universitÀ di pisa - core6 metagenome of the human intestinal tract (human microbiome project,...
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UNIVERSITÀ DI PISA
Dipartimento di Farmacia
Corso di laurea specialistica in Farmacia
L’ORGANO INVISIBILE DEL BENESSERE: IL MICROBIOTA INTESTINALE
Candidata:
Rocca Daniela
Relatrici:
Prof.ssa Taliani Sabrina
Dott.ssa Salerno Silvia
ANNO ACCADEMICO 2015/2016
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Indice
1. INTRODUZIONE ...................................................................................................................... 4
1.1. Analisi metagenomica del microbiota ............................................................................. 4
1.2. Composizione e aree anatomiche .................................................................................... 6
1.2.1. Tratto gastrointestinale (GI) ......................................................................................... 6
1.2.2. Pelle ............................................................................................................................... 10
1.3. Funzioni ............................................................................................................................ 11
1.4. Meccanismi dell’omeostasi intestinale .......................................................................... 14
1.5. Eubiosi e disbiosi ............................................................................................................. 24
2. PATOLOGIE ASSOCIATE ALLA DISBIOSI INTESTINALE............................................. 28
2.1. Malattie infiammatorie intestinali - IBD ....................................................................... 28
2.1.1. Fattori di rischio per le IBD ........................................................................................ 29
2.1.2. Microbi e meccanismi coinvolti nelle IBD ................................................................ 34
2.2. Obesità ............................................................................................................................... 40
2.2.1. Meccanismi associati alla patogenesi delle IBD ...................................................... 42
2.3. Diabete .............................................................................................................................. 48
2.4. Artrite reumatoide ........................................................................................................... 50
2.5. Psoriasi .............................................................................................................................. 53
3. TRATTAMENTI RICOSTITUENTI IL MICROBIOTA INTESTINALE ............................ 56
3.1. Probiotici ........................................................................................................................... 56
3.2. Prebiotici ........................................................................................................................... 61
3.3. Sinbiotici............................................................................................................................ 63
3.4. Trapianto di microbiota fecale........................................................................................ 64
4. TERAPIA FARMACOLOGICA PER LE MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI
(IBD) 69
4
4.1. Anti-infiammatori ............................................................................................................ 69
4.1.1. Derivati dell’acido 5-amminosalicilico (5-ASA) ...................................................... 69
4.1.2. Corticosteroidi ............................................................................................................. 71
4.2. Immunosoppresori .......................................................................................................... 74
4.2.1. Azatioprina e 6-Mercaptopurina ............................................................................... 74
4.2.2. Metotrexato .................................................................................................................. 76
4.2.3. Ciclosporina ................................................................................................................. 77
4.3. Antibiotici ......................................................................................................................... 79
4.3.1. Metronidazolo ............................................................................................................. 80
4.3.2. Ciprofloxacina ............................................................................................................. 81
4.4. Anticorpi monoclonali anti-TNFα ................................................................................. 83
4.4.1. Infliximab ..................................................................................................................... 85
4.4.2. Adalimumab ................................................................................................................ 87
5. CONCLUSIONI ....................................................................................................................... 90
6. BIBLIOGRAFIA........................................................................................................................ 92
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1. INTRODUZIONE
Tutti gli organismi pluricellulari vivono in stretta associazione con i
microbi presenti nell’ambiente e gli umani non sono certo un’eccezione.
Tutta la superficie del nostro corpo in diretto contatto con l’esterno,
ovvero la pelle, la cavità orale, l’intero tratto gastro intestinale ed il tratto
uro-genitale, è colonizzata. Il numero totale di questi microorganismi, noti
come microbiota, è 10 volte superiore rispetto a quello delle nostre cellule
(Sekirov & Finlay, 2006) e il numero dei loro geni, il microbioma, supera di
100 volte il corredo genetico umano (Ley, Peterson, & Gordon, 2006). Per
questo motivo gli esseri umani sono ad oggi considerati organismi ibridi,
essendo costituiti sia da cellule umane che microbiche. I microbi
colonizzano il nostro corpo dalla nascita e la loro presenza persiste fino
alla morte, interferendo con il nostro sviluppo anatomico, fisiologico e
immunologico.
1.1. ANALISI METAGENOMICA DEL MICROBIOTA
La nostra conoscenza del microbioma si è accresciuta enormemente
grazie ad una serie di evoluzioni tecnologiche degli ultimi decenni. I
metodi tradizionali basati sulla coltura in laboratorio permettono un tasso
di crescita dell’intera comunità microbica che risulta inferiore all’1%,
5
mentre le tecniche di sequenziamento di nuova generazione (NGS)
rendono possibile il sequenziamento genico e la caratterizzazione di intere
comunità batteriche senza richiedere alcuna crescita in coltura (Shamriz et
al., 2016). Tale processo permette di classificare tassonomicamente i vari
membri batterici basandosi sul sequenziamento di regioni molto
conservate del gene batterico 16S rRNA, amplificandole, tramite l’uso di
primer batterici universali, e procedendo poi all’analisi bioinformatica al
fine di identificare le specie presenti e la loro relativa quantità. Il
sequenziamento shotgun dell’intero genoma ha ulteriormente facilitato
l’identificazione dei geni batterici e la metatrascrittomica ha permesso lo
studio di alcune delle funzioni espletate da queste comunità batteriche
(Goodrich et al., 2014). Queste tecniche sono coadiuvate da due metodi
relativamente nuovi, come la metabolomica e la metaproteomica, che
individuano rispettivamente i metaboliti e le proteine associati al
microbioma. Tali progressi tecnologici, oltre ad aver fornito una visione
senza precedenti sulla diversità delle specie microbiche intestinali, hanno
permesso di individuare la composizione del microbioma sano e quindi i
relativi stadi di alterazione nelle patologie. Attualmente i due più grandi
lavori di sequenziamento sono concentrati sul progetto “Human
Microbiome” del National Institute of Health e sul progetto “MetaHIT –
6
Metagenome of the Human Intestinal Tract” (Human Microbiome Project,
2012; Qin et al., 2010).
1.2. COMPOSIZIONE E AREE ANATOMICHE
1.2.1. Tratto gastrointestinale (GI)
Il tratto gastrointestinale è indubbiamente la regione dell’organismo più
popolata dai microbi, sebbene il numero sia molto variabile lungo i vari
tratti (cavità orale, stomaco, intestino tenue e intestino crasso) e tra questi
il colon è la sede di più del 70% dei microorganismi colonizzanti tutto il
tratto gastrointestinale (Sartor, 2008); per cui, in generale, con il termine
“flora intestinale” si intende principalmente quella del colon.
Tassonomicamente parlando, dei 100 e più phyla batterici esistenti sulla
terra solo alcuni sono stati identificati nel microbiota intestinale umano:
Firmicutes, Bacteroidetes, Proteobacteria, Actinobacteria, Fusobacteria e
Verrucomicrobia (Zoetendal, Rajilić-Stojanović, & De Vos, 2008); di questi, i
Firmicutes e i Bacteroidetes insieme rappresentano il 70% dell’intero
microbiota intestinale (Fig. 1) (Mariat et al., 2009). I Firmicutes intestinali
sono batteri Gram-positivi, rappresentati da specie appartenenti alla classe
dei Clostridia (Faecalibacterium, Ruminococcus e Clostridium), ma anche dai
generi Enterococcus, Lactobacillus e Streptococcus.
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I Bacteroidetes sono invece batteri Gram-negativi e sono presenti
nell’intestino prevalentemente con i generi Bacteroides e Prevotella. Dei
Proteobacteria sono stati individuati Escherichia coli ed Helicobacter pylori,
mentre degli Actinobacteria è maggiormente rappresentato il genere
Bifidobacteria (Eckburg et al., 2005). Nella cavità orale sono state
identificate oltre 700 specie batteriche, per cui questo distretto si trova al
secondo posto nella classifica della diversità microbica del tratto gastro
intestinale dopo il colon (Ge, Rodriguez, Trinh, Gunsolley, & Xu, 2013).
All’interno della cavità orale il microbiota è stato trovato su lingua, pieghe
buccali, mucosa buccale, palato duro e palato morbido, gengive, tonsille,
saliva e superficie dentale. Il progetto “Human Microbiome” ha riferito
che, nonostante le differenze nelle relative quantità, la maggior parte dei
siti campionati della cavità orale conteneva Streptococcus, Veillonella,
Prevotella e Haemophilus e, oltre a questi generi, nei campioni di placca
gengivale prevaleva tra tutti il genere Corynebacterium (Human
Microbiome Project, 2012). Per lungo tempo si è creduto invece che lo
stomaco, essendo la porzione più acida del tratto GI, fosse un ambiente
inadatto a ospitare colonie batteriche, fino alla scoperta dell’Helicobacter
pylori che ha cambiato tale paradigma; oggi infatti sappiamo dell’esistenza
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di un microbiota gastrico, caratterizzato dalla biomassa microbica più
piccola dell’intero tratto GI (Ianiro, Molina-Infante, & Gasbarrini, 2015).
Oltre ai batteri vi sono anche altri microorganismi facenti parte del
microbiota intestinale come Funghi, Archea e Virus, anche se ancora poco
conosciuti e studiati. Le analisi metagenomiche hanno dimostrato che una
vasta comunità di virus colonizza regolarmente il nostro corpo e molti di
questi virus sono unici per ciascun individuo (Minot et al., 2013). Di
questa comunità virale fanno parte sia i virus che infettano gli eucarioti,
che i virus che infettano i procarioti; i primi, colpendo le cellule umane
possono causare gravi ripercussioni sulla salute umana; anche i secondi,
Fig. 1 – Rappresentazione dei principali Phyla, Familiae (F), Classi (C) e generi (g) che
caratterizzano la composizione del microbiota a livello intestinale.
9
cioè i batteriofagi, (W. Wang et al., 2015), sono in grado di influenzare la
salute dell’uomo andando ad alterare la struttura e le funzioni della
comunità batterica.
La similitudine, osservata a livello tassonomico, tra gli individui dei
maggiori phyla che caratterizzano il microbiota intestinale viene
totalmente persa a livello tassonomico delle specie (Frank et al., 2007) e
questo permette di poter considerare la variabilità della composizione del
microbiota come una caratteristica unica di ogni individuo, comparabile
alle impronte digitali. Tale diversità tra gli individui è facilmente
comprensibile se si prendono in considerazione gli innumerevoli fattori
che influenzano la composizione dell’ecosistema microbico come, ad
esempio, stile di vita, dieta, età, sesso, fattori genetici e ambientali,
assunzione di farmaci (Rawls, Mahowald, Ley, & Gordon, 2006). Al fine di
rilevare i cambiamenti nella composizione del microbiota in differenti aree
geografiche, sono stati analizzati i microbiota fecali di soggetti
appartenenti a gruppi etnici, stati e continenti diversi (Arumugam et al.,
2011). Lo studio ha mostrato che la flora intestinale umana può essere
suddivisa in tre gruppi, chiamati Enterotipi, sulla base della variazione di
specifici generi: all’Enterotipo 1 appartengono soggetti con una prevalenza
di batteri del genere Bacteroides; all’Enterotipo 2 soggetti con prevalenza di
10
Prevotella e all’Enterotipo 3 soggetti con prevalenza di Ruminococcus.
Sembrerebbe non esserci alcuna relazione tra gli Enterotipi e l’area
geografica, il sesso, l’età o l’indice di massa corporea (Jeffery, Claesson,
O'Toole, & Shanahan, 2012). Ciascun Enterotipo ha proprietà uniche, ma
in tutti sono presenti funzioni essenziali comuni, che probabilmente sono
quelle necessarie alla sopravvivenza nell’habitat intestinale. Anche se
questi risultati dovranno essere confermati, implicano che ogni Enterotipo
abbia diverse capacità e diverse risposte metaboliche all’alimentazione o ai
farmaci, fornendo così una spiegazione al motivo per cui individui diversi
mostrano diverse risposte ai trattamenti medici.
1.2.2. Pelle
La pelle è l’organo più esteso del corpo umano e possiede tra le altre
funzioni quella fondamentale di barriera fisica di protezione contro gli
agenti esterni. Essa contiene un ecosistema piuttosto complesso e
dinamico che ospita una moltitudine di microorganismi. Tecnicamente il
microbiota della pelle è il più difficile da studiare a causa delle difficoltà
nell’estrazione del DNA da una biomassa batterica così piccola (Castelino,
Eyre, Upton, Ho, & Barton, 2014). A differenza del tratto GI, del quale i
campioni di microbioma fecale sono rappresentativi della combinazione
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dei suoi segmenti, i campioni di cute di zone diverse del corpo sono
influenzate unicamente dall’ambiente circostante. La pelle, in base al
contenuto di acqua e lipidi, può essere genericamente classificata in
sebacea, umida e secca e ognuna di queste tipologie è dominata da batteri
diversi (Grice, 2014). I membri di β-Proteobacteria, Flavobacteriales e alcune
specie di Corynebacterium predominano nel microbiota in luoghi in cui la
cute è asciutta mentre i siti cutanei umidi, come ascelle e narici, sono
sempre dominati da questi generi, ma contengono anche quantità
maggiori di alcune specie di Staphylococcus. La cute sebacea invece
differisce sia da quella umida che da quella secc,a ed è caratterizzata dalla
prevalenza del genere Propionibacterium (SanMiguel & Grice, 2015). Anche
se normalmente la maggior parte di questi batteri risiede sulla parte
superiore dell’epidermide, lo strato corneo, molti di essi possono
penetrare anche all’interno degli strati più profondi della pelle e causare
stati infiammatori (Nakatsuji et al., 2013; Zeeuwen et al., 2012).
