agostino esegesi biblica
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Agostino,
Esegesi biblica
Bibliografia generale: J. Pépin, Mythe et allégorie. Les origines grecques et
les contestations judéo-chrétiennes, Paris 21976 (1958); H. Schreckenberg, Exegese,
in RAC 6 (1966) 1174-1279; AA.VV., The Cambridge History of the Bible, vol. 1:
From the Beginnings to Jerome, a cura di P. Ackroyd / C. Evans, Cambridge 1970,
vol. 2: The West From the Fathers to the Reformation, a cura di G. Lampe,
Cambridge 1969; C. Schäublin, Untersuchungen zu Methode und Herkunft der
antiochenischen Exegese, Bonn 1974; B. de Margerie, Introduction à l’histoire de
l’éxégèse, 1: Les Pères grecs et orientaux, Paris 1980; idem, Introduction à
l’histoire de l’éxégèse, 2: Les premiers grands éxégètes latins, Paris 1983; M.
Simonetti, Profilo storico dell’esegesi patristica, Roma 1981; idem, Lettera e/o
allegoria, Roma 1985; C. Mondesert, Le monde grec ancien et la Bible, Paris 1984;
J. Fontaine / C. Pietri, Le monde latin antique et la Bible, Paris 1985; M. Rondeau,
Les commentaires patristiques du Psautier (IIIe-Ve siècles), vol. 1 : Les travaux des
Pères, vol. 2 : Exégèse prosopographique et théologie, Roma 1982, 1985; B. Studer,
Delectare et prodesse. Zu einem Schlüsselwort der patristischen Exegese, in
Mémorial J. Gribomont, Roma 1988, 555-81; F. Young, The Art of Performance.
Towards a Theology of Holy Scripture, London 1990; AA.VV., Christliche Exegese
zwischen Nicaea und Chalcedon, a cura di J. van Oort e U. Wickert, Kampen 1992.
Cirillo : A. Kerrigan, Saint Cyril of Alexandria. Interpreter of the Old
Testament, Roma 1952; R. Wilken, Judaism and the Early Christian Mind: A Study
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a Giovanni di Teodoro di Mopsestia e di Cirillo di Alessandria: confronto tra
metodi esegetici e teologici, Roma 1988; L. Koen, The Saving Passion:
Incarnational and Soteriological Thought in Cyril of Alexandria’s Commentary on
the Gospel of St John, Stockholm 1991.
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fonction protreptique de l’allégorie, in Recherches augustiniennes 1 (1958) 243-86;
G. Strauss, Schriftgebrauch, Schriftauslegung und Schriftbeweis bei Augustin,
Tübingen 1959; U. Duchrow, Sprachverständnis und biblisches Hören bei Augustin,
Tübingen 1965; H.-J. Sieben, Die res der Bibel. Eine Analyse von Augustinus, De
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«Sacramentum et exemplum» chez saint Augustin, in Recherches Augustiniennes 10
(1975) 87-14 1; idem, Delectare et prodesse. Ein exegetisch-homiletisches Prinzip
bei Augustinus, in Signum Pietatis. Festgabe für C. Mayer zum 60. Geburtstag, a
cura di A. Zumkeller, Würzburg 1989, 497-513; .B. de Margerie, Introduction à
l’histoire de l’éxégèse, 3: Augustin, Paris 1983; P. de Luis Vizcaíno, Los hechos de
Jesús en la predicación de san Augustín. La retórica clásica al servicio de la
exégesis patrística, Roma 1983; A.-M. La Bonnardière, Saint Augustin et la Bible,
Paris 1984; R. Bernard, In Figura. Terminology Pertaining to Figurative Exegesis in
the Works of Augustine of Hippo, Ann Arbor 1984; .A. Fürst, Veritas latina.
Augustins Haltung gegenüber Hieronymus’ Bibelübersetzungen, in Revue des
Études augustiniennes 40 (1994) 105-26; K. Pollmann, Doctrina christiana.
Untersuchungen zu den Anfängen der christlichen Hermeneutik unter besonderer
Berücksichtigung von Augustinus, De doctrina christiana, Freiburg/S. 1996; J.
Lienhard, Reading the Bible and Learning to Read. The Influence of Education on St
Augustine’s Exegesis, in Augustinian Studies 27 (1996) 7-25; M. Fiedrowicz,
Psalmus vox totius Christi. Studien zu Augustins «Enarrationes in Psalmos»,
Freiburg/B. 1997; B. Kursawe, docere — delectare — movere: Die officia oratoris
bei Augustinus in Rhetorik und Gnadenlehre, Paderborn 2000.
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Introduzione generale
Bertrand de Margerie sostiene che, alla base del pensiero di Ambrogio, ci sia la
convinzione che l’esegesi biblica sia l’attività principale del cristiano, l’attività umana
per eccelenza1. Tale giudizio sarebbe confermato da due grandi esponenti del V secolo:
Cirillo di Alessandria e Agostino d’Ippona.
I. Condizioni generali dell’esegesi cristiana verso il 400:
1. Testo base. Il testo base usato in questo periodo in Oriente è la versione della
Settanta (LXX). Già da tempo circolavano probabilmente altre versioni greche,
che avevano nomi ebraici, riportati da Origene e da Eusebio. Il testo greco della
LXX è considerato ispirato, alla pari della parola di Dio. In Occidente la
situazione è notevolmente diversa. San Girolamo è il primo autore latino che
affronta il problema della traduzione e valorizza la ueritas hebraica.
2. Scopo dell’interpretazione. Fin dall’antichità si interpretano i testi poetici,
filosofici e storici a partire da una doppia prospettiva:
a. Dal punto di vista estetico (retorico): delectare;
b. Sotto il profilo morale: prodesse.
L’adagio «delectare et prodesse» risponde ai canoni della retorica ed è
finalizzato, da un lato, a difendere tramite l’allegoria la religione mitica, posta a
fondamento della vita morale; dall’altro, ad attirare la curiosità e l’ammirazione
dell’ascoltatore (Studer).
L’uso del linguaggio figurato in ambito scritturistico, secondo gli esegeti del V
secolo, serve ad aumentare la delectatio da parte dell’interprete e del lettore. In
effetti, più ci si diletta del testo, più si cerca di scoprirne il significato nascosto,
al fine di individuare l’intenzione dell’autore sacro e il contenuto morale
soggiacente, cioè il prodesse (l’utilitas), che serve a perfezionare l’anima di chi
legge o studia la sacra Scrittura.
A questa duplice finalità corrisponde per certi versi, in ambito cristiano,
l’interesse dogmatico e morale. L’esegeta cerca infatti di scoprire nei testi sacri
il mistero divino, la bellezza del Logos, la ratio sacramenti, e, al tempo stesso,
di ricavarne un esempio (paradeigma, exemplum) di vita. Sotto questo profilo,
l’esegesi cristiana si propone di consolare e di edificare.
Si tratta, in ogni caso, di interpretazioni mirate, volte cioè a difendere e a
chiarire la fede in Dio, il quale ha parlato nei profeti, negli apostoli, e soprattutto
in Cristo. La stessa aspirazione alla salvezza, mediante la gnosi, incentiva la
meditazione della Bibbia. Va però notato che ogni lettura del testo sacro è
«interessata», in quanto mira, almeno tendenzialmente, ad attualizzarlo.
3. Metodo interpretativo
Conformemente ai canoni della filologia antica, il metodo interpretativo
(ermeneutica) è rimasto immutato fino al V secolo. Esso comprende quattro elementi
costitutivi:
1 Cf. B. de Margerie, Introduction à l’histoire de l’éxégèse, vol. 2, p. 140.
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a) Emendatio,
b) Lectio,
c) Interpretatio,
d) Iudicium.
Questi diversi aspetti dell’interpretazione biblica sono analizzati dal Maruou in
funzione della formazione intelletuale di Agostino. Sulla base dei dati raccolti, egli si
convince che l’interpretazione dei testi biblici, finalizzata al giudizio estetico e morale,
non può fermarsi alla lettera. L’esegesi tenderebbe infatti ad «attualizzare» il testo, cioè
a sottolineare l’importanza che esso ha «per noi» e «per la nostra salvezza», e, quindi, a
individuare il senso profondo, non sempre coincidente con quello inteso dall’autore
sacro.
In tale prospettiva, gli esegeti dei primi secoli hanno individuato quattro metodi
interpretativi, che ritroviamo, almeno in parte, nel V secolo:
- Il metodo sinagogale dei testimonia (dimostrazione basata sulle testimonianze
di persone autorevoli; l’utilizzo delle auctoritates o della testimonianza dei
martyres dei primi secoli);
- Il metodo tipologico (si basa sul confronto tra due avvenimenti, dei quali il
secondo ripete in qualche modo il primo). Un tipico esempio è rappresentato
dall’istituzione veterotestamentaria del sabato, che simboleggia e prefigura la
requies escatologica (il riposo eterno);
- La dimostrazione profetica (dice relazione con il compimento di una
predizione);
- L’esegesi allegorica (la ricerca, dietro le affermazioni storiche o mitiche, delle
verità fondamentali sulla vita, sull’anima, sulla cosmologia).
Non è facile trovare raggruppati tutti questi metodi, in modo da metterli a confronto
tra loro e da giungere così a una sintesi unitaria. Origene, ad es., considera metodi
d’interpretazione della Scrittura il senso storico, il senso morale e il senso mistico, e, in
maniera analoga, procede anche il vescovo di Milano, Ambrogio. Esegeti moderni
oppongono la lettera al senso cristologico e antropologico; da parte nostra, noi possiamo
distinguere fra ‘lettera’ (senso ovvio, o, comunque, quello inteso dall’autore sacro), e
‘spirito’ (senso nascosto, più profondo), finalizzato all’attualizzazione del testo.
Basil Studer ha suggerito di tralasciare la distinzione tra lettera e spirito e di
procedere con un metodo interpretativo unitario, che preveda comunque il passaggio
dalla lettera allo spirito.
4. Generi letterari seguiti in ambito esegetico
Sotto l’influsso della filologia classica, gli esegeti cristiani hanno generalmente
seguito quattro generi letterari, che sopravvivono fino alla prima metà del V secolo:
a. Quaestiones et responsiones
Sono quesiti che intendono rispondere alle difficoltà che si ricavano dai
testi sacri e che possono provenire sia sia dagli avversari della fede
cristiana, come Celso e Porfirio, sia dagli autori cristiani, come Origene
e Agostino (vedi, Schäublin 51-55).
b. Scholia
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Si tratta di spiegazioni brevi, non continue, scritte a margine delle
colonne o delle pagine del testo. Cicerone stesso testimonia la presenza
di scholia, ossia osservazioni e/o spiegazioni.
c. Commenti o Hypomneumata
Sono spiegazioni continue, trasmesse in libri separati. Già in epoca
imperiale, si stillano estratti di testi antichi di poeti o filosofi,
divulgandoli poi sotto forma di nuovi commenti. Gli esegeti cristiani, a
partire da Origene, riprendono questo genere letterario e lo applicano alla
spiegazione della Bibbia. Sulle orme degli antichi, si fanno precedere i
commenti da una o più introduzioni, in cui, secondo le regole comuni,
viene spiegato il titolo, l’argomento, lo scopo che l’autore si prefigge, il
numero dei libri, la struttura dell’opera e l’utilità che essa si prefigge di
raggiungere sul piano spirituale (vedi, Schäublin 66-72). Segue quindi la
spiegazione, frase per frase, anzi, parola per parola. Tali interpretazioni
di tipo analitico vengono poi completate da excursus (Akolouthia o
«coerenza logica» del testo) di carattere storico, letterario e soprattutto
dogmatico-apologetico. Si fa qui prevalentemente riferimento a
spiegazioni fatte in precedenza (vedi, Girolamo e Cirillo), che
entreranno, più tardi, nel genere delle catenae.
d. Trattati metodologici Si predispongono, a partire da Origene, trattazioni di carattere
metodologico, che fungono da introduzioni all’esegesi, oppure si
esaminano i diversi aspetti dell’ermeneutica. Autori greci coevi ci
ragguagliano sui titoli di alcune opere perdute:
Diodoro, Sulla differenza fra theoria ed allegoria;
Teodoro di Mopsuestia, Contro gli allegoristi (contro Origene).
Tali titoli si basano essenzialmente sulla distinzione fra «scuola alessandrina» e
«scuola antiochena», e attestano, indirettamente, l’esistenza di un dibattito sul
piano ermeneutico. Segnalo, in proposito, il titolo di un’opera significativa:
Adriano: Introduzione alle Scritture Sacre (PG 98.1273-1312), trattato
risalente probabilmente alla prima metà del V secolo (vedi, Schäublin
138-222). Siro di nascita, Adriano, noto anche come esegeta della scuola
di Antiochia, è verosimilmente da identificare con l’omonimo
destinatario di tre lettere, inviate da San Nilo. Il suo nome è inserito da
Cassiodoro tra gli introductores scripturae diuinae, dopo Ticonio e
Agostino, e prima di Eucherio e Giuliano. Il medesimo è inoltre autore di
una introduzione alla Sacra Scrittura in lingua greca, che costituisce una
sorta di ermeneutica biblica. Il termine eisagoghé, che compare qui per la
prima volta come titolo di un libro, indica il significato superiore del
testo sacro. In tre sezioni, Adriano raggruppa gli antropomorfismi
catalogandoli sulla base di alcune figure retoriche: ‘parola’, ‘costrutto’,
completate da una breve recensione sul genere letterario dei ‘tropi’.
L’opera, che rivela profonda conoscenza della lingua e singolare
originalità nella distinzione delle figure retoriche, costituisce un
interessante strumento d’interpretazione della Scrittura.
e. Subsidia
Analogamente agli autori profani, gli scrittori cristiani dispongono, già
da secoli, di lessici, cioè di glossari e dizionari di realia, strumenti utili
per spiegare il significato dei termini, dei nomi di persone e di luoghi, la
geografia, le piante, gli animali, ecc. Da punto di vista storico, si fa
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ricorso alle opere di Giuseppe Flavio, di Erodoto, e di altri. Al V secolo
risale il cosiddetto «Glossario di Cirillo», ripreso da Esichio nel suo
«Dizionario».
II. Prassi esegetica di Cirillo d’Alessandria
A. Formazione intellettuale
Nipote di Teofilo, vescovo di Alessandria, Cirillo riceve una completa formazione
intellettuale, come risulta dalle sue opere, soprattutto quelle composte prima del 429, e
dal Contra Julianum.
1. Formazione retorica
Cirillo si forma sui classici, conosce il latino e mostra grande padronanza della
lingua greca, soprattutto del vocabolario (ma meno dello stile). I suoi scritti
abbondano di citazioni classiche e testimoniano la predilezione per il genere
letterario del dialogo. Tenendo conto di questi fattori, si può meglio valutare la
sua innata avversione nei confronti dell’arte retorica.
2. Formazione filosofica
Alcune prese di posizione negative nei confronti della filosofia si spiegano a
partire dalla sua avversione verso gli eretici e i pagani in genere. Si tratta per lo
più di luoghi comuni, ripresi dalla tradizione precedente, come ad esempio le
invettive contro Epicuro e contro Aristotele. Ma nei suoi scritti non manca
l’esaltazione della filosofia, raffigurata da Agar, simbolo dell’ancella; si veda
anche il richiamo al tema dei tesori asportati dagli ebrei durante la fuga
dall’Egitto. Per ragioni polemiche quindi (soprattutto, anti-eunomiane), Cirillo
fa ricorso alla filosofia già prima del 429 e, nella caratterizzazione della
filosofia, segue sostanzialmente Origene, il quale se ne serve solo per ragioni
polemiche, quando è costretto.
3. Formazione teologica
Cirillo si mostra prevenuto nei confronti di Didimo, esponente di spicco della
teologia alessandrina dell’epoca. Ciò è dovuto principalmente all’anti-
origenismo di Teofilo, che esprime un giudizio di condanna nei confronti della
filosofia e della cultura classica in genere. Formatosi in ambienti monastici,
privilegia, sotto il profilo scritturistico, gli scritti di Paolo e a Giovanni; legge i
commentari biblici dei suoi predecessori, che però non nomina. E, solo dopo il
429, approfondisce lo studio dei Padri. Manifesta scarso senso critico, poiché
non sa riconoscere le falsificazioni apollinariste. La sua formazione teologica
appare però, tutto sommato, soddisfacente e completa.
B. Esegesi
Cirillo eccelle più come teologo, che come esegeta. Sotto il profilo ermeneutico, egli
si serve di tutti i mezzi a sua disposizione: argomentazione scritturistica, filosofica e
patristica, mostrandosi così un vero e proprio innovatore. Approfondisce, infatti, lo
studio della Bibbia come Parola di Dio, in funzione delle sue dimostrazioni di carattere
teologico.
1. Opere esegetiche
Le opere esegetiche di Cirillo appartengono principalmente al primo periodo
dell’attività letteraria, caratterizzata da una presa di posizione polemica contro
gli ebrei, i pagani e gli ariani. L’autore difende il mistero di Cristo e, mediante
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un nutrito dossier di testi vetero e neo-testamentari, confuta le obiezioni contro il
VT e dimostra che Cristo è vero Dio, escludendo così la teoria dei “due figli”.
Da un punto di vista generale, l’esegesi di Cirillo appare però più vicina a quella
degli antiocheni che non a quella di Didimo. Composte in una grande metropoli
dell’impero romano, le sue opere esegetiche attestano lo spirito «ecumenico»
dell’autore. Parimenti ad Eusebio e a Girolamo, Cirillo ricorre alla prova
profetica per dimostrare che ciò che è stato preannunciato dai profeti si compie
nella Pax romana. Pur contrapponendo sistematicamente la propria
interpretazione della Bibbia a quella degli antiocheni, egli si mostra in realtà più
vicino a questi ultimi di quanto a prima vista non possa sembrare. Segnaliamo,
in proposito, una triplice serie di opere:
a. De adoratione et cultu in spiritu et ueritate, in 17 libri: si tratta di
un’interpretazione allegorico-tipologica di testi veterotestamentari, di
tipo moraleggiante. Vi si esaminano le prefigurazioni della vera
adorazione, che trovano compimento nel Nuovo Testamento.
b. Glaphyra o «commenti eleganti»: sono interpretazioni tipologiche di
passi scelti dell’Antico Testamento (secondo l’ordine dei libri), letti e
interpretati secondo i principali avvenimenti della vita di Gesù. Potrebbe
essere intitolato: «Il mistero del Cristo prefigurato» (PG 69.317).
c. Commenti su Isaia e sui profeti minori. È un’interpretazione del libro di
Isaia secondo la storia e secondo lo spirito. Cirillo segue le orme dei suoi
predecessori. Vi si trovano anche frammenti di altri commenti a libri
profetici.
d. Sulla Trinità e Commento al vangelo di Giovanni, di tendenza
dogmatica, in funzione polemica contro gli ariani. Il secondo scritto è
databile presumibilmente al 425. In ogni caso, sembra sia stato composto
prima del 429, per cui sarebbe contemporaneo al commento di Agostino
sul Vangelo di Giovanni.
