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da L’arte dell’Occidente di Henri Focillon Storia dell’arte Einaudi 1

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da L’arte dell’Occidente

di Henri Focillon

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:Henri Focillon, L’arte dell’Occidente, intr. e note diJean Bony, trad. it. (testo) di Emilio Faccioli e GinoBaratto, (introd. e note) di Silvana Amari Barisone,Einaudi, Torino 1965 e 1987Titolo originale:Art d’Occident© 1938 Armand Colin, ParisNuova edizione 1983Introduzione e note di Jean Bony © 1963 Phaidon Press Ltd, London

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Indice

Storia dell’arte Einaudi 3

Libro terzo Il tramonto del Medioevo

capitolo primo L’irrealismo, il barocco gotico

i. I movimenti storici del declino. Ultime migra-zioni dei popoli. – Lo spirito romanzesco. Ilromanzo di Dio: i mistici. Il romanzo del Dia-volo: la stregoneria. Il romanzo del destino:l’astrologia. La nostalgia cavalleresca. La nostal-gia dell’antico. – La curiosità, gli amatori: Jeande Berry. – Irrealismo e teatralità.

ii. L’architettura senza regola. Il gotico fiammeg-giante. La controcurva e le sue origini: evolu-zione interna o importazione dall’Inghilterra. Ilmovimento e il colore. Gli effetti contro lastruttura. Irregolarità delle volte. Maschera-mento delle masse. Un’architettura pittorica.Rinascita delle forme romaniche nella decora-zione. – I gruppi francesi. I gruppi europei.

iii. La città e la casa. Unità di uno sviluppo stili-stico. Le case a pannelli di legno. Il castello. Ladimora urbana. Il palazzo di Jacques Coœur aBourges.

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capitolo secondo Sluter e van Eyck

i. La scultura sotto l’influenza della pittura. I prín-cipi borgognoni e l’ambiente ducale. – Gli ante-cedenti di Sluter. Il portale di Champmol. Letombe, la liturgia dei funerali. Il Pozzo diMosè. – Le botteghe sluteriane. Le Vergini bor-gognone. – La scultura indipendente dalla pare-te. Gli altari scolpiti, l’ottica del teatro e delgioco. I Sepolcri come tableaux-vivants. LePietà, la religione del dolore.

ii. La pittura crea un mondo nuovo. Le esperien-ze preeyckiane nella miniatura. Ritardo dei pit-tori su tavola. – Van Eyck, il nuovo mezzo e lamoderna materia pittorica. La poetica di vanEyck, il microcosmo. La composizione. Lo spi-rito analitico nello studio del mondo e dell’uo-mo.

iii. Rogier van der Weyden e lo stile monumenta-le. L’istinto statuario. La composizione a tim-pano. – Le scuole e i maestri fiamminghi. L’a-razzo. – Jeronimus Bosch. L’altro volto delMedioevo. Distruzione del microcosmo. L’an-ticosmo. Risveglio dei mostri. Il paesaggio fan-tastico.

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iv. La diffusione dell’arte fiamminga. La Germa-nia prima dell’influenza di van der Weyden:l’arte in Westfalia, i pittori dell’Hansa, l’arte diColonia. Istantaneità e metamorfosi. La Ger-mania meridionale. La Renania. Vigore deldisegno in Germania: Schongauer. Le città deiconcili. Witz. I primitivi austriaci. – I gruppispagnoli e la fortuna dell’arte fiamminga inCastiglia, in Catalogna e in Portogallo.

v. La pittura francese. La zona fiamminga. Varietàdi ambienti e costanza di una regola. – La tra-dizione parigina. Le regioni occidentali. Unrisveglio del passato, le Heures de Rohan. – Leregioni meridionali, Avignone, i pittori di tim-pani. – La Loira, Fouquet, i suoi antecedenti:gli scultori degli ateliers reali. Lo stile monu-mentale nella pittura francese.

capitolo terzo Il Medioevo nel Rinascimento italiano

i. Il Medioevo è un «rinascimento». – La culturagotica e la nostalgia romana in Italia. – Carat-teri storici comuni alla cultura italiana e a quel-la occidentale.

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ii. Le persistenze medioevali nella pittura delQuattrocento e le inquiete ricerche prospetti-che dell’ambiente albertiano. Origini medioe-vali della prospettiva. I cavalieri di Paolo Uccel-lo. La tecnica illusionistica.

iii. Le forze nuove. L’architettura toscana. –Ritorno della pittura allo stile monumentale.Masaccio. – Fusione della vitalità gotica e del-l’ispirazione archeologica nella scultura. – Qua-lità medioevale e atticismo toscano nell’arteitaliana del xv secolo.

conclusione

Arte d’Occidente. Le tradizioni, le influenze, leesperienze. Orientalismo preromanico, orien-talismo romanico. Lo spirito nuovo. Sopravvi-venza del Medioevo.

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Libro terzo Il tramonto del Medioevo

Capitolo primo

L’irrealismo, il barocco gotico

I.

La fine di un’epoca non è la brusca cessazione deimovimenti che la caratterizzano. Esiste forse una fisio-logia storica analoga alla fisiologia umana che presenta,come quest’ultima, fenomeni di declino. Limitandocialla vita dello spirito e alle opere d’arte, ne abbiamo leprove, accompagnate tuttavia, nel secolo xv, da uncerto numero di avvenimenti il cui interesse è statomesso in luce piú o meno esattamente e che, al di là diun ordine politico, sociale, economico e tecnico, hannouna portata considerevole nella storia dell’uomo. È opi-nione convenzionale che il Medioevo duri fino allacaduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi, nel1453, e che a partire da questa data incomincino itempi moderni. Le diverse ragioni che si dànno – esododegli studiosi greci, diffusione della cultura antica –sono assai deboli, ma il fatto conserva il suo valorecome indice e come punto di riferimento e richiama lanostra attenzione su movimenti piú generali. La fine delMedioevo è indicata in effetti, se non dalle migrazioniin massa (come ai suoi inizi), almeno dalle ultime onda-te di quei vasti spostamenti. La grande invasione deiselgiuchidi avanzava da lungo tempo nell’interno del-l’impero greco, la distruzione del quale pone fine aquanto rimaneva dell’ordine politico stabilito da Roma

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nel bacino orientale del Mediterraneo. Quarant’annipiú tardi, Ferdinando s’impadronisce di Granata, e imori di Spagna sono cacciati in Africa. Ma questo nonè un fenomeno di compensazione. Per comprenderne ilsenso occorre avvicinarlo all’invasione dell’Egitto daparte di Selim I (1517), che scaccia la dinastia dei mam-malucchi circassi: è la fine della cultura propriamentearaba, alla quale si sostituisce la cultura ottomana. Cosíla seconda metà del secolo xv e i primi anni del xvivedono scomparire o passare in second’ordine le tregrandi civiltà che formano il Medioevo europeo: laciviltà bizantina, di cui sussistono aspetti soltanto pro-vinciali nei paesi del Danubio e dei Balcani; la civiltàaraba propriamente detta, limitata al Marocco e all’A-frica del Nord; infine la civiltà gotica.