1.3. FUNZIONI
Il microbiota intestinale va considerato come un vero e proprio organo
con funzioni ben definite, composto da diverse linee cellulari
(rappresentate dalle diverse specie microbiche) che comunicano tra loro e
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con le cellule dell’organismo ospite e consumano, preservano e
ridistribuiscono l’energia, operando fisiologicamente delle importanti
trasformazioni chimiche e strutturali. Le principali attività svolte dal
microbiota intestinale includono funzioni strutturali e metaboliche,
funzione di barriera contro i microbi esogeni, attivazione e sviluppo del
sistema immunitario dell’ospite. Una delle funzioni principali dei batteri
intestinali è quella di migliorare l’efficienza digestiva e metabolica
dell’ospite, in quanto degradano i polisaccaridi ingeriti con la dieta come
pectina, cellulosa, emicellulosa e amido resistente e sintetizzano per
l’ospite cofattori enzimatici importanti, quali la vitamina K e parecchie
componenti della vitamina B. È questa la funzione più importante per
l’evoluzione del rapporto tra mammifero ospite e microorganismi (Ley,
Lozupone, Hamady, Knight, & Gordon, 2008). Il reclutamento di una
comunità batterica complessa e dinamica ha infatti permesso ai
mammiferi di acquisire un metagenoma adattabile che fornisce una
varietà di enzimi saccarolitici in modo da compensare la scarsa presenza
di tali enzimi nel genoma dell’ospite. Microorganismi commensali come i
Bacteroides thetaiotaomicron sono adattati unicamente per la captazione dei
nutrienti luminali, come dimostra la presenza di un numero insolitamente
elevato in questi organismi di geni che codificano per enzimi degradanti i
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carboidrati, ovvero 260 geni codificanti per altrettante idrolasi (Xu &
Gordon, 2003). Inoltre, il microbiota intestinale massimizza la disponibilità
calorica dei nutrienti ingeriti tramite l’estrazione di ulteriori calorie dagli
oligosaccaridi indigeribili dall’ospite e la modulazione della capacità di
assorbimento dell’epitelio intestinale e del metabolismo dei nutrienti
(Hooper et al., 2001).
Un altro importante ruolo rivestito dai batteri intestinali prevede la
protezione dell’ospite dai microorganismi potenzialmente patogeni
attraverso vari sistemi; in primo luogo si verificano dei fenomeni di
competizione per i nutrienti e le nicchie ecologiche e molti batteri
intestinali patogeni, rispetto ai batteri commensali, sono scarsamente
predisposti all’adattamento nell’ambiente luminale, motivo per cui la loro
colonizzazione è molto ridotta. In secondo luogo avviene la stimolazione
da parte dei microorganismi residenti delle risposte immunitarie
dell’ospite contro gli eventuali agenti patogeni. Per esempio, l’invasione e
diffusione di Salmonella enterica sierotipo Thyphimurium sono limitate dalle
risposte immunitarie indotte dalla stimolazione dei recettori epiteliali Toll-
like (TLRs) da parte dei batteri simbionti (Vaishnava, Behrendt, Ismail,
Eckmann, & Hooper, 2008). Questi forniscono anche una risposta
immunitaria protettiva contro il protozoo parassita Toxoplasma gondii
14
attivando la produzione di citochine da parte delle cellule dendridiche
(Benson, Pifer, Behrendt, Hooper, & Yarovinsky, 2009). In alcuni casi
anche gli stessi componenti del microbiota, come i Lactobacillus e Bacillus,
producono sostanze antimicrobiche (batteriocine) attive contro un ampio
range di batteri entero-patogeni (Liévin-Le Moal & Servin, 2006). Tuttavia,
queste sostanze antimicrobiche spesso tendono ad esplicare la loro attività
su gruppi batterici simili ai batteri che le hanno prodotte e questa risulta
essere una ulteriore strategia per allontanare i potenziali “concorrenti”
dalle nicchie occupate.
Da parecchi decenni siamo a conoscenza anche della capacità dei batteri
intestinali di metabolizzare i farmaci, ma un numero sempre maggiore di
evidenze sperimentali ha adesso fornito indicazioni sufficienti sul ruolo
che il microbiota intestinale ha sul metabolismo dei farmaci e questo
potrebbe avere un profondo impatto sulle future terapie per varie
malattie.
1.4. MECCANISMI DELL’OMEOSTASI INTESTINALE
Far parte della comunità microbica dell’intestino non implica
necessariamente che una particolare specie sia del tutto benigna verso il
suo ospite: anche se molti microorganismi intestinali stabiliscono delle
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relazioni reciprocamente vantaggiose con i loro ospiti, specifici membri
del microbiota possono avere funzioni al limite tra mutualismo e
patogenicità. Ad esempio, l’Enterococcus faecalis è un batterio Gram-
positivo che costituisce un importante membro del microbiota intestinale
umano, ma può opportunisticamente invadere i tessuti della mucosa e
causare batteriemia ed endocardite (Klare, Werner, & Witte, 2001). Allo
stesso modo il Gram-negativo Bacteroides fragilis, anch’esso membro di
rilievo del microbiota, che è strettamente associato con le superfici della
mucosa, può talvolta invadere i tessuti intestinali (Kuwahara et al., 2004).
Sebbene in soggetti in stato di salute sia E. fecalis che B. fragilis siano sotto
controllo, in soggetti immunodeficienti potrebbero costituire una grave
minaccia di invasione tissutale e causare malattie. È chiara quindi
l’importanza del mantenimento di un equilibrio tra l’ecosistema microbico
intestinale e le difese immunitarie dell’ospite, ma anche all’interno
dell’ecosistema microbico stesso al fine di poter mantenere il corretto
rapporto mutualistico. Tale condizione di equilibrio, detta “omeostasi
intestinale”, è attuata dal sistema immunitario associato alla mucosa
attraverso due funzioni principali: a) essere in grado di controllare la
crescita microbica per evitare che possa aumentare eccessivamente e
causare l’invasione tissutale da parte dei microbi e la loro traslocazione ai
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siti sistemici; b) riuscire a tollerare la presenza microbica e prevenire così
l’induzione di una eccessiva e lesiva risposta immunitaria dell’ospite
(Hooper & Macpherson, 2010). Un elemento chiave della strategia
intestinale dei mammiferi per il mantenimento dell’omeostasi con la
microflora è minimizzare il contatto tra i microorganismi del lume e la
superficie delle cellule epiteliali intestinali; questo si ottiene rinforzando la
barriera fisica attraverso la produzione di muco, proteine antimicrobiche e
IgA.
Il primo meccanismo è attuato dalle Globet cells - cellule caliciformi (Fig.
2) che sono cellule epiteliali specializzate nella produzione delle
glicoproteine mucine, che si assemblano per glicosilazione in uno strato
viscoso simile a gel che si estende per 150 µm dalla superficie delle cellule
Fig. 2 – Meccanismo di produzione del muco da parte delle
cellule caliciformi
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epiteliali intestinali formando due strati strutturalmente distinti (Figura.
2).
Il modello delle relazioni spaziali tra il muco, i batteri e l’epitelio indica
che lo strato interno di muco delinea una zona protetta sulla superficie
apicale delle cellule epiteliali, mentre lo strato di muco esterno contiene un
numero piuttosto elevato di batteri (Johansson et al., 2008).
È stato sperimentalmente osservato che topi knockout per il gene MUC2,
codificante per la glicoproteina mucina intestinale, non presentano questo
strato interno di muco privo di batteri e sono affetti da infiammazioni
intestinali spontanee; questo sottolinea l’importanza della barriera di
muco nel mantenimento del rapporto simbiotico con il microbiota (Van
der Sluis et al., 2006). Molti batteri patogeni si sono evoluti tramite
strategie specifiche atte a penetrare lo strato di muco al fine di accedere
alla superficie della cellula epiteliale. Ne è una dimostrazione l’Helicobacter
pylori che si serve di ureasi per aumentare il pH nelle immediate vicinanze
del suo microambiente il quale, a sua volta, riduce la viscosità del muco
permettendo all’organismo di farsi strada all’interno dello strato di muco
che ricopre la parete dello stomaco (Celli et al., 2009). Altri patogeni, come
Campylobacter jejuni e alcune specie di Salmonella, utilizzano i loro flagelli
per penetrare lo strato di muco (Guerry, 2007). Tuttavia è importante
18
sottolineare che la presenza dei flagelli e la capacità di penetrare il muco
non sono fattori sufficienti per la patogenicità. Infatti, la maggior parte dei
Firmicutes commensali intestinali sono provvisti di flagelli e sono in
grado talvolta di penetrare lo strato di muco per colonizzare la superficie
cellulare, ma non possono per tali caratteristiche essere definiti patogeni
(Ivanov et al., 2009).
Il secondo meccanismo immunitario che limita il contatto tra la
cellula epiteliale e i batteri consiste nella secrezione di proteine
antimicrobiche da parte delle cellule epiteliali intestinali (Figura 3).
Contrariamente a ciò che accade nel colon, dove il muco gioca un
importante ruolo nel mantenimento delle difese, nell’intestino tenue, dove
il muco si presenta discontinuo e inefficiente, le proteine antimicrobiche
hanno invece un ruolo principale (Jandhyala et al., 2015). Queste proteine
fanno capo a diverse famiglie che includono le defensine, catelicidine e
lecitine di tipo C. Molte di queste uccidono i batteri direttamente
attraverso un attacco enzimatico della parete cellulare o distruggendo la
membrana batterica interna. Inoltre, un sottoinsieme ristretto di proteine
antimicrobiche, tra cui lipocalin 1, ha la funzione di privare i batteri di
metalli essenziali come il ferro (Flo et al., 2004).
19
L’espressione dei diversi sottoinsiemi di proteine antimicrobiche è
regolata da meccanismi distinti (Fig. 3).
Diverse proteine antimicrobiche, tra cui la maggior parte delle α-
defensine, sono espresse costitutivamente nelle cellule epiteliali e non
richiedono segnali batterici per la loro espressione. Tuttavia, l’espressione
di altri tipi di proteine antimicrobiche è controllata e indotta da pattern
molecolari associate ai batteri (MAMP), che sono unici per questi e altri
microorganismi. Queste molecole derivanti dai batteri vengono
riconosciute dal recettore Toll-like (TLR) che, attivandosi, determina
Fig. 3 - Meccanismi di regolazione dell’espressione delle proteine antimicrobiche:
espressione costitutiva, espressione indotta da TLR e NOD2
20
l’espressione della proteina antimicrobica REG3γ a livello dell’intestino
tenue (Brandl, Plitas, Schnabl, DeMatteo, & Pamer, 2007).
Analogamente, nel citoplasma di cellule epiteliali specializzate dette
Paneth cells, il recettore NOD2 (Nucleotide-binding oligomerization domain-
containing protein 2) induce l’espressione di alcune α-defensine, in seguito
ad attivazione per riconoscimento del Muramil dipeptide, un costituente
del peptidoglicano batterico (Kobayashi et al., 2005). L’attivazione di tali
sistemi recettoriali induce inoltre una cascata di segnali che coinvolgono il
fattore nucleare Nf-kb, il quale stimola l’espressione di geni che codificano
per molecole pro-infiammatorie, che attivano le risposte immunitarie
(Hayden, West, & Ghosh, 2006).
Misurazioni biochimiche dell’attività antimicrobica di tali molecole
indicano che le proteine con questa attività secrete dalle cellule epiteliali
sono contenute all’interno dello strato di muco e che sono virtualmente
assenti dal lume intestinale (Meyer-Hoffert et al., 2008). Questo suggerisce
che lo strato di muco protegge la superficie delle cellule epiteliali in
almeno due modi: limitando l’accesso dei batteri luminali all’epitelio,
formando una barriera all’interno della quale sono ben diffuse le proteine
antimicrobiche nei pressi della superficie epiteliale. Tuttavia molti
patogeni gastrointestinali hanno sviluppato meccanismi di resistenza
21
contro l’azione delle proteine antimicrobiche: Listeria monocytogenes attua
la deacetilazione del suo peptidoglicano in modo da non subire l’attacco
dei lisozimi, enzimi secreti dalle cellule epiteliali intestinali che degradano
la parete cellulare (Boneca et al., 2007).
Il terzo meccanismo per la limitazione della crescita batterica consiste
nella secrezione di IgA (Figura 4). Queste limitano la presenza dei batteri
sulla superficie delle cellule epiteliali e la penetrazione dei simbionti lungo
tutto l’epitelio intestinale (Macpherson & Uhr, 2004).
Fig. 4 - Produzione di IgA contro i batteri intestinali e attivazione del sistema immunitario.
Le IgA specifiche contro i batteri intestinali sono prodotte grazie alle
cellule dendritiche, ovvero cellule del tessuto linfoide associato alla
22
mucosa specializzate nella presentazione degli antigeni alle cellule
linfocitarie T e B. Esse sono situate nel tessuto connettivo della lamina
propria, al di sotto dello strato epiteliale e attuano il campionamento di un
piccolo numero di batteri luminali estendendo i loro dendriti attraverso le
cellule epiteliali, per poi migrare ai linfonodi mesenterici e indurre la
differenziazione delle cellule T e B (Rescigno et al., 2001), oppure
all’interno di strutture linfoidi note come Peyer’s patchs contenenti anche
follicoli di cellule B e T. Lo strato epiteliale sovrastante le Peyer’s patchs è
costituito da particolari cellule linfoidi, le Microfold cells, che hanno il ruolo
di trasferire per endocitosi i batteri presenti nel lume intestinale tramite la
membrana apicale, e per mezzo di vescicole portarli alla membrana
basolaterale; qui essi vengono rilasciati per esocitosi e processati dalle
cellule dendritiche, che presentano i loro antigeni alle cellule T e B, le
ultime delle quali si differenzieranno nei linfonodi mesenterici in plasma
cellule. Queste ultime migreranno poi dai siti linfoidi alla lamina propria
producendo le IgA specifiche contro quei batteri di cui erano stati
presentati gli antigeni, rilasciandole nel lume intestinale tramite transcitosi
epiteliale (Macpherson & Uhr, 2004).