2. Principi di esegesi
Alla base dell’esegesi di Cirillo c’è la nota distinzione tra historia e
theoria, che corrisponde all’altro parametro di confronto tra interpretazione
letterale e spirituale. Cirillo usa una terminologia specifica: l’historia è
l’interpretazione terrestre, materiale, quindi, di qualità inferiore; la theoria è,
invece, quella vera e spirituale, di ordine superiore. La medesima distinzione si
ritrova in Agostino e sta alla base della sua contrapposizione tra i signa e le res.
Due sono i modi di conoscenza, conformemente allo schema platonico: le cose
sensibili e quelle intellegibili. Questo stesso schema è ripreso da Agostino e da
altri padri greci e latini del periodo aureo dell’età patristica. L’interpretazione
storico-letterale corrisponde alla conoscenza sensibile, visibile, uditiva, e
rispecchia, quindi, l’esperienza ordinaria. L’interpretazione spirituale, invece, è
quella riservata ai perfetti, ai più dotati intellettualmente, e riguarda la
conoscenza del mistero di Cristo. Pur prediligendo la theoria come senso
superiore, Cirillo esige che si valorizzi il senso storico. Possiamo dunque dire
che il modo, con cui egli giustifica il senso spirituale, dimostra che ha capito,
meglio dei suoi predecessori alessandrini, il valore fondante della storia,
presupposto indispensabile per giungere ad una interpretazione adeguata della
Scrittura come parola di Dio.
3. Fonti dell’esegesi
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Nell’interpretazione della Sacra Scrittura, Cirillo segue normalmente le
orme dei suoi predecessori, di cui tuttavia, conformemente alla prassi del tempo,
non indica i nomi. Ma, pur ignorando le fonti patristiche di riferimento, è
possibile, in taluni casi, risalire agli autori da cui attinge: Eusebio, Basilio,
Girolamo, Teodoreto. Non compare quasi mai Didimo, che Cirillo cita in genere
solamente per contestarlo. Confronta inoltre tra loro le diverse opinioni (vedi,
Kerrigan 351-61).
L’origine della theoria è invece più difficile da dimostrare. L’ermeneutica
di Cirillo è, in effetti, molto complessa. Analogamente alla visione
«alessandrina» del mondo, il duplice senso della Scrittura è fondato sulla
distinzione fra le cose sensibili e quelle intellegibili, delle quali le prime
acquistano valore di segno. Sulle orme degli Alessandrini, Cirillo riferisce le
istituzioni e gli eventi veterotestamentari al mistero di Cristo, senza però
collegarli con i singoli fatti della vicenda di Gesù, prendendo in questo le
distanze Origene. Possiamo dunque dire che nell’esegesi di Cirillo sono presenti
anche elementi non tipicamente alessandrini, come l’insistenza sullo scopo
inteso dall’autore (vedi, Kerrigan 87-108).
C. Valutazione dell’esegesi biblica di Cirillo
1. Un alessandrino “progressista”
Conformemente all’esegesi alessandrina tradizionale, Cirillo insiste sull’esegesi
spirituale e sul mistero del Logos. Ma diversamente dagli alessandrini, rifiuta di
considerare tutti i particolari del Antico Testamento come prefigurazione di
Cristo e della Chiesa. La theoria consiste, secondo lui, in una visione profetica
delle cose future (diversamente dagli antiocheni, da Girolamo e da Giuliano di
Eclano). Egli dimostra, in ogni caso, maggiore interesse, rispetto agli altri
Alessandrini, nei confronti delle realtà storiche (realia). Per cui si mostra, per
certi versi, più vicino agli antiocheni che non agli alessandrini, suoi
predecessori, perché riconosce la necessità del senso storico. Presenta inoltre
interpretazioni poco originali, in quanto segue in maniera pedissequa le
spiegazioni altrui. Certamente è meno critico di Girolamo e Teodoreto. Infine,
non valorizza la ueritas hebraica, come Girolamo. Si serve del metodo
allegorico, soprattutto quando procede all’interpretazione dei testi profetici
dell’Antico Testamento.
2. Fortemente allegorizzante (vedi, Kerrigan 446-61)
Nonostante il suo interesse per il senso storico, Cirillo rimane tutto sommato un
autore fortemente allegorizzante e si mostra più interessato dei suoi predecessori
alla tipologia tradizionale, alla storia di Israele (per la spiritualizzazione
progressiva, per l’educazione), alla profezia. Cirillo si distingue, inoltre, per la
profondità della sua teologia, più che per la sua esegesi. Nel suo Commento a
Isaia, emerge il senso della maestà divina, mentre il Commento a Giovanni è
tutto incentrato sull’unità di Cristo. Cirillo viene dunque apprezzato
prevalentemente sotto il profilo teologico che (vedi, Fatica).
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III. Introduzione all’esegesi biblica di Agostino d’Ippona
Non serve ribadire qui quanto Agostino abbia influito sulla storia del pensiero
teologico e della spiritualità cristiana occidentale. È opportuno invece richiamare due
fatti che, a prescindere dall’ingegno straordinario del vescovo di Ippona, ci aiutano a
comprendere il posto di primo piano, che egli occupa nel panorama storico della Chiesa
latina.
1. In primo luogo, in quanto erede della teologia africana e figlio spirituale di
Ambrogio, mediatore fra Occidente e Oriente greco, il grande pensatore riunisce
in sé due mondi diversi, ma altrettanto profondi.
2. In secondo luogo, collocato in un momento cruciale della Chiesa d’Occidente,
tra la fine dell’antichità e la nascita della civiltà medievale, egli esercita un
influsso notevole sulla vita e sulla teologia della Chiesa cattolica occidentale.
Tale influenza incide soprattutto sull’esegesi latina del Medioevo, che dal suo
pensiero riceve i suoi impulsi più decisivi. Esaminando l’esegesi agostiniana, ci
rendiamo conto che non è possibile esaurire questo argomento estremamente vasto e
non ancora sufficientemente esplorato dagli studiosi contemporanei. Non esiste infatti
alcuna monografia che affronti in maniera completa ed esaustiva tutti i vari aspetti
dell’esegesi di Agostino. Occorre pertanto far riferimento a una grande quantità di studi,
spesso dispersivi e molto settoriali.
Inoltre, per quanto concerne l’opera di Agostino, non è sufficiente consultare i
trattati strettamente esegetici, poiché la sua esegesi si traduce in forme diverse, sia per
quanto concerne il contenuto sia per quanto riguarda il metodo. Nell’Ep 138, ad es., egli
affronta – più che nel De doctrina christiana – il problema dell’interpretazione dei passi
biblici apparentamente contradittori (vedi, confronto tra AT e NT), una questione che
risale alla controversia manichea e che Agostino risolve con l’applicazione della
dottrina retorica dell’aptum (una uirtus dispositionis in linea con la retorica classica). È
inoltre di fondamentale importanza l’analisi che egli fa nel De Trinitate (libri, 2-4) delle
teofanie veterotestamentarie, e la stessa considerazione del Christus totus nelle
Enarrationes in Psalmos.
Nel Sermo II dell’Enarratio in Psalmos 90,1, come in altri luoghi, Agostino espone
la sua dottrina del Christus totus, riguardante cioè il Cristo e la Chiesa in tutta la storia
della salvezza. Afferma in particolare:
«Da quella città, lungi dalla quale viviamo pellegrini, ci sono
giunte delle lettere: sono le Scritture che ci esortano a vivere
bene - Et de illa ciuitate unde peregrinamur, litterae nobis
uenerunt: ipsae sunt scripturae quae nos hortantur ut bene
vivamus» (NBA XXVII,158s; PL 37,1159).
Secondo il santo Dottore, la Scrittura, oltre all’Incarnazione, è la via che
conduce alla città eterna. I testi sacri ci esortano infatti a vivere bene, e questa è la
condizione per giungere all’unione con Dio. La Scrittura è qui definita il “discorso di
Dio” (litterae), pronunciato per mezzo di Cristo, per cui, per certi versi, può essere
considerato anche il nostro discorso, poiché noi apparteniamo al corpo di Cristo, il
Christus totus.
Da questo celebre passo emerge l’importanza che Agostino attribuisce alla
lettura e all’intelligenza della parola di Dio, ma anche quanto il suo modo di leggere e di
interpretare la Scrittura dipenda dalla sua concezione teologica. La Bibbia è il
fondamento imprescindibile della teologia agostiniana. Certamente neppure la Parola è
necessaria ad salutem, poiché appartiene allo stato “post-lapsario”. Infatti, se l’uomo
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non avesse peccato, avrebbe potuto godere, anche senza Scrittura, della visione diretta
del Verbo, anticipando così la visione beatifica. Essenziali, quindi, ai fini della salvezza
sono semmai le virtù della fede, della speranza e della carità (cf., De doctrina christiana
1.39.43). D’altra parte, è pur vero che per poter acquisire le virtù evangeliche, attraverso
le quali si giunge alla visione di Dio, non si può prescindere dalla Bibbia. Per cui, come
si evince dal passo citato, la Bibbia è necessaria, in quanto funzionale alla prospettiva
storica della teologia agostiniana. Inoltre, coloro che credono in Cristo costituiscono,
insieme con gli angeli, la città di Dio. Così mentre quelli, cioè gli angeli, godono della
verità eterna e aspettano il ritorno degli uomini, questi ultimi sono ancora pellegrini e si
affaticano sulla terra. È proprio questa fatica che rappresenta la exercitatio mentis, con
cui l’uomo passa dallo studio attento della Bibbia alla conoscenza della caritas dei.
L’uomo, in effetti, non rimane senza consolazione, poiché la Scrittura lo invita a cercare
Dio, anzi, la stessa Parola di Dio incarnata,che gli indica la via verso la patria eterna.
Ne consegue che la dottrina dell’Incarnazione rappresenta per Agostino il
fondamento della ratio scritturistica. Essa ci fa capire che Dio si serve dello strumento
(letteratura, lettera, signa, segno), cioè dell’aspetto materiale della Scrittura, analogo a
quello assunto dal Verbo, per rivelarsi al mondo. L’unica differenza è costituita dal fatto
che nella Sacra Scrittura Dio si serve non solo della parola ma anche della stessa
struttura letteraria del linguaggio umano e, quindi, degli aspetti figurativi (metafore,
enigmi), per invitare l’uomo a ricercare le verità eterne, che sono difficili da
comprendere.
Se consideriamo tutti questi aspetti, comprendiamo come non sia sufficiente
spiegare l’insegnamento esegetico di Agostino e il suo metodo interpretativo.
Dobbiamo infatti partire dalla sua teologia, anzi, dall’insieme delle sue esperienze
umane, cristiane e sacerdotali. A tutto questo accenneremo, sia pur brevemente, nel
contesto storico dell’esegesi agostiniana.
1. Contesto storico dell’esegesi di Agostino
a) Esperienze di vita.
L’opera letteraria di Agostino è strettamente legata alle vicende della sua vita.
Quasi tutti i suoi scritti infatti riflettono le sue ansie e preoccupazioni, le sue
lotte e conquiste. Da questo punto di vista, si può dire che la fase cruciale della
sua vita, la sua conversione alla fede in Cristo, Verbo Incarnato, ha influenzato
tutta la sua opera e, soprattutto, la sua attività di carattere esegetico.
b) Ricerca della propria identità.
In seguito alla lettura dell’Hortensius di Cicerone, Agostino si sente arso dal
desiderio di ricercare la sapienza, che si trova nella beatitudo della ueritas, e non
nella uoluptas. La ricerca filosofica non è ancora rivolta a Cristo, ma allo studio
della filosofia, in continuità con la tradizione antica attestata fin dai tempi di
Aristotele. E, quando egli si accosta per la prima volta alla Bibbia, rimane deluso
dalla semplicità del linguaggio. La sua stessa adesione al manicheismo è dettata
dal suo desiderio di trovare una verità certa. In questa prima fase del cammino
verso la conversione, il giovane retore rimane profondamente deluso dagli
antropomorfismi e dall’immoralità presenti nella Bibbia; professa il
razionalismo manicheo e, al tempo stesso, sprofonda nello scetticismo.
10
c) Conversione.
L’incontro con il neoplatonismo milanese, la scoperta della retorica e
dell’esegesi allegorica di Ambrogio, la lettura di Paolo e di Giovanni, diventano
esperienze decisive che contribuiscono alla soluzione della crisi e lo aiutano a
trovare alcune risposte certe:
- L’auctoritas fidei, come via di salvezza per tutti;
- Il valore dell’esegesi dell’Antico Testamento;
- La necessità della purificazione morale per mezzo di Cristo, sulle orme
di Paolo.
In questa fase cruciale e travagliata della sua esistenza, Agostino deve molto ad
Ambrogio e alla sua esegesi biblica, più di quanto non emerga dagli studi recenti (vedi,
Rollero).
d) Ministero sacerdotale
Dopo la conversione, Agostino approfondisce il tema della fede e affronta, da un
lato la polemica antimanichea, dall’altro lo studio della Bibbia e dei commentari
biblici. A partire dal 388, egli incomincia a familiarizzarsi con le citazioni
bibliche, che diventano più frequenti nelle sue opere. La svolta biblica si ha
tuttavia solo dopo l’ordinazione sacerdotale (391; cf., Ep 21.3-4). A partire da
questo momento, il neoconvertito si dedica con interesse allo studio della Bibbia
e, forse, anche dei commentari biblici di Ambrogio.
e) Ministero episcopale
Durante l’episcopato, Agostino perfeziona lo studio biblico in funzione della
predicazione e dell’esegesi pratica e kerigmatica. Si dedica inoltre la ricerca
teologica, per rispondere alle provocazioni dei pelagiani, e cerca di approfondire
le grandi verità di fede, come appare dal trattato De Trinitate. È il tempo della
maturità.
2. Fonti dell’esegesi agostiniana
2.1. Formazione retorica.
Dopo lo studio della grammatica e della retorica, Agostino assume la veste di
retore, che gli diventa congeniale a tal punto da caratterizzare tutta la sua opera.
Per cui, poco importa se, un anno prima del battesimo, egli rinuncia alla cattedra
di retorica a Milano, poiché, dentro di sé, continua a comportarsi come un retore
romano. Questo aspetto va tenuto in debita considerazione, quando si studia
l’esegesi agostiniana, ed è ciò che spinge gli studiosi a investigare la sua opera
alla ricerca di tracce e principi retorici nella sua ermeneutica e nel suo metodo
esegetico. Da questo punto di vista, si può dire che l’impatto retorico nel metodo
esegetico di Agostino non è stato ancora sufficientemente esplorato, anzi ciò che
finora si conosce non sono che timidi indizi sull’influenza del metodo retorico
nella sua esegesi. Particolare attenzione è stata invece rivolta all’allegoria, allo
studio delle locuzioni figurate, alla tematica «sacramentum et exemplum» e al
campo figurativo e metaforico. L’ambito, che merita di essere meglio
approfondito è comunque quello riguardante l’influsso retorico dell’aptum, del
decoro, e il concetto della Scritture come eloquia dei, discorso di Dio. In effetti,
Agostino adotta per l’interpretazione della Bibbia metodi e procedimenti propri
dei grammatici e dei retori latini. Anzi, nel De Doctrina christiana, egli presenta
11
una vera e propria teoria cristiana dell’interpretazione biblica. Quest’opera è un
trattato di cultura cristiana, orientata non più verso i classici antichi, ma verso le
Sacre Scritture. La pratica e la teoria dell’esegesi agostiniana comprendono i
seguenti elementi:
a. Preparazione remota
Per l’interpretazione dei testi sacri si richiede la conoscenza della
filosofia (la dialettica), delle artes, comprese le scienze e, soprattutto, la
conoscenza delle lingue, della storia, della geografia. La retorica, in
quanto ars dicendi, serve solo in parte all’interpretazione e, soprattutto,
all’esposizione dei contenuti dell’esegesi, nelle omelie e nei commentari.
b. Terminologia esegetica
La scienza biblica di Agostino è condizionata dall’uso della
terminologia retorica latina: historia, ordo rerum, gesta, facta et dicta,
exemplum, auctoritas, persona, ecc. (vedi, de Luis). Anche in questo
ambito, tuttavia, Agostino non è il primo ad introdurre questi termini
nell’esegesi cristiana.
c. Metodo interpretativo Agostino segue in genere lo schema d’interpretazione classico: lectio,
emendatio, enarratio, iudicium (vedi, quanto è stato precisato sopra).
L’interesse per la frase, anzi, per ogni singola parola, è un metodo che
caratterizza la stessa esegesi giudaica, che si contradistingue per il suo
letteralismo.
d. Conoscenza storica Nell’interpretazione dei testi biblici Agostino cerca di coniugare la
cognitio uerborum con la cognitio rerum. Quest’ultima riguarda gli
aspetti di carattere storico, che assumono grande rilevanza sia presso i
romani, sia presso gli autori biblici, che si servono appunto di exempla.