Le circostanze storiche che accompagnano o che spie-gano il declino di quest’ultima sono di diverso ordine.In Francia soprattutto esse sono manifeste e decisive, inquanto il pensiero gotico, nella sua espressione piú com-pleta, è un pensiero francese esteso all’Occidente. LaFrancia è un paese esaurito dopo la guerra dei Cent’an-ni, che ha logorato una classe la cui vecchia tecnica mili-tare sta per essere sopraffatta da invenzioni che rendo-no precarie fortificazioni e armature. La borghesia,costante collaboratrice del re capetingio, tende ad assu-mere, se non il primo posto, indubbiamente il ruolo piúattivo. Vengono a mancare alle grandi imprese le risor-se collettive e soprattutto la coesione sociale del secoloxiii. Nello stesso tempo la monarchia è minacciata dal-l’espansione della casa di Borgogna, erede delle Fiandre,e piú tardi dai chimerici e pericolosi progetti del «granduca d’Occidente». Si verifica inoltre un frazionarsi deicentri culturali: Parigi da una parte e, dall’altra, Digio-ne, Bruges e Gand. Nelle città ducali e in Italia si com-piono le esperienze innovatrici. Claus Sluter, van Eyck,i veronesi e anche i fiorentini della prima metà del seco-

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lo xv appartengono ancora al Medioevo per il caratteregenerale della loro vita, per il tono della loro concezio-ne morale e per un particolare ordine di pensieri, ma sudati affatto diversi essi costruiscono l’uomo e lo spazio.In Italia la romantica rievocazione dell’antichità perdu-ta coincide con le forme romantiche del pensiero goti-co. Ma mentre per quest’ultimo rappresentano la faseestrema di una evoluzione, per l’Italia precedono il ritor-no a quella che essa ritiene la sua età dell’oro e la suamissione storica.

Alla fine del secolo xiv e all’inizio del xv, un parti-colare irrealismo spirituale subentra in Occidente a quelsentimento fermo e forte della vita che caratterizza l’e-poca precedente. Le civiltà cominciano con l’epopea,con la teologia, e terminano con il romanzo. La teologiastessa diventa romanzesca. Il carattere del romanzo, selo si considera non come un «genere» ma come l’e-spressione di un istinto, manifesta, piú che le necessitàdi rappresentare l’esistenza, il bisogno di ricostruirla edi colorarla, di farvi intervenire ciò che essa sembrarifiutare, le meraviglie dell’immaginazione; una dispo-sizione dello spirito che si applica anche alla vita reale,che può trattare come un’opera d’arte, come una fiaba,per esempio nelle feste che una società raffinata allesti-sce per se stessa, nei costumi, che non furono mai tantosingolari, tanto volutamente peregrini quanto sotto ilregno di Carlo VI, in Francia. È piú interessante vede-re come ciò si insinui nelle forme piú alte del sentimen-to religioso. Nello stesso tempo in cui la scolastica decli-na come potenza speculativa, si inaridisce, e, almeno neisuoi aspetti volgari, fa appello all’automatismo, la fede,quando non sia immiserita dalle minute pratiche didevozione, acquista una qualità sensibile, effusiva, inopere come l’Imitatio Christi, il piú delicato, il piúprofondo e il piú efficace romanzo della vita cristiana.Si possono considerare i mistici, come santa Brigida di

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Svezia, Heinrich Suso, degli straordinari romanzierianch’essi, non per la complessità delle avventure, ma peril sogno e la visione di una sola avventura, la piú alta,la piú abbagliante, la comunione in Dio. Il pensieroossessivo della morte, che incombe pesantemente sullafine del Medioevo1, crea altresí il proprio romanzo conla leggenda dei tre morti e dei tre vivi, e il proprio bal-letto funebre, le danze macabre. E la stregoneria infinenon è forse il romanzo del diavolo? Quanto all’astrolo-gia, è ad un tempo la scienza delle determinazioni posi-tive e il romanzo del destino. A lungo il Medioevo rima-se fedele all’immagine e alla concezione ellenistica delcielo. Gli arabi gli fecero conoscere la vecchia tecnicamesopotamica delle divinazioni attraverso gli astri e gliinsegnarono a tracciare tra i segni celesti il meraviglio-so reticolo stellato. Si vede mutare la figura delle costel-lazioni. Le divinità che le abitano e che dànno loro unnome con i tratti e gli attributi della mitologia classica,accolgono una iconografia piú antica per determinare lecorrispondenze che le uniscono alle diverse famiglieumane e alle varie parti del corpo. L’astrologia non è unaforma figurata dell’astronomia. Essa pone l’uomo al cen-tro di una composizione di forze lontane, lo prolunga inun aldilà di certezze nascoste. Il romanzo della prede-stinazione dell’esistenza individuale si svolge in una pro-spettiva di immensità2.

L’irrealismo cavalleresco non è meno interessante.Nel momento in cui muore, la cavalleria cerca di risol-levarsi con delle finzioni. Tale è senza dubbio il signifi-cato del successo ottenuto dai rimaneggiamenti e dallecontinuazioni delle canzoni di gesta, dei romanzi inprosa della Tavola Rotonda e, nella stessa vita storica,piú ancora che nel talento dei narratori, il tono diromanzo di cui sono impregnate anzitutto quelle straneistituzioni che sono gli ordini cavallereschi creati nelsecolo xiv. Esiste un’intenzione politica nel Toson

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d’Oro, istituito dai duchi di Borgogna, nell’ordine dellaStella, istituito da Giovanni il Buono? In ogni caso,niente di simile al vigoroso spirito che animava i mona-ci-militari di terrasanta, bensí una brillante fantastiche-ria, inattuale, senza efficacia diretta sulla vita del seco-lo. L’ornamentazione dei palazzi moltiplica attorno aquei sognatori le figure predilette dei loro sogni, le scenedi guerra, l’immagine dei prodi e delle eroine, dipintenel castello della Manta in Piemonte, scolpite nella torredi Maubergeon di Poitiers, rappresentate nelle tappez-zerie (è fatta menzione di manifatture di maestri araz-zieri nel Libro dei mestieri del 1303), cosí come la storiadi Troia, di Medea e di Giasone3. Con codesto percor-so aggirante l’antichità prende posto nell’immaginazio-ne del Medioevo in Occidente, e in questo modo biso-gna interpretare la commissione di una vita di Cesare daparte di Jean le Bon al suo pittore Girard d’Orléans peril castello di Vaudreuil. Per il re di Francia, come per itiranni delle piccole corti feudali d’Italia, la Grecia eRoma sono anzitutto «specchi» di cavalleria e di eroi-smo. Ma in Italia quelle evocazioni avevano il caratteredi una nostalgia, mentre in Francia non facevano cheaggiungere grandi nomi e belle storie all’arazzo degli eroida romanzo.