Per poter permettere l’instaurarsi ed il mantenersi dell’omeostasi
intestinale, oltre a questi meccanismi che limitano il contatto tra i microbi e
23
la parete epiteliale intestinale, il sistema immunitario deve provvedere
anche alla modulazione delle proprie risposte, al fine di tollerare la
costante presenza dei batteri luminali. Come visto, il riconoscimento di
pattern molecolari associati ai batteri e il processo di presentazione degli
antigeni da parte delle cellule dendritiche inducono in diversi modi
l’attivazione del sistema immunitario con conseguente risposta
infiammatoria; in un individuo sano, questa continua attivazione
immunitaria, chiamata “infiammazione fisiologica” è strettamente
controllata da specifici meccanismi che permettono di attenuare o inibire i
segnali pro-infiammatori al fine di poter mantenere l’omeostasi (Cario,
2002). Il microbiota stesso contribuisce al controllo delle risposte
immunitarie. Gli acidi grassi a catena corta (SCFA), prodotti dai batteri
luminali in seguito al metabolismo dei polisaccaridi provenienti dalla
dieta dell’ospite, regolano costantemente le funzioni immunitarie innate e
adattative dell’ospite: tra questi acidi grassi, il butirrato regola l’attività dei
macrofagi intestinali e induce l’attivazione e la differenziazione delle
cellule Treg, ovvero particolari cellule linfocitarie T, che hanno
l’importante ruolo di sopprimere l’induzione e l’attivazione dei processi
infiammatori. Da alcuni studi è emerso anche che l’espressione dei
recettori Toll-like (TLR), dietro la continua stimolazione delle varie
24
componenti molecolari dei batteri commensali, viene ridotta con una
conseguente diminuzione della produzione di citochine e altre molecole
pro-infiammatorie (Cebra, 1999). Inoltre, la distribuzione strategica di
questi sistemi recettoriali è importante anche per la discriminazione tra
patogeni e commensali, ovvero i luoghi in cui i ligandi batterici
interagiscono con i sistemi recettoriali: quando l’interazione avviene in
zone dove normalmente non è prevista la presenza dei batteri, questi
vengono rilevati come agenti patogeni e di conseguenza viene indotta
un’adeguata risposta immunitaria (Neish, 2009).
1.5. EUBIOSI E DISBIOSI
La composizione del microbiota intestinale è influenzata da molti
fattori come la genetica, l’ambiente, l’alimentazione e l’assunzione di
farmaci. Le molecole associate al microbiota e i suoi prodotti metabolici
sono in grado di influenzare la digestione, la motilità intestinale, la riserva
di energia, l’effetto barriera e l’immunità della mucosa (Montalto,
D'Onofrio, Gallo, Cazzato, & Gasbarrini, 2009). Alcune componenti del
microbiota o microbioma possono entrare anche nella circolazione
sistemica e raggiungere vari organi, dei quali riescono a influenzare
sviluppo e funzionalità: cervello (funzioni cognitive), fegato (metabolismo
25
lipidico e dei farmaci) e pancreas (metabolismo del glucosio), (Korecka &
Arulampalam, 2012). Dunque la consapevolezza che componenti
batteriche strutturali o i loro metaboliti siano sufficienti per indurre lo
sviluppo degli organi e dei processi fisiologici dell’ospite, ci fa
comprendere l’importanza dell’ecosistema microbico nel mantenimento di
un corretto stato di salute. Il bilanciamento dell’ecosistema microbico
intestinale, chiamato eubiosi, è un concetto fondamentale.
Già nel lontano 400 a.C. Ippocrate disse “La morte inizia
nell’intestino” e ancora “La cattiva digestione è l’origine di tutti i mali”. Il
biologo russo Elie Metchnikoff, vissuto tra il 1845 ed il 1916, suggerì per
primo che molte malattie hanno inizio nel tratto digestivo, dove i batteri
“buoni” non sono più in grado di controllare i batteri “cattivi” e chiamò
questa condizione disbiosi, intendendo con questo termine un ecosistema
nel quale i batteri non si trovano più in uno stato di convivenza armonica
e mutualistica. Un microbiota intestinale sano in uno status di eubiosi è
caratterizzato da una elevata diversità di specie microbiche nella quale vi è
una preponderanza di specie potenzialmente benefiche, appartenenti ai
due principali phyla Firmicutes e Bacteroidetes, rispetto alle specie
potenzialmente patogene, come i batteri appartenenti al phylum
26
Proteobacteria, che sono presenti in basse percentuali (Y. J. Zhang et al.,
2015).
L’importanza del mantenimento di una condizione di eubiosi
nell’ecosistema microbico intestinale è rapidamente evidenziata quando si
analizzano alcune delle sequele di un trattamento antibiotico (Sekirov,
Russell, Caetano M Antunes, & Finlay, 2010). La principale conseguenza
di un trattamento antibiotico è la rottura dell’equilibrio dell’ecosistema,
portando a fenomeni di diarrea; l’eziopatologia della diarrea può esser
dovuta alla proliferazione patologica di un patogeno opportunistico
membro endogeno del microbiota, come il Clostridium difficile (McFarland,
2008) o gli enterococchi vancomicina-resistenti (Crouzet, Rigottier-Gois, &
Serror, 2015). Inoltre, dopo un trattamento antibiotico i pazienti sono più
esposti a infezioni sostenute da patogeni esogeni a causa della perdita
dell’integrità del microbiota e della sua funzione di barriera. Per questo
possiamo affermare che sia i patogeni opportunistici endogeni che quelli
esogeni beneficiano dallo stato di disbiosi, e la risposta dell’ospite va
ulteriormente a promuovere ed aggravare questo stato promuovendo
l’infiammazione. Sostanze come nitrati, S-ossidi e N-ossidi, generati come
sottoprodotti dei processi infiammatori, possono rappresentare un
vantaggio di crescita per quei batteri anaerobi facoltativi, solitamente
27
presenti in scarse quantità, che riescono a utilizzare tali sostanze come
accettori terminali di elettroni per poter attuare la respirazione anaerobica.
Infatti, in uno stato di infiammazione intestinale prevale nel microbiota il
batterio anaerobio facoltativo Escherichia coli che, a differenza della
maggior parte dei batteri anaerobici intestinali, riesce ad effettuare la
respirazione anaerobica, e quindi a proliferare adattandosi e utilizzando
alcuni dei sottoprodotti dell’infiammazione (Winter et al., 2013).
Nell’instaurarsi di uno stato di disbiosi, oltre ad un significante
aumento di specie come E. coli, è stata rilevata per contro anche una
diminuzione di specie batteriche benefiche, come l’anaerobio obbligato
Faecalibacterium prausnitzii, definito come batterio antiinfiammatorio
(Sokol et al., 2008).
28
2. PATOLOGIE ASSOCIATE ALLA DISBIOSI
INTESTINALE
In questi ultimi decenni i Ricercatori hanno rivolto sempre
maggiore attenzione allo studio del microbiota: sono state infatti
evidenziate svariate correlazioni tra lo stato di disbiosi intestinale e
molte malattie tipicamente denominate “occidentali”, ovvero patologie
non molto comuni in passato, che però nell’ultimo secolo sono emerse
con frequenza allarmante nei paesi industrializzati, dove sono
avvenuti importanti cambiamenti nell’alimentazione, nell’ambiente e
nelle regole sociali (Kaplan, 2015). Questi disturbi variano dalle
patologie autoimmuni, come le malattie infiammatorie intestinali
(IBD), l’artrite reumatoide (RA), la psoriasi e la sclerosi multipla (MS),
alle malattie come la sindrome metabolica, ovvero l’obesità e il diabete
(Shamriz et al., 2016).
2.1. MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI - IBD
Le malattie infiammatorie intestinali, il cui termine inglese è
Inflammatory Bowel Diseases (IBD), sono stati patologici con eziologia
sconosciuta caratterizzati da flogosi croniche a carico del tratto
intestinale e che colpiscono più di un milione di individui negli USA e
29
più di 2.5 milioni di persone in Europa. Tuttavia, tali malattie si stanno
espandendo rapidamente anche in Asia, Sud America e Medio Oriente
con l’aumento dei livelli di industrializzazione. Esse si dividono in due
principali fenotipi clinici secondo analisi strutturali e istopatologiche,
Colite Ulcerosa (UC) e Morbo di Crohn (CD), descritti per la prima
volta rispettivamente nel 19° e 20° secolo (Kirsner, 1988).
La colite ulcerosa è caratterizzata dall’infiammazione della
mucosa a livello del colon, che parte dal retto e si estende nelle regioni
circostanti in maniera continua. Al contrario, il morbo di Crohn può
colpire qualsiasi parte del tratto gastro intestinale; le sue lesioni sono
focali e transmurali e possono portare ad ulcerazioni profonde con
possibile sviluppo di fistole, ascessi e stenosi. Spesso tali patologie
prevedono delle recidive croniche che possono essere trattate
farmacologicamente, ma che nei casi più gravi poossono richiedere
degli interventi chirurgici.
2.1.1. Fattori di rischio per le IBD
Un ruolo dei microbi intestinali nelle IBD era già stato sospettato
nelle prime discussioni sui potenziali agenti infettivi, ma nessun agente
microbico aveva provato di poter causare una IBD. Da studi di
30
associazione genomica sono state identificate molte varianti genetiche
di rischio per le IBD; per esempio, alcune varianti sono risultate
coinvolte nella mediazione delle risposte dell’ospite al microbiota
intestinale. Ciò ha sollevato l’ipotesi che i membri commensali della
comunità batterica svolgessero un ruolo nell’eziopatogenesi delle IBD,
soprattutto in condizioni adatte allo sviluppo della proprietà di
virulenza. La scoperta di CARD15 (gene codificante per il recettore
NOD2) e altri geni con suscettibilità genetica alle IBD sottolinea
l’importanza delle risposte immunitarie innate e acquisite dall’ospite
per il microbiota intestinale.
Mutazioni che potenzialmente alterano l’espressione o la
funzione di questi geni possono quindi promuovere la crescita
batterica e favorire una loro associazione sempre più stretta con
l’epitelio della mucosa, in modo da instaurare uno stato di
infiammazione persistente, contribuendo così all’insorgere della
malattia. Analisi effettuate su campioni fecali e biopsie intestinali di
topi NOD2 knockout e su pazienti affetti da IBD, con alleli di rischio per
NOD2, hanno effettivamente mostrato un aumento di alcuni phyla
batterici come Bacteroides, Actinobacteria, Proteobacteria e di questi ultimi
in particolare si è rilevato un consistente aumento degli appartenenti
31
alla classe delle Enterobacteriaceae (Frank et al., 2011; Knights et al.,
2014). Anche i batteri intestinali sembrano influenzare l’espressione
genica di NOD2, secondo quanto rilevato dagli studi su topi germ-free
(topi che non sono mai venuti a contatto con microorganismi, nati e
cresciuti in totale sterilità), che non mostravano l’espressione di NOD2
a livello dell’ileo terminale, effetto che poteva essere ripristinato
introducendo nel topo una flora batterica intestinale (Petnicki-Ocwieja
et al., 2009).
Tuttavia, è importante notare che nella maggior parte dei casi la
suscettibilità genetica non è sufficiente a causare IBD; la
manifestazione delle IBD nell’uomo può essere dovuto a ulteriori
difetti genetici che colpiscono diversi livelli del controllo immunitario
del microbiota.
Il notevole aumento riscontrato nell’incidenza delle IBD in questa
breve scala evolutiva di soli cento anni non può quindi essere attribuito
ai soli fattori genetici, ma è più probabilmente causato da fattori
ambientali e sociali. A questo proposito, il sempre più crescente e
promiscuo uso degli antibiotici può aver contribuito allo sviluppo delle
alterazioni del microbiota intestinale, soprattutto durante l’infanzia.
Studi effettuati in Danimarca e Finlandia hanno mostrato,
32
rispettivamente, un maggiore rischio relativo per le IBD nei bambini
che utilizzavano antibiotici rispetto ai bambini che non ne assumevano,
e un aumento del rischio nello sviluppo pediatrico del morbo di Crohn
proporzionale alla quantità di antibiotici assunti dalla nascita (Hviid,
Svanstrom, & Frisch, 2011; Virta, Auvinen, Helenius, Huovinen, &
Kolho, 2012). Nel Regno Unito uno studio retrospettivo ha indicato che
l’esposizione durante l’infanzia ad antibiotici aventi come target
specifico i batteri anaerobi è associata allo sviluppo di IBD (Kronman,
Zaoutis, Haynes, Feng, & Coffin, 2012). Inoltre, da studi effettuati sui
topi si è osservato che l’esposizione agli antibiotici nel primo periodo
della vita influenza il microbiota intestinale in modi che possono
portare ad effetti a lungo termine sul metabolismo e sullo sviluppo
(Cho et al., 2012).
Anche i miglioramenti delle prassi igieniche e delle condizioni
ambientali avvenuti in quest’ultimo secolo sono coinvolti nella crescita
dell’incidenza e predominanza delle IBD. L’“ipotesi dell’igiene”
propone che la riduzione di importanti ceppi microbici necessari per
la stimolazione del sistema immunitario dell’ospite abbia l’effetto di
diminuire la diversità microbica intestinale, e che le alterate interazioni
microbi-ospite possano promuovere la malattia nei soggetti predisposti
33
(Wills-Karp, Santeliz, & Karp, 2001). A tal riguardo, uno studio
condotto in India ha mostrato come il morbo di Crohn fosse
positivamente associato alla vita cittadina e al consumo di acqua
potabile sicura e negativamente associato alla presenza di animali
all’interno delle abitazioni (Pugazhendhi, Sahu, Subramanian,
Pulimood, & Ramakrishna, 2011). Ancora, Chung e colleghi,
colonizzando dei topi germ free con microbiota murino e umano,
hanno osservato che il microbiota umano non era tale da permettere il
corretto sviluppo del sistema immunitario intestinale a causa di una
mancata corrispondenza tra microbi e ospite. Come conseguenza, i topi
colonizzati col microbiota umano risultavano più suscettibili a
infezioni da Salmonella piuttosto che i topi trapiantati col microbiota
murino (Chung et al., 2012).
Con industrializzazione e occidentalizzazione la dieta e le
abitudini alimentari sono cambiate enormemente. Oltre ad essere
caratterizzata dall’aumento del consumo calorico giornaliero,
l’alimentazione è diventata più ricca di grassi e zuccheri raffinati e più
carente in fibre e carboidrati complessi. Uno studio sull’alimentazione
controllata ha messo in evidenza che la composizione del microbiota
intestinale varia drasticamente con un regime alimentare ricco di grassi
34
e povero di fibre, rispetto ad una dieta con alti livelli di fibre e a basso
contenuto di grassi (Wu et al., 2011). Ricerche condotte sui topi hanno
messo in correlazione i differenti tipi di alimentazione con diversi
effetti sul microbiota intestinale. Una dieta ricca di grassi saturi del
latte, ad esempio, causa mutazioni nella flora batterica che favoriscono
la crescita dei Proteobacteria, in particolare Bilophila wadsworthia,
comparata ad una dieta isocalorica e isoazotata, ma ricca di grassi
polinsaturi; questo aumento di B. wadsworthia indotto dalla dieta
aumenta l’incidenza e la gravità delle coliti spontanee nei topi
geneticamente suscettibili con decifit di IL-10 (interleuchina
antinfiammatoria) (Devkota et al., 2012).