D’altra parte, occorre notare che l’interesse storico suppone anche una
certa critica.
e. Concezione della Bibbia Agostino considera la Bibbia come Parola di Dio, da comprendersi in
senso retorico, cioè come discorso, che segue determinate regole di
carattere letterario. Torneremo sulle conseguenze di questo modo
particolare d’intendere la Scrittura.
f. Sfondo neoplatonico La visione neoplatonica del mondo, che ha favorito la conversione di
Agostino, esercita la sua influenza lungo tutto il corso della sua opera teologica,
e, in particolare della sua esegesi. Emerge qui quel modo tipico di pensare che
caratterizza soprattutto i primi scritti, e, a prescindere dal quale, non si riesce a
comprendere le opere posteriori. Il testo più significativo, per capire quanto
l’esegesi agostiniana sia debitrice dello schema platonico e neoplatonico, è il De
genesis contra manicheos 2.4.5, un passo molto interessante e ricco, che
presenta la Scrittura come Parola di Dio e descrive la condizione dell’uomo
decaduto, che ha bisogno di segni, immagini, e figure per comprendere i misteri
divini e le verità eterne contenute nella Sacra Scrittura.
«Prima del peccato […], avendo Dio già creato gli arbusti dei campi e le erbe -
termini questi che simboleggiano, come abbiamo già detto, la creatura invisibile - la
irrigava con la sorgente interiore, parlando cioè alla sua intelligenza; in tal modo essa non
riceveva le parole solo esteriormente come una pioggia discendente dalle suddette nubi, ma
12
veniva saziata con l’acqua sgorgante dalla sua propria sorgente, ossia dall’intimità del
proprio spirito… Quando però l’anima veniva irrigata da questa sorgente, non aveva ancora
gettato via l’intimo del proprio cuore a causa della superbia. Poiché “l'inizio della superbia
dell'uomo è allontanarsi da Dio” (Eccli 10,14). E poiché, gonfiandosi per superbia verso
l'esterno, non fu più irrigato dalla sorgente intima, giustamente l'uomo viene schernito con
le parole d'un profeta e gli viene detto: “Perché mai s'insuperbisce chi è terra e cenere?
Nella sua vita infatti gettò via il proprio intimo” (Eccli 10,9-10). Orbene, che cos'altro è la
superbia se non abbandonare l'intimo segreto della coscienza e desiderare d'apparire ciò che
non si è? Ecco perché, affannandosi ormai nella coltivazione della terra, l'uomo ha bisogno
delle piogge cadute dalle nubi, cioè dell'insegnamento impartito con parole umane, al fine
di potere anche, in tal modo, rinverdire sottraendosi all'aridità e diventare di nuovo verzura
dei campi. Ma volesse il cielo che accogliesse volentieri dalle stesse nubi anche la pioggia
della verità! Poiché per farla piovere nostro Signore si degnò di assumere la nube della
nostra carne, sparse la pioggia del santo Vangelo in larghissima abbondanza e promise
altresì che, se uno berrà dell'acqua di lui, tornerà a quell'intima sorgente, per non cercare la
pioggia al di fuori. Poiché egli afferma: “Diventerà in lui sorgente d'acqua che zampilla per
la vita eterna” (Gv 4,14). È questa - penso io - la sorgente che sgorgava dalla terra prima
del peccato e irrigava tutta la superficie della terra, poiché era interiore e non aveva bisogno
dell’aiuto delle nubi»2.
Secondo Agostino, il primo uomo, Adamo, creato ad immagine di Dio,
gode nel Paradiso terrestre di una illuminazione immediata di Dio. Incontra cioè
Dio come amico. Ma il peccato di superbia lo allontana dalla fonte della vita. E,
in questa condizione di alienazione, conseguente alla caduta, trovandosi ormai
separato dal Verbo divino, finisce per ricercare unicamente il proprio bene
egoistico, invece del bene comune, ed esercita l’extravisione” invece
dell’introspezione (corruptio intellectus), desidera cioè le cose inferiori invece di
quelle superiori (corruptio uoluntatis). L’uomo decaduto, e schiavo del peccato,
non desidera più la conoscenza delle verità eterne in se stesse e si diletta (si
distrae) delle cose del mondo. Egli non è più in grado di guardare in alto.
L’occhio del suo cuore guarda ormai verso il basso, verso la terra. Il ritorno al
paradiso, al mondo intellegibile, gli è precluso ed egli si ritrova privo
dell’illuminazione. Affinché possa rialzarsi, è necessario che Dio lo richiami e lo
inviti a ritornare a Lui mediante l’intervento/l’autorità di Cristo, della Scrittura e
della Chiesa (nubes). Oltre al Verbo Incarnato, che rivela le cose divine,
diventano per lui fondamentali l’autorità della Bibbia e la predicazione della
Chiesa, che lo sollecitano a convertirsi e a rientrare in se stesso, per ritrovare, nel
proprio cuore, la verità eterna. La Scrittura e la predicazione generano e nutrono
la fede, che mediante la carità lo conducono all’incontro con Dio. Tale ascesa,
che comporta una purificazione continua della mente, non si compie in maniera
completa su questa terra. Soltanto in cielo, dove si trova in compagnia degli
angeli, l’uomo potrà godere della visione della verità eterna. Egli non può
dunque giungere per mezzo della scienza alla sapienza; solo purificandosi riesce
ad unirsi al Cristo-Dio, tramite il Cristo-Uomo. Ritroviamo qui gli elementi
neoplatonici, adattati e integrati nella prospettiva cristocentrica, che Agostino
elabora, ponendola al vertice del processo epistemologico e del passaggio dalle
cose terrene e caduche a quelle eterne.
2.2. Tradizione cristiana
Appartengono alla tradizione cristiana le seguenti verità di fede: Cristo, fonte di
illuminazione per la mente; Cristo unico maestro, sia sul piano interiore, nel
cuore umano, sia su quello esteriore, riguardante l’autorità della Chiesa e la
2 De genesis c. manicheos 2,4.5-5.6 (NBA
13
bellezza del creato; Cristo, fonte di grazia che mostra la via dell’esempio. Anche
qui, occorre notare che gli elementi platonici non sono ripresi da Agostino
unicamente dalle fonti filosofiche, essendo rinvenibili in tutta la tradizione
cristiana (vedi, i contatti con lo gnosticismo in autori come Origene, Ambrogio,
Mario Vittorino e altri), nei confronti della quale è debitore anche di tutto un
retaggio filosofico e retorico. A noi qui interessa evidenziare l’influsso di questa
tradizione soprattutto per quanto concerne l’esegesi. Vedremo in un secondo
momento il suo rapporto con Ambrogio, Girolamo, Ticonio, i Padri, il
“paolinismo” del IV secolo e la stessa Bibbia.
a. Influsso di Ambrogio e dell’ambiente milanese
La scoperta del senso spirituale della Bibbia e il superamento
dell’avversione nei confronti del Vecchio Testamento sono dovuti in
gran parte ad Ambrogio. Dal vescovo milanese Agostino impara ad
interpretare la Bibbia seguendo i criteri dell’ermeneutica scientifica del
tempo e lo fa approfondendo la visione neoplatonica del mondo, e
attingendo filoni interpretativi dall’esegesi di Basilio, di Origene, di
Didimo e di altri. Le tematiche bibliche che maggiormente lo affascinano
sono: il Sermone della montagna, i Salmi, il Cantico dei Cantici e il
Vangelo di Giovanni.
b. Influsso di Girolamo
Nonostante i forti contrasti con Girolamo, tra il pastore d’anime e il
filologo erudito si sviluppa un profondo interesse per l’interpretazione
biblica, ciascuno ovviamente da punti di vista differenti: sulla storicità
degli episodi biblici (vedi, il caso dell’incidente di Antiochia); sulla
“veritas hebraica” (la LXX non sarebbe ispirata). Così Agostino impara
molto da Girolamo, per quanto concerne le questioni filologiche e
storiche, la traduzione e i nomi biblici.
c. Influsso di Ticonio
Nel De Doctrina christiana Agostino fa riferimento al Liber regularum
di Ticonio, donatista e laico molto colto. Ne riprende le regole
ermeneutiche, secondo cui, nei testi dell’Antico Testamento e,
soprattutto, nei Salmi, si possono individuare le persone che parlano, a
seconda che se si tratti del Cristo-capo o del Cristo-corpo, e l’idea delle
duae civitates.
d. Incidenza del «paolinismo» nell’esegesi del IV secolo,
con particolare riferimento a Mario Vittorino, all’Ambrosiaster e a
Pelagio.
3. Chiave interpretativa: Deus auctor Scripturarum
Agostino segue il principio, ereditato dal giudaismo e dalla tradizione
apostolica, che Dio è l’unico autore delle Scritture, e lo utilizza come
argomento polemico soprattutto contro i manichei. E questa sua presa di
posizione lo porta a precisare alcuni fondamentali capisaldi dal punto di vista
esegetico:
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a. Inerranza della Bibbia, per cui l’esegeta deve spiegare le difficoltà e le
apparenti contraddizioni;
b. Senso del mistero, secondo cui occorre “pulsare, et aperietur vobis”,
additato come principio universale. In base a questo criterio, tutto ciò che
serve all’edificazione della carità è stato previsto da Dio, unico autore
della Bibbia e della creazione;
c. Unità della Bibbia, per cui un testo scritturistico va interpretato alla luce
di altri e di tutto il messaggio rivelato. La mancanza di senso storico è
pertanto compensata da una conoscenza allargata di testi paralleli;
d. Bibbia come Parola di Dio, come propedeutica alla fede (auctoritas) e
via maestra che conduce all’incontro con Cristo e alla conoscenza delle
verità eterne (pistis, gnosis, agape).
4. Linee direttrici dell’esegesi agostiniana
Tra i fattori dell’esegesi di Agostino va considerato in primo luogo l’incontro con la
cultura filosofica e la retorica. Infatti, se si considera che Agostino è stato un retore di
formazione, ma un filosofo d’ingegno, cioè che ha operato dentro di sé un confronto
sistematico e continuo fra aspirazioni filosofiche (suscitate dalla lettura dell’Hortensius)
e impronte della cultura retorica, allora si possono meglio comprendere origine e
sviluppi della sua esegesi. L’esito di tale confronto quasi secolare e fecondo, si riscontra
soprattutto nel De Doctrina cristiana; quindi, nel De utilitate credendi; inoltre, nel De
catechizandis rudibus, nei commenti Sulla Genesi, nel De Trinitate (libri 12 e 13);
infine, in alcune lettere (vedi, l’Ep 55). Si capisce allora perché gli studiosi, che
esaminano questi scritti, forniscano elementi/ testimonianze di primo piano sui caratteri
della sua esegesi. Da queste ricerche emergono alcune direttrici:
a. Senso storico e figurato.
Come emerge dal De Genesi ad litteram 1.1.1, e da altri passi della stessa opera,
nella narratio rerum (cioè nei racconti storici) si possono distinguere due
significati: l’uno secundum rerum gestarum proprietatem e l’altro secundum
figurarum intellectum, che può essere figurativo/misterico (mysterium Christi et
Ecclesiae) o spirituale (insegnamento morale). Facendo leva su questa
distinzione, Agostino s’inserisce a pieno titolo nella tradizione cristiana dei sensi
della Scrittura. Tuttavia, nel De Genesi ad litteram, Agostino sottolinea, più
chiaramente dei suoi predecessori, che la narratio rerum possiede in sé un
significato più profondo, che oltrepassa la storicità dei fatti narrati e riguarda le
stesse azioni divine. Quando invece l’autore umano racconta un evento o un
prodigio di natura divina, non si deve intenderlo in modo semplicemente umano,
cioè antropomorfico. Tale principio si applica, in modo particolare, al racconto
della creazione, in cui, secondo Agostino, si parla della prima creazione del
cosmo e del primo uomo, compiuta da Dio in un solo istante (= creazione
ideale). D’altra parte, Agostino colloca il senso misterico in prospettiva storico-
salvifica, in modo più ampio di quanto non sia stato fatto dalla tradizione
precedente. Egli inserisce cioè il mysterium Christi nella prospettiva del Christus
totus, e delle duae ciuitates. La testimonianza più eloquente di questa
interpretazione si trova nelle Enarrationes in Psalmos.
b. Res et signa
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Il rapporto delle res narratae con la realtà divina, ossia con il mistero di Cristo,
è un rapporto, basato essenzialmente sul passaggio dal signum alla res. Lo stesso
passaggio dai signa alle res è basilare nell’interpretazione biblica. La rivelazione
di Dio nella storia della salvezza comprende, infatti, facta e dicta, ed è
consegnata ai uerba della Scrittura. Facta/dicta costituiscono per certi versi una
cosa sola con i uerba, che li esprimono. Ora tutta l’interpretazione della Bibbia
consiste nel passaggio dai signa alle res: dobbiamo cioè cercare il senso delle
parole e dei fatti della storia della salvezza, espressi attraverso il racconto
biblico. Questo passaggio è facile nel caso dei signa aperta, in cui la regula fidei
offre la chiave interpretativa per comprendere i testi oscuri. Ma tale operazione
diventa difficile in presenza di signa obscura, cioè ignota, come le lingue
straniere, oppure gli ambigua, propri del linguaggio metaforico. Nel primo caso
infatti si devono studiare le lingue antiche; nel secondo, invece, si devono
studiare i metodi dei grammatici e dei retori. Da ultimo, occorre rifarsi al
principio evangelico della fede, che opera mediante la carità.
c. Mundus sensibilis et mundus intellectualis.
Il rapporto fra signum e res, fra espressione e contenuto, con cui Agostino
approfondisce la dottrina tradizionale dei significati della Bibbia, si capisce
ulteriormente sullo sfondo filosofico (neoplatonico) del contrasto fra mundus
sensibilis, al quale i signa appartengono, e mundus intellegibilis, al quale
appartengono le res perfectae. In ambito esegetico, tale contrasto include due
problematiche:
La prima riguarda l’impossibilità per l’uomo di raggiungere Dio, oppure
il mondo intellegibile, soltanto con la ratio. Ci sarebbe, in tal caso, una
sola via per l’uomo, quella della fides, intesa come affidamento a Dio.
Per ovviare a questa difficoltà relativa alla conoscenza religiosa,
Agostino fonda tutto il lavoro esegetico sull’amore di Dio e del
prossimo. L’esegesi deve essere pertanto «utile» (utilis, utilitas), per
poter comunicare quelle cose di cui dobbiamo godere (frui). Nessun
criterio è dunque più importante dell’edificazione dell’amore (vedi, De
catechezandis rudibus 4.8; De doctrina christiana 1.35ss).
La seconda problematica, più specificamente esegetica, riguarda il
rapporto tra verità eterna e parola scritta. La questione fondamentale
riguarda il problema del come la verità eterna e immutabile possa
esprimersi nei fatti e nelle parole della rivelazione, e, quindi, nel
linguaggio umano della Bibbia. Tentando di rispondere a questo quesito,
cruciale per l’impostazione platonica non solo dell’esegesi ma di tutta la
sua teologia, Agostino sviluppa la sua dottrina della dispensatio
temporalis: l’autorità divina si è resa presente in questo tempo, nella
storia d’Israele, nell’Incarnazione, nella Bibbia, nella Chiesa (nella sua
predicazione e nella liturgia), cioè si è resa presente nel Cristo
annunciato, incarnato e sempre presente. E, dal momento che il Cristo,
sapienza eterna, si è fatto scienza, noi conosciamo la via sicura ed
universale per giungere alla verità eterna. In tale prospettiva, secondo cui
il Verbo eterno s’identifica con la Scrittura (autorità temporale), si
comprende il modo con cui Agostino parla dell’inerranza biblica,
dell’accordo fra Antico e Nuovo Testamento, del nesso intimo tra Bibbia
e tradizione ecclesiastica, e, soprattutto, la sua particolare maniera di
rappresentare il Cristo in tutta la Bibbia. Infatti, dal momento che Dio
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stesso ha parlato per mezzo del suo Verbo nella storia, noi, per poterlo
conoscere, disponiamo di un sicuro punto di partenza.
d. Quaedam eloquentia.
Queste conclusioni poggiano sulla considerazione che la Bibbia per Agostino è
un discorso (quaedam eloquentia), pronunciato dal più grande retore, Dio.
Infatti, la convinzione che Dio, rivelandosi nella storia e consegnando la sua
manifestazione alla testimonianza della Bibbia, ha composto un discorso
grandioso ed armonioso, aiuta Agostino non soltanto a superare il contrasto fra
mundus sensibilis e mundus intellegibilis, ma anche a spiegare alcune
caratteristiche particolari della Bibbia
5. Valutazione conclusiva dell’esegesi agostiniana
a. Orientamento pastorale.
Globalmmente considerata, l’opera esegetica di Agostino presenta un carattere
eminentemente pastorale. La sua ricerca è in funzione della predicazione, delle
risposte da trovare alle difficoltà dei fratelli e della ricerca religiosa in generale. In
tale ambito, Agostino si lascia guidare da due principi fondamentali: “delectare” e
“prodesse”: niente che sia indegno di Dio (delectare), e tutto per l’edificazione
della carità (prodesse).
Limiti
- Difetti di carattere teorico: sono legati alla visione platonica, non del tutto
superata, del modo di concepire la presenza di Dio nella storia.
- Difetti di carattere pratico: sono dovuti a carenze linguistiche, all’ignoranza
dell’ebraico e all’insufficiente conoscenza del greco (diversamente dalla lingua
latina in cui mostra di avere grande padronanza), e alle troppe concessioni
all’allegorismo.
Pregi
Agostino elabora una teoria esegetica tutto sommato completa; indica inoltre le
regole generali per la recezione del canone della Bibbia e riprende, adattandoli, i
criteri dell’ermeneutica antica, avvalendosi in questo della filosofia della lingua.
Infine, approfondisce la visione dell’unità della storia della salvezza, dell’unità
della Bibbia e dell’unità dei due Testamenti.
6. Visione della Scrittura
La Scrittura comprende l’insieme dei libri sacri dell’Antico e del Nuovo
Testamento.
«Nessuno ignora – osserva Agostino – che la sacra Scrittura» è costituita da
«l’insieme dei libri della Legge, dei Profeti e dei Vangeli e degli scritti apostolici, ai quali
riconosciamo autorità canonica (auctoritate canonica praeditis)». Quindi, precisa: le
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«leggi», ivi contenute, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, «stabiliscono norme per
una vita conforme alle esigenze della vera religione (ad vitam piam… moresque)»3.
La Bibbia parla «di Cristo», «della sua Chiesa» e delle altre verità riguardanti la
«fede», la «vita» e il destino dell’uomo4. Essa insegna all’uomo a ricercare il «sommo
bene (summum bonum)», a «vivere bene (bene vivere)» praticando l’amore di Dio e le
quattro virtù cardinali (giustizia, fortezza, prudenza e temperanza), che culminano nel
duplice comandamento della carità.