A codeste fantasticherie romanzesche aggiungiamouna innegabile velatura di esotismo4 e, in maniera piúgenerale, ma in senso ben definito, la curiosità. Non l’ar-dore di conoscere, ma il gusto del raro e del singolare,quello che, con la stessa parola usata al plurale indicatutto un gruppo di oggetti, preziose briciole di lontaneciviltà. Le grandi commissioni e i grandi impulsi dati daicollezionisti della famiglia reale non li definiscono deltutto. In ciascuno d’essi, magnifici nelle costruzioni enelle imprese, vive l’avaro della fiaba, posseduto dallacupidigia del pezzo unico. Vedremo ciò che diviene invan Eyck codesta poetica dell’oggetto. Jean de France,

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duca di Berry, terzo figlio di Jean le Bon, fratello diCarlo V e di Filippo l’Ardito, non smise mai, durante lasua lunga vita, d’essere sensibile al fascino romanzescodella cosa rarissima e bellissima. Nei suoi palazzi diBourges e di Poitiers, nell’Hôtel de Nesle a Parigi, difronte al Louvre del re suo fratello, nei suoi castelli d’E-tampes e di Mehun-sur-Yèvre, fece eseguire vasti lavo-ri, riuní tesori di curiosità, come medaglie antiche, cam-mei, avori, mobili intarsiati, gioielli, libri. I suoi inven-tari completano con una prospettiva leggendaria, maautentica, ciò che sappiamo del suo gusto attraverso lecommissioni fatte a Beauneveu e ai de Limbourg. Comemolti suoi contemporanei, fonde la finzione alla vita conil suo amore cavalleresco per la Dame Oursine a cuifanno misteriosamente allusione i piccoli orsi emblema-tici delle sue insegne, con la magnificenza della sua vita,con le sue fantasticherie sulle meraviglie di cui si cir-conda, sugli sfondi alternati dell’antichità, dell’Italia edell’Oriente. Oriente bizantino, Oriente arabo, torna-to un momento di moda con i viaggi in Francia degliimperatori Andronico e Manuele, con la crociata diNicopoli, romanzo e disavventura, da cui il conte diNevers riportava allo zio, il duca di Berry, preziose stof-fe. Ne abbiamo il ricordo nei costumi orientali delle TrèsRiches Heures, come in due delle prime miniature delleAntiquités judaïques, dovute a maestri della stessa bot-tega, dove passano, con saraceni in gran pompa, le bestieesotiche del serraglio ducale.

Sembrerà, a dire il vero, che badiamo soltanto allospirito di un’unica classe, e che la borghesia vi rispon-da con la satira, con Renart le Contrefait, o, se si vuole,con il romanzo del romanzo. Occorre vedere in questoantagonismo sociale il principio di una antinomia spi-rituale che, nelle arti, opporrebbe il vigore del realismo,lo spirito di osservazione, lo studio della natura e la poe-tica della scuola del buon senso a codesto «irrealismo»

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romanzesco o romantico? Ma la borghesia, come lacavalleria, come il popolo, partecipa anch’essa a quellaricca vita immaginativa che dà il tono del secolo e, seanche ne è meno toccata, in quanto meno ne sente l’e-sigenza, vi si abbandona nella fede. La maniera in cuipensa e sente Dio, i misteri della religione cristiana, isacramenti, la liturgia e infine le immagini, non potreb-bero essere diverse da quelle del tempo. Inoltre (e forsetocchiamo ora un punto essenziale), l’opposizione frairrealismo e realismo è piú apparente che fondata, e sirischierebbe d’essere ingannati da un contrasto illuso-rio se si tentasse di spiegare in tal modo l’arte della finedel Medioevo. Ogni irrealismo ha bisogno di figurevigorose e rassomiglianti per illudere se stesso e per darei colori del reale alla vita fittizia. Ogni romanticismocrede di raggiungere l’autentico, ma lo carica di valoriespressivi e di accessori pittoreschi. È naturalmenteteatrale e tutto coordina come un’azione drammatica.Cosí si spiega, certo con regole piú generali, l’influen-za dei misteri sull’arte religiosa. Si può pensare che ilteatro e l’iconografia (malgrado gli imprestiti e gli scam-bi) obbediscano simultaneamente alle stesse esigenzedella sensibilità, come l’iconografia della pittura inFrancia nella prima metà del secolo xix e la messa inscena dei melodrammi. La potenza illusoria di una falsaobiettività si esercita con una serie di artifici che imi-tano la natura soltanto per superarla. Codesta otticateatrale non ha bisogno di un vero teatro per esercitar-si: si manifesta con il declino dell’arte monumentale.L’architettura che la domina e che ne impone le rego-le sta scompaginandosi. Questa distruzione non è soloun aspetto essenziale della storia della fine del Medioe-vo: ne è forse uno dei fattori. Una basilica romanica,una cattedrale del secolo xiii non sono semplici profilisull’orizzonte storico: sono ambienti operosi; cosí furo-no concepiti da coloro che li costruirono. Anche se noi

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lo prendiamo solo come un sintomo, l’involuzione del-l’architettura spiega la fine di una civiltà.

II.

Il gotico fiammeggiante trae il proprio nome da alcu-ni effetti particolarmente notevoli negli schermi trafo-rati delle finestre, effetti che dànno alla rete delle ner-vature l’apparenza ondeggiante della fiamma. Codesteforme, che possono arrivare a una grande complessità,si riconducono tutte alla controcurva da cui sono deri-vate. Si ottiene una controcurva disegnando due archicontigui sostenuti da corde della stessa misura, i cuicentri siano posti l’uno da una parte e l’altro dall’altradella retta sulla quale giacciono le corde stesse; l’arco acarena di nave ne mostra il profilo elementare e piúcomune; la curva, prolungata dalla controcurva, cioè dauna curva in senso contrario, sembra ondeggiare e rad-drizzarsi; i soufflets e le mouchettes a forma di fogliaincurvata, sono applicazioni assai semplici dello stessoprincipio5. Si vede subito che la controcurva per defini-zione è suscettibile di imporre un movimento particola-re alle linee dell’architettura, di cui tende, mediante ilsuo doppio orientamento, a spezzare l’equilibrio e quin-di a ripristinarlo immediatamente. Si può dire che costi-tuisca il fondo stesso di tutta l’architettura barocca, sta-bilita in certo modo su di un ritmo a tempi multipli.