2.1.2. Microbi e meccanismi coinvolti nelle IBD
Le IBD sono state associate a diversi cambiamenti, sia nella
struttura (composizione), che nelle funzioni del microbiota intestinale.
Dalle analisi effettuate su campioni di materiale fecale e, in alcuni casi,
di biopsie intestinali, derivanti da pazienti affetti da IBD, emerge nella
maggior parte dei casi una diminuzione nella diversità della specie
nella comunità microbica, accompagnata da un aumento di
Enterobacteriaceae e Neisseriaceae (Proteobacteria), Bacteroidetes,
35
Fusobacteriaceae, e dalla diminuzione di particolari specie benefiche di
Firmicutes, come il Faecalibacterium prausnitzii e i gruppi IV e XIV di
Clostridium (Fig. 5), (Miyoshi & Chang, 2016; Shamriz et al., 2016).
A tali alterazioni strutturali sono state associate corrispondenti
alterazioni funzionali rilevate da ulteriori studi e da dati clinici relativi
a pazienti con forme attive di IBD. La diminuzione di queste sostanze
nei pazienti affetti da IBD è stata associata alla diminuzione di specie
batteriche che producono acidi grassi a catena corta (SCFA), come il F.
prausnitzii e i gruppi IV e XIV dei Clostridium. Molti degli acidi grassi a
catena corta prodotti dai batteri in seguito a fermentazione di fibre,
Fig. 5 - Alterazioni nella composizione microbica intestinale associate alle
malattie infiammatorie intestinali - IBD
36
come il butirrato, sono degli importanti mediatori dell’omeostasi, sia
tramite l’attivazione delle cellule Treg, sia attraverso il loro legame al
recettore 43 accoppiato a proteina G (GPR43), che da alcuni studi
risulterebbe essere necessario per la risoluzione delle risposte
infiammatorie. Quindi la diminuzione nella loro produzione può
contribuire alla gravità e alla cronicizzazione delle IBD (Maslowski et
al., 2009).
Nei campioni fecali di pazienti affetti da colite ulcerosa è stato
riscontrato un notevole aumento di batteri solforiduttori
(Proteobacteria), i quali hanno la capacità peculiare di associare la
fosforilazione ossidativa con la riduzione del solfato a solfuro di
idrogeno H₂S; questo composto risulta altamente tossico in quanto
nell’ambiente intestinale del colon inibisce le stesse reazioni
metaboliche che producono energia e modula l’espressione di geni
coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare e nei meccanismi di
riparazione del DNA (Attene-Ramos et al., 2010; Roediger, Moore, &
Babidge, 1997). Molti di questi batteri hanno delle straordinarie
capacità antiossidanti, il che fornisce loro un notevole vantaggio per la
sopravvivenza nell’ambiente ostile dell’infiammazione intestinale.
37
Un tipico segno di disbiosi intestinale è l’aumento di specie
appartenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae (Proteobacteria),
soprattutto del batterio Escherichia coli. La caratterizzazione genomica
di ceppi di E. coli associati alla mucosa, isolati da campioni bioptici
raccolti da pazienti affetti da morbo di Crohn e coliti ulcerose, ha
mostrato l’associazione tra particolari varianti genomiche di E. coli e
differenti tipi di IBD (Schippa et al., 2009). La specifica
caratterizzazione di un ceppo di E. coli, isolato dalla mucosa di pazienti
adulti con morbo di Crohn, ha portato all’identificazione di un nuovo
patotipo chiamato “adherente-invasive Escherichia coli” (AIEC); questi
ceppi agiscono come patogeni entero-invasivi ma con specifiche
caratteristiche che li differenziano da altri sottotipi di E. coli entero-
invasivi (Darfeuille-Michaud, 2002). I ceppi di AIEC sono stati isolati
nel 60% dei pazienti adulti con morbo di Crohn e nel 16.7% dei soggetti
sani; questo indica chiaramente che varianti genomiche di E. coli simili
ai ceppi AIEC possono essere normalmente presenti in un soggetto
sano, ma in quantità relativamente basse, e tale variante può
rappresentare un ceppo patogeno la cui crescita è favorita
nell’ambiente infiammatorio (Iebba et al., 2012). Un recente studio sulla
caratterizzazione di ceppi di E. coli isolati da pazienti pediatrici con
38
morbo di Crohn ha indicato la presenza dei ceppi AIEC sia nei pazienti
affetti dalla malattia che nei soggetti sani, confermando la natura di
“patobionti” di queste specie; questi ceppi risultano comunque in
maggiori quantità nei pazienti malati, indicando una selezione positiva
di questo ceppo in soggetti geneticamente predisposti (Conte et al.,
2014).
Altri due batteri appartenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae,
come Klebsiella pneumoniae e Proteus mirabilis, isolati da topi TRUC (con
deficit nell’immunità innata e adattativa che sviluppano
spontaneamente infiammazioni simili alle coliti ulcerose) si sono
rivelati capaci, in associazione con i microbi commensali endogeni, di
indurre coliti anche nei topi wild type (Garrett et al., 2010; Garrett et al.,
2007).
Gli studi effettuati fino ad oggi dimostrano che l’ambiente
dell’infiammazione induce l’espressione genica e le funzioni di alcuni
batteri, in modo da consentire loro di sopravvivere, adattarsi e
contribuire alla patogenesi delle IBD. Tuttavia, rimane ancora non
chiaro se la disbiosi associata alle IBD possa essere causativa,
contributiva o consequenziale alla malattia. Con ogni probabilità si
possono verificare tutte queste ipotesi. L’incapacità di identificare con
39
certezza gli organismi microbici causativi è dovuta alle limitazioni
nella tecnologia e nella progettazione di studi clinici e bioinformatici.
La maggior parte degli studi sulla disbiosi nelle IBD, ad esempio, è
stata eseguita dopo l’insorgenza della malattia e interpretata senza
tener conto dei metadati diversi dai fenotipi clinici (colite ulcerosa e
morbo di Crohn) e della localizzazione della malattia. La quasi totalità
dei dati sulle composizioni microbiche è stata acquisita da campioni di
materia fecale, che non può accuratamente riflettere i cambiamenti
locali del microbiota intestinale, in quanto il microbiota che colonizza
la superficie della mucosa, sito dell’infiammazione, può essere
significativamente diverso da quello del lume intestinale.
Le attuali tecnologie per l’analisi dei campioni da pazienti con
IBD non sono ancora in grado di andare oltre il livello tassonomico del
genere e di fornire una completa visione delle funzioni della comunità
batterica. Tuttavia, nuovi strumenti bioinformatici dalla maggiore
risoluzione potrebbero essere presto disponibili e in grado di fornire
informazioni sui ceppi batterici che in ultima analisi potrebbero
rivelare maggiori nozioni sulla patogenesi delle IBD (Eren et al., 2015).
40
2.2. OBESITÀ
L’obesità è un disturbo medico caratterizzato da un eccessivo
accumulo di grasso corporeo ed è determinata dall’Indice di Massa
Corporea (IMC), che rappresenta il rapporto tra il peso dell’individuo
espresso in kg e la sua altezza al quadrato espressa in m². Secondo
questo indice, lo stato di obesità corrisponde ad un valore compreso tra
30.0 e 40.0 (World Health Organization, 2014). L’Organizzazione
Mondiale della Sanità ha riferito che dal 1980 al 2014 gli episodi di
obesità sono più che raddoppiati, con 1.9 bilioni di adulti in
sovrappeso dai 18 anni in su e 600 milioni di obesi nel mondo. Sempre
nel 2014, circa il 39% degli adulti sopra i 18 anni risultava in
sovrappeso e il 13% era obeso. La maggior parte della popolazione
mondiale vive in paesi in cui il sovrappeso e l’obesità causano più
morti rispetto alla denutrizione. Questi dati suggeriscono che l’obesità
costituisce una minaccia sempre crescente per la salute; i vari fattori
che prendono parte all’eziologia dell’obesità sono: eccessivo consumo
calorico, stile di vita sedentario, disfunzioni ormonali, alterazioni
genetiche, cure farmacologiche e, non per ultima, alterazione
dell’omeostasi tra il microbiota intestinale e l’organismo ospite.
41
Negli ultimi anni, infatti, un numero sempre maggiore di studi ha
evidenziato delle alterazioni nella composizione del microbiota
intestinale associate all’obesità e ad altre patologie ad essa correlate: in
molti casi, è stato osservato che il microbiota intestinale di uomini e
topi obesi presentava un aumento dei membri del phylum Firmicutes e
una diminuzione dei membri del phylum Bacteroidetes, rispetto ai
soggetti normopeso (Ley et al., 2005; Turnbaugh et al., 2006). Inoltre,
nei soggetti umani obesi che hanno condotto una dieta ipocalorica a
basso contenuto di grassi e carboidrati il rapporto tra Firmicutes e
Bacteroidetes è diminuito, in corrispondenza alla riduzione percentuale
del peso corporeo (Ley et al., 2006). Tuttavia, ulteriori studi su umani e
roditori non hanno riportato sostanziali differenze nel rapporto tra i
due phyla batterici negli obesi rispetto ai soggetti sani, né alcun effetto
della perdita di peso sul rapporto F/B (C. Zhang et al., 2010),
sottolineando la necessità di focalizzarsi ulteriormente su specie
batteriche precise all’interno di questi gruppi, piuttosto che effettuare il
confronto a livello dei phyla.
42
2.2.1. Meccanismi associati alla patogenesi delle IBD
Il microbiota intestinale può contribuire alla patogenesi
dell’obesità tramite meccanismi che coinvolgono processi di
traslocazione batterica oltre lo strato epiteliale della mucosa con
conseguenti infiammazioni sistemiche, o tramite l’interazione con i
processi metabolici dell’organismo ospite (Fig. 6).
Quando nel tratto gastro intestinale si instaurano dei continui
processi infiammatori, la barriera fisica dello strato epiteliale viene
alterata e ciò può causare, oltre a disfunzioni del sistema immunitario,
un aumento della permeabilità intestinale risultante nella traslocazione
batterica dal lume intestinale ai tessuti sottostanti lo strato epiteliale e
alla circolazione sanguigna. La presenza nella circolazione sistemica di
pattern molecolari associati ai batteri, come i lipopolisaccaridi (LPS) e il
Peptidoglicano, causa l’attivazione dei recettori TRL e NOD che,
attivando le difese immunitarie, portano ad uno stato di lieve
infiammazione sistemica, che è la caratteristica principale dell’obesità e
del diabete di tipo 2 (Karagiannides & Pothoulakis, 2007; Kim, Choi,
Choi, & Park, 2012; Ye et al., 2012).
I lipopolisaccaridi sono i maggior componenti della membrana
dei batteri Gram-negativi intestinali che vengono riconosciuti da molti
43
recettori della famiglia TRL; alti livelli di LPS sono stati associati
all’aumento del consumo di grassi con la dieta e all’obesità. Infatti è
stato dimostrato che l’aggiunta di LPS ad una normale dieta induce
insulino-resistenza e aumento del peso corporeo (Creely et al., 2007;
Rodes et al., 2013). Il peptidoglicano invece induce l’attivazione dei
recettori NOD1 negli adipociti ed epatociti (Schertzer et al., 2011; Zhao,
Hu, Zhou, Purohit, & Hwang, 2011) e dei NOD2 nelle cellule
muscolari, innescando l’insulino-resistenza attraverso la produzione di
mediatori dell’infiammazione (Tamrakar et al., 2010).
Fig. 6 - Potenziali meccanismi che correlano il microbiota intestinale col metabolismo
dell’ospite, l’obesità e la resistenza insulinica
44
Alcune particolari funzioni del microbiota intestinale che
influenzano alcuni processi metabolici correlati all’obesità e
all’insulino-resistenza sono la produzione degli acidi grassi a catena
corta (SCAF), il metabolismo della colina e degli acidi biliari da parte
del microbiota, e altri processi enzimatici (Qian, Li, Zhang, Fang, & Jia,
2015).
La produzione degli SCFA da parte dei batteri commensali ha
una serie di effetti benefici sull’omeostasi intestinale e anche sul
controllo del peso corporeo, sull’omeostasi del glucosio e sulla
sensibilità insulinica. Da vari studi si è visto che l’introduzione del
butirrato nell’alimentazione riduceva nel topo l’insulino-resistenza
indotta dalla dieta, probabilmente attraverso l’aumento del dispendio
energetico e delle funzioni mitocondriali (Gao et al., 2009); inoltre, il
butirrato, in associazione col propionato, ha dimostrato di essere
protettivo nei confronti dell’obesità indotta dalla dieta e di migliorare
la tolleranza al glucosio (Lin et al., 2012; Yamashita et al., 2007). Alti
livelli di SCFA sono stati ritrovati anche a livello ciecale e fecale in
uomini e topi obesi; è stato suggerito che tale incremento di SCFA
potrebbe essere dovuto alla diminuzione dell’assorbimento dovuto
all’obesità (Fernandes, Su, Rahat-Rozenbloom, Wolever, & Comelli,
45
2014). Inoltre gli SCFA hanno mostrato di attivare la secrezione del
glucagone-like peptide 1 (GLP-1) attraverso il legame al recettore 43
accoppiato a proteina G (GPR43), che è anche conosciuto come
recettore 2 degli acidi grassi liberi (FFAR2); questo recettore ha
dimostrato di essere attivato da acetato, propionato e anche dal
butirrato (Kasubuchi, Hasegawa, Hiramatsu, Ichimura, & Kimura,
2015; Kimura, Inoue, Hirano, & Tsujimoto, 2014). I topi con deficit
genetico di FFAR2 risultavano obesi, mentre una sovraespressione di
questo recettore nel tessuto adiposo in condizioni normali era collegata
a uno stato di magrezza (Bjursell et al., 2011). Il secondo recettore degli
SCFA è il GPR41, chiamato anche FFAR3; questo è in grado di indurre
la secrezione enteroendocrina dell’ormone peptidico YY e del GPL-1 e,
in questo modo, può migliorare la sensibilità insulinica in seguito a
stimolazione da parte degli SCFA prodotti dal microbiota intestinale
(Chambers, Morrison, & Frost, 2015; Kaji, Karaki, & Kuwahara, 2014).