«Questa e l’unica perfezione dell’uomo (una perfectio), con la quale soltanto egli
ottiene di godere della pura verità; questa cantano ad una voce i due Testamenti, questa ci
raccomandano l’uno e l’altro. A che scopo accusate ancora le Scritture, che non conoscete?
Ignorate con quanta incompetenza ve la prendete con Libri che criticano soltanto quelli che
non li comprendono e che non possono comprendere solo quelli che li criticano? Poiché
essi sono tali che a nessuno che li odia è consentito di conoscerli e chi li conosce non può
che amarli»5.
Dal punto di vista pedagogico-spirituale, la sacra Scrittura si rivolge al cuore
dell’uomo e lo aiuta a riflettere sulle verità eterne e sul senso da dare alla propria
esistenza.
«[… ] Essa parla in modo da schernire i superbi con la sua sublimità (altitudine), da
atterrire con la sua profondità (profunditate) gli studiosi che riflettono, da saziare gli
spiriti grandi con la sua verità (veritate) e nutrire i piccoli con la sua affabilità
(affabilitate)»6.
Sotto il profilo ermeneutico, la parola di Dio va interpretata. L’interpretatio
assume significato di spiegazione letterale e, in tale accezione, diventa sinonimo di
traduzione letterale e grammaticale del testo. Questo primo livello interpretativo chiede
di essere completato dall’explanatio, che consiste nell’intelligenza (intellegere) e nella
comprensione (comprehendere) profonda della citazione o pericope biblica, letta nel suo
contesto. Conseguentemente l’ermeneutica si configura come una disciplina, che
appartiene da un lato alla filologia, dall’altro al metodo e all’arte di interpretare7.
3 De Scrip. s. spec. Praef. (NBA X/3,210s).
4 Contr. litt. Petil. 3,6,7 (NBA XV/2,282s).
5 De mor. Eccl. cath. 1,25,46 (NBA XIII/1,74-77).
6 De Gen. ad litt. 5,3,6 (NBA IX/2,238s). Cf. Conf. 12,27,37 e 28,38 (NBA I,438s.440s).
7 Sull’argomento si veda: M. Brito Martins, Le projet herméneutique augustinien. I. Herméneutique et
interprétation, in «Augustiniana» 48 (1998) 255-268, soprattutto 264-267.
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7. Fondamenti dell’ermeneutica agostiniana: autorità, inerranza e veridicità biblica
Dopo l’esperienza manichea8, Il primo passo del giovane Agostino verso la
Chiesa è costituito dalla scoperta dell’utilità del credere e dell’autorità della sacra
Scrittura, che lo ha aiutato a reimpostare il rapporto fede-ragione9.
«La sacra Scrittura è l’autorità che occupa il più alto posto nel cielo anzi la sommità
stessa del cielo (in summo et coelesti auctoritatis culmine) e io la leggerò assolutamente
certo e sicuro della sua veridicità»10.
Fin dal suo primo approdo alla Chiesa cattolica, egli si mostra assolutamente
convinto della indiscussa autorità della sacra Scrittura e della sua inerranza.
«Chi non sa che la santa Scrittura, canonica del Vecchio e del Nuovo Testamento
è contenuta entro limiti ben definiti, e che è talmente superiore a tutte le successive lettere
dei vescovi, che non è assolutamente possibile dubitare e discutere se ciò che dice è vero e se
ciò che vi si trova è giusto (utrum verum vel utrum rectum)?»11. Quindi, aggiunge: «[… ]
questo timore riverenziale (hunc timorem honoremque deferre) per cui credo in modo
fermissimo che nessun autore ha potuto sbagliare nello scrivere, ho imparato ad averlo
solamente per i libri della sacra Scrittura (solis eis Scripturarum libris). Se, quindi,
m’imbatterò in qualche passo di questi libri, che mi dia l’impressione d’essere in contrasto
con la verità, non avrò alcun dubbio che ciò dipenda dal fatto che o è scorretto il
manoscritto (mendosum… codicem) o il traduttore non ha centrato il senso (interpretem non
assecutum) o sono io che non ho capito (me minime intellexisse)»12.
La fede non gli appare più un fatto assurdo, come gli è sembrata a 19 anni, né in
antagonismo con la ragione. Una luce di certezza è ormai sorta nel suo animo: è meglio
credere in attesa di vedere, piuttosto che restare nell’oscurità dell’ignoranza. Ma la fede
suppone un’autorità cui affidarsi, e questa autorità Agostino la riconosce nella Scrittura.
«Essendo dunque gli uomini troppo deboli (infirmi) per trovare la verità con la sola
ragione (liquida ratione), e avendo perciò bisogno dell’autorità di testi sacri (auctoritate
sanctarum Litterarum), io avevo incominciato a credere ormai che non avresti attribuito
8 Agostino aderisce per ben nove anni alla setta dei Manichei (cf. Conf. 3,6,10: NBA I,64-67; Serm. 51,5,6:
NBA XXX/1,12s) e ne condivide i presupposti dottrinali: rigetto dell’Antico Testamento, considerato come
retaggio del Dio creatore della materia, dominato dal principio del male e infetto di antropomorfismo, e
riconoscimento dell’autorità del Nuovo.
9 Fautori diretti o indiretti di questo cambiamento sono stati il vescovo Ambrogio di Milano (autunno del 384)
e il presbitero Simpliciano e il filosofo Mario Vittorino, che lo ha iniziato alla lettura dei libri dei
neoplatonici.
10 Lett. 82,2,5 (NBA XXI,678s). Cf. De ordine 2,9,26 (NBA III/1,322s): «[…] in ordine di tempo viene prima
l’autorità (=fede), in ordine di importanza la ragione».
11 De bapt. c. Donat. 2,3,4 (NBA XV/1,318s).
12 Ep. 82,1,3 (NBA XXI,674-677). Cf. De nat. et gratia 61,71 (NBA XVII/1,468s): «[… ] Solo agli scritti
canonici debbo un assenso incondizionato (solis canonicis debeo sine ulla recusatione consensum)».
19
un’autorità così eminente (tam excellentem… auctoritatem) presso tutti i popoli della terra a
quella Scrittura (illi Scripturae), se non avessi desiderato che l’uomo per suo mezzo
credesse in te (per ipsam tibi credi) e per suo mezzo ti cercasse (te quaeri). Dopo le molte
spiegazioni accettabili che ne avevo udito, ormai attribuivo le assurdità (absurditatem) che
mi solevano urtare in quei testi alla sublimità dei simboli (ad sacramentorum altitudinem).
La loro autorità (auctoritas) mi appariva tanto più venerabile e degna di fede pura (fide
dignior), in quanto si offrivano a qualsiasi lettore (omnibus… in proptu), ma serbavano la
maestà dei loro misteri (secreti sui dignitatem) a una penetrazione più profonda (in
intellectu profundiore). L’estrema chiarezza del linguaggio (verbis apertissimis) e umiltà
dello stile (humilimo genere loquendi) li rendevano accessibili a tutti, eppure stimolavano
l’acume (intentionem) di coloro che non sono leggeri di cuore (cf. Eccli 19,4); e se
accoglievano nel loro seno aperto l’umanità intera, lasciavano passare per anguste fessure
(per angusta foramina) fino a te un numero piccolo di persone (cf. Mt 7,13s), molto più
grande tuttavia di quanto non sarebbe stato, se fosse mancato loro un prestigio così
eminente (tanto apice auctoritatis) e una santità così umile, da attrarre nel proprio grembo
le turbe (turbas gremio… hauriret)»13. «Così mi convincesti che non merita biasimo chi
crede nelle tue Scritture, di cui hai radicato tanto profondamente l’autorità in quasi tutti i
popoli, ma piuttosto chi non vi crede»14.
L’incapacità di giungere per via razionale alla conoscenza delle realtà invisibili
postula l’«autorità dei testi sacri (auctoritas sanctarum Litterarum)», carichi di
simbolismo e di prefigurazioni del mistero di Cristo15, in grado di guidare l’uomo sulla
via della verità e della salvezza. Tale convinzione lo porta ad affermare senza mezzi
termini la veridicità della Scrittura, che – dichiara – ormai «nessuno, tranne gli infedeli
e gli empi, mette in dubbio (quam… nemo dubitat)»16, e a impegnarsi ad esporla con
l’intento apologetico di dimostrane l’inerranza.
«Noi ci sforzeremo, nei limiti della nostra capacità e con l’aiuto [di Dio], di non dar
motivo a pensare che nelle Sacre Scritture vi sia qualche assurdità (aliqua absurditas) o
contraddizione (repugnantia) che urti il sentimento del lettore (opinionem lectoris) che,
reputando impossibili certi fatti narrati dalla Scrittura, s’allontani dalla fede o non vi si
accosti»17.
13 Conf. 6,5,8 (NBA I,154s).
14 Conf. 6,5,7 (NBA I,152s).
15 Cf. L.F. Pizzolato, Studi sull’esegesi agostiniana. II. S. Agostino «Explanator», in «Rivista di storia e
letteratura religiosa» 4 (1968) 503-548, soprattutto 533-534.
16 De Gen. ad litt. 7,28,42 (NBA IX/2,382s). Si possono legittimamente fare congetture su ciò che la Bibbia
tace, purché «sia messa in evidenza la veridicità della Scrittura (verax ista Scriptura), che è senza dubbio
verace (procul dubio verax) anche se ciò non è del tutto chiaro (etiamsi non monstretur)» (ib. 5,9.24 (NBA
IX/2,256s):
17 De Gen. ad litt. 5,8,23 (NBA IX/2,256s). Cf. De doctr. chr. 3,27,38 (NBA VIII,174-177); Conf. 7,21.27
(NBA I,212s); C. Faustum Man. 11,5 (NBA XIV/1,108-111); Serm. 23,3 (NBA XXIX,.439s): la Scrittura
non può essere smentita, anche se l’uomo, non comprendendola, devia dalla retta strada.
20
Per questo, egli fonda il suo insegnamento sulla parola di Dio, che non solo è
veritiera, ma nei confronti dell’uomo si esprime sempre «in modo chiaro e franco»,
avvertendolo del pericolo che corre, quando trasgredisce i comandamenti e si allontana
da Dio.
«In effetti, la Parola di Dio non ci inganna (non… seducit); è una Parola che non
tace, non risparmia, non inganna con adulazioni (ulla adulatione). Perciò l’Apostolo dice
anche altrove: “Sappiatelo e mettetevelo bene in mente: nessun fornicatone o impuro o
avaro, che è come un idolatra, erediterà il regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi inganni con
vuote parole” (Ef 5,5-6). Non c’è dunque motivo di lamentarci della Parola di Dio. È una
Parola assoluta, chiara e franca (aperte ac libere); essa dice che quanti vivono male (qui
male vivunt) non appartengono al regno di Dio (ad regnum Dei non pertinere)»18.
7.1. Ambiguità della sacra Scrittura (De doctrina christiana)
I testi sacri, pur essendo scritti con uno stile diretto e immediato, nascondono pur
sempre significati profetici profondi e serbano «la maestà dei loro misteri a una
penetrazione più profonda» stimolando, in tal modo, la ricerca dei più dotati, i quali,
desiderosi di penetrare per le loro anguste fessure, si sforzano di esplorarne le
profondità attraverso un procedimento ermeneutico che «parte dalla parola, dal piano
semantico, e giunge all’oggetto (senso proprio) e dall’oggetto alla significazione
simbolica (senso traslato)», dove la lettera e il significato allegorico «non sono avvertiti
in opposizione, ma in unità»19.
L’interpretazione figurata (intellegere figurate) del testo costituisce il principio
esegetico fondamentale del De doctrina christiana, opera iniziata nel 397 e ripresa,
dopo un’interruzione di circa trent’anni, nel 42720. Nei primi due libri, Agostino
distingue le ‘res’, ossia le verità di fede da ricercare nella Scrittura e da accogliere come
principi etici del vivere cristiano, dai ‘signa’, cioè il contenuto simbolico delle parole, le
quali, in quanto ‘segni’ convenzionali, rimandano ad altre realtà. Nella concezione
filosofica del linguaggio di Agostino, le parole si distinguono in segni ‘propri’ (propria)
e segni ‘traslati’ (traslata)21. Infine, nel terzo libro, il medesimo affronta la questione
dei “segni ambigui” (ambigua) o ambiguità di linguaggio, che di per sé esigono il
superamento del senso letterale per giungere a quello spirituale, non sovrapponibile
18 De bapt. c. Donat. 4,18.25 (NBA XV/1,424s).
19 Cf. De util. cred. 3,5 (NBA VI/1,178s); G. Ripanti, Agostino teorico dell’interpretazione (Filosofia della
Religione, 3), Paideia Editrice, Brescia 1980,13-92, soprattutto 54.
20 Cf. Ripanti, Agostino teorico dell’interpretazione,60.
21 Sulla teoria del segno nel De doctrina christiana di Agostino e sulla distinzione tra signa propria e signa
traslata, cf. lo stesso G. Ripanti, Agostino teorico dell’interpretazione,51-58.
21
all’unico significato inteso dall’autore sacro, e, quindi, per sua natura molteplice22. In
quanto «segno di qualcos’altro» e «icona della verità» che la trascende, la parola
«rimanda [quindi] da una parte alla verità della cosa che essa esprime, e dall’altra
all’intellezione della verità da parte di colui che pronuncia la parola»23.
È ovvio quindi che la parola, in quanto segno che rimanda a significati
trascendenti, trasmetta la verità significata non in modo univoco ma riflesso, per cui è
possibile individuare una polisemia o pluralità di significati nel testo biblico, sia
dell’Antico che del Nuovo Testamento, che l’interprete dovrà cercare di decodificare,
individuando tutte le possibili indicazioni di senso sotto il velo della lettera24.
Nell’interpretazione del testo rivelato, occorre in primo luogo ricercare con
diligenza l’intentio auctoris o il sensus auctoris, ma qualora non si riesca a individuarlo
con sufficiente chiarezza, si potrà legittimamente accedere a una pluralità di significati,
purché si proceda con metodo rigoroso confrontando i passi oscuri con quelli più
manifesti della Scrittura.
«Meravigliosamente (magnifice) quindi e salutarmente (salubriter) lo Spirito Santo
ha modellato (modificavit) le sante Scritture in modo che con i passi più manifesti (locis
apertioribus) si ovviasse alla fame (fami) [del ricercatore], con i passi più oscuri
(obscurioribus) se ne dissipasse la noia (fastidia). Dai passi oscuri infatti non si ricava altro
– dico per approssimazione – all’infuori di quello che altrove si trova detto in maniera
completamente manifesta»25.
È il metodo seguito da Agostino nel De peccatorum meritis et remissione (412),
per rispondere alle difficoltà sollevate dai Pelagiani contro il peccato originale.
«Anche se non riuscissi a confutare gli argomenti di costoro, io vedo tuttavia che
bisogna rimanere attaccati alle verità che nelle Scritture sono evidentissime (his quae in
Scripturis… apertissima), perché partendo da queste si svelino le verità oscure (ex his
revelentur oscura)»26.
22 Cf. V. Grossi, Leggere la Bibbia con S. Agostino [Interpretare la Bibbia oggi, 3.4], Editrice Queriniana,
Brescia 1999,78s.
23 G. Mura, Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia e dell’interpretazione, Città Nuova Editrice,
Roma 1990,85.
24 Per la particolarità del suo linguaggio, caratterizzato dalla presenza in esso, accanto ad espressioni proprie, di
altre metaforiche o traslate (cf. De doctr. christ. III,1,1: NBA VIII,138s), la Scrittura si presta a varie
interpretazioni e sollecita pertanto l’esegeta a ricercarne il significato nascosto. D’altronde, la stessa scoperta
di una molteplicità di significati va considerata positivamente, secondo l’Ipponense, poiché costituisce un
nutrimento prezioso per l’interprete.
25 De doctr. christ. 2,6.8 (NBA VIII,66s). Sull’utilità che si può ricavare dai passi oscuri della sacra Scrittura,
cf. De civ. Dei 11,19, e passim; M. Beuchot, La hermenéutica en san Augustin y en la actualidad, in «Revista
Agostiniana» 38 (1997) 139-156, soprattutto 144-147.
26 De pecc. mer. et rem. 3,4,7 (NBA XVII/1,212s).
22
La varietà delle interpretazioni, dovuta in taluni casi al testo adottato (ebraico,
LXX, ecc.), è legittima e degna di essere perseguita, purché si armonizzi con la regola
di fede27. Infatti, mentre le verità palesi, contenute nella Scrittura e alla portata di tutti,
costituiscono una medicina atta a curare le malattie dell’anima, in quanto presentano
senza veli ciò che è indispensabile al conseguimento della salvezza, l’oscurità, che
caratterizza molte sue parti, soprattutto dell’AT, rientra nel disegno provvidenziale di
Dio, volto a suscitare negli spiriti più versatili il desiderio di scrutarne le profondità:
«Tutte le cose nella Scrittura sono così, ma ce ne sono alcune che vengono
maggiormente nascoste e celate (secretius… absconduntur) affinché il ricercatore vi si
eserciti (ut quaerentes exerceant); altre invece sono poste alla portata immediata (in
promptu) come cose palesi (in manifestatione), affinché costituiscano una medicina per
quanti lo desiderano (ut desiderantes curent)»28.
Partendo dal presupposto che unico autore della Rivelazione è Dio, Agostino
considera quindi positiva un’eventuale interpretazione del testo biblico in disaccordo
con l’intenzione dell’autore sacro.
«Chiunque di noi legge, si sforza certamente di penetrare e comprendere
l’intenzione dell’autore che legge (quod voluit ille quem legimus), e quando lo crede
veritiero (veridicum), non osa pensare che disse cosa da noi conosciuta o ritenuta falsa
(falsum). Mentre, dunque, ciascuno si sforza d’intendere le Sacre Scritture secondo le
intenzioni del loro scrittore, che male c’è se vi scopre un’intenzione che tu, luce di tutte le
menti veritiere (lux omnium veridicarum mentium), mostri per vera, sebbene non fu
l’intenzione dell’autore (non hoc sensist ille)? Eppure fu anch’egli nel vero, pur avendo
un’intenzione diversa da questa»29.
