da maleducati continuare a prendere a calci l’erba adesso che mi trovavo in un cimitero, perciò rallentai e presi a camminare senza fare rumore. Le lapidi erano in gran parte di gra-nito o di marmo annerito, con gli epitaffi consumati e nascosti dal buio. Riuscivo a leggere alcuni nomi e qualche data che risaliva al milleottocento e qualcosa. Il desiderio di toccarle fu irresistibile, così mi misi a vagare con le mani tese, ora accarezzandone una,

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ora passando solo le dita su un’altra. La pietra era fredda e ruvida, oltre che sudicia. Ad alcune lapidi erano aggrappati fiori morenti. Non c’era uno schema evidente nella disposizione delle tombe. Non appena credevo di avere individuato una fila, quella piegava trasformandosi in un ovale bizzarro o in uno spiazzo. Sarebbe stato difficile che mi perdessi, dal momento che vedevo benissimo la massa nera dei boschi intorno a casa mia da una parte e la casa dei vicini dall’altra. Mi chiesi chi fossero gli abitanti e se anche i campi verso sud appartenessero a loro o a un altro agricoltore.

Era tutto silenzioso, salvo il basso ronzio degli insetti prove-niente dai boschi e l’occasionale scoppio di voci dei corvi che strillavano tra loro. Osservai uno stormo di uccelli allontanarsi in volo, scherzando e beccandosi l’un l’altro, rumorosi, e scoprii che mi stavo rilassando. Almeno potevo trovare un po’ di pace tra i morti. A quest’ora, dovevano essere tutti ridotti in polvere. Eccetto il nonno, forse. Tenni gli occhi aperti alla ricerca di una lapide nuova e scintillante.

Mi chiesi se il nonno mi sarebbe piaciuto, se fossi andato a trovarlo. Possibile. O perlomeno doveroso. Ma non l’avevo mai conosciuto, e papà non parlava della famiglia della mamma, così mi ero limitato a vivere la mia vita senza pensarci. Preoccuparsene non aveva senso, ormai.

A una decina di metri da me, una statua si mosse. Mi irrigidii, poi mi acquattai dietro un obelisco alto un metro e mezzo, simile al monumento a Washington. Sbirciando da dietro l’angolo, mi accorsi che la statua indossava jeans e maglietta, e aveva dei fer-magli nei capelli che mandavano un bagliore viola alla luce della luna. Ero un idiota.

La ragazza si sedette per terra con la schiena appoggiata a una lapide nuova. Un libro riposava aperto accanto a lei, e una borsa di plastica azzurra le sventolava contro un ginocchio. Era magra, con i capelli corti e arruffati in quel modo che mi faceva venir voglia di passarci la mano in mezzo. Ma lei non mi avrebbe aggredito per

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averli spettinati (come certe ragazze di mia conoscenza) perché non avrebbe fatto alcuna differenza. Aprii la bocca per salutarla, ma mi fermai quando la vidi sollevare un temperino e puntarselo contro il pollice.

Cosa diavolo...Dopo un’esitazione, strinse le labbra e si tagliò. No.Il sangue colò sulla sua pelle e io pensai a mia madre, con un

cerotto su ogni dito.Ricordai la mamma che si pungeva l’indice e imbrattava di san-

gue uno specchio per mostrarmi le immagini che prendevano vita sulla sua superficie, o che faceva gocciolare quello stesso sangue su un piccolo stegosauro di plastica, sussurrandogli qualcosa perché agitasse la coda irta di aculei. Non volevo ricordarlo, non volevo sapere che non era stata una forma di pazzia soltanto nostra.

La ragazza si chinò in avanti e bisbigliò alla foglia di fronte a lei. La foglia rabbrividì poi si distese, diventando di un verde brillante.

Cazzo!Lei alzò lo sguardo e mi lanciò un’occhiata. Avevo ancora la

bocca aperta. Non l’avevo visto davvero, maledizione. Non era possibile. Non qui. Non di nuovo.

Mentre richiudevo la bocca con uno scatto, lei si alzò goffamente, il temperino nascosto dietro la schiena.

Feci il giro della lapide, distogliendo lo sguardo dalla foglia e fissandolo sul suo viso. «Scusa» riuscii a rantolare. «Passavo di qui e ho visto...» Tornai a sbirciare la foglia.

«Visto cosa?» sussurrò lei, come se avesse qualcosa in gola.«Niente... niente. Solo te.»La sua espressione rimase guardinga. «Non ti conosco.»«Sono Nicholas Pardee.» Di solito non mi presentavo in quel

modo, ma era come se in quel cimitero dovessi dirle il mio nome per esteso. Come se avesse importanza. «Mi sono appena trasferito nella vecchia casa accanto al cimitero.» Riuscii a non trasalire. Che banalità! “Ciao, mi sono trasferito nella tetra casa del vecchio

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Harleigh e mi piace passeggiare nei cimiteri. In genere, ho con me un grosso cane di nome Scooby.”