La comunità batterica intestinale ha mostrato di giocare un ruolo
anche nella regolazione del metabolismo del colesterolo e degli acidi
biliari, sia negli umani che nelle cavie (Conterno, Fava, Viola, & Tuohy,
2011). Gli acidi biliari sono sintetizzati nel fegato attraverso un
processo a più tappe; questi agiscono nell’intestino come degli agenti
46
emulsionanti che agevolano la degradazione da parte degli enzimi
digestivi pancreatici del triacilglicerolo e di altri lipidi complessi
assunti con la dieta. Prima di lasciare il fegato, gli acidi biliari primari
vengono convertiti in sali, ovvero coniugati, nell’uomo, con glicina per
essere successivamente riassorbiti a livello dell’ileo distale. Tuttavia,
questi acidi possono essere deconiugati dai batteri a livello dell’ileo e
metabolizzati dal microbiota intestinale in acidi biliari secondari. Gli
acidi biliari fungono anche da molecole segnale in grado di legarsi ad
alcuni recettori cellulari come il FXR (nuclear farnesoid X receptor), che è
coinvolto nel controllo della sintesi degli acidi biliari, e il TGR5 (G-
protein-coupled receptor) (Tremaroli & Backhed, 2012). FXR è attivato
dagli acidi biliari primari e danneggia il metabolismo del glucosio
(Sinal et al., 2000), mentre TGR5 lega gli acidi biliari secondari ed
esercita un effetto benefico, migliorando le funzioni epatiche e
pancreatiche e promuovendo la tolleranza al glucosio attraverso
l’induzione della secrezione del GLP-1 da parte delle L-cells
enteroendocrine (Furet et al., 2010; Thomas et al., 2009). Inoltre TGR5
può far aumentare il dispendio energetico nel tessuto adiposo bruno
ed ha un ruolo protettivo nei confronti dell’obesità indotta dalla dieta
(Tremaroli & Backhed, 2012).
47
Anche alterazioni nella composizione della flora intestinale che
conducono a cambiamenti nel metabolismo della colina hanno
dimostrato di essere associate con l’obesità, la sindrome metabolica, la
steatosi epatica e le malattie cardiovascolari. Il metabolismo della
colina da parte del microbiota intestinale ha un importante ruolo nella
regolazione dell’omeostasi del glucosio. Le attività enzimatiche del
microbiota e dell’organismo ospite interagiscono nella trasformazione
della colina in metilammine tossiche, che possono essere ulteriormente
metabolizzate a trimetilammine-N-ossido nel fegato (Dumas et al.,
2006); i livelli plasmatici di queste ultime e dei loro metaboliti sono
correlati alle malattie cardiovascolari (Z. Wang et al., 2011).
Infine, anche alcune interazioni tra la dieta e il microbiota
possono influire sulla formazione di prodotti metabolici che alterano la
sensibilità insulinica dell’ospite. Ad esempio, il metabolismo degli
amminoacidi fenolici a p-cresil solfati ha dimostrato di promuovere
l’insulino-resistenza associata a patologie renali croniche (Koppe et al.,
2013). Batteri appartenenti ad alcuni generi, come specie di Bacteroides,
Clostridium e Fusobacterium, hanno la capacità di promuovere la
biotrasformazione dei composti fenolici in p-cresil solfati (Bone, Tamm,
& Hill, 1976; Hughes, Magee, & Bingham, 2000). Ulteriori studi hanno
48
mostrato che il microbiota intestinale metabolizza il triptofano in acido
3-indol-propionico, il quale migliora l’insulino-resistenza (Kuhn et al.,
2006). Alcune vitamine, come l’acido folico e la cobalamina, che sono
essenziali per l’ospite, derivano dai metaboliti prodotti dai batteri
commensali; i pazienti con sindrome metabolica trattati con queste
vitamine hanno riportato dei miglioramenti nei sintomi dell’insulino-
resistenza e della disfunzione endoteliale (Setola et al., 2004).
2.3. DIABETE
È stato dimostrato il legame tra il diabete di tipo 2 e il microbiota
intestinale. Il diabete di tipo 2 è il più frequente tra le due forme di
diabete: il 90% dei soggetti diabetici presenta infatti questa tipologia.
Esso insorge solitamente in tarda età ed è caratterizzato da una
insufficiente quantità di insulina prodotta dalle cellule β pancreatiche
in concomitanza con l’insulino-resistenza, ed è strettamente correlato
all’obesità (World Health Organization, 2015). È stato proposto che
l’effetto della microflora sul diabete di tipo 2 sia mediato da
meccanismi che coinvolgono le modificazioni nella secrezione di
butirrato e incretine (Cani & Delzenne, 2009; Tolhurst et al., 2012). Nei
loro studi, Qin e colleghi hanno dimostrato che i pazienti con diabete
49
di tipo 2 presentavano un moderato grado di disbiosi intestinale, una
diminuzione dei batteri produttori di SCFA, soprattutto butirrato, e un
aumento dei patogeni opportunisti (Qin et al., 2012). Dati simili sono
stati segnalati in altri studi che evidenziano il ruolo di questi batteri
nella regolazione di importanti vie del diabete di tipo 2, quali la
sensibilità all’insulina, l’infiammazione e l’omeostasi del glucosio
(Cani, Osto, Geurts, & Everard, 2012; Kimura et al., 2013; Tai, Wong, &
Wen, 2015). D’altra parte, già negli studi sull’obesità la flora intestinale
ha mostrato di influenzare la produzione di molecole segnale come il
GLP-1 e il PYY attraverso il legame degli SCFA ai loro recettori FFAR2;
questi due peptidi hanno effetti favorevoli sul diabete, diminuendo
l’insulino-resistenza e la funzionalità delle cellule β pancreatiche
sovrastimolate (Yang et al., 2015).
Il diabete di tipo 1 invece è una patologia autoimmune che vede
la distruzione delle cellule β pancreatiche da parte del sistema
immunitario. Nonostante il diabete di tipo 1 sia principalmente causato
da difetti genetici, anche fattori ambientali ed epigenetici hanno
dimostrato di giocare un ruolo importante in questa malattia. I più alti
tassi di incidenza del diabete di tipo 1 sono stati riportati più
recentemente e, non potendo essere spiegati dalla genetica, sono stati
50
attribuiti a cambiamenti nel nostro stile di vita che influenzano
direttamente il microbiota intestinale (Gülden, Wong, & Wen, 2015). È
stato messo in evidenza che l’incidenza del diabete è notevolmente
aumentata nei topi germ free diabetici ma non obesi, e questo è in
accordo con l’osservazione dell’aumento dei casi di diabete di tipo 1
nei paesi con pratiche igieniche rigorose. Allo stesso modo, il confronto
della composizione della flora intestinale tra bambini ad alto rischio
genetico per il diabete di tipo 1 e bambini sani ha evidenziato un
microbiota meno vario e meno dinamico nei bambini soggetti a rischio
(Rodes et al., 2013). Molti altri studi, inoltre, hanno confermato le
differenze osservate nella composizione della flora intestinale tra
pazienti affetti da diabete di tipo 1 e soggetti sani, ed è evidente quindi
la necessità di una migliore comprensione del ruolo che il microbiota
può svolgere nello sviluppo di questa malattia (Baothman, Zamzami,
Taher, Abubaker, & Abu-Farha, 2016).
2.4. ARTRITE REUMATOIDE
L’artrite reumatoide è una delle forme più comuni di artrite
infiammatoria che colpisce decine di milioni di persone in tutto il
mondo, ed è associata ad una progressiva disabilità, complicanze
51
sistemiche e morte precoce (Catrina, Deane, & Scher, 2016). L’eziologia
dell’artrite reumatoide non è del tutto compresa, ed è influenzata sia
da fattori genetici che ambientali. Le disbiosi del microbiota intestinale
e di quello orale sono state associate all’artrite reumatoide e sono state
riscontrate in modelli murini geneticamente suscettibili a tale patologia
(Fig. 7), (Gomez, Luckey, & Taneja, 2015).
L’ipotesi che i batteri commensali orali siano anch’essi coinvolti
nell’avvio o nella progressione dell’artrite reumatoide è sostenuta
dall’elevata presenza di disturbi infiammatori parodontali nei pazienti
Fig. 7 - Alterazioni nelle composizioni microbiche intestinale e orale associate
ad artrite reumatoide.
52
affetti da artrite reumatoide già dai primi esordi della malattia,
nonostante la giovane età (Scher, Bretz, & Abramson, 2014; Wolff et al.,
2014). È stato dimostrato che il microbiota del biofilm subgengivale di
questi pazienti è simile a quello di pazienti con artrite reumatoide
cronica. Circa la metà dei pazienti con artrite reumatoide appena
diagnosticata, e mai stata trattata, presentano una quantità di
Porphyromonas gingivalis due volte maggiore rispetto agli individui sani
(Scher et al., 2012). Inoltre, è stata dimostrata un’associazione tra gli
autoanticorpi correlati all’artrite reumatoide e titoli anticorpali sierici
contro P. gingivalis nei parenti sani di primo grado dei pazienti affetti
da artrite reumatoide, suggerendo che una risposta immunitaria al P.
gingivalis può avere un ruolo nell’insorgenza precoce
dell’autoimmunità legata all’artrite reumatoide (Mikuls et al., 2014). Il
meccanismo alla base di questa associazione può comprendere
modifiche post-traduzionali di antigeni umani, come ad esempio la
citrullinazione, ovvero la sostituzione di residui proteici di arginina
con l’amminoacido atipico citrullina, indotta dall’infiammazione
(Lerner, Aminov, & Matthias, 2016). La citrullinazione di nuovi epitopi
(porzione dell’antigene che entra in contatto con il sito di legame di un
anticorpo o con i recettori specifici delle cellule T) può portare alla
53
perdita della tolleranza verso le auto-proteine in soggetti
geneticamente suscettibili, come è stato effettivamente riscontrato a
livello della membrana sinoviale di alcuni pazienti affetti da artrite
reumatoide (Valesini et al., 2015; Wegner et al., 2010). È interessante
notare inoltre che la disbiosi viene parzialmente risolta in seguito a
trattamenti con farmaci anti-reumatici (X. Zhang et al., 2015),
sottolineando ulteriormente l’interazione bidirezionale tra il microbiota
e il suo ospite.
2.5. PSORIASI
La psoriasi è una malattia comune della pelle caratterizzata da
iperproliferazione dei cheratinociti e deriva da un’infiammazione
cronica promossa dalle cellule Th1, Th17 e Th22 (Fry, Baker, Powles,
Fahlen, & Engstrand, 2013). La manifestazione iniziale e periodica delle
esacerbazioni della psoriasi è indotta da fattori ambientali non ancora
identificati in soggetti con predisposizione genetica (Alekseyenko et
al., 2013). Ci sono attualmente due teorie riguardanti la natura degli
antigeni nella psoriasi. Una di queste ipotizza che l’antigene sia una
auto-proteina (Besgen, Trommler, Vollmer, & Prinz, 2010;
Valdimarsson, Thorleifsdottir, Sigurdardottir, Gudjonsson, & Johnston,
54
2009), e l’altra suggerisce che la psoriasi sia innescata da una disbiosi
microbica (Fig. 8) (Fry, Baker, Powles, & Engstrand, 2015).
La teoria che la psoriasi sia causata da una tolleranza anormale
nei confronti dei batteri commensali della pelle è sostenuta dal
riscontro di un’elevata incidenza del morbo di Crohn (Li, Han, Chan, &
Qureshi, 2013) e parodontiti (Preus, Khanifam, Kolltveit, Mork, &
Gjermo, 2010), probabilmente dovute, come sopra detto, ad una
mancata tolleranza verso il microbiota intestinale e orale,
rispettivamente, nei pazienti psoriasici. Gli studi di caratterizzazione
del microbiota delle placche psoriasiche, due effettuati su materiale
prelevato da tamponi (Gao, Tseng, Strober, Pei, & Blaser, 2008) e uno
Figura 4 – Alterazioni riscontrate nel microbiota intestinale e della pelle associate a
psoriasi
55
su materiale bioptico (Fahlen, Engstrand, Baker, Powles, & Fry, 2012),
hanno mostrato modesti cambiamenti nella composizione microbica,
con alcune differenze tra i vari studi.
L’incoerenza dei dati ottenuti può riflettere differenze nelle
tecniche di campionamento impiegate, nei dati anagrafici dei pazienti o
nella variabilità iniziale tra gli individui, che rende le differenze più
sostanziali (SanMiguel & Grice, 2015). Il significato clinico di queste
differenze nei profili batterici nella pelle sana e nella pelle psoriasica è
ancora da chiarire; deve essere ancora compreso se esso sia la causa che
porta alla malattia o la risposta conseguente alle modifiche dovute alla
psoriasi. (Shamriz et al., 2016).
56
3. TRATTAMENTI RICOSTITUENTI IL MICROBIOTA
INTESTINALE
Da quando è risultato evidente che l’ambiente microbico
intestinale gioca un ruolo importante nella patogenesi di molte
malattie, sono state sviluppate varie metodologie e approcci terapeutici
sperimentali con l’intento di manipolare la microflora intestinale al
fine di ridurre la risposta infiammatoria e ripristinare l’equilibrio tra le
varie specie batteriche. Principalmente questi metodi consistono nella
somministrazione di probiotici e prebiotici e nel trapianto di
microbiota fecale.
3.1. PROBIOTICI
I probiotici, secondo la FAO e l’OMS, sono definiti come
microorganismi non patogeni vivi somministrati in quantità sufficiente
da apportare un effettivo beneficio sulla salute dell’uomo.