Egli avverte tuttavia la necessità di fissare alcune regole di carattere ermeneutico
generale, per non allontanarsi dalla verità del senso biblico nei passi in cui il testo si
presti a molteplici interpretazioni: anzitutto, chiarire quelli oscuri a partire da quelli
chiari30; quindi, accertarsi che l’interpretazione di un passo sia conforme alla retta fede.
«Quando dalle stesse parole della Scrittura non si ricava un senso solo ma due o più
(non unum…, sed duo vel plura), anche se rimane sconosciuto il pensiero dell’autore non c'è
alcun pericolo [nell’ammettere l’uno o l’altro di questi sensi], purché si possa dimostrare da
altri passi delle stesse sacre Scritture che ciascuno è conforme alla verità (congruere veritati).
27 De civ. Dei 15,7.1 (NBA V/2,388s): «L’oscurità (oscuritas) ha dato origine a varie interpretazioni (multos
sensus), sebbene ogni esegeta della sacra Scrittura (divinarum Scripturarum… tractator) tenta di
commentarla secondo la regola della fede (secundum fidei regulam)».
28 Serm. 32,1 (NBA XXIX,576s).
29 Conf. 12,18.27 (NBA I,428s).
30 Cf. De doctr. christ. 3,26.37 (NBA VIII,174s): «Dai luoghi dove sono poste con maggior chiarezza (apertius)
si deve comprendere come occorra intenderle nei passi oscuri (in locis… obscuris)».
23
Tuttavia colui che investiga (qui… scrutatur) gli oracoli divini (divina… eloquia) deve
sforzarsi di raggiungere l’intenzione dell’autore (voluntatem… auctoris) ad opera del quale lo
Spirito Santo ci ha fornito quel brano scritturale. Sia che raggiunga questa intenzione (hoc)
sia che da altre parole ne ricavi un’altra (aliam sententiam) non in contrasto con la retta fede
(quae fidei rectae non refragatur), egli è esente da colpa in quanto ha in suo favore la
testimonianza (testimonium) di un altro passo degli oracoli divini (divinorum eloquiorum)»31.
E, tenendo appunto conto della difficoltà per l’interprete di risalire all’autentico
significato, inteso dall’autore sacro, Agostino suggerisce da un lato di valorizzare tutte
le possibili interpretazioni offerte dal testo sacro, dall’altro attenersi a un principio
ermeneutico generale, secondo cui in esse va ricercato «sempre e comunque l’amore di
Dio e del prossimo»32.
«Il nocciolo di tutto (omnium… summa) ciò che abbiamo detto da quando abbiamo
iniziato a trattare delle “cose” (de rebus) è questo: comprendere come la pienezza
(plenitudo) e il fine della legge (finis Legis) e di tutte le divine Scritture (omnium divinarum
Scripturarum) è l’amore per la cosa di cui ci si ordina di godere (dilectio rei qua fruendum)
e per la cosa che insieme con noi può godere dell’oggetto che amiamo»33.
In tale prospettiva, la carità è posta a «fondamento dell’esegesi», non solo per
quanto concerne l’«aspetto espositivo», ma anche per quanto riguarda «quello
[propriamente] ermeneutico»34.
«È venuto infatti il Signore (Dominus), maestro della carità (caritatis doctor), pieno
di carità (caritate plenus), a “ricapitolare” – come di lui era stato predetto – “la parola
sulla terra” (cf. Is 10,23; 28,22; Rm 9,28), e a mostrare che nei due precetti della carità tutta
la Legge e tutti i Profeti sono riassunti (pendere)… Ricordiamo insieme, o fratelli, quali
sono questi due precetti. Essi infatti debbono essere ben presenti in voi: non dovete
richiamarli alla mente solo quando ve li ricordiamo; anzi, mai debbono cancellarsi dai
vostri cuori. Sempre, in ogni istante, dovete ricordarvi che si deve amare Dio e il
31 De doctr. christ. 3,27.38 (NBA VIII,174s). Cf. Conf. 12,30,41 (NBA I,444s): «In tale disparità di opinioni (in
hac diversitate sententiarum) la verità sola (ipsa veritas) dovrà portare la concordia (concordiam)…Crediamo
che nello scrivere queste parole per tua rivelazione [il tuo servitore Mosè] mirò a quanto in esse brilla
maggiormente per luce di verità (luce veritatis) e messe di vantaggi (fruge utilitatis)». Il criterio da seguire
per l’interpretazione dei passi oscuri è dunque la conformità alla retta fede e alla sana dottrina della Chiesa.
Cf. Lett. 139,3,34: NBA XXII,494s): «È utile d’altronde che a proposito di passi oscuri delle Sacre Scritture
(de obscuritatibus divinarum Scripturarum), permessi da Dio affinché fossimo indotti alla riflessione e alla
ricerca (exercitationis nostrae causa), s’incontrino molte opinioni (multae… sententiae), purché la
divergenza delle interpretazioni non sia in contrasto con la fede e la dottrina che ci salvano (sanae
fidei doctrinaeque concordent)».
32 Cf. V. Grossi, Leggere la Bibbia con S. Agostino,78-80: «Tale principio di conoscenza metodologica impegna
l’interprete delle Sacre Scritture, in ogni sua parte e parola, a parlare sempre in un certo modo: egli, cioè,
deve sapere, come insegnava Ambrogio, che “la lettera uccide, mentre lo spirito vivifica” (2Cor 3,6, cf. De
doctr. christ. 3,5,9: NBA VIII,146s)
33 De doctr. christ. 1,35,39 (NBA VIII,52s).
34 Cf. P. Brunner, Charismatische und methodische Schriftauslegung nach Augustins Prolog zu De doctrina
christiana, in «Kerygma und Dogma» 1 (1955) 59-69; 85-103, citato nella rassegna di L. F. Pizzolato, Studi
sull’esegesi agostiniana. II,531.
24
prossimo…(cf. Lc 10,27)... Questo è ciò che dovete pensare sempre, meditare sempre,
ricordare sempre, praticare sempre, compiere sempre alla perfezione. L’amore di Dio è il
primo che viene comandato, l’amore del prossimo è il primo che si deve praticare.
Enunciando i due precetti dell’amore, il Signore non ti raccomanda prima l’amore del
prossimo e poi l’amore di Dio, ma mette prima Dio (prius Deum) e poi il prossimo (postea
proximum). Ma siccome Dio ancora non lo vedi, meriterai di vederlo (promereris quem
videas) amando il prossimo (diligendo proximum). Amando il prossimo rendi puro il tuo
occhio per poter vedere Dio come chiaramente dice Giovanni: “Se non ami il fratello che
vedi, come potrai amare Dio che non vedi?” (1Gv 4,20)… Comincia dunque con l’amare il
prossimo… “Spezza il tuo pane con chi ha fame…” (Is 58,7ss). [… ] Amando il prossimo e
interessandoti di lui, tu camminerai (cf. Gv 5,8). [E] quale cammino farai, se non quello che
conduce al Signore Iddio, a colui che dobbiamo amare con tutto il cuore, con tutta l’anima,
con tutta la mente? … Porta dunque colui assieme al quale cammini, per giungere a Colui
con il quale desideri rimanere per sempre»35.
Agostino è convinto che tali difficoltà di ordine esegetico, lungi dal far rigettare la
Scrittura, la rendano ancor più affascinante, poiché stimolano l’ingegno dei più dotati a
investigarne i reconditi significati, e, nello stesso tempo, suscitano negli animi un senso
di riverenza per l’autorità del testo sacro36, che «non inganna nessuno»37 e a cui la
Chiesa accorda il «maggior credito»38.
«Ad essa – dichiara – noi prestiamo fede sulle verità che non si devono ignorare e
che non siamo in grado di raggiungere da noi stessi»39. «Ed essa ha giustamente una grande
autorità (mirabilem auctoritatem) presso tutte le nazioni del mondo (in orbe terrarum atque
in omnibus gentibus), anche perché fra le altre verità ha predetto con divina verità che esse
avrebbero creduto»40.
La testimonianza della Scrittura è decisiva al fine di definire le verità di fede, che
sono alla base del vivere cristiano.
Perciò la Chiesa «crede anche ai testi che riteniamo canonici da cui ha avuto origine
la fede (unde fides), della quale vive il credente e mediante la quale procediamo senza
dubitare (sine dubitatione), finché siamo in cammino lontani dal Signore (quandiu
peregrinamur a Domino)»41. E ancora: «Se dunque con il non credere ciò che non
35 In Io. Ev. tr. 17,7-9 (NBA XXIV,398-403). Cf. V. Grossi, S. Agostino, la Bibbia e il postomoderno, in
«Rassegna di Teol.» 40 (1999) 857-877, soprattutto 868s.
36 Cf. M. Pontet, l’exégèse de S. Augustin prédicateur [«Théologie», 7], Aubier, Paris [1944-1946?], 584.
37 De civ. Dei 21,23 (NBA V/3,268s).
38 Anche in presenza di discordanti interpretazioni del testo biblico, non si deve mai «sottrarre credibilità al
testo cui la Chiesa ha assicurato l’autorità di maggior credito (in auctoritatem celebriorem)» (De civ. Dei
15,11: NBA V/2,402s).
39 De civ. Dei 11,3 (NBA V/2,70s).
40 De civ. Dei 12,9,2 (NBA V/2,166-169).
41 De civ. Dei 19,18 (NBA V/3,64s).
25
possiamo vedere crollerà la stessa umana società, perché verrebbe a mancare la concordia,
quanto più è necessario prestar fede alle realtà divine (rebus adhibenda divinis), sebbene
siano realtà che non si vedono?»42.
Il ricorso alla Scrittura diventa abituale e imprescindibile per ogni aspetto
normativo e veritativo della fede, come emerge da Le 8 questioni a Dulcezio (De octo
Dulcitii quaestionibus liber 1), opera composta poco dopo il 425, in cui l’Ipponense
dichiara di voler fondare le proprie convinzioni sulla verità irresistibile della sacra
Scrittura.
«[… ] Io desidero essere vinto dalla verità irresistibile delle sacre Scritture (ea
veritate… quae sacris litteris apertissimis non resistit), soprattutto le più chiare. Se vi si
oppone qualcosa, è assolutamente impossibile credere o parlare di verità»43.
Ciò che motiva il suo costante impegno nel ricercare le verità nascoste nel testo
sacro è soprattutto la convinzione di trovarsi in presenza della Parola eterna, viva e vera,
che mette l’uomo in contatto con Dio e lo sollecita ad ascoltare e a mettere in pratica
l’insegnamento rivelato.
«“Tutte queste cose accadevano loro con valore di simboli» (1Cor 10,11). Non vi
sembrerà più, allora, presuntuosa la nostra ricerca di verità nascoste (quaerere aliquid
absconditum) in un brano dove tutto potrebbe apparire detto in maniera semplice senza
alcuna profondità di mistero. Abbiamo in effetti un’autorità (auctoritatem) che ci rende
attenti nel ricercare (intentos ad quaerendum), vigili nell’investigare (vigiles ad
investigandum), devoti nell’ascoltare (devotos ad audiendum), ossequienti nel credere
(fideles ad credendum) e solleciti nel tradurre in pratica (impigros ad faciendum)»44.
7.2. Straordinaria compendiosità (mirabili altitudine - mirabili humilitate) e provvidenziale oscurità (mira profunditas) della sacra Scrittura
La Scrittura è il libro della pedagogia divina, poiché compendia tutti gli
insegnamenti che Dio ha voluto rivolgere al suo popolo e ai suoi fedeli.
«In effetti, qualunque cosa possa l’uomo imparare dal di fuori [delle Scritture], se è
nociva (noxium), è in esse condannata; se è utile (utile), è in esse contenuta. E quando uno
ha trovato nelle Scritture tutte le cose che utilmente potrebbe imparare altrove (alibi),
troverà inoltre in esse, e con molto maggiore abbondanza (multo abundantius), tante altre
cose che non si trovano assolutamente altrove, mentre nelle Scritture, e lì soltanto, le si
apprende, data la loro mirabile altezza (mirabili altitudine) e umiltà (mirabili
humilitate)»45.
42 De fide rerum quae non videntur 3,4 (NBA VI/1,316s).
43 De 8 Dulcitii quaest. 1,14 (NBA VI/2,416s).
44 Enarr. in ps. 143,1 (NBA XXVIII,650s), tenuto a Cartagine il 28 o 30 dicembre 412, oppure dopo il 412.
45 De doctrina christ. 2,42,63 (NBA VIII,136s).
26
Agostino ha un’altissima concezione, non solo dell’autorità, ma anche della
ricchezza e della misteriosa profondità della Scrittura, la quale, pur essendo accessibile
ai piccoli, suscita un senso di reverenziale timore in chi la scruta con l’intento di
esplorarne i recessi e di conformare ad essa la propria esistenza.
«Mirabile profondità (mira profunditas) delle tue rivelazioni! Ecco, davanti a noi sta
la loro superficie (superficies) sorridente ai piccoli; ma ne è mirabile la profondità (mira
profunditas), Dio mio, mirabile la profondità! Un sacro terrore (horror) ci afferra a
immergere in essa lo sguardo (intendere), terrore per onore (horror honoris), e tremore per
amore (tremor amoris)»46.
E ancora: «Quanto c’è in quelle Scritture (in Scripturis illis), credimi, è profondo e
divino (altum et divinum): vi si trova la pura verità (omnino veritas) e una dottrina
(disciplina) adattissima a ricreare e a rinnovare gli animi e così chiaramente predisposta che
non c'è nessuno che non possa trarne ciò che gli è sufficiente, purché vi si accosti con
devozione e pietà (devote ac pie), come richiede la vera religione»47.
Il vescovo d’Ippona è convinto che i misteri della Bibbia siano fonte di ricerca
infinita e di progresso continuo.
«[…] Dio ha voluto nascondere (abscondere) sotto il velo di tali figure (talium
rerum figuris) la sua sapienza (sapientiam suam), non già per sottrarla a quanti
sinceramente la desiderano (studiosis), ma occultandola a chi la trascura (neglegentibus) e
svelandola a chi la ricerca (pulsantibus); e anche lo stesso nostro Signore ha voluto
esortarvi per mezzo di noi a scrutare (ut…quaeramus) nelle realtà, che si riferiscono alla
natura materiale e visibile, qualcosa che vi è spiritualmente nascosto (aliquid spirtaliter
absconditum) e la cui scoperta è motivo di gioia per noi (quo invento gaudeamus)»48.
Ciò spiega perché la scoperta del senso profondo della Scrittura sia motivo di
gioia per il credente.
«Bisogna infatti gioire se viene esposto in molti modi (multis modis), e tuttavia in
maniera non stolta (non insipienter), ciò che nelle sacre Scritture, per stimolare le menti dei
fedeli (ad exercendas mentes fidelium), è posto in modo oscuro (oscure)»49.
E ancora: «Le Sacre Scritture sono tanto profonde (tanta… christianarum
profunditas litterarum) che in esse avrei fatto ogni giorno dei progressi (quotidie
46 Conf. 12,14,17 (NBA I,418s). Agostino richiama con insistenza la funzione pedagogica della Scrittura. Si
veda, a titolo di es., il testo del De doctr. christ. 2,67 (NBA VIII,64s): «Quelli che leggono la Scrittura a cuor
leggero vengono tratti in inganno dalle sue molte e svariate oscurità e ambiguità (multis et multiplicibus
oscuritatibus et ambiguitatibus), e prendono una cosa per un’altra (aliud pro alio). In certi passi non riescono a trovare
nemmeno la materia per false congetture: tanta è l’oscurità con cui alcune cose sono state dette che le si debbono
ritenere coperte da densissime tenebre (densissimam caliginem). Tutto questo non dubito che sia avvenuto per una
disposizione divina (provisum… divinitus), affinché con la fatica fosse domata la superbia umana (labore
superbiam) e l’intelletto fosse sottratto alla noia (intelectum a fastidio), dal momento che il più delle volte le
cose che esso scopre facilmente le considera di poco conto».
47 De util. cred. 6,13 (NBA VI/1,194s).
48 Enarr. in ps. 103,s.3,2 (NBA XXVII,694s).
49 Contr. Maximum 2,22,3 (NBA XII/2,312s).
27
proficerem), se mi fossi sforzato di farne l’unico oggetto del mio studio dai primi anni della
puerizia sino alla decrepita vecchiaia con tutta la calma possibile (maximo otio), con la
maggiore applicazione (summo studio) e con un ingegno più vivace (meliore ingenio). Non
che sia molto difficile giungere a comprendere in esse le cognizioni necessarie alla salvezza
(quae necessaria… saluti), ma dopo che uno ha riposto in esse la fede, senza la quale non si
può vivere bene e santamente (pie recteque), a misura che vi si fanno dei progressi
(proficientibus), molte cose (tam multa) restano da capire (intellegenda) avvolte sotto il
velo di numerose figure che nascondono i misteri (multiplicibus mysteriorum umbraculis).
Non solo nelle parole (in verbis) con cui questi sono espressi, ma anche nell’essenza delle
cose (in rebus) da comprendere si nasconde un tale abisso di sapienza (altitudo sapientiae),
che alle persone che hanno passato più tempo in questo studio, dotate d’intelligenza più
penetrante e più desiderose d’imparare, capita quello che si legge in un passo della stessa
Scrittura: “Quando l’uomo avrà finito, solo allora incomincia” (Eccli 18,6)»50.
La Parola rivelata nasconde «un tale abisso di sapienza (altitudo sapientiae)» che
anche l’interprete dotato di un’intelligenza acuta e penetrante, di un’eccezionale
applicazione allo studio e di un persistente e tenace desiderio di cercare, si sente
incapace di esplorarla fino in fondo e di coglierne l’inesauribile ricchezza; infatti, più
s’addentra nella conoscenza dei suoi reconditi significati, più sperimenta la propria
inadeguatezza di fronte alla difficoltà dell’impresa, per cui, nonostante i progressi fatti,
si considera solamente un principiante.
«[… ] Nelle sacre Scritture (in Scripturis sanctis) sono contenuti misteri profondi
(profunda mysteria), che vengono celati (absconduntur) perché non perdano valore (ne
vilescant). Essi debbono essere investigati (quaeruntur) perché lo spirito di continuo si
alleni [nella ricerca] (ut exerceant) e alla fine vengono palesati (aperiuntur), per essere il
cibo [al ricercatore] (ut pascant)»51.