Qual è la sua origine nell’architettura gotica in Fran-cia? Procede, per sviluppo naturale, dal tracciato del-l’arco spezzato? È il risultato di un’importazione?Anthyme-Saint-Paul6 ha creduto di scoprirne esempiantichi nelle chiese francesi del secolo xiii, ma codestiesempi sono discussi. Enlart aveva fatto valere la pre-cocità della controcurva nello stile curvilinear inglese7 eaveva concluso con l’ipotesi di una importazione, favo-

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rita dalla guerra dei Cent’anni. Si obietta che è pocoverosimile che elementi dello stile curvilinear si sianoimposti sul continente in un’epoca in cui erano passatidi moda in Inghilterra, obiezione a dire il vero poco fon-data, in quanto l’esportazione non si verifica sempre esoltanto per l’ultima novità. In realtà la controcurva èimplicita nella combinazione delle curve semplici. In unrosone di cattedrale, per esempio, il contatto tra la cor-nice esterna a semicerchi accostati e gli archi spezzatisimili ai petali di un immenso fiore che si inseriscono traquei lobi, dà il tracciato di una controcurva a chi ne sap-pia seguire il percorso (Parigi); non altrimenti il contat-to degli archi spezzati di una galleria a finestre o delleaperture che illuminano dall’esterno un triforio con illobo inferiore del quadrifoglio che conclude il sistema(Evreux). Che esempi inglesi abbiano aiutato tale figu-ra a saldare i propri elementi e a derivarne le possibilitàdi composizione è possibile, e che d’altronde si sia vistonella terminazione a punta dei soufflets e delle mouchet-tes una garanzia per un efficace deflusso delle acque, checostituivano un pericolo fermandosi al fondo dei lobi cir-colari, è probabile in un’architettura in cui tutto fu alungo calcolato, in cui gli archi sono rinforzi, in cui iredents consolidano i punti deboli rendendo piú spessele nervature. Ma è certo che la proliferazione delle con-trocurve è un fenomeno d’ordine piú generale e che,nello stile fiammeggiante come negli altri momenti dellavita degli stili, importa studiare il carattere, il movi-mento, il colore dell’ornamentazione, senza isolarla dal-l’architettura propriamente detta. Se si moltiplica a que-sto punto, se tende a separarsi, a fare predominare ilgioco degli effetti sull’ordine delle masse e sulle regoledelle strutture, è perché quest’ultime ne sono toccateanch’esse, o, se si vuole, subiscono un trattamento par-ticolare.

In un edificio del secolo xiii tutto è logico. Che vuol

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dire? Non che la chiesa sia un puro teorema, ma chetutte le parti si accordano fra loro. La crociera costolo-nata comporta ed esige tutte le sue conseguenze, lasezione di un pilastro implica la sua struttura e, in unostile in cui l’inerzia è abolita, tutto è funzionale, essen-do ciascuna funzione specializzata, come negli animalisuperiori. L’evoluzione di tale arte nella seconda metàdel secolo xiii e nel corso del xiv è, come si è visto, deltutto naturale e non tradisce il suo punto di partenza.L’architettura del secolo xv, al contrario, testimonia diuna grande confusione. Nelle volte anzitutto, che siriempiono di membri secondari, di costoloni supple-mentari, di legamenti e raccordi8, di tutti gli elementidelle combinazioni stellate, che raggiungono, nel Norddella Francia e in Germania, effetti di una estrema com-plessità9, mentre la volta stessa, appiattendosi, finisceper assumere l’aspetto di un soffitto a cassettoni10. Lastruttura perde il suo significato e assume un valorepuramente ornamentale. La medesima alterazione siverifica per i pilastri, o piuttosto per le parti che li com-pongono e di cui ciascuna, nell’epoca classica, palesa odefinisce la propria funzione: nel secolo xv, le colon-nette appoggiate sono semplicemente modanature,hanno lo stesso profilo delle modanature che decoranogli archi delle volte, anzi non ne sono che la continua-zione: cosí i capitelli, che fin dal secolo xiv si presenta-vano spesso come semplici anelli ornamentali, diventa-ti ormai inutili, scompaiono, in quanto non hanno nullada sostenere. Ma capita anche che i costoloni modana-ti, invece di allungarsi senza interruzione lungo il corpodel pilastro, vi penetrino lentamente fino a scomparirenel blocco centrale all’altezza dell’imposta. Nell’uno enell’altro caso, si tratti di nervature che si prolunganoin modanature fino al suolo o che scompaiono per pene-trazione, non è piú identificabile la ricaduta vera e pro-pria, e si verifica in ambedue i casi l’obliterazione della

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specificità delle funzioni. Pilastro e arco fanno blocco11.Un fenomeno dello stesso ordine colpisce profonda-mente la costruzione gotica, nella concezione dell’arcorampante. L’abbiamo visto conservare a lungo il propriocarattere, che è quello di essere un vero arco e di oppor-re a una forza attiva un’altra forza attiva (sia o non siadecorato da colonnette, come a Chartres, svuotato nellasua massa inerte, fra l’estradosso e l’intradosso, come aSaint-Urbain di Troyes). A Semur, abbiamo già notatol’acutezza dell’angolo formato con il muro dell’abside ela esilità della sua sezione. Al tramonto dell’architettu-ra gotica, alla fine dell’arte fiammeggiante, esso si pre-senta sotto due aspetti assai diversi, che palesano tutta-via la stessa angustia, ora irrigidito in puntello, ora pie-gato in controcurva12.