Originariamente ricavati da colture di prodotti lattiero-caseari, questi
batteri protettivi comprendono i bacilli produttori di acido lattico come
i Lactobacillus e i Bifidobacterium, un ceppo non patogeno di E. coli (E.
Coli Neissle 1917), Saccharomyces boulardii, Clostridium butyricum, e
Streptococcus thermophilus (Sartor, 2004). Attualmente, alcuni degli
57
impieghi più comuni dei probiotici includono il trattamento di
patologie infiammatorie autoimmuni, come artrite, enteropatia indotta
da FANS, colite ulcerosa e morbo di Crohn, e di patologie metaboliche
come l’obesità (Qian et al., 2015). La maggior parte degli studi clinici
sui probiotici è stata focalizzata principalmente sul trattamento delle
IBD ma, allo stato attuale, i loro risultati benefici non possono essere
considerati conclusivi, in quanto alcuni di questi hanno mostrato degli
effetti estremamente promettenti, mentre altri non hanno riportato
alcun sostanziale effetto (Tabella 1), (Wasilewski, Zielinska, Storr, &
Fichna, 2015). (Shadnoush et al., 2013)
Tabella 1 - Effetti dei Probiotici in pazienti con Morbo di Crohn (CD) e colite ulcerosa (UC).
58
Uno studio effettuato nel 2013 ha riportato che i Bifidobacterium e i
Lactobacillus, somministrati sotto forma di yogurt probiotico, esercitano
effetti anti-infiammatori; lo studio è stato effettuato somministrando
yogurt con o senza probiotico a 210 pazienti adulti in remissione da
una IBD e a 95 soggetti sani. Dopo un trattamento di 8 settimane, si
sono riscontrate da un lato diminuzioni significative nel siero dei livelli
di IL-1β, TNF-α e della proteina C reattiva, molecole pro-
infiammatorie; dall’altro, le concentrazioni di IL-6 e IL-10,
interleuchine anti-infiammatorie, sono aumentate notevolmente nel
gruppo che ha ricevuto lo yogurt con probiotico rispetto al gruppo
placebo (Shadnoush et al., 2013). Questi risultati suggeriscono che i
probiotici possono contribuire al mantenimento dell’omeostasi del
tratto gastro intestinale e regolare le risposte pro- e anti-infiammatorie
delle cellule immunitarie intestinali. Un altro studio, che ha coinvolto
21 pazienti con Colite Ulcerosa, ha mostrato che il latte fermentato con
Bifidobacterium somministrato una volta al giorno, 100 ml per un anno,
ha un possibile effetto preventivo sulla reiterazione della colite
ulcerosa e aiuta a mantenere la sua remissione.
La maggior parte degli studi sui probiotici attualmente pubblicati
sono stati effettuati utilizzando un preparato probiotico denominato
59
VSL#3, contenente 8 ceppi batterici: Lactobacillus casei, L. plantarum,
L. acidophilus, L. bulgaricus, Bifidobacterium brevis, Bifidobacterium
infantis e Streptococcus thermophilus. È stato rilevato che la
somministrazione di VSL#3 porta ad un notevole aumento della
secrezione di IL-10 e inibisce la produzione di IL-12 (Lammers et al.,
2003). In studi effettuati in vitro, la stimolazione delle cellule
dendritiche mieloidi e linfoidi conduceva all’induzione di IL-10 e
all’inibizione del rilascio di IFN-γ e anche della risposta cellulare dei
Th1. È stato riscontrato anche che l’uso di VSL#3 rafforza l’integrità
della barriera epiteliale intestinale aumentando l’espressione di
proteine responsabili della formazione delle giunzioni strette e
riducendo le cellule apoptotiche (Mennigen et al., 2009). In un gruppo
di bambini affetti da colite ulcerosa, la somministrazione di VSL#3 ha
comportato l’induzione e il mantenimento della remissione della
malattia (92,8% dei casi) rispetto al gruppo placebo (Miele et al., 2009).
Inoltre, secondo un recente studio condotto da Shen e colleghi, VSL#3
ha un effetto benefico sull’induzione e il mantenimento della
remissione da colite ulcerosa anche negli adulti (Shen, Zuo, & Mao,
2014). Fino ad oggi invece non si è ancora indagato sul ruolo di VSL#3
nel trattamento del Morbo di Crohn (Dieleman & Hoentjen, 2012;
60
Ruemmele et al., 2014); tuttavia, in una molteplicità di studi VSL#3 ha
indotto l’aumento della diversità delle specie microbiche nel tratto
gastro intestinale dei pazienti affetti da IBD (Kuhbacher et al., 2006).
Vari studi sull’uso dei probiotici sono stati indirizzati anche sul
trattamento dell’obesità e delle patologie metaboliche (Qian et al.,
2015). Ad esempio, la somministrazione di Lactobacillus gasseri ha
mostrato di diminuire la massa grassa (viscerale e subcutanea) e
l’indice di massa corporea in pazienti obesi e/o affetti da diabete di tipo
2 (Kadooka et al., 2010). In un doppio studio cieco randomizzato, si è
visto che la somministrazione di specie di Lactobacillus preserva la
sensibilità insulinica, come stimato dal clamp euglicemico
iperinsulinico, mentre la stessa si riduce nel gruppo di controllo con
placebo (Andreasen et al., 2010). I risultati ottenuti in seguito ad un
trattamento condotto per un mese con probiotico contenente
Bifidobacterium animalis (ceppo B420), hanno mostrato una diminuzione
della traslocazione batterica all’interno dello strato epiteliale intestinale
e un miglioramento della sensibilità insulinica, suggerendo che alcuni
interventi con probiotici possono invertire il fenotipo metabolico
negativo indotto da una dieta ricca di grassi (Amar et al., 2011).
61
3.2. PREBIOTICI
I prebiotici sono definiti come ingredienti alimentari non
digeribili che recano beneficio all’ospite, stimolando selettivamente la
crescita e/o l’attività di uno o alcuni batteri nel tratto gastro intestinale
e quindi in grado di migliorare lo stato di salute dell’ospite (Gibson &
Roberfroid, 1995). Questi componenti funzionali alimentari sono
oligosaccaridi che si suddividono ulteriormente in frutto-oligosaccaridi
(FOS-oligofruttosio e inulina), galatto-oligosaccaridi (lattulosio) e
gluco- e xylo-oligosaccaridi. La caratteristica principale dei prebiotici è
la loro resistenza agli enzimi digestivi nell’uomo, pur rimanendo
suscettibili alla fermentazione da parte dei batteri anaerobi del colon.
Tali microorganismi metabolizzano gli oligosaccaridi ad acidi grassi a
catena corta (SCFA), che stimolano selettivamente la crescita dei
Bifidobacterium portando a effetti bifidogeni e alla riduzione del pH
endoluminale (Cummings & Macfarlane, 2002; Roberfroid & Delzenne,
1998); quest’ultimo è particolarmente importante per l’azione di
inibizione verso alcuni ceppi potenzialmente patogeni di batteri, come
i Clostridium (Tabella 2). Inoltre, gli SCFA hanno anche molti altri
effetti benefici sul mantenimento dell’omeostasi intestinale.
62
Uno studio (Gibson, Beatty, Wang, & Cummings, 1995) ha
dimostrato che la somministrazione di FOS ad alcuni volontari con una
dose di 15 grammi al giorno per 15 giorni, ha provocato un
significativo aumento di Bifidobacterium nelle feci e una diminuzione
della popolazione di Bacteroides, Fusobacterium e Clostridium, mentre il
numero dei batteri del genere Lactobacillus ed E. coli è rimasto invariato.
Al contrario, in un recente studio a doppio cieco randomizzato su 103
pazienti con Morbo di Crohn, la somministrazione di FOS non ha
avuto effetti statisticamente significativi rispetto al gruppo di controllo
(Benjamin et al., 2011). Inoltre uno studio del 2000 ha associato il
miglioramento della struttura e funzionalità della barriera intestinale
in seguito all’uso di prebiotici ad una ridotta attività del sistema
endocannabinoide intestinale e ad un maggiore livello di GLP-2, che a
sua volta stimola la sintesi delle proteine che formano le giunzioni
strette (Muccioli et al., 2010).
Tabella 2 - Principali benefici dei prebiotici negli studi clinici
63
3.3. SIMBIOTICI
Un’alternativa all’utilizzo di probiotici e prebiotici separatamente,
è quella di somministrarli entrambi contemporaneamente in varie
miscele che vanno sotto il nome di simbiotici (Bengmark & Martindale,
2005); somministrati insieme, questi componenti posseggono un
effetto benefico maggiore rispetto all’effetto osservato quando agiscono
individualmente.
Sono stati condotti diversi studi riguardanti l’uso dei simbiotici
su pazienti affetti da IBD; Furrie e colleghi hanno indicato che il
prebiotico Sinergy1 (contenente un mix di FOS e inulina) in
combinazione col probiotico Bifidobacterium longum ha portato ad un
miglioramento dei punteggi della sigmoidoscopia e ad una
diminuzione nei campioni bioptici da pazienti con colite ulcerosa di β-
defensine, TNF-α (Tumor Necrosis Factor) e IL-1α (Furrie et al., 2005).
Lo studio fornisce una forte prova preliminare che la somministrazione
dei simbiotici possa essere utile nel trattamento delle IBD. In un altro
studio (Steed et al., 2010), individui con Morbo di Crohn sono stati
divisi in due gruppi: un gruppo ha ricevuto una combinazione di B.
longum e il prebiotico Sinergy1 e l’altro gruppo il placebo. È stato
osservato un significativo miglioramento istologico nei pazienti del
64
gruppo che ha ricevuto il simbiotico rispetto al gruppo di controllo (i
campioni di tessuto per la valutazione istologica sono stati raccolti
all’inizio dello studio e in seguito a 3 e 6 mesi). Sebbene il simbiotico
abbia avuto scarso effetto su IL-18, IFN-γ e IL-b1 a livello della
mucosa, ha portato ad una significativa diminuzione dell’espressione
di TNF-α dopo 3 mesi. È interessante notare inoltre che il livello di
TNF-α non subisce ulteriori modifiche dopo 6 mesi di trattamento con
simbiotici. Questi primi studi dimostrano il potenziale effetto benefico
dei simbiotici, ma il loro ruolo nella terapia delle IBD rimane ancora da
chiarire.
3.4. TRAPIANTO DI MICROBIOTA FECALE
Il trapianto di microbiota fecale (FMT), conosciuto anche come
batterioterapia fecale, consiste nell’infusione di una sospensione fecale
preparata da feci di un soggetto sano (donatore) nel tratto gastro
intestinale di un altro individuo, al fine di curarne uno specifico
disturbo. Il primo trapianto fecale descritto per curare le malattie
gastrointestinali risale a più di 1500 anni fa in Cina (F. Zhang, Luo, Shi,
Fan, & Ji, 2012) e nel XVII secolo F. Acquapendente applicò le infusioni
fecali in campo veterinario. Tuttavia il trapianto fecale fece la sua
65
prima apparizione nella medicina tradizionale solo nel 1958, quando
Eiseman trattò con successo 4 pazienti con colite pseudomembranosa
tramite clisteri fecali (Eiseman, Silen, Bascom, & Kauvar, 1958). Questa
pratica è stata recentemente riscoperta e rivalutata come opzione
terapeutica sia perché risulta molto efficace contro le infezioni da
Clostridium difficile, che ad oggi si è rivelato essere maggiormente
diffuso e più resistente agli antibiotici, sia per le nuove conoscenze sul
ruolo del microbiota nelle patologie infiammatorie intestinali IBD e
nelle malattie metaboliche (Kelly & LaMont, 2008; Pepin et al., 2005). Il
numero enormemente più elevato di microorganismi che vengono
introdotti nel tratto GI e la maggior durata della colonizzazione di tale
tratto rendono il trapianto di microbiota fecale un’opzione ancor più
promettente dell’uso dei probiotici (Tannock et al., 2000).
La selezione dei donatori per il trapianto di flora intestinale è
ovviamente più semplice rispetto alla stessa procedura con altri organi,
poiché in questo caso la conformità immunologica del donatore per il
ricevente non è necessaria. Tuttavia vengono attuati accurati screening
prima dell’avvio della procedura per verificare l’anamnesi del
donatore ed evitare la trasmissione di patologie infettive ai pazienti
riceventi. Solitamente i donatori sono scelti tra le persone vicine al
66
destinatario, sia all’interno del nucleo familiare che all’esterno, come
amici o partner, per ridurre nel paziente la sensazione di ripugnanza
nel ricevere un’infusione fecale (Cammarota, Ianiro, Bibbo, &
Gasbarrini, 2014).
Il materiale fecale viene preparato dopo la “raccolta” per
sospensione in diluenti come acqua o una soluzione salina e successivo
filtraggio e viene somministrato in volumi variabili entro 6/8 ore dalla
donazione (Aroniadis & Brandt, 2013; Smits, Bouter, de Vos, Borody, &
Nieuwdorp, 2013); in ogni caso, l’utilizzo di campioni fecali congelati
ha mostrato risultati comparabili a quelli ottenuti con le feci appena
raccolte (Hamilton, Weingarden, Sadowsky, & Khoruts, 2012).
L’infusione del materiale fecale può avvenire attraverso varie vie:
endoscopia superiore, sondino naso-gastrico o naso-digiunale,
colonscopia e clistere (Borody & Campbell, 2012). Tra questim il
percorso inferiore sembra ottenere migliori risultati rispetto alle vie
superiori di somministrazione, ma più genericamente la scelta della via
specifica dovrebbe dipendere dal luogo e dalle caratteristiche della
malattia da trattare.
Attualmente la principale applicazione del trapianto di
microbiota fecale è nel trattamento delle infezioni da C. difficile per le
67
quali ha un tasso di eradicazione pari quasi al 90% (Bakken et al., 2011;
van Nood et al., 2013). L’utilizzo di questa tecnica sulle IBD è riportata
solo in piccoli studi, in cui esiste una grande variabilità nella
preparazione dei campioni fecali e nei pazienti, nel numero e nelle vie
di somministrazione e altri aspetti (Anderson, Edney, & Whelan, 2012).