Agostino è fermamente convinto dell’utilità dei passi oscuri della Scrittura al fine
di scoprire i molteplici aspetti della verità, anche se questi possono apparire a volte
discordanti rispetto al pensiero dell’autore sacro.
«L’oscurità della parola divina (divini sermonis obscuritas) è utile anche perché dà
luogo a molteplici interpretazioni della verità (plures sententias veritatis) e porta alla luce
della riflessione (in lucem notitiae), quando uno (alius) interpreta (intellegit) in un senso
(sic) e l’altro (alius) in un senso diverso (sic)»52. «Tuttavia, qualunque sia il senso
ricavatone (quicumque… intellectus) dall’interprete, è necessario che esso non differisca
50 Lett. 137,1,3 (NBA XXII,144-147).
51 Enarr. in Ps. 140,1 (NBA XXVIII,540s).
52 De civ. Dei 11,19 (NBA V/2,100s). Sulla molteplicità dei sensi biblici nel pensiero agostiniano, cf. G.
Balestri, Bibl. Introd. Gen. Elementa, Città del Vaticano, 1932,472ss.
28
dalla regola della fede (regulae fidei congruat)»53. «Si può [infatti] interpretare
diversamente (diversa sentiri), sempre sul fondamento della retta fede (etiam secundum
rectam fidem)…»54.
Esaminando il testo evangelico, in cui il Signore risponde a Pietro che gli chiede
quante volte debba perdonare al proprio fratello: «Ti dico: non sette volte, ma settanta
volte sette» (Mt 18,22), l’Ipponense suggerisce di attenersi a questo criterio esegetico
spirituale: fare appello non tanto alle proprie capacità quanto all’aiuto dello Spirito.
«Se poi in questi arcani tesori dei misteri di Dio (de his secretis et thesauris
mysteriorum Dei) vi è qualche altra cosa, potrà essere tratta fuori da altri più diligenti (a
diligentioribus) e più degni (dignioribus). Noi tuttavia abbiamo detto ciò che siamo stati in
grado di dire secondo la nostra capacità in misura dell’aiuto datoci dal Signore e tenuto
conto anche dello spazio limitato del tempo. Se qualcuno di voi è in grado di capire di più
(amplius), bussi alla porta di colui dal quale riceviamo anche noi quanto possiamo capire e
dire. Anzitutto però dovete ritenere come norma di non lasciarvi turbare (non perturbemini)
quando non comprendete ancora (nondum intellectis) le Sacre Scritture (Scripturis sanctis)
e, se le comprendete (intellegentes), di non insuperbirvi (non inflemini); quello che non
comprendete rimandate con rispetto ad altro tempo (cum honore differatis), e quello che
comprendete (quod intellegitis) ritenetelo con sentimenti di carità (cum caritate
teneatis)»55.
Agostino consiglia quindi al lettore di far tesoro di quello che riesce a
comprendere e a custodire con sentimenti di fede ciò che ancora non capisce, in attesa di
poterlo penetrare alla luce dello Spirito.
«Ve l’ho detto e ve lo raccomando vivamente: chi comprende (qui capiunt) è in
grado di gustare (sapiunt), o meglio chi gusta (qui sapiunt) comprende (capiunt); e chi non
è ancora arrivato a gustare con l’intelligenza (qui nondum intellectu sapiunt), custodisca
mediante la fede (fide) ciò che ancora non riesce a comprendere (quod intellegere
nondum)»56.
Sapientemente studiato, il linguaggio della Scrittura si adatta sia ai semplici, privi
d’istruzione, sia ai dotti: ai primi propone le verità di fede indispensabili per la salvezza
con uno stile umile e alla portata di tutti; ai secondi, invece, indica con linguaggio
metaforico e figurato i significati più profondi e difficili da investigare. Ciò consente
agli uni di essere più facilmente nutriti del cibo della Parola; agli altri, ossia agli spiriti
più acuti, di esercitarsi nell’approfondimento delle verità nascoste. Agostino è ad ogni
53 Enarr. in ps. 74,12 (NBA XXVI,926s).
54 Cf. De civ. Dei 18,35,2 (NBA V/3,714s).
55 Serm. 51,24,35: NBA XXX/1,56s):
56 In Io. ev. tr. 47,6 (NBA XXIV,936-939).
29
modo convinto che l’oscurità del testo rivelato, lungi dal suscitare noia e fastidio
nell’ascoltatore, aumenti in lui il desiderio di ricercarne il senso e gli procuri grande
soddisfazione e gioia ogni volta che con diligenza, studio e applicazione riesce nel suo
intento.
«Lo stesso linguaggio (modus… dicendi), in cui è redatta la Sacra Scrittura, quanto è
accessibile a tutti (quam omnibus accessibilis), benché pochissimi possano penetrarlo a
fondo (paucissimis penetrabilis)! Le verità manifeste (quae aperta), ch’essa contiene, le
dice come un amico di famiglia (quasi amicus familiaris), senza orpello ai cuori degli
indotti (indoctorum) e dei dotti (doctorum); quelle invece (ea… quae) che nasconde sotto
simboli e figure (in mysteriis) non le innalza con un linguaggio superbo, a cui non ardirebbe
accostarsi un’intelligenza piuttosto tarda e priva d’istruzione, come un povero non si
accosterebbe a un ricco, ma invita tutti con un linguaggio umile (humili sermone), per
nutrirli non solo della verità manifesta (manifesta), ma anche per esercitarli ad approfondire
la verità nascosta (secreta exerceat veritate), contenendo sempre la medesima verità tanto
in ciò che è chiaro quanto in ciò che è recondito. Ma acciocché le verità manifeste (aperta)
non vengano a noia (fastidirentur), la Sacra Scrittura in altri passi le copre d’un velo
(eadem rursus operta) per farcele desiderare; il desiderio ce le presenta in certo qual modo
nuove e, così rinnovellate, s’imprimono con dolcezza nel cuore. Queste verità hanno il
benefico effetto di correggere i malvagi (prava corriguntur), di nutrire gl’ingegni mediocri
(parva nutriuntur), d’essere un godimento per quelli brillanti (magna oblectantur ingenia).
Di questa dottrina è nemico colui che a causa del suo errore non sa ch’essa è la medicina
più adatta a salvarlo (saluberrimam… medicinam) o l’ha in odio a causa della propria
malattia»57.
7.3. Interpretazione figurale dell’AT (Legge, Profeti e Salmi)
Poiché la Scrittura è il racconto della storia della salvezza, che si compie in Cristo,
occorre ricercarne il significato profondo attraverso l’interpretazione dei simboli e delle
figure.
«Così avviene con coloro che ricercano il senso di quelle Scritture (Scripturarum
illarum sensum) con zelo e pietà (studiose ac pie) e non in modo confuso e perverso
(turbide atque improbe): si mostrano loro sollecitamente l’ordine delle cose (ordo rerum),
le cause dei fatti e delle parole (causae factotum atque dictorum) e una tale congruenza
(tanta congruentia) tra l’Antico e il Nuovo Testamento che in nessun dettaglio essi
risultano discordanti; inoltre, si mostrano i significati nascosti delle allegorie
(figurarum…secreta), i quali sono così grandi che quanti ne diventano chiari con
l’interpretazione costringono a riconoscere la meschinità di coloro che vogliono
condannarli prima ancora di conoscerli»58.
57 Lett. 137,5,18 (NBA XXII,166s).
58 De util. cred. 3,9 (NBA VI/1,186s).
30
I figurarum secreta, presenti soprattutto nei libri dell’AT, fanno riferimento a
Cristo, il solo in grado di togliere il velo che nasconde la verità e di rivelarci il senso
profondo del testo sacro.
«Ciascuno dunque deve accostarsi a Cristo perché gli venga rimosso il velo
(velamen) [davanti agli occhi], come dice l’Apostolo (cf. 2Cor 3,16). Il velo (velamen), in
effetti, viene rimosso allorché, tolto via il velame della similitudine (similitudinis) e
dell’allegoria (allegoriae), si manifesta la verità nella sua schiettezza (veritas nudatur),
perché possa essere vista»59.
La parola, contenuta nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, è voce di
Cristo e chi l’ascolta ascolta Cristo.
«Ora di chi se non di lui (de illo), sono state scritte quelle cose che anche noi
abbiamo citato dalla Legge, dai Profeti, dai Salmi, come io ho dimostrato punto per
punto?»60. «È stato il Signore a spiegare che di Lui erano state dette (de se dicta) queste
cose nella Legge (in Lege), nei Profeti (Prophetis) e nei Salmi (Psalmis)»61.
Perciò, quando si legge la Scrittura, occorre cercare Cristo.
«Quando dunque noi ascoltiamo i salmi o le profezie o la legge (libri tutti che furono
composti prima della venuta del nostro Signore Gesù Cristo), tutto il nostro sforzo (tota
intentio nostra) dev’essere quello di vedervi Cristo (Christum ibi videre) e di comprendervi
Cristo (Christum ibi intellegere)»62.
Nel secondo libro Contro le lettere del donatista Petiliano (Contra litteras
Petiliani), composto nel 401/402, l’Ipponense ripropone lo stesso criterio ermeneutico.
«Ecco quanto sta scritto nella Legge, nei Profeti e nei Salmi, circa il Signore (de
Domino). Ecco ciò che il Signore ha spiegato di sé (de se) e della sua Chiesa (de Ecclesia):
ha mostrato sé (se ostendens) e rivelato essa (illam promittens)»63.
Per la sua compendiosità ed efficacia, la Scrittura può essere paragonata al “dono”
del “vello”, indicato da Gedeone agli Israeliti come prova dell’intervento di Dio in loro
favore (cf. Gdc 6,34-36).
«Noi sappiamo infatti che una volta questo popolo (illam quondam gentem) è stato
irrorato dalla grazia del sacramento divino come da una rugiada celeste (tamquam caelesti
rore perfusam), mentre tutt’intorno, in nazioni prive di questo dono (muneris), vi era la
siccità (siccitas). Quel popolo, comunque, possedeva questo dono nel vello (munus in
59 De Gen. c. Man. 1,22.33 (NBA IX/1,102s). Cf. De util. cred. 3,9 (NBA VI/1,186s): «In Cristo appunto non è
il Vecchio Testamento che viene eliminato (evacuatur), ma il suo velo (velamen eius) perché, per mezzo di
Cristo (per Christum), si comprenda (intellegatur) e, per così dire, venga reso manifesto (denudetur) ciò che,
senza Cristo (sine Christo), resterebbe oscuro (obscurum) e coperto (adopertum)».
60 Ep. ad cath. de s. Donat. 10,24 (NBA XV/2,434s).
61 Ep. ad cath. de s. Donat. 10,26 (NBA XV/2,438s).
62 Enarr. in ps. 98,1 (NBA XXVII,416s).
63 Contr. litt. Petil. 2,14.33 (NBA XV/2,86s).
31
vellere), come avvolto, cioè, in un velo (in velamine) e nella nube del mistero (quasi nube
secreti), perché ancora non era stato svelato (nondum… revelatum). Ora invece vediamo
che il mondo, svelatasi ormai la rugiada (iam revelato rore), si nutre del Vangelo (saginari
per Evangelium) del Signore nostro Gesù Cristo, che allora era figurato nel vello (in illo
tegmine); mentre il popolo d’Israele, perso il sacerdozio che aveva, per non avere
riconosciuto il Cristo nelle Scritture, è rimasto come in un vello asciutto (tamquam in sicco
vellere)»64.
Il “vello di rugiada” rappresenta la grazia della Parola profetica, scesa
inizialmente su Israele; ma, poiché il popolo eletto, che possedeva questo munus «nel
vello», cioè nel mistero, non ha saputo accoglierlo come segno della gratuità divina, il
medesimo è diventato “asciutto” e ha finito per rappresentare la Chiesa sparsa nel
mondo, destinataria della pienezza della Rivelazione. Conseguentemente, mentre
l’antico popolo, incapace di riconoscere il Cristo nelle Scritture, è rimasto privo della
Parola, il nuovo popolo, la Chiesa radunata dalle genti, si nutre del Vangelo, prefigurato
dalla rugiada, caduta fuori dal vello.
Lo stesso passo è ripreso nelle Esposizioni sui Salmi (Enarrationes in psalmos)
137, dove l’autore identifica il “vello” con il popolo giudaico, che per primo riceve il
dono della Rivelazione, anche se questa rimane ancora celata e avvolta nel mistero. Ma,
allorché la pioggia della Parola divina esce fuori dal vello e bagna la terra circostante,
ecco che tutti gli uomini hanno la possibilità di conoscere Cristo, poiché le Scritture
parlano di Lui e sono state composte in vista di Lui. Ed è quest’universale
riconoscimento che induce il popolo giudaico a interrogarsi su chi sia il vero rivelatore e
realizzatore di questi eventi.
«E cosa rappresenta quel vello (quid vellus)? È una figura del popolo giudaico,
collocato al centro del nostro mondo (in medio orbe terrarum). Esso aveva il mistero della
grazia (gratiae sacramentum), sebbene non nella piena rivelazione ma celato dentro la nube
(in nube secreti), come sotto un vello (in vellere): aveva la pioggia entro il vello (tamquam
in velamento pluviam). Venne in seguito il tempo nel quale la pioggia si svelò per tutta la
superficie circostante: si manifestò, non fu più cosa celata. E allora si avverò quel che era
stato detto: “Confessino a te, Signore, tutti i re della terra, poiché hanno udito tutte le
parole della tua bocca” (Sal 137,4). Cosa volevi nascondere, o Israele? Fino a quando
avresti voluto nasconderlo? Il vello (vellus) fu spremuto (expressum) e la pioggia (pluvia)
uscì fuori di te (exiit de te). Cristo solo è la soavità di quella pioggia (suavitas pluviae), e tu
ti rifiuti di riconoscerlo nelle Scritture, mentre le Scritture sono state composte proprio in
64 Ep. ad Cath. de s. Donat. 5,10 (NBA XV/2,412s).
32
vista di Lui e di Lui solo! Al contrario, che tutti i re ti confessino, Signore, poiché hanno
udito tutte le parole della tua bocca»65.
Parimenti, nell’opera Contro il manicheo Fausto trentatré libri (=Contra Faustum
manichaeum), composta tra il 400 e il 402, Agostino interpreta il testo contrapponendo
al popolo giudaico il nuovo popolo di Dio, costituito dall’universalità del genere umano.
«Che significa la pelle (vellus) che è umida quando l’aria è secca e secca quando
l’aria è umida (cf. Gdc 6,37-40), se non che dapprima il solo popolo ebraico (una gens
Hebraeorum) possedeva nascosto (occulte) nei sacri testi il mistero di Dio (mysterium
Dei), che è Cristo, mentre tutti gli altri uomini ne erano privi (totus orbis vacuus); ora
invece che quel mistero si è manifestato (in manifestatione) tutto il mondo lo possiede
(totus orbis… habet) e solo il popolo ebraico ne è privo (illa vacuata)»66.
Infine, nello scritto antipelagiano La grazia di Cristo e il peccato originale (De
gratia Christi et de peccato originali), composto nel 418, su istanza di Albina, Piniano e
Melania, per controbattere le argomentazioni di Pelagio, Agostino osserva:
«Anche allora dunque c’era nel popolo di Dio (in populo Dei) questa grazia
dell’unico Mediatore di Dio e degli uomini (gratia unius Mediatoris Dei et hominum),
l’uomo Cristo Gesù, ma c’era in modo latente (latens) come sul vello la pioggia (tamquam
in vellere pluvia), che Dio riserva, non dovuta, ma liberamente regalata, alla sua eredità
(hereditati suae, cf. Sal 67,10). Adesso invece che quel vello si è, per così dire, asciugato
(siccato illo vellere), ossia ora che il popolo giudaico è stato riprovato (Iudaico populo
reprobato), la grazia di Dio appare in modo patente (patens), come sull’aia, in mezzo a
tutte le genti (in omnibus gentibus, cf. Gdc 6,36-40)»67.
La grazia non può, secondo il vescovo d’Ippona, essere considerata come
un’invenzione della Chiesa cattolica, poiché è già manifesta nell’AT, dove appare
«come la pioggia sul vello (tamquam in vellere pluvia)»; ma ora, dopo il ripudio
dell’antico popolo da parte di Dio, «quel vello si è, per così dire, asciugato (siccato illo
vellere»), ed essa può manifestarsi anche fuori d’Israele, in mezzo a tutti i popoli.
8. Immagini della Scrittura
8.1. Lucerna Scripturarum68
La Scrittura è una «lampada», che «brilla in un luogo oscuro» (cf. 2Pt 1,19; Sal
118 [119],105). Essa illumina il cammino della Chiesa nel secolo presente e aiuta
l’uomo a superare le tenebre del mondo, fino alla venuta gloriosa del Signore.
65 Enarr. in ps. 137,9 (NBA XXVIII,444s).
66 Contr. Faust. 12,32 (NBA XIV/1,164s).
67 De gratia Chr. et de p. o. 2,25,29 (NBA XVII/2,242s).
68 Cf. Serm. 189,1 (NBA XXXII/1,30s).
33
«Dopo questa notte verrà dunque il giorno (dies); ma intanto in questa notte non ci
manchi la lampada (lucerna). E questo è forse proprio quanto noi ora stiamo facendo
mediante la spiegazione delle Scritture (has litteras esponendo): rechiamo una lampada
(lucernam) che ci allieti in questa notte (ut in hac nocte gaudeamus). Tale lampada deve
essere sempre accesa nelle vostre case»69.
Effettivamente, «per tutto questo tempo nel quale come se fosse una notte (vice
noctis), il secolo (saeculum istud) si viene dipanando (excurrit), la Chiesa sta sveglia finché
non venga il Signore, attenta con gli occhi della fede (oculis fidei) alle sacre Scritture (in
Scripturas sanctas), come a lampade accese nella notte (tamquam in nocturna luminaria
intenta)»70.
La parola di Dio è una «lucerna (lucerna)», che «arde di notte (in nocte)» (cf. Pr
31,18) e alimenta la nostra speranza, poiché ci aiuta a credere alle cose che non vediamo
e ci conferma nella certezza che Dio è fedele alle sue promesse.