«Ah, sì.» Guardò verso casa mia. «L’ho sentito dire. Sono Silla Kennicot. Noi abitiamo da quella parte.» Agitò il coltello dietro di sé, verso la casa lì accanto, poi sembrò ricordarsi all’improvviso di averlo in mano e tornò a cacciarselo dietro la schiena.

Feci un lungo respiro. Bene, era mia vicina. E mia coetanea. E sexy. E forse bacata nella testa. O lo ero io. Perché non era possibile che stesse accadendo. Io, la ragazza sexy e quello che sembrava tanto... No. no. Mi sentivo come se mi fossero spuntati degli aculei da porcospino lungo tutta la schiena. Volevo dire qualcosa di spiacevole per stare meglio, per ritrovare il mio equilibrio, e invece dissi qualcosa di assolutamente patetico. «Silla... Non ho mai sentito questo nome. È carino.»

Lei distolse lo sguardo e la sua espressione si svuotò come un bicchiere. Quando parlò, la sua voce era così sottile che avrebbe potuto infrangersi in mille pezzi. «È il diminutivo di Drusilla. Mio padre insegnava latino al liceo.»

«Ah, latino. Uhm.» Insegnava. Al passato.«Vuol dire qualcosa come “forte”.» Lo disse come se fosse pa-

radossale.Ci fissammo. Ero combattuto tra l’afferrarla e gridarle che sa-

pevo esattamente quello che aveva fatto e che doveva smetterla prima che qualcuno si facesse male... e fare finta che fossimo tutti e due normali e che a me non fregasse niente del sangue. Magari era solo una stupida autolesionista, oppure era stato un incidente. Magari non c’entrava con mia madre. Magari non avevo visto proprio nulla. Respinsi l’idea di abbassare lo sguardo e dare un’altra occhiata alla foglia.

«Vai all’università?» chiese.Sorpreso, risposi a voce un po’ troppo alta. «Oh, no. Comincio

la scuola domani.» Mi produssi nel mio migliore sorriso sarcastico: «Non vedo l’ora».

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«Sei all’ultimo anno?»«Già.»«Allora forse non avremo gli stessi corsi. Io sono al penultimo.»«Io faccio schifo in storia» dissi.«Io sono al corso avanzato.» Sorrise di nuovo, socchiudendo gli

occhi. Così non sembravano più tanto enormi e spettrali.Risi anch’io. «Accidenti.»Silla annuì e guardò in basso. Mentre parlavamo, aveva passato

il piede sulla spirale disegnata nel terriccio. Ormai era solo un insieme di linee confuse e pezzetti di erba secca e foglie. Nessuna traccia di qualcosa di strano. Il sollievo mi rese più sfacciato. «È a posto, la tua mano?»

«Oh.» Mostrò le mani, facendo scivolare il coltello chiuso nella tasca dei jeans. Aveva un anello a ogni dito. Li allargò e si studiò il pollice. Era macchiato di sangue.

«Acqua ossigenata» dissi inaspettatamente. La usava la mamma. Odiavo quell’odore.

«Cosa?»«Dovresti usarla per, ehm, pulire la ferita.»«Non è niente di che. Solo un graffio» mormorò.Eravamo immersi nel silenzio, interrotto solo dai richiami

lontani dei corvi.Silla aprì la bocca, esitò, poi fece un sospiro leggero. «Devo

andare a casa a medicarla.»Avrei voluto avere qualcos’altro da dire. Ma ero intrappolato

tra la voglia di dimenticare ciò che potevo aver visto e quella di chiedere spiegazioni. Sapevo solo che non volevo che se ne andasse. «Posso accompagnarti?»

«No, è tutto a posto. Sono solo due passi.»«Certo.» Mi chinai e raccolsi il libriccino per lei. Era semplice,

senza titolo, e aveva l’aria di essere antico. «Cimelio di famiglia?» scherzai.

Silla si irrigidì, le labbra dischiuse per un attimo come se avesse

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paura, ma poi rise. «Già, esatto.» Scrollò le spalle come se ci fossimo appena scambiati una magnifica battuta e prese il libro. «Grazie. Ci vediamo, Nicholas.»

Alzai una mano e la salutai. Schizzò via, quasi senza rumore. Ma io continuai a sentire il mio nome, che la sua voce tranquilla faceva sembrare lungo e un po’ esotico, anche dopo che era scom-parsa nell’ombra.

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