Tali studi hanno evidenziato una riduzione dei sintomi e remissione
clinica in relazione al trattamento delle IBD, ma le evidenze sono
ancora poche. In due recenti studi prospettivi sono state analizzate, con
tecniche di sequenziamento genico, le variazioni nella composizione
del microbiota intestinale dopo l’intervento con FMT. Il primo studio
ha registrato un generale aumento temporaneo della diversità
microbica nel paziente ricevente il trapianto ed una maggiore
somiglianza con la flora intestinale del donatore; è interessante notare
come in un soggetto, per il quale il punteggio Mayo indicava un
miglioramento delle condizioni, la flora avesse mantenuto 4
abbondanti fenotipi del donatore (Clostridium, Bacteroides ovatus,
Roseburia faecis e Faecalibacterium prausnitzii) nel corso del tempo,
rimanendo simile a quella del donatore per un periodo molto più
lungo rispetto agli altri soggetti (Angelberger et al., 2013). Nel secondo
di questi studi si è osservato, in seguito alla procedura del FMT, un
68
aumento temporale della carica microbica e da un lato una riduzione
significativa di Proteobacteria e dall’altro un aumento dei Bacteroidetes
(Kump et al., 2013).
I dati ottenuti nel trapianto di feci come trattamento delle
infezioni da C. difficile non possono purtroppo essere confermati
quando questo metodo viene utilizzato nei pazienti affetti da IBD:
febbre alta e aumento temporaneo della proteina-C reattiva sono stati
gli eventi avversi più riportati in seguito all’infusione di feci a questi
pazienti. Questi sono dovuti probabilmente alla risposta immunologica
del ricevente al nuovo microbiota, ma sono stati riportati eventi ancora
più gravi come una esacerbazione transitoria della colite ulcerosa
previamente quiescente e batteremia (De Leon, Watson, & Kelly, 2013;
Longstreth et al., 2006). In conclusione, la procedura di trapianto di
microbiota fecale può sì tradursi in un’opzione terapeutica promettente
per le IBD ma l’incertezza dei dati disponibili relativi alla sua efficacia
e sicurezza rende necessario il procedere con cautela.
69
4. TERAPIA FARMACOLOGICA PER LE MALATTIE
INFIAMMATORIE INTESTINALI (IBD)
Nel trattamento delle malattie infiammatorie intestinali gli
obiettivi terapeutici primari consistono nel riportare un miglioramento
nella qualità di vita del paziente, prevenire e trattare le complicanze
ripristinando i deficit nutrizionali. La terapia farmacologia delle IBD
comprende alcune categorie principali di medicinali quali anti-
infiammatori (steroidei e non), immunosoppressori, antibiotici,
anticorpi monoclonali e altri farmaci sintomatici.
4.1. ANTI-INFIAMMATORI
Tra gli anti-infiammatori più utilizzati ritroviamo i derivati
dell’acido 5-ammino salicilico (FANS) come la Mesalazina e alcuni
corticosteroidi come il Budesonide.
4.1.1. Derivati dell’acido 5-amminosalicilico (5-ASA)
La Mesalazina, molecola attiva della Sulfasalazina (Fig. 9), è un
farmaco che ha una buona efficacia nel trattamento della colite ulcerosa
distale attiva, di media o moderata gravità, e nel mantenimento della
remissione dalla malattia. Essa può rivestire anche il ruolo di agente
70
chemioprotettivo nei confronti del tumore colon-rettale nel contesto
delle IBD, probabilmente attraverso l’agonismo esercitato sul recettore
PPAR-γ (peroxisome proliferator-activated receptor-γ). È disponibile
in forma orale e rettale e viene utilizzata in dosi da 2.4-4.8 grammi al
giorno, in un’unica somministrazione giornaliera. Il farmaco è
generalmente ben tollerato con pochi effetti avversi; uno di questi
effetti per l’utilizzo dei clisteri è dovuto all’insorgenza di irritazioni
locali. Tuttavia i pazienti trattati con Mesalazina dovrebbero
controllare la loro funzionalità renale ad intervalli periodici di 6 mesi.
Inoltre il farmaco può essere tollerato dall’85% dei pazienti allergici o
intolleranti alla Sulfasalazina (Brogden & Sorkin, 1989).
.
Fig. 9 - Struttura chimica della Sulfasalazina e sua trasformazione in Mesalazina
(molecola attiva) e Sulfapiridina
71
L’utilizzo della Mesalazina nel trattamento del Morbo di Crohn
invece non ha portato a effetti considerevoli: negli studi clinici è stato
visto che la Mesalazina a basse dosi (1-2 g/die) aveva lo stesso effetto
del placebo ed era meno efficace dei corticosteroidi, mentre ad alte
dosi (3-4.5 g/die) non risultava comunque più efficace del placebo
nell’induzione della remissione (Lim & Hanauer, 2010).
4.1.2. Corticosteroidi
I corticosteroidi sopprimono l’infiammazione bloccando sia le sue
prime manifestazioni, tra cui la maggiore permeabilità vascolare, la
vasodilatazione e l’infiltrazione di neutrofili, sia le conseguenze
successive come l’attivazione dei fibroblasti e la deposizione del
collagene. Questi farmaci influenzano anche le risposte immunitarie
come l’attivazione delle cellule T, la down regulation della produzione
di citochine pro-infiammatorie e interferiscono con la produzione del
nuclear factor-κB (NF-κB), inibendo in tal modo le risposte
infiammatorie (Ito, Chung, & Adcock, 2006). I corticosteroidi più
diffusamente utilizzati nella terapia delle IBD sono il Prednisolone, il
Metilprednisolone e il Budesonide (Fig. 10) e possono essere
72
somministrati per via orale, tramite clisteri o per via sistemica,
singolarmente o in associazione ad altri farmaci.
La dose e la via di somministrazione di corticosteroidi per il
trattamento della colite ulcerosa dipendono dalla gravità di
quest’ultima, e varia tra 20–40 e 50–60 mg/die rispettivamente per
moderate e gravi riacutizzazioni; successivamente la dose deve essere
ridotta a 10 o 5 mg/settimana a seconda della remissione clinica ed
endoscopica (Truelove & Jewell, 1974). Nei casi più gravi i
corticosteroidi devono essere somministrati per via parenterale per
almeno 10 giorni. Se non vi sono evidenze cliniche o di laboratorio
riguardanti un miglioramento nelle condizioni del paziente, questo
dovrà essere trattato con altri tipi di farmaci come gli
immunosoppressori o gli anticorpi monoclonali. Il Budesonide è un
Fig. 10 - Strutture chimiche di farmaci corticosteroidei, da sinistra Prednisolone,
Metilprednisolone e Budesonide
73
corticosteroide ad azione locale; il suo rivestimento pH- e tempo-
dipendente ne consente il rilascio diretto a livello dell’ileo e del colon
ascendente, ma non ci sono prove per raccomandare l’uso clinico di
Budesonide orale per l’induzione della remissione nella colite ulcerosa.
L’utilizzo di questi farmaci risulta invece efficace per la
remissione del Morbo di Crohn attivo. Le varie formulazioni di
corticosteroidi possono anzi indurre una veloce remissione
migliorando la maggior parte dei sintomi in pochi giorni, anche se non
portano alla guarigione della mucosa e presentano comunque un certo
numero di effetti collaterali. Il trattamento dei pazienti con Morbo di
Crohn con Budesonide risulta ben tollerato fino ad 1 anno, con un
profilo di eventi avversi simile a quello del placebo (de Jong et al.,
2007); i tassi di recidiva dopo 1 anno sono bassi e non
significativamente diversi tra i pazienti trattati con 6 mg/die e quelli
trattati con 9 mg/die di Budesonide, e rimangono simili per entrambi i
gruppi il tempo di ricaduta della malattia e il numero di eventi
collaterali. Il Budesonide inoltre risulta essere una scelta sicura per il
trattamento del Morbo di Crohn nelle donne in gravidanza (Beaulieu et
al., 2009).
74
Questa categoria di farmaci infine non è indicata, sia per la colite
ulcerosa che per il Morbo di Crohn, per la terapia di mantenimento
della remissione.
4.2. IMMUNOSOPPRESORI
Gli immunosoppressori sono un gruppo di farmaci che agiscono
inibendo l’attivazione e la proliferazione dei linfociti. Negli ultimi anni
è aumentato considerevolmente l’uso di immunosoppressori quali
Azatiopirina (AZ), 6-Mercaptopurina (6-MP), Metotrexato e
Ciclosporina per il trattamento delle patologie infiammatorie
intestinali.
4.2.1. Azatioprina e 6-Mercaptopurina
L’Azatioprina (AZ) è un profarmaco che viene convertito in vivo
in 6-Mercaptopurina (6-MP), (Fig. 11); questa, che rappresenta la forma
farmacologicamente attiva, viene successivamente inattivata ad opera
dell’enzima tiopurina metiltransferasi (TPMT), che la metabolizza a 6-
metilmercaptopurina. La 6-MP può andare incontro anche ad altre vie
metaboliche, una delle quali porta alla formazione di prodotti tossici
come il ribonucleotide 6-tio-guanosina-5’monofosfato (6-TGN) che
75
rappresenta il principale responsabile degli effetti collaterali.
Polimorfismi genetici dell’enzima TPMT, che ne diminuiscono
l’espressione, possono causare un aumento sia dell’efficacia che della
tossicità di tale farmaco.
La dose ottimale di AZ è tra 2 e 2,5 mg/kg di peso corporeo e
quella di 6-MP da 1 a 1,5 mg/kg di peso corporeo. Gli effetti benefici
del farmaco potrebbero comparire dopo diverse settimane (12 o più).
Una recente analisi di otto studi randomizzati ha rivelato che AZ e 6-
MP sono efficaci nell’indurre la remissione della forma attiva del
Morbo di Crohn e anche nel suo mantenimento; il trattamento
protratto oltre le 17 settimane ha prodotto un risultato migliore
(Prefontaine, Macdonald, & Sutherland, 2010). AZ e 6-MP sono
considerate efficaci in circa il 40% dei pazienti con malattie
Fig. 11 - Struttura chimica dell’Azatioprina (AZ) e suo metabolismo a 6-
Mercaptopurina (6-MP), forma farmacologicamente attiva.
76
infiammatorie intestinali dopo 5 anni di trattamento. Secondo dati
recenti, un quarto dei pazienti ha interrotto i farmaci entro 3 mesi, a
causa degli eventi avversi come epatotossicità, pancreatiti e disordini
linfo-proliferativi, dovuti all’accumulo dei metaboliti tossici (6-TGN)
che a livello nucleare interagiscono col DNA come antimetaboliti. In
ogni caso, se AZ risulta ben tollerata nei primi mesi, la sua assunzione
potrebbe essere tranquillamente protratta (Treton et al., 2009).
4.2.2. Metotrexato
L’utilizzo del Metotrexato (Fig. 12) nelle patologie infiammatorie
intestinali è molto più ridotto rispetto a quello dell’Azatioprina. Il
dosaggio e la modalità di somministrazione ottimali sono ancora da
definire. La dose normalmente utilizzata è di 25 mg/settimana per
l’induzione e da 15 a 25 mg/settimana per il mantenimento della
remissione, sia per via sottocutanea che intramuscolare (Patel,
Macdonald, McDonald, & Chande, 2009). Nella pratica clinica
giornaliera, il Metotrexato viene utilizzato principalmente in quei
pazienti il cui trattamento con AZ è risultato fallimentare o che sono
intolleranti ad AZ e 6-MP. Uno studio di vecchia data ha mostrato che
questo farmaco non è efficace nel trattamento della colite ulcerosa, per
77
cui le attuali linee guida non ne raccomandano l’applicazione in questi
casi (Oren et al., 1996).
4.2.3. Ciclosporina
La Ciclosporina (Fig. 13) è un potente immunosoppressore,
utilizzato principalmente per la prevenzione del rigetto nei pazienti
trapiantati. Questo farmaco è stato utilizzato in pazienti con gravi
riacutizzazioni di colite ulcerosa che non rispondono al trattamento
convenzionale. La terapia con Ciclosporina per via endovenosa aiuta
ad evitare la colectomia di una consistente porzione di pazienti con
colite ulcerosa grave (Cheifetz et al., 2011). In uno studio clinico, nel
quale è stata somministrata Ciclosporina endovena alla dose di 5
mg/kg peso corporeo, a 18 pazienti con colite ulcerosa fulminante,
l’83% dei pazienti ha risposto positivamente al trattamento. Al termine
del trattamento, il tasso di pazienti che hanno evitato la colectomia era
Fig. 12 – Struttura chimica del Metotrexato
78
del 72% dopo 2 mesi, 67% dopo 6 mesi, 61% dopo 12 mesi e 56% dopo
24 mesi (Holme, Thiis-Evensen, & Vatn, 2009).
Il meccanismo d’azione di questo farmaco non è ancora
completamente chiarito; nei casi di colite la Ciclosporina ha mostrato
di aumentare l’espressione di TGF-β nel colon e di inibire l’attività
della caspasi-8, determinando un’azione protettiva contro l’apoptosi
epiteliale (Satoh et al., 2009).
Nella maggior parte dei pazienti gli effetti collaterali sono di lieve
entità, tuttavia alcuni potrebbero essere pericolosi; il medico infatti
dovrà sempre seguire il paziente in modo appropriato, controllando
regolarmente i livelli sierici del farmaco.
Fig. 13 – Stuttura chimica della Ciclosporina A
79
4.3. ANTIBIOTICI
Agli antibiotici è ampiamente riconosciuto un ruolo essenziale nel
trattamento delle complicanze settiche delle IBD, compresi gli ascessi
intra-addominali e perianali, le fistole del Morbo di Crohn,
superinfezioni da parte di agenti patogeni e infezioni della ferita post-
operatoria. La maggior parte dei medici prescrive antibiotici ad ampio
spettro anche per il trattamento adiuvante della colite fulminante e del
megacolon tossico al fine di arginare la traslocazione batterica.
L’uso degli antibiotici, invece, come trattamento primario o
adiuvante del Morbo di Crohn e della colite ulcerosa risulta più
controverso. Sebbene il razionale terapeutico per l’uso degli antibiotici
per i batteri commensali sia forte e sostenuto, basato su dati
convincenti che incriminano alcuni batteri endogeni coinvolti nella
patogenesi delle IBD, gli studi clinici che supportano l’uso di questi
farmaci nei pazienti affetti dalle malattie infiammatorie intestinali sono
molto scarsi (Plevy, 2002; Schirbel & Fiocchi, 2010; Yamamoto et al.,
2008).