«Se infatti speriamo cose che non vediamo (cf. Rm 8,25), è notte (nox). Se poi non
vediamo e non speriamo, è notte (nox) e non brilla la lucerna (lucerna non ardet). Cosa c’è
di più infelice di tali tenebre? Per non venir meno nelle tenebre e per attendere con pazienza
(cf. Pr 31,19) ciò che, pur senza vedere, speriamo, brilli per tutta la notte (tota nocte) la
nostra lucerna (lucerna nostra). In effetti, chi giorno dopo giorno ci annuncia la parola [di
Dio], è come se infondesse dell’olio per impedire che la lucerna si spenga»71.
8.2. Extendisse caelum sicut pellem72
In vari contesti, Agostino paragona la divina Scrittura al firmamento.
«Firmamento (firmamentum) […] è la divina Scrittura (Scriptura Dei), luminari nel
firmamento (luminaria in firmamento) la comprensione della Scrittura (intellegentia
Scripturarum), luci del cielo (lumina… in caelo) la capacità intellettiva di penetrare la
Scrittura (intellectus in Scripturis)»73.
«Noi infatti vediamo l’immensa costruzione del mondo, formata dal cielo e dalla
terra, e tutte le altre cose, che sono in esse comprese; e partendo dalla grandezza e bellezza
di tale costruzione, siamo già spinti ad amare – pur non vedendole ancora – l’inestimabile
grandezza e bellezza dello stesso costruttore. Se questi non può essere ancora contemplato
dalla purezza del nostro cuore, non ha cessato però di mettere sotto i nostri occhi le sue
opere sicché, vedendo le cose che possiamo vedere, impariamo ad amare colui che non
possiamo vedere e quindi, grazie a questo amore, possiamo un giorno vederlo. Tuttavia in
69 Enarr. in Ps. 76,4 (NBA XXVI,974s).
70 Serm. 223/D,3 (NBA XXXII/1,344-347).
71 Serm. 37,11 (NBA XXIX,670s).
72 Cf. Enarr. in Ps. 103,s. 1,8 (NBA XXVII,646). Sull’argomento, cf. I. Bochet, «Le firmament de
l’Écriture»,25-53.
73 Serm. 229/S,1 (NBA XXXII/1,516s).
34
tutte le cose, dette dal salmo – si tratta di Sal 103,2 –, bisogna altresì ricercare il significato
spirituale (intellectus spiritalis)»74.
E qual è il significato allegorico del firmamento, che Dio ha posto come
ornamento della volta celeste, quando ha creato il mondo? Ispirandosi al simbolismo
biblico, il vescovo d’Ippona vi vede un segno della condiscendenza di Dio che,
mediante l’Incarnazione, viene incontro all’uomo peccatore e gli consegna la Scrittura
come una “pelle distesa”, cioè come una nuova e straordinaria possibilità di elevarsi al
di sopra della propria condizione di mortalità fino alla contemplazione di Dio e delle
realtà eterne.
«[…] Dio ha disteso il cielo come una pelle (caelum sicut pellem), intendendo
nell’immagine del cielo la Sacra Scrittura (caelum sanctam Scripturam). Una tale autorità
(hanc auctoritatem) Dio l’ha posta prima di tutto nella sua Chiesa (in Ecclesia sua), e da
qui ha cominciato a svolgere le altre cose: egli ha fatto il cielo (caelum), che ha disteso
come una pelle (extendit sicut pellem), e non invano come una pelle. Prima di tutto egli ha
disteso come una pelle il nome e la fama dei predicatori (famam praedicantium), e la pelle
simboleggia la mortalità (mortalitatem). È per questo che i due primi uomini, nostri
progenitori e autori del peccato del genere umano, Adamo ed Eva, quando nel paradiso,
disprezzando il precetto di Dio e cedendo alla suggestione insinuante del serpente,
trasgredirono quel che Dio aveva loro comandato, divennero mortali e furono espulsi dal
paradiso: per simboleggiare questa loro mortalità (ipsa mortalitas eorum), essi rivestirono
delle tuniche di pelle (tunicis pelliceis). Si presero infatti tuniche fatte di pelle, ma le pelli
non si tolgono di solito se non agli animali morti; dunque con il nome di pelle fu significata
tale loro mortalità (mortalitas…figurata)»75.
L’iniziativa di Dio consiste nell’offrire all’uomo, oltre all’autorità della Chiesa,
che lo guida sulla strada del Regno, anche quella della sacra Scrittura, parola divina
trasmessa attraverso il linguaggio umano, e, tuttavia, sempre viva e attuale76. In tale
prospettiva, si può dire che la parola rivelata si distende come una pelle, poiché,
analogamente al cielo che copre la terra, anch’essa risuona dappertutto e raggiunge il
mondo intero.
«Ma allora, se in questo passo con il nome di pelle (pellis nomine) è simboleggiata
la divina Scrittura (divina Scriptura significatur), in che modo Dio ha fatto con la pelle il
cielo (de pelle fecit caelum) ed “ha disteso il cielo come pelle (extendit caelum sicut pellem,
74 Enarr. in Ps. 103, s. 1,1 (NBA XXVII,632s).
75 Enarr. in Ps. 103, s. 1,8 (NBA XXVII,646s). Già a partire dagli scritti di Cassiciaco (vedi, Soliloquia, De
ordine, Contra Academicos) Agostino imposta il problema fede-ragione sulla base della formula credo ut
intelligam, sostenendo che la ratio attinge dall’auctoritas le verità da approfondire su base razionale.
Sull’argomento, cf. Holte, Béatitude et sapesse,303-327.
76 Cf. I. Bochet, «Le firmament de l’Écriture»,28s. L’autorità della Scrittura è rappresentata dall’immagine della
tenda stesa sopra l’universo.
35
Sal 103,2)”? Perché quelli per mezzo dei quali è stata predicata la Scrittura furono mortali.
Soltanto il Verbo di Dio rimane sempre lo stesso, sempre immutabile ed intramontabile…
Non invano, fratelli, il cielo è qui presentato come una pelle (pellis) e là come un libro
(liber): sono immagini in cui viene prefigurato qualcosa per noi (figuratum… quiddam
nobis). È in riferimento alla divina Scrittura (ad divinam Scripturam attinet) che si estende
la parola dei morti: in questo senso essa si distende come una pelle (tenditur sicut pellis),
anzi molto più che una pelle dal momento che quegli autori sono morti. Difatti dopo la
morte divennero ben più noti i Profeti e gli Apostoli, che non erano altrettanto noti quando
erano in vita. I Profeti da vivi appartenevano alla sola Giudea, mentre da morti
appartengono a tutte le genti. Infatti, quando erano in vita, non era ancora distesa la pelle né
ancora disteso era il cielo sì da coprire tutta quanta la terra. Per questo si dice: “Ha disteso
il cielo come pelle” (Sal 103,2)»77.
L’autorità della sacra Scrittura avvolge l’uomo come il firmamento, come una
pelle che lo protegge. Infatti, come Dio, dopo il peccato originale (cf. Gn 1,7), ha
rivestito Adamo ed Eva di tuniche di pelle, così ha disteso sopra di noi come una pelle il
firmamento del suo Libro, le cui parole, colme di sapienza, ci illuminano e ci guidano
nel pellegrinaggio terreno verso la patria celeste.
«Chi, se non tu, Dio nostro, creò per noi un firmamento di autorità (firmamentum
auctoritatis) sopra di noi, nella tua Scrittura divina (in Scriptura…divina)? “Il cielo
(caelum) sarà ripiegato (plicabitur) come un libro (ut liber)” (Is 34,4), e ora si stende su
noi come pelle di tenda (sicut pellis, cf. Sal 103,2); l’autorità della tua divina Scrittura è più
sublime da che i mortali per cui ce l’hai comunicata incontrarono la morte della carne. “Tu
sai, Signore, tu sai” (Tb 3,16; 8,9; Gv 21,15s) come rivestisti di pelli gli uomini, allorché
per colpa del peccato divennero mortali (cf. Gn 3,21). Perciò hai disteso “come una pelle
(sicut pellem)” il firmamento del tuo libro (firmamentum libri tui), le tue parole sempre
coerenti, che hai posto sopra di noi con l’ausilio d’uomini mortali. Anche grazie alla loro
morte il bastione d’autorità delle tue parole per loro mezzo annunciate si stende eccelso
sopra ogni cosa…»78.
In questo firmamento, dispiegato a forma di libro e comprendente sia l’Antico che
il Nuovo Testamento79, si trova la «“testimonianza, che comunica la sapienza ai piccoli”
(Sal 18,8)». Ne è prova il fatto che la Bibbia è accessibile agli umili e non agli
orgogliosi80.
77 Enarr. in Ps. 103, s. 1,8 (NBA XXVII,646-651).
78 Conf. 13,15,16 (NBA I,466s).
79 Cf. Enarr. in Ps. 8,7 (NBA XXV,118).
80 Cf. Conf. 3,5,9 (NBA I,64s)..
36
Di qui l’accorata invocazione, rivolta dall’esegeta e predicatore al Signore,
affinché conceda agli umili la grazia non solo di comprendere ma anche di vivere
conformemente alla parola rivelata, fonte di conversione, di salvezza e di pace.
«Completa, Dio mio, la tua “gloria con la bocca degli infanti che ancora succhiano
il latte” (Sal 8,3). Davvero non conosciamo altri libri, che stronchino tanto bene la superbia
(cf. Ez 30,6), tanto bene stronchino “il nemico, il difensore” (Sal 8,3; Eccli 30,6) restio a
riconciliarsi con te mentre difende i propri peccati. Non conosco, Signore, non conosco
altre “espressioni così pure” (Sal 11,7) e capaci d’indurmi alla confessione, di ammansire la
mia cervice al tuo giogo (cf. Mt 11,29s), di sollecitare a prestarti un culto disinteressato. Fa’
che le capisca (cf. Sal 118,34; 73,144), Padre buono; concedimi questa grazia, perché mi
sono sottomesso a te e tu hai stabilito saldamente quelle parole per le anime sottomesse»81.
Agostino sottolinea il carattere transitorio della Scrittura, che costituisce per
l’uomo pellegrino nel tempo verso la Gerusalemme celeste una mediazione necessaria,
ma provvisoria. In effetti, essa non sarà più necessaria, quando egli avrà conseguito la
meta dei propri desideri e potrà contemplare Dio faccia a faccia, poiché lassù egli potrà
finalmente vedere «quella sapienza che riempie il cuore e la mente di chi la contempla»
e non avrà più bisogno della legge scritta. Il ruolo transeunte della Bibbia, che Dio ha
dispiegato come una pelle/firmamento (cf. Sal 103,2), è quello di aiutare l’uomo a
sconfiggere le forze del male e a compiere il bene. Quando tale funzione sarà espletata,
il Libro sacro sarà ripiegato su se stesso, come era stato preannunciato: «Il cielo sarà
ripiegato come un libro» (Is 34,4)
«Nel cielo (caelum), cioè nel firmamento (firmamentum), possiamo vedere
raffigurato (intellegitur per figuram) il libro della legge (liber legis). Per cui in un passo
della Scrittura si legge: “Egli stende il cielo come una pelle" (Sal 103,2). Se si distende
come una pelle, è come un libro che si apre per leggervi (liber… extentus, ut legatur). Una
volta però che sia trascorso il tempo, non occorre più leggere. In tanto infatti si legge il
libro della Legge, in quanto non si è ancora arrivati a quella Sapienza che riempie il cuore e
la mente di chi la contempla. Allora non ci sarà più bisogno che si legga alcunché. Mentre
infatti si fa la lettura, si odono sillabe che colpiscono il nostro orecchio e passano; la luce
della verità, al contrario, non viene mai meno, ma è fissa e inebria in maniera permanente il
cuore di chi la contempla. Di lei si dice: “Saranno inebriati dall'abbondanza della tua casa,
e col torrente delle tue delizie li disseterai, poiché presso di te, Signore, è la fonte della
vita”. E osserva questa fonte. Dice: “Nella tua luce vedremo la luce” (Sal 35,9-10). La
lettura è necessaria nella vita presente, finché “parzialmente conosciamo e parzialmente
profetiamo” (come dice l'Apostolo); “ma quando giungerà ciò che è perfetto, verrà escluso
ciò che è parziale” (1Cor 13,9). Quando saremo in quella città che è la Gerusalemme
81 Conf. 13,15.17 (NBA I,466s).Cf. V. Grossi, Leggere la Bibbia con S. Agostino, 52: «L’uomo rinnovato da
Cristo appartiene alla verità». Lo studioso cita, in proposito, Serm. 153,8,10 (NBA XXXI/2,500s)..
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celeste, dove vivono gli angeli, non occorrerà che ci si legga il Vangelo o gli scritti
apostolici. Da quella città noi siamo ora lontani come degli esuli e in quanto esuli
gemiamo… Orbene lassù, dove vivono gli angeli, si legge il Vangelo o l’Apostolo? Ci si
ciba della parola di Dio (Verbo Dei). La quale parola, per risuonare in maniera
comprensibile a noi che siamo nel tempo, si è fatta carne e ha posto la sua tenda in mezzo a
noi (cf. Gv 1,14). Però anche la Legge (ipsa lex) scritta è per noi un firmamento
(firmamentum) e, se il nostro cuore è stabilizzato in essa, non viene scosso dalle iniquità
degli uomini. Per questo è detto: “Egli stende il cielo come una pelle” (Sal 103,2). E
dell’epoca quando non ci sarà più la necessità dei libri, cosa sta scritto? “Il cielo (caelum)
sarà ripiegato (plicabitur) come un libro (ut liber)” (Is 34,4)»82.
Pur appartenendo a un’Economia provvisoria, la Scrittura, nonostante le sue
oscurità e contraddizioni, costituisce un rimedio provvidenziale per l’uomo peccatore e
rappresenta la «condiscendenza di Dio, che mette la sua Parola eterna alla portata della
nostra condizione mortale»83.
8.3. Specchio: speculum, ubi suam quisque vitam inspiciat
Nell’esordio dell’opera Speculum de Scriptura sacra, un florilegio di brevi passi
tratti dalla sacra Scrittura, composto intorno al 427 e rivolto al credente, che vuole
compiere meglio il proprio volere, il vescovo d’Ippona invita il fedele a specchiarsi in
questo libro, per verificare quanto cammino abbia fatto nella sequela di Cristo e nelle
opere buone, e quanto ancora gliene resti da compiere.
«Ci rivolgiamo […] a colui che, credendo già in Dio, vuole compiere meglio il suo
divino volere. Costui esortiamo a specchiarsi in questo libro (hic se inspiciat) per constatare
quanto cammino abbia fatto nella santità della vita e nelle opere buone (in bonis moribus
operibusque) e quanto invece gliene resta da percorrere (quantum sibi desit). In tal modo,
egli potrà ringraziare Dio per le mete conseguite (de his quae habet) e, per quanto non ha
ancora raggiunto (de his quae non habet), impegnarsi per raggiungerlo, mentre lavora e
prega con fede e pietà per conservare quello che possiede (illa servanda) e per conseguire
ciò che gli manca (haec adipiscenda)»84.
Nella Scrittura ciascuno può specchiare la propria vita e, se da un lato è in grado
di verificare i progressi fatti nella via della virtù; dall’altro, può prendere coscienza di
ciò che non ha ancora conseguito e cercare di realizzarlo.
«In queste parole del libro sacro potranno specchiare (in quibus inspiciat) la propria
vita tutti coloro che desiderano progredire (proficere) [nella virtù]… In questo Specchio (in
hoc Speculo) infatti vogliamo segnalare di preferenza le cose dove possano specchiarsi (ubi
se… inspiciant) coloro che si sono impegnati a condurre una vita buona ed encomiabile
82 Enarr. in Ps. 93,6 (NBA XXVII,248s).
83 Cf. I. Bochet, «Le firmament de l’Écriture», 29.
84 Speculum, Praef. (NBA X/3,212s).
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(bene ac laudabiliter vivere), ma sono ancora alla ricerca di quel che occorre desiderare per
realizzarla»85.
Riferendosi alla vicenda di Lot e all’episodio del peccato commesso dal patriarca
con le sue due figlie (Gn 19,30-38), il vescovo d’Ippona osserva:
«[…] Come uno specchio nitido e fedele (tamquam speculi fidelis nitor), essa
(Scrittura) riflette delle persone che le si avvicinano non solo ciò che è bello e integro (quae
pulcra atque integra), ma anche ciò che è brutto e vizioso (quae deformia vitiosaque)»86.
Gli stessi racconti di crudeltà, ingiustizie e vizi umani, contenuti nella Scrittura,
possono diventare profezia di eventi futuri positivi.
«[…] nelle Scritture profetiche, che narrano degli uomini non solo le azioni buone
(non tantum bona) ma anche le cattive (mala), poiché è la narrazione stessa a essere
profetica (prophetica… ipsa narratio), un bene futuro (aliquid… futurorum bonorum) è
prefigurato (significetur) da un’azione cattiva (de malibus operibus) per opera non del
peccatore (non peccantis opere), ma di chi scrive (scribentis)… [… ] riguardo alle azioni
che vengono proposte allo scopo di imitarle o di evitarle, ha molta importanza se siano
buone o cattive. Quelle invece che vengono scritte o dette perché siano un segno (ad
significandum), non ha alcuna importanza se nei costumi di chi le compie meritino lode o
biasimo, qualora possiedano la congruenza necessaria per prefigurare (necessariam
praefigurandi congruentiam) la cosa di cui si sta trattando (de qua agitur)»87.
Sia le imprese lodevoli dei personaggi biblici (vedi i Patriarchi) sia quelle
deprecabili dei malvagi e degli empi assumono dunque valore profetico e sono cariche
di insegnamento pedagogico, poiché rappresentano i comportamenti e le inclinazioni
perverse, che ognuno deve cercare di correggere, e il progresso nella virtù che deve
caratterizzare il cammino di ogni discepolo. Esse costituiscono, in ogni caso, un
avvertimento tanto per i giusti, affinché non si gonfino di orgoglio, quanto per gli iniqui,
affinché non si ostinino sulle vie del male, rifiutando il salutare rimedio della
conversione88.