È evidente ormai che la controcurva è un episodioveramente essenziale, significativo, di un processo chesi svolge nelle profondità del sistema. Anche se ci si limi-ta all’ordine degli effetti, non è il solo sintomo della ten-denza a un’architettura di movimento. I casi in cui gliarchitetti si sforzano di opporsi, con contrasti di lineeoblique o diversamente, allo slancio delle verticali sonoinnumerevoli: per esempio nei pilastri decorati da lun-ghe nervature avvolgenti, come a Saint-Séverin di Pari-gi (fenomeno di cui il barocco romano ci si presentasotto forme piú accentuate nelle sue colonne a spirale),o sfaccettate a losanghe oblique, come a Gisors (secoloxvi). A Saint-Marc-la-Lande, nel Poitou, i pilastri chefiancheggiano le alte finestre della facciata, simili a vec-chie torrette romaniche, sono suddivisi in zone scana-late in senso opposto. Ma succede che le stesse basi, peruna specie di falsa logica, obbediscano a questo movi-mento singolare e che i loro elementi, invece di appog-giarsi a perpendicolo sul suolo, seguano la direzionedelle nervature a spirale che essi hanno il compito di rac-cogliere, cosí che il fusto verticale del pilastro è compo-

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sto di piccole barrette oblique. Si ha qui, nel significa-to vero del termine, una strana deviazione del sensodelle funzioni per un bisogno prepotente dell’effetto.Codesto istinto, che corrode i principi fondamentalidella struttura, come si è visto, si oppone all’esterno allapotenza e alla stabilità delle masse. Queste scompaionosotto una rete di balaustrate, di gallerie e di guglie, dovesi inseguono e si fondono curve e controcurve sotto unafiligrana di pietra, dove i vuoti divorano i pieni, inca-vati e scontornati con una stupefacente virtuosità dicesello. Lo spazio è ovunque frammentato da aggetti,perforato da ornamenti aerei, cifrato da arabeschi. Sottogli archi e le volte degli atrî, come sotto le volte dellecampate interne, al centro di una rete di costoloni verie falsi, enormi chiavi di volta, spesso lavorate a formadi gabbie e di figure, pendono come le stalattiti dell’ar-te araba. Mai, per altri versi ancora, l’architettura d’Oc-cidente è stata piú vicina al lusso ornamentale dell’O-riente, alla sua profusione fantastica, apparentementesenza scopo, in ogni caso senza rapporto con la costru-zione. Codesto gioco sminuzzato di luci e di ombre,codesto andamento ondulato delle forme, codeste fiam-me di pietra, sono i tratti principali, le cangianti evi-denze di un illusionismo ottico, che simula ai nostriocchi le masse annullate. Arte teatrale per la proiezionedi certi elementi fuor d’opera, come gli atrii, concepiticome quinte scenografiche – ma soprattutto grande artepittoresca, o piuttosto pittorica che procede per tocchie fa vibrare gli effetti – essa ci avverte che l’architettu-ra gotica, nel suo stadio barocco, non impone ormai piúle sue regole alle altre arti e che il «primato» tecnico èsul punto di sfuggirle.

Non si erano forse verificati fatti analoghi, in certamisura, quando l’arte romanica era giunta al periodobarocco, e abbondava di effetti pittoreschi, di rivesti-menti, di colonnette incurvate? E non deve forse spie-

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garsi con un gioco di disorganizzazione interna il risve-glio delle forme tradizionali del secolo xii nella orna-mentazione fiammeggiante? Non dimentichiamo che itemi e i procedimenti della scultura romanica s’eranoconservati fino a molto tardi in alcune botteghe e che,anche negli ambienti propriamente gotici, non eranodel tutto scomparsi. I doccioni, per esempio, avevanomantenuto in vita tutta una zoologia di draghi, di chi-mere e di salamandre, irrigidite sui piani alti degli edi-fici in atto di vomitare l’acqua piovana. Certe pieghedell’architettura ospitavano senza dubbio altri mostri.La fine del Medioevo vede ricomparire in piena luce,uniti a una flora flessuosa e fantastica, gli esseri nati dal-l’accoppiamento e dalla contorsione delle figure in unmodulo decorativo. Formicolano sui capitelli anulari,sui triangoli dei timpani, sulle mensole e nelle chiavi.Inoltre, i procedimenti di una composizione tipicamen-te romanica si ritrovano in alcune grandi decorazioniscultoree, per esempio il timpano della porta sinistranella facciata occidentale di Saint-Vulfran d’Abbeville.Ma il fenomeno raggiunge il massimo grado di intensitànel confuso rifluire della piccola scultura monumentale.Cosí l’irrealismo del gotico declinante e la rinascita delleforme fantastiche si accordano nell’ornamentazione del-l’architettura fiammeggiante13.

Forse a lungo ne abbiamo trascurato l’interesse. Ogniepoca cerca nel passato la corrispondenza che maggior-mente la commuova: i romantici hanno conosciuto ilMedioevo soprattutto attraverso l’arte fiammeggiante,come hanno soprattutto ritenuto e sentito, dell’età chechiamiamo classica, la forma tardiva e il gusto rococò.Forse noi stessi non siamo estranei alla tendenza, tipi-ca dei nostri anni (sebbene poco divulgata e ancor menomanifesta) di cercare nell’arte del secolo xiii la precisionee la grandezza di un «ordine» intellettuale... Ma unosguardo piú generale alla vita delle forme ci aiuta a com-

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prenderne gli stadi successivi e a cogliere in essi qualcosadi diverso dal rigore della loro coordinazione. L’archi-tettura alla fine del Medioevo ha il privilegio della qua-lità fiabesca, ed è inoltre, entro i limiti in cui miscono-sce l’antica misura dei rapporti, irrealista. Codesto tor-mento di uno stile, codesta sensibilità cosí viva, code-sto lusso, codesto disordine stesso sono in accordo conla vita morale del secolo e contribuiscono a delinearne ivalori essenziali. Quelle vaste scenografie, come in ognitempo, agiscono sugli attori. Malgrado le sfumature cheli distinguono, gli ambienti presentano in Francia unanotevole unità. Forse sono piú rigogliosi, e di una fiam-ma piú sottile, nelle regioni dell’Ovest e del Nord, inNormandia, a Rouen, a Caudebec, a Louviers; in Pic-cardia, a Saint-Vulfran d’Abbeville, alla cappella di Rue;in Bretagna, dove l’arte fiammeggiante modella secon-do i suoi profili ondulati la durezza del granito; – piúsobria, meglio contenuta nella regione parigina e sullaLoira14. Ma sia che lo si consideri nella Champagne, aNotre-Dame-de-l’Epine, in Lorena, a Saint-Nicolas-du-Port, o nel Sud della Francia, nel portico meridionale diSainte-Cécile d’Albi, dove la sua delicatezza raffinata dioggetto d’arte è in cosí strano contrasto con l’enormitànuda delle cortine di mattoni, il gotico fiammeggiante èovunque l’espressione di uno stesso genio. Ovunque lostesso contrasto tra la spoglia solitudine degli interni,che continuano, tranne nelle volte, il gotico rayonnant,e l’abbondanza esteriore degli effetti, il lusso degli acces-sori, il loro carattere accidentale e frazionato. L’archi-tettura europea presenta gli stessi fenomeni o fenome-ni dello stesso ordine, ma questa unità, fondata sul cedi-mento di un sistema, lascia forse maggior libertà alla vitaparticolare degli ambienti.

L’Inghilterra ha conosciuto la pienezza del suo stilefiammeggiante nei primi due trentenni del secolo xivcon il fiorire del gotico curvilinear. Lo stile perpendicu-

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lar, che succede a quest’ultimo15, può essere considera-to come una reazione. Il suo nome ne definisce conesattezza il carattere essenziale, l’impiego delle vertica-li, che frammentano perpendicolarmente le superfici eche, con nervature orizzontali secondarie, realizzano unsistema di riquadri in debole aggetto, applicati conuniformità sulle pareti murali. È la rivincita della linearetta che si sostituisce, nella sua rigidità e purezza, allecapricciose flessioni della curva e della controcurva. Mail modo di trattare le parti della costruzione subiscealterazioni notevoli, analoghe a quelle di cui abbiamospiegato il significato esaminando gli edifici in stile fiam-meggiante ed ancora piú paradossali. Le ricadute a conorovesciato, che prolungano il reticolato complesso dellevolte in enormi blocchi di muratura appoggiati con lapunta su fragili colonnette, conoscono uno svilupponotevole. Ma ancor piú curioso è il gusto per lo svuota-mento delle volte, come nelle navate laterali del coro diGloucester, dove gli archi trasversali, completamentestaccati dalla copertura, accolgono sull’estradosso unmembro rigido al quale sono uniti da alcuni souffletstraforati e su cui viene ad appoggiarsi con la punta lachiave conica che riunisce i costoloni. Non dalla capria-ta nacque la volta gotica; essa vi giunse per deviazionealla fine della sua storia16. Nei Paesi Bassi, dove lo stilefiammeggiante si prolunga fino al secolo xvi con le bellechiese di Malines e di Liegi, si determina qualcosa disimile, ma senza la particolarità delle forme inglesi: aSan Bavone di Haarlem, la volta a costoloni è eseguitain legno come un soffitto, ed è in legno anche la coper-tura di San Giacomo all’Aja costituita da botti trasver-sali decorate di nervature. La Germania ha ricevutoindubbiamente dallo stile perpendicular inglese l’esempiodi uno stile secco e spoglio, e anche il modello delle volteche prendono origine da masse murarie disposte a ven-taglio, ma queste non sono in realtà che delle volte a

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botte appoggiate su piramidi capovolte e percorse danervature17. Qui, nella parte vitale, si può cogliere simul-taneamente, sotto forme diverse, il carattere essenzialedella struttura architettonica alla fine del Medioevo, ladegenerazione delle funzioni. In Germania, come inFrancia, l’ornamentazione fiammeggiante degli esterniproduce delicate strutture accessorie, quali il porticod’ingresso della cattedrale di Ratisbona e quello dellacattedrale d’Ulma, quest’ultimo aperto alla base di uncolossale campanile, di una potenza e di uno slancioveramente ammirevoli. Nell’immenso tetto della catte-drale di Vienna s’aprono mansarde a tre aperture, sor-montate da ghimberghe che si iscrivono a loro volta inuna piú ampia ghimberga decorata, alta come una casa.Il gusto del particolare complesso, un ardore confuso chenessuna regola contiene, moltiplicano i meandri dellapietra. È uno slancio di elementi episodici e accessori,l’espansione e il disagio di un disordine che cerca la pro-pria legge.

Compare qui indubbiamente l’espressione tardiva delgenio di una razza, nella tonalità generale di un’epoca edi uno stile. Il lungo errore sull’interpretazione del goti-co come concezione originalmente ed essenzialmentegermanica ha certo tratto la sua origine dallo studio deimonumenti del secolo xv, in un’epoca in cui si vedevain essi tutto il Medioevo. Ma la bell’arte fiammeggian-te di Germania non è che un aspetto nazionale di unosviluppo stilistico che si rivela attraverso principi piúgenerali di quelli della vita degli ambienti regionali.Riconosciamo d’altra parte che i maestri della spondatedesca del Reno hanno lavorato lontano, come i mae-stri francesi dello stesso secolo, che si possono trovarein Spagna, dove Hans von Köln costruí le guglie dellacattedrale di Burgos, in Italia, dove si succedettero suicantieri della cattedrale di Milano. Quest’ultima è ilcapolavoro degli pseudo-capolavori. La storia della sua

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costruzione18 rivela l’urto di due concezioni: l’una cherimane fedele ai grandi principi dell’edilizia, l’altra checonsidera l’architettura esclusivamente come lo schele-tro di un’ornamentazione. Il maestro francese Mignot,chiamato per salvare un’impresa in pericolo, dichiaracon energia che non esiste arte senza scienza. Per uneffetto illusorio la cattedrale di Milano produce unasensazione di grandezza e di ricchezza, ma la profusio-ne di guglie e di pinnacoli, di decorazioni floreali, dibalaustre e di statue e statuette non potrebbe nascon-dere a un occhio esercitato la povertà dell’architetturae la estrema mediocrità dei procedimenti. Non è qui cheoccorre cercare la bella qualità dell’Italia gotica alla finedel Medioevo, e nemmeno nel Sud della penisola, dovel’influenza aragonese si giustappone all’influenza persi-stente dell’arte francese del secolo xiv, bensí a Venezia;essa vi crea nell’architettura civile capolavori di un gustoprezioso e affascinante come la Ca’ d’Oro, il palazzoContarini, il Palazzo Ducale infine, dove la porta dettadella Carta segna con il sigillo dell’arte fiammeggiantela meraviglia di un palazzo ad un tempo romanico, orien-tale e gotico. I difficili problemi costruttivi di una gran-de navata qui non si presentano; sulle facciate che hannoper sagrato l’acqua della laguna la misura di una regolasquisita s’impone alla profusione delle aperture dei bal-coni ornati di rosoni traforati; nel cangiare dei colori lavecchia città bizantina conserva un riflesso degli splen-dori del Levante.

Soprattutto in terra di Spagna lo sviluppo dell’artemudejar e gli inizi dell’arte manuelina colorano la finedel Medioevo con la nota piú viva e piú personale. Laprima continua quella fusione originale delle due gran-di culture spagnole che si rifà a un’epoca piú antica; l’al-tra commemora la scoperta del nuovo mondo a opera deinavigatori. Indubbiamente l’accordo con l’Occidenteresta vigoroso nella Spagna e nel Portogallo: Pamplona

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conserva la copertura a volta continua dell’ambulacro edelle cappelle, alla maniera di Soissons e di Bayonne;l’influenza delle larghe navate della Linguadoca si ritro-va non soltanto in Catalogna, ma a Siviglia, la cui cat-tedrale presenta uno di quei bei profili massicci checaratterizzano il gotico meridionale, con i suoi tetti piat-ti e i suoi archi rampanti di larga apertura; le aggiuntedi Burgos e di Toledo appartengono direttamente allastoria dello stile fiammeggiante; infine la facciata diSanta Maria di Batalha, uno dei migliori e piú originaliedifici dello stile rayonnant, rivela una certa influenzadell’arte perpendicular inglese, confermata da rapportistorici. A Toledo, San Juan de los Reyes, costruita nel-l’ultimo trentennio del secolo xv, rivela (particolarmentecon l’abbondanza e il colore dell’ornamentazione alleestremità del transetto) l’originalità della Spagna nellaparte che essa prende alla vita di uno stile. Nel momen-to stesso in cui la Francia modera per mezzo di zone piúserene il cangiare degli effetti e cerca un piú esatto rap-porto fra il nudo e l’ornato, cioè alla fine del secolo xv,i maestri spagnoli, nelle composizioni di facciate comequella di San Pablo di Valladolid (1448-61) e SantaMaria ad Aranda de Duero, posteriore di trenta o qua-rant’anni, gettano con pittoresca profusione rilieviabbondanti, posti in riquadri arcuati o a carena, oppu-re sospesi ai muri come trofei, nel reticolo delle nerva-ture. Nella cappella del Conestabile a Burgos, come neltransetto di San Juan de los Reyes, enormi scudi blaso-nati, contornati di volute e viticci, richiamano l’araldi-ca germanica, inesauribilmente ricca in fatto di scudi,cimieri, bandiere e mostri emblematici da mondo caval-leresco.

Ma, piú che l’accordo della Spagna e dell’Occidente,nei giorni in cui la vita delle forme, a lungo prigionieradella pietra e sottomessa alle sue leggi, se ne libera perraggiungere una virulenza sconosciuta, è ciò che la uni-

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sce all’arte orientale a commuoverci come l’immaginedel suo duplice genio. L’arte mussulmana di quest’epo-ca, e indubbiamente già da alcuni anni, attraversa ilmedesimo periodo critico della storia degli stili: la ric-chezza profusa e l’estrema complessità di combinazionicaratterizzano sia l’arte in Egitto sotto i sultani mam-malucchi che l’arte della Spagna meridionale sotto gliultimi emiri. Nelle chiese e nei palazzi, lo stile mudejarne reca l’impronta, non soltanto nella cappella di Villa-viciosa a Cordova e nelle cupole a nervature, ma sullafacciata di numerosi palazzi, nei rivestimenti di maioli-ca, nei pannelli di stucco a figure. Talvolta resti piú rozzidell’arte moresca, per esempio le chiavi enormi di alcu-ni archi d’ingresso a sesto acuto, si uniscono alle curvee alle controcurve dell’arte fiammeggiante; queste ulti-me, accentuando la loro concavità, finiscono per pre-sentarsi attorno alle finestre come una serie di piccoliarchi e di polilobi rovesciati. Questa arte in cui sem-brano fondersi e prestarsi le loro mutue risorse duemagnifici tramonti, forse piú seducenti per la nostrafantasia di quel che non sia il rigoroso sviluppo delleforme pure, ha lasciato testimonianze piene di interes-se nel Portogallo come nella Spagna. Ma nei luoghi doveè sbarcato Vasco de Gama, al convento dei Geronimi-ti, l’arte manuelina esprime la riconoscenza di una patriaper i navigatori che le hanno dato un mondo. Quest’ar-te è nuova, per la novità stessa degli elementi che inca-stona nella pietra e di cui compone la sua ornamenta-zione, gli animali marini, gli strumenti della navigazio-ne. Sui portali di alcune chiese bretoni compaiono scol-piti nel granito conchiglie, pesci, battelli, ma la profu-sione, il colore e il verismo risentito dei trofei manueli-ni li distinguono radicalmente nell’iconografia. Si trat-ta di un «repertorio» inedito. Quanto ai movimentidello stile, quanto al suo spirito, codesti trofei si rial-lacciano alla fine del Medioevo attraverso l’eccessiva

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vitalità, il tumulto pletorico, e la poesia del chiaroscu-ro, come nella Spagna lo stile e i movimenti dell’artedegli argentieri nel xvi secolo. Piú che mai, in questepietre dove formicolano i crostacei, le sfere armillari, icordami e i simboli della civiltà d’oltre mare, domina ilsentimento magico e fantastico della vita.

III.

Si è visto coll’esempio di Venezia che l’architetturareligiosa non rende conto da sola di codesti vasti muta-menti delle forme. L’architettura civile le fu semprestrettamente unita, malgrado le differenze di qualità edi programmi. La casa di pietra dal secolo xi al xii, siaessa il municipio di Saint-Antonin o la Manécanterie diLione, ci permette di cogliere, nel disegno delle finestre,nella ornamentazione degli archivolti o dei capitelli, glistessi principi dell’arte delle chiese, confermando cosí lanotevole unità della concezione di un’epoca nello svi-luppo di uno stile. Un’altra prova ci è data da un tipod’abitazione rigorosamente condizionata dalla geografiaumana, dalle precipitazioni, dal clima, dalle risorse delsuolo, dalla popolazione, dalla vita economica: la casa apannelli di legno. Essa è costituita di elementi lignei benconnessi, sostenuti da travi maestre, pali angolari e pun-toni di sostegno, i suoi piani si sovrappongono in agget-to e sono puntellati da sbarre diagonali e da croci disant’Andrea. Negli interstizi dei pannelli, compare untessuto connettivo di terra battuta, di materiali leggerio di mattoni (nel Mezzogiorno della Francia). Ecco iltipo piú resistente e piú comune della casa occidentale,la cui durata supera di molto il Medioevo. Ergendo lasua facciata a ripidi spioventi verso la strada, e sten-dendosi sul vuoto con lo sporgere progressivo dei pianiper compensare la misura avara del terreno nelle comu-

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nità sovrapopolate, essa definisce il profilo delle nostrecittà in Inghilterra, in Francia, in Germania, a Chester,a Rouen, a Bourges, a Digione, e quelle facciate aguzzeraggiungono a volte misure inverosimili, sotto gli spio-venti del tetto aperti da file successive di mansarde.Codesto modello di abitazione si evolve come le chieseverso il progressivo svuotamento, tanto che la facciata,verso la fine del Medioevo, è occupata quasi intera-mente da finestre. Contemporaneamente le parti rive-stite in legno sono abbondantemente ornate, come pan-nelli di un mobile, e in nessun luogo l’iconografia fune-raria si è sviluppata con altrettanta ricchezza e varietàquanto nell’Aitre Saint-Maclou, a Rouen, antico ossariosu una pianta analoga a quella di un chiostro e costrui-to in pannelli di legno.

Variazioni piú decise accompagnano la storia deipalazzi signorili. È determinata, essa pure, dalle con-dizioni generali dell’ambiente storico, dal «momento»della vita sociale, dal grado di evoluzione dei costumi,dalla ricchezza relativa delle classi. Nella stessa epoca,nel medesimo paese, nella stessa classe sociale – l’ari-stocrazia mercantile –, il palazzo veneziano accessibileagevolmente come un’agenzia commerciale e diretta-mente a contatto con il mare per mezzo di una piccolabanchina o di una galleria su colonnato, non è il palaz-zo fiorentino, ancora massiccio e chiuso come una for-tezza. L’evoluzione dell’arte militare spiega le diffe-renze che esistono fra Coucy, Château-Gaillard, LaFerté-Milon e Pierrefonds, per esempio, e cosí pure ilsignificato dei diversi rifacimenti che, da un vecchioforte visigoto, hanno fatto della rocca di Carcassonnela temibile piazza d’armi di san Luigi ai confini dellaFrancia meridionale, la fortezza che domina e proteg-ge la scacchiera della città nuova sorta ai piedi dei suoibastioni. Nelle città, il palazzo comunale conserva alungo una struttura militare. Dal momento in cui inter-

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viene, per il miglioramento delle condizioni economichee per un maggior grado di sicurezza, l’arte agisce comeuna forza nuova che collabora alla vita storica, creaambienti nuovi per la vita umana. Il fattore di muta-mento piú considerevole alla fine del Medioevo, sia perciò che riguarda la struttura dell’edificio e i modi stes-si di vita, è stato indubbiamente la scala a chiocciola,che serve dall’esterno ogni piano ed il cui esempio piúfamoso, oggi perduto, è la scala che costruí Raymonddu. Temple per il Louvre di Carlo V. La si ritrova innumerosi edifici posteriori: il palazzo di Jacques Cœura Bourges, il palazzo degli abati di Cluny a Parigi. ABourges, si alza contro il corpo principale del palazzo,al fondo di un cortile circondato, da una parte e dal-l’altra del portale principale, da gallerie aperte sopraarchi a sesto ribassato. Ciascun lato della sua elegantemassa poligonale è segnato da alcune sbarrette in pie-tra di una nervosa fermezza, di carattere assolutamen-te lineare. È un’arte senza eccessi e di una piacevolemisura. Questa, che è l’epoca dei bei campanili, è anchequella delle belle torri scalari: la scala a vite di Saint-Gilles, che si alza avvolgendosi su se stessa, gira attor-no a una colonna centrale, a tratti decorata da nerva-ture a spirale come i pilastri di Saint-Séverin, o comequelli della Lonja di Valencia, e fiorisce alla sommità inun palmizio di costoloni. Il palazzo di Jacques Cœur, ilpalazzo degli abati di Cluny ci aiutano a ricostruire l’e-sistenza di un gran signore della borghesia e quello diun prelato alla fine del Medioevo, il carattere della loropiccola corte domestica, ciò che di feudale e di milita-re ancora rimane in una ricca dimora di quel tempo.Visto dalla Place Berry, dal lato degli antichi bastioni,con le sue torri massicce e le sue spesse mura, il palaz-zo di Bourges è ancora una fortezza. L’interno nonrivela il fasto ducale del palazzo di Poitiers, il suo cami-no monumentale, gli arabeschi delicatamente fiam-

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meggianti della finestra che lo sormonta, ma il gusto diun raffinato parvenu, sostegno della monarchia e delpaese, uno di quei borghesi del re che formano una spe-cie di dinastia morale nella Francia capetingia. Questotipo di vecchie dimore signorili, su pianta irregolare,che non nascondono i rimaneggiamenti, è assai diver-so, non solo dal palazzo veneziano e fiorentino, maanche del palazzo spagnolo, esteso attorno al cortile ret-tangolare del patio, su cui il suo corpo s’apre con duepiani di portici. È il partito della casa romana e araba.Il muro esterno ha poche aperture ma può essere deco-rato, talvolta singolarmente, come la casa di Salaman-ca che prende nome dalle conchiglie scolpite nelle bugnedi cui sono regolarmente rivestite le pareti. All’internocorre attorno alle sale un alto zoccolo di legno, sopra alquale il muro è ora bianco di calce ora rivestito di maio-liche dipinte o di cuoio di Cordova.

Se la finalità particolare degli edifici civili imponeloro ovunque certe forme che apparivano raramente nel-l’architettura religiosa (la divisione in piani, per esem-pio, che implica il ribassamento degli archi nei vani e lasostituzione dei soffitti alle volte), tuttavia la vita del-l’ornato e lo spirito dello stile sono identici a quanto cimostrano le chiese. L’arte fiammeggiante offre pochiesempi piú caratteristici delle mansarde del Palais deJustice a Rouen. Non sono semplici aperture legate altetto da un raccordo a doppio spiovente, ma edificicomplessi, di considerevole sviluppo. La loro massa spez-zata, irta di motivi floreali e di pinnacoli, sostenuta daarchi rampanti come le lanterne dei campanili, percor-sa di fregi sinuosi, traforata da ogni parte, termina conuna ghimberga traforata, dall’affilato profilo in contro-curva. Ciascuna di esse è unita alle mansarde vicine dauna balaustra sormontata da un sistema di arcate dop-pie sotto un arco a chiglia terminato da un cespo foglia-to. Queste arcate singolari non hanno alcuna funzione,

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sono come un paravento traforato eretto contro lo spio-vente del tetto. È la pietra lavorata come un ferro bat-tuto, l’ultima parola di un’architettura pittoresca, checerca anzitutto l’effetto, il movimento, il colore, l’illu-sione. I motivi vegetali di cui si orna sono quelli chemeglio rispondono a queste necessità. Negli edifici civi-li come nelle chiese domina la foglia di cavolo, larga,grassa, enfiata, frastagliata e slabbrata sui margini. Il vir-tuosismo del decoratore va di pari passo con quello del-l’architetto. Se ne trovano tracce ineguali nella bellaserie di palazzi municipali sormontati da un beffroi ches’alzano in quegli anni nelle città del Nord della Fran-cia e nei Paesi Bassi, come segno della prosperità comu-nale: arte piú sobria e piú ferma a Saint-Quentin, peresempio, piú prolissa a Audenarde. Ma, in tutto l’Oc-cidente, il profilo che la città del Quattrocento tracciasull’orizzonte della storia, con i suoi tetti aguzzi, leguglie delle chiese, le torri, le facciate a sporto delle casein legno, le sue loggette d’angolo, i