I farmaci antibiotici più ampiamente utilizzati in questi studi
sono il Metronidazolo e la Ciprofloxacina.
80
4.3.1. Metronidazolo
L’azione terapeutica del Metronidazolo (Fig. 14) è stata studiata
fin dai primi anni del 1970. In un trial condotto per testare l’efficacia e
la sicurezza del farmaco nei pazienti con Morbo di Crohn si è
constatato che non vi era alcuna differenza tra l’uso del Metronidazolo
e del placebo, anche se si poteva osservare un trend positivo nei
pazienti con coliti di Crohn (Blichfeldt, Blomhoff, Myhre, & Gjone,
1978).
Nel National Cooperative Swedish Study il Metronidazolo è stato
comparato alla Sulfasalazina nel trattamento primario del Morbo di
Crohn; sebbene non fosse stata trovata una significativa differenza tra i
due gruppi, il Metronidazolo si è rivelato efficace in quei pazienti che
non riuscivano a rispondere alla Sulfasalazina (Ursing et al., 1982). In
un altro studio, il Metronidazolo è stato utilizzato sia in terapia singola
sia in associazione al Cotrimossazolo e comparato all’utilizzo del solo
Cotrimossazolo e ad un doppio placebo in pazienti con recidive
sintomatiche del Morbo di Crohn; dopo 4 settimane di trattamento non
Fig. 14 – Struttura chimica del Metronidazolo
81
si sono notate differenze nelle risposte tra i tre diversi gruppi
(Ambrose et al., 1985).
Per quanto riguarda l’efficacia del Metronidazolo nella terapia
per l’induzione della remissione della colite ulcerosa grave sono stati
effettuati relativamente pochi studi; alcuni di questi, non molto recenti,
hanno mostrato che la somministrazione endovena di Metronidazolo
in associazione con i corticosteroidi produce risultati simili all’utilizzo
di corticosteroidi e placebo insieme (Chapman, Selby, & Jewell, 1986).
Purtroppo la somministrazione sistemica del farmaco è
accompagnata da importanti effetti collaterali, tra cui nausea,
anoressia, dispepsia e neuropatia periferica, il che ne limita l’uso in
meno del 20% dei pazienti.
4.3.2. Ciprofloxacina
La Ciprofloxacina (Fig. 15) è stata ampiamente utilizzata in
pazienti con Morbo di Crohn attivo, con o senza coinvolgimento
perianale.
82
In uno studio di comparazione tra l’uso di Ciprofloxacina 500 mg
due volte al giorno e l’uso del placebo due volte al giorno per 6 mesi, la
somministrazione della Ciprofloxacina ha ridotto in modo
significativo il punteggio CDAI rispetto al placebo (Arnold, Beaves,
Pryjdun, & Mook, 2002). In un altro studio pazienti con una moderata
forma del Morbo di Crohn sono stati randomizzati a ricevere
Ciprofloxacina 1 g/die o Mesalazina (Pentasa®; Shire) 4 g/die per 6
settimane; nel 56% dei pazienti trattati con Ciprofloxacina e nel 55% di
quelli trattati con Mesalazina è stata osservata una remissione
completa (Colombel et al., 1999). Il farmaco è stato saggiato su 25
pazienti con Morbo di Crohn e fistole perianali, ai quali sono stati
somministrati, in tre diversi gruppi, 500 mg di Ciproflozacina, 500 mg
di Metronidazolo e il placebo 2 volte al giorno per 10 settimane; la
risposta clinica e l’induzione della remissione risultavano più frequenti
nei pazienti trattati con Ciprofloxacina, anche se le differenze non
erano significative (Thia et al., 2009).
Fig. 15 – Struttura chimica della Ciprofloxacina
83
I dati derivati dagli studi per valutare l’efficacia della
Ciprofloxacina nel trattamento della colite ulcerosa sono invece
deludenti (Mantzaris et al., 1997). Al fine di superare gli svantaggi
delle loro precedenti ricerche su dose, via e durata di
somministrazione della Ciprofloxacina, gli stessi autori hanno
affermato che la somministrazione endovena di questo farmaco non è
utile come trattamento adiuvante ai corticosteroidi nei casi gravi di
colite ulcerosa (Mantzaris, Hatzis, Kontogiannis, & Triadaphyllou,
1994).
4.4. ANTICORPI MONOCLONALI ANTI-TNFΑ
TNF-α (Tumor Necrosis Factor α) è una molecola appartenente
alla famiglia delle citochine pro-infiammatorie in grado di indurre
febbre e morte apoptotica delle cellule; dal momento che esso gioca un
ruolo fondamentale nel processo di infiammazione nei pazienti con
IBD, l’inibizione di questa citochina dovrebbe costituire un’importante
strategia terapeutica nei pazienti con Morbo di Crohn e colite ulcerosa.
Gli anticorpi monoclonali anti-TNF-α con licenza d’uso in Europa sono
l’Infliximab e l’Adalimumab (Fig. 16).
84
Tutte le principali associazioni gastroenterologiche
raccomandano di prendere in considerazione il trattamento con questi
farmaci nei pazienti con Morbo di Crohn e colite ulcerosa da moderate
a gravi, refrattari all’uso concomitante di amminosalicilati,
corticosteroidi o immunosoppressori o per pazienti che presentano
intolleranza verso questi agenti.
Gli effetti collaterali più significativi conseguenti all’uso di questi
farmaci sono legati alle infezioni opportunistiche, allo sviluppo di
tumori, alle reazioni di iniezione/infusione e alla comparsa di
autoimmunità. L’applicazione di tali medicinali è inoltre
controindicata in pazienti con insufficienza cardiaca o malattie infettive
acute. Per questi motivi e per l’elevato potere immunosoppressore di
Fig. 16 - Struttura dei farmaci anti-TNFα Adalimumab (ADA) e Infliximab (IFX); regioni rosse di
derivazione umana e regioni blu di derivazione murina. CH catena pesante costante; CL catena
leggera costante; Fc regione complessa delle Immunoglobuline; VH catena pesante variabile; VL
catena leggera variabile
85
questi agenti biologici deve essere preventivamente effettuata
un’attenta anamnesi del paziente e lo screening per la tubercolosi
latente e, durante il trattamento, uno stretto monitoraggio clinico.
4.4.1. Infliximab
L’Infliximab (IFX) (Fig. 16) è un anticorpo monoclonale IgG1
chimerico umano-murino che agisce legando il TNF-α circolante o
legato alla membrana, inducendo una reazione citotossica cellulo-
mediata e morte cellulare programmata nelle cellule immunitarie T
attivate.
Lo studio ACCENT I ha mostrato che il trattamento
farmacologico dovrebbe essere mantenuto nei pazienti che hanno
risposto ad una singola infusione di IFX (Hanauer et al., 2002) e che la
terapia di mantenimento è maggiore rispetto alla somministrazione
episodica, sebbene vi sia una minore formazione di anticorpi anti-IFX
(Rutgeerts et al., 2004). I pazienti che ricevono la terapia sistemica
necessitano anche di un minor numero di ricoveri e interventi
chirurgici (Lichtenstein, Yan, Bala, & Hanauer, 2004). La guarigione
della mucosa rappresenta un forte predittore del miglioramento
dell’esito del Morbo di Crohn e la terapia anti-TNF-α contribuisce
86
fortemente alla guarigione della mucosa stessa (Fidder & Hommes,
2010).
Lo studio ACCENT II ha dimostrato l’efficacia di IFX nel
mantenere i buoni risultati nei pazienti con fistole perianali ed
enterocutanee. Il tempo medio di remissione è stato di 14 settimane nel
gruppo placebo e di 40 settimane nel gruppo di cura con IFX; inoltre, il
tasso di remissione è risultato, rispettivamente, del 19% e del 36%
(Sands et al, 2002).
In un recente studio è stata testata l’efficacia della monoterapia
con IFX rispetto ad una monoterapia con AZ e ad una terapia con
entrambi i farmaci in combinazione in 508 pazienti adulti con Morbo di
Crohn da moderato a grave che non erano mai stati sottoposti
precedentemente a cure con immunosoppressori o anticorpi
monoclonali. I pazienti che erano stati trattati con solo IFX o con questo
in combinazione con AZ hanno presentato una maggiore probabilità di
avere una remissione clinica senza l’uso di corticosteroidi, rispetto ai
pazienti trattati soltanto con AZ (Colombel et al., 2010).
Sono stati effettuati due studi a doppio cieco randomizzati (ACT
1 e ACT 2) per valutare l’efficacia della terapia con IFX per l’induzione
e il mantenimento della remissione anche in pazienti con colite
87
ulcerosa. Nello studio ACT 1 il 69% e 61% dei pazienti che hanno
ricevuto 5 o 10 mg/kg di IFX hanno avuto una risposta clinica dopo 8
settimane di trattamento, comparati col 37% di quelli che avevano
ricevuto il placebo. Nello studio ACT 2 la risposta clinica all’ottava
settimana di trattamento è stata evidenziata nel 64% e 69% dei pazienti
a cui erano stati somministrati 5 o 10 mg/kg di IFX rispetto al 29% di
quelli trattati con placebo (Rutgeerts et al., 2005).
È stata riportata anche l’efficacia di IFX nella terapia d’urgenza
per le coliti ulcerose medio/gravi che non rispondevano al trattamento
con corticosteroidi per via endovenosa: in uno studio altamente
rilevante, un gran numero di pazienti trattati con placebo ha richiesto
un intervento di colectomia dopo 3 mesi di trattamento, rispetto a quei
pazienti trattati con una singola infusione di 5 mg/kg di IFX (Jarnerot et
al., 2005).
4.4.2. Adalimumab
L’Adalimumab (ADA) è un anticorpo monoclonale IgG1 anti-
TNFα completamente umano (Fig. 16) che viene somministrato per via
sottocutanea.
88
Lo studio CLASSIC I ha valutato l’efficacia dell’ADA
nell’induzione della remissione nei pazienti con Morbo di Crohn
(Hanauer et al., 2006): ad un totale di 299 pazienti, non trattati in
passato con agenti anti-TNF-α, è stato somministrato l’ADA o un
placebo a varie dosi nella settimana 0 (iniziale) e nella settimana 2. I
tassi di remissione alla settimana 4 nel gruppo di pazienti ai quali era
stato somministrato l’ADA in 40/20 mg, 80/40 mg e 160/80 mg sono
risultati rispettivamente il 18%, il 24% e il 36%, rispetto ad un tasso di
remissione del 12% nel gruppo placebo. I dati emersi in questo studio
hanno confermato che il range di dosaggio ottimale dell’ADA per
l’induzione della remissione è di 160 mg alla settimana 0 seguito da 80
mg alla settimana 2.
Un ulteriore studio (CHARM) ha testato la capacità dell’ADA di
mantenere i risultati ottenuti con la cura iniziale in 854 pazienti affetti
dal Morbo di Crohn; anche in questo caso i tassi di remissione alle
settimane 26 e 56 sono risultati significativamente maggiori nel gruppo
di pazienti trattati con 40 mg/settimana di ADA rispetto ai tassi di
remissione nel gruppo placebo (Colombel et al., 2007).
L’ADA quindi si è rivelato efficace sia nell’induzione che nel
mantenimento della remissione del Morbo di Crohn e risulta essere
89
una valida alternativa, essendo ben tollerato, per quei pazienti che non
rispondono più o che sono intolleranti all’IFX e per i pazienti con
manifestazioni extraintestinali della malattia, i quali presentano una
migliore risposta clinica (Triantafillidis et al., 2010).
Inoltre, sono stati recentemente pubblicati anche i risultati relativi
all’efficacia e alla sicurezza dell’ADA nell’induzione della remissione
nei pazienti con colite ulcerosa da media a grave (Reinisch et al., 2011).
In questo studio il 18,5% dei pazienti appartenenti al gruppo di cura
con 160 mg/ 80 mg di ADA e il 10% del gruppo di cura con 80 mg/ 40
mg di ADA sono risultati in remissione alla settimana 8, rispetto al
9,2% in remissione del gruppo placebo. Nel 3.8% dei casi trattati con
80/40 mg di ADA e nel 4.0% dei casi trattati con 160/80 mg di ADA
sono stati evidenziati gravi effetti avversi rispetto al 7.6% di ricorrenza
nel gruppo trattato con placebo. ADA quindi risulta utile e sicuro per
questo scopo terapeutico in mancanza o impossibilità di un
trattamento con corticosteroidi e/o immunosoppressori.
90
5. CONCLUSIONI
Grazie alle nuove innovazioni tecnologiche, nella comunità
scientifica si sta sempre più affermando la consapevolezza che la
comunità microbica residente nell’intestino interagisce attivamente con
il nostro organismo, influenzando lo stato di salute e lo sviluppo di
eventuali malattie. Conoscere sempre meglio i vari meccanismi ed i
fattori implicati nelle interazioni tra il microbiota intestinale e
l’organismo umano è di importanza cruciale al fine di comprendere in
quali modi la disbiosi possa partecipare alla patogenesi dei disturbi ad
essa correlati, quali le malattie infiammatorie croniche intestinali.
Gli studi trasversali fino ad oggi effettuati sul microbiota
intestinale di soggetti affetti da varie patologie (infiammatorie
intestinali e metaboliche) hanno fornito una sovrabbondanza di
informazioni descrittive che risultano spesso difficili da interpretare,
principalmente a causa di grandi variabilità sia nella composizione
della flora intestinale dei singoli soggetti, sia nella progettazione ed
evoluzione degli studi clinici. Le informazioni cliniche raccolte ad ogni
livello possono essere utilizzate per interpretare le corrispondenze tra i
vari cambiamenti all’interno della comunità batterica intestinale e le
funzioni fisiologiche dell’ospite. Questi metadati forniscono anche una
91
base per il futuro sviluppo di studi guida che possano essere seguiti
sperimentalmente e di maggiori misure informative per stratificare
ulteriormente i pazienti affetti da tali patologie e aiutare così i medici a
raggiungere diagnosi più precise e, di conseguenza, trattamenti e
risultati migliori.
92
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