85 Speculum: De Psalmis 108 (NBA X/3,276-279).
86 Contr. Faustum 22,60 (NBA XIV/2,552s).
87 Contr. Faustum 22,83 (NBA XIV/2,590-593).
88 È dunque insensato sostenere, o anche solo pensare, che la Bibbia abbia detto qualcosa di superfluo o di
inutile. Cf. Contr. Faustum 22,96 (NBA XIV/2,612s): «È [… ] del tutto folle chiunque pensa che abbiano
detto qualcosa di superfluo (superflue) o quasi di fatuo (fatue) libri ai quali vede che si è sottomesso ogni
genere di uomini e di ingegni, e in cui legge che una simile cosa fu da essi predetta (ab eis praedictum) e
riconosce che si è realizzata (perfectumque)».
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9. Con quali disposizioni interiori occorre accostarsi alla sacra Scrittura
La «lunga e assidua consuetudine con i libri sacri», che costituiscono «l’anima
della sua vita», e «il contatto con il popolo» di cui conosce a fondo «mentalità, esigenze
e attese, buona volontà e incostanza, debolezze e passioni»89, induce Agostino a
richiamare continuamente le disposizioni interiori che l’ascoltatore dovrebbe assumere
per poter comprendere la parola di Dio e gustare la dolcezza del suo insegnamento.
9.1. Prerequisiti per la lettura testo biblico
Ai Manichei Agostino suggerisce di attingere dalla Scrittura l’amore per la
Sapienza e la Verità, che consente loro di incontrare Cristo.
«Essa, ispirata dallo Spirito Santo, conduce al Figlio, cioè alla Sapienza di Dio (ad
sapientiam Dei) mediante la quale il Padre stesso si conosce. La sapienza e la verità infatti,
se non sono desiderate con tutte le forze dello spirito, in nessun modo è possibile trovarle.
Se invece si cercano come si conviene, esse non possono né sottrarsi (subtrahere sese) né
nascondersi (abscondere) a coloro che le amano (a suis dilectoribus). Da ciò quelle parole
che anche voi siete soliti avere sulla bocca, le quali dicono: “Chiedete e vi sarà dato,
cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Mt 77); “Non vi è nulla di nascosto che non
sarà svelato” (Mt 10,26). Con l’amore si chiede, con l’amore si cerca, con l’amore si bussa,
con l’amore si svela, con l’amore infine si rimane in quello che sarà stato svelato. Da
questo amore per la Sapienza e da questo zelo nel cercarla non ci distoglie il Vecchio
Testamento, come voi dite sempre in modo assolutamente menzognero: esso invece ci
spinge a tali disposizioni d’animo con grandissimo vigore (vehementissime)»90.
È impossibile infatti conoscere Dio, se non lo si ama e non si aderisce a Lui con
cuore puro, fede convinta e profonda umiltà91. Nel Sermone 398, De symbolo ad
catechumenos, tenuto in data e luogo imprecisati, Agostino esorta i candidati al
battesimo a credere fermamente alle verità rivelate.
«Prima credete (prius credite), poi cercate di capire (postea intellegite). È un dono di
Dio (Dei donum), non certo prerogativa dell’umana fragilità (non humana fragilitas), poter
capire subito (cito intellegat), appena creduto (cum crediderit). Tuttavia se ancora non
89 Cf. M. Pellegrino, nell’introduzione a: Sant’Agostino. Discorsi I (1-50) sul Vecchio Testamento (=NBA
XXIX), Città Nuova Editrice, Roma 1979,XII.
90 De mor. Eccl. cath. 1,17,31 (NBA XIII/1,58-61).
91 Cf. Lett. 118 3,22 (NBA XXI,1156-1159); De doctr. chr. 1,10.10 (NBA VIII,22s): «A tal fine occorre
purificare l’anima, perché possa fissare quella luce e restare attaccata a quello che ha veduto»; De agone chr.
13,14 (NBA VII/2,98s): «[… ] Come nella conoscenza bisogna guardarsi dall’errore, così nell’azione bisogna
guardarsi dal peccato… Pertanto, prima di purificare la nostra mente, dobbiamo credere quello che non
possiamo ancora comprendere; poiché in tutta verità fu detto per mezzo del profeta: “Se non crederete, non
comprenderete” (Is 7,9)».
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capite (si nondum intellegitis), credete (credite): In Dio unico Padre, in Cristo Dio, Figlio di
Dio»92.
9.2. Atteggiamenti spirituali
Alla sacra Scrittura ci si deve accostare anzitutto con spirito di fede, sapendo che
essa è in grado di soddisfare le più profonde esigenze dell’animo umano. Lo studio della
Scrittura esige infatti, secondo il Dottore della grazia, un atteggiamento di umile
sottomissione alla volontà di Dio, autore della Rivelazione.
«Dunque, «[… ] nutriamo (pascamus) e dissetiamo (potemus), con la meditazione e
lo studio delle Sacre Scritture, l’animo stanco e tormentato dalla fame e dalla sete (fame ac
siti) della vana curiosità e che inutilmente aspira a ristorarsi e saziarsi con vuote immagini,
simili a cibi dipinti: istruiamoci con questa salutare occupazione, davvero liberale e nobile.
Se proviamo piacere per la straordinarietà degli spettacoli e per la bellezza, aspiriamo a
vedere quella Sapienza che si estende da un confine all’altro con forza e governa con bontà
eccellente ogni cosa (cf. Sap 8,1)»93.
Per giungere all’intelligenza del testo rivelato, l’autore suggerisce inoltre un
atteggiamento di profonda umiltà, sentimento contrario all’orgoglio dal quale egli stesso
si è lasciato trasportare da giovane, quando si è allontanato dalla Chiesa cattolica e,
come un uccello caduto dal nido, è rimasto impigliato nelle maglie del manicheismo94.
La Parola di Dio va accolta con umile fiducia e mitezza, sapendo che le oscurità,
presenti in alcune sue pagine, sollecitano il lettore attento a bussare alla porta del
Medico celeste chiedendo che gli sia aperto. Mediante tale esercizio, egli impara
gradualmente a dilatare il proprio cuore e a custodire come un dono prezioso ciò che gli
è dato di comprendere alla luce dello Spirito.
«Onora la Scrittura di Dio (Scripturam Dei), onora la parola di Dio (verbum Dei),
anche se non ti è palese (etiam non apertum). Animato da pietà, rimandane la comprensione
(intellegentiam). Non intestardirti nell’accusare la Scrittura o d’oscurità (obscuritatem) o di,
chiamiamola così, assurda perversione (perversitatem). Nulla di falso (perversum) c’è nella
Scrittura. Se c'è qualcosa di oscuro (obscurum… aliquid), non è perché ti si voglia negare la
comprensione, ma perché tu ti alleni meglio e così te ne appropri. Eventuali oscurità ivi
92 Serm. 398,2.4 (NBA XXXIV,714s). Cf. R. Holte, Béatitude et sagesse,227.
93 De vera rel. 51,100 (NBA VI/1,142s).
94 Serm. 51,5,6 (NBA XXX/1,12s). Sull’importanza della fede e delle opere buone per giungere alla visione di
Dio, si veda Serm. 91,7,9 (NBA XXX/2,128s): «Poiché dunque è difficile per noi capire questo mistero, ma
non è difficile crederlo («Se infatti non crederete - dice Isaia - non capirete» Is 7,9, sec. LXX), finché siamo
lontani dal Signore, camminiamo per mezzo della fede finché non arriveremo alla visione quando vedremo
Dio faccia a faccia (2Cor 5,6-7; 1Cor 13,12). Camminando per mezzo della fede, cerchiamo di compiere il
bene. Mediante le opere buone sia gratuito l’amore verso Dio, sia benefico l’amore verso il prossimo. Noi
infatti non abbiamo nulla da dare a Dio, ma poiché abbiamo di che dare al prossimo, dando a chi ha bisogno
meriteremo di possedere Colui che possiede ogni bene». Cf, inoltre, M. Pontet, L’exégèse de saint Augustin
prédicateur,112ss.
41
esistenti (quando obscurum) sono opera del medico (medicus… fecit), il quale ve le ha
poste per farti picchiare (ut pulses): egli ha voluto che ti allenassi a picchiare (exercereris in
pulsando), per poi aprire (questo pure ha voluto) a chi picchiava (pulsanti, cf. Mt 7,7).
Picchiando (pulsando) ti alleni, allenato (exercitatus) diventi più capace (latior), reso
sufficientemente capace sarai in grado di contenere il dono (quod donatur). Non irritarti
quindi se qualcosa ti è impenetrabile. Sii mite, sii mansueto!... Non opporre resistenza di
fronte alle cose che Dio ti nasconde: sii mansueto, affinché Egli ti accolga»95.
Infine, il santo dottore raccomanda ai suoi lettori di accogliere la Parola con
atteggiamento di carità.
«Insieme ci metteremo [… ] sui sentieri della carità, in cerca di Colui del quale è
detto: “Cercate sempre il suo volto” (Sal 104,4)»96. Quindi, aggiunge: Infatti, «se Dio non è
amato per fede, il cuore non potrà purificarsi per diventare capace e degno di vederlo»97.
Se la fede agisce come un «collirio», che guarisce gli occhi malati dell’uomo e lo
rende capace di vedere con maggiore acutezza98, la carità, dono dello Spirito, lo spinge
a cercare Dio e gli fa gustare la dolcezza della sua Parola. Anzi, si può dire che la Parola
rivelata agisce nell’animo dell’ascoltatore come una dilectio, ossia come un’attrattiva
del Padre, non come una forma di costrizione della libertà umana (cf. Gv 6,43-44:
«Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato»)99.
Al credente di ogni tempo Agostino raccomanda di affidarsi alla Parola custodita
dalla Chiesa, di prenderla come compagna di vita100 e di avere nei suoi confronti il
massimo zelo: «diligenza nell’indagare (diligentia requirendi)», «umiltà nel domandare
(humilitas petendi)», «perseveranza nel bussare alla porta (perseverantia pulsandi, cf.
Mt 7,7)»101.
Per trarre profitto dalla sacra Scrittura, occorre inoltre leggerla assiduamente;
quindi, ricercarne i profetici significati alla luce dello Spirito Santo; infine, conformare
95 Enarr. in ps. 146,12 (NBA XXVIII,784-787). Numerosi sono i testi agostiniani che trattano il tema
dell’oscurità della Scrittura. Oltre a quelli indicati nei paragrafi precedenti, si veda De div. quaest. 83, q. 53,2
(NBA VI/2,100s).
96 De Trin. 1,3,5 (NBA IV,12s).
97 De Trin. 8,4,6 (NBA IV,336s).
98 Cf. Enarr. in ps. 72,7 (NBA XXVI,832s); I. Bochet, «Le firmament de l’Écriture,41.
99 Cf. In Io. ev. tr. 26,2 (NBA XXIV,696s); V. Grossi, S. Agostino, la Bibbia e il postmoderno,864.
100 De Serm. Dom in monte 1,11,32 (NBA X/2,120s): «Essa infatti ci è stata data per questa vita (ad hanc vitam),
affinché sia con noi per via (in via) e non conviene essere in contrasto con essa affinché non ci consegni al
giudice, ma conviene essere condiscendenti con essa (ei… consentire)… È condiscendente con la sacra
Scrittura chi la legge o l’ascolta con deferenza (pie) perché le attribuisce la massima autorità (culmen
auctoritatis)».
101 Cf. De Gen. ad litt. 10,23,39 (NBA IX/2,548s).
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ad essa la propria esistenza, respingendo le tentazioni che ci rendono schiavi delle
passioni e ricercando, invece, ciò che ci rende interiormente liberi.
«Bisogna insomma leggere la sacra Scrittura (legenda… Scriptura divina),
riconoscere la presenza dello Spirito Santo (Spiritus sancti dispensatio) e percepire la
profezia (intuenda prophetia); bisogna inoltre respingere la schiavitù della carne (carnalis
servitus) e conservare l’intelligenza propria di un uomo libero (liberalis intellegentia)»102.
Per la sua dimensione trascendente e veritativa, la Scrittura è specchio e norma del
vivere cristiano.
«Specchiati nelle Scritture (adtende in Scripturis) e vedi se è buona la tua condotta
(si bene vivis)»103. «Non prendiamo bilance ingannevoli (stateras dolosas), su cui pesare
ciò che vogliamo e come lo vogliamo, e poi dire a nostro piacimento (pro arbitrio nostro):
“Questo è pesante, questo è leggero”. No, prendiamo la bilancia divina (divinam stateram)
presa dalle sante Scritture (de Scripturis sanctis), come dai tesori del Signore (de thesauris
dominicis), e con essa misuriamo per vedere ciò che è più pesante (quid sit gravius). Anzi,
non pesiamo noi, ma riconosciamo i pesi stabiliti dal Signore»104.
Il grande dottore è fermamente convinto dell’insostituibilità della Scrittura per la
realizzazione del fine ultimo dell’esistenza, poiché – osserva – «se non crederemo (nisi
crediderimus) ad essa, non potremo né essere cristiani né salvarci (nec christiani nec
salvi)»105.
Perciò esorta i fedeli ad ascoltare, meditare e mettere in pratica la Parola,
qualunque sia la condotta del predicatore che l’annuncia.
«Ebbene, aprano finalmente le orecchie del cuore (aures cordis) alle Scritture; la
smettano di essere uomini che “non capiscono né ciò che esse dicono, né ciò che danno per
sicuro” (1Tm 1,7).. Ecco, notano quanto viene detto al peccatore: “Perché reciti i miei
decreti e hai sulle tue labbra la mia alleanza?” (Sal 49,16). Ma non capiscono quanto gli si
vuol far sapere, e cioè che non gli giova a nulla pronunciare le parole di Dio solo con la
bocca, se poi non le mette in pratica (si quod dicit… non facit). Esse nondimeno giovano a
quelli che, pur ascoltandole dai cattivi, le mettono in pratica (faciunt). Ciò che il Signore
comanda, lo insegna lui stesso nel Vangelo, a proposito dei Farisei: “Essi siedono sulla
cattedra di Mosè. Fate quello che essi dicono, ma non fate quello che essi fanno, perché
dicono e non fanno” (Mt 23,2-3)»106. E ancora: «Il seme (semen) che mi rigenera (quo
regeneror) è la parola di Dio (verbum Dei), che sono esortato ad ascoltare con
sottomissione (obaudienter audire), anche se colui, tramite il quale l’ascolto, non mette in
102 Contr. Adimantum 15,3 (NBA XIII/2,180s).
103 Enarr. in ps. 128,13 (NBA XXVIII,214s).
104 De bapt. c. Donat. 2,6,9 (NBA XV/1,326s).
105 Contr. Faustum 26,7 (NBA XIV/2,660s).
106 Contr. Ep. Parm. 2,9,18 (NBA XV/1,128s).
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pratica (non facit) ciò che dice, poiché mi rassicura la parola del Signore: “Le cose che essi
dicono, fatele, quelle che fanno, non le fate. Dicono infatti, ma non fanno” (Mt 23,3)»107.
Il fedele, che presta diligente ascolto, trae profitto dalla Parola quando, riflettendo
su di essa e ruminandola dentro di sé, la assimila profondamente e cerca di vivere
conformemente ad essa modellando la propria condotta sugli insegnamenti del Signore.
«Vi dico questo, fratelli, affinché traiate profitto (proficiatis) dalle cose che avete
ascoltate (ex eo quod audistis). Ruminatele dentro di voi (ruminetis vobiscum) e non
vogliate dimenticarle (oblivisci). Ripensatele (ista recogitando) piuttosto e parlatene tra di
voi (colloquendo), ma soprattutto vivete in conformità con quel che vi è stato detto (ita
vivendo). Difatti la vita buona (bona vita), modellata (quae agitur) sui comandamenti del
Signore (ex praeceptis Dei), è come uno stilo (stilus) che incide nel cuore (in corde) le cose
udite. Se le si scrivesse sulla cera (in cera), si cancellerebbero facilmente. Scrivete la parola
di Dio nei vostri cuori (in cordibus vestris), nei vostri costumi (moribus vestris), e non si
cancellerà mai (numquam delebitur)»108.
Mediante l’ascolto assiduo della Parola si attua nel cuore dei credenti una
progressiva conformazione all’immagine di Dio, per cui essi non aderiscono più alle
cose temporali ma a quelle eterne. Questa profonda trasformazione è possibile grazie
all’aiuto dello Spirito, che rafforza la loro volontà e li rende capaci di compiere il bene.
«Dunque colui che di giorno in giorno si rinnova progredendo (proficiendo) nella
conoscenza di Dio (in agnitione… Dei) e nella vera giustizia e santità, trasporta il suo
amore dalle cose temporali (a temporalibus) alle cose eterne (ad aeterna), dalle cose
sensibili (a visibilibus) alle intelligibili (ad intellegibilia), dalle carnali (a carnalibus) alle
spirituali (ad spiritalia) e si dedica con cura a separarsi dalle cose temporali, frenando e
indebolendo la passione, e ad unirsi con la carità a quelle eterne (illisque se caritate
alligare). Non gli è possibile però questo (tantum… facit) che nella misura in cui riceve
l’aiuto di Dio (quantum divinitus adiuvatur)»109.
Agostino è assolutamente convinto che la parola rivelata è efficace e opera una
profonda trasformazione nel cuore dell’uomo, poiché lo esorta a praticare le virtù
evangeliche, soprattutto la «carità (caritas)»110.
«All’uomo che ama Dio e del quale parliamo […] la giustizia prescriverà questa
regola di vita (vitae regulam): che serva con la massima disponibilità Dio (Deo…
libentissime serviat) che egli ama, cioè il bene sommo (summo bono), la somma saggezza
(summae sapientiae), la somma pace (summae paci). Quanto a tutte le altre cose, governi
quelle che gli sono soggette e abbia l’ardire di assoggettare le altre. Questa norma di vita
(norma vivendi), come abbiamo mostrato, è confermata dall’autorità dei due Testamenti
(utriusque Testamenti auctoritate)»111.
107 Contr. litt. Petil. 1,7,8 (NBA XV/2,36s).
108 Enarr. in ps. 93,30 (NBA XXVII,302s).
109 De Trin. 14,17.23 (NBA IV,606s).
110 De mor. Eccl. cath. 1,33,71 (NBA XIII/1,102s).
111 De mor. Eccl. cath. 1,24,44 (NBA XIII/1,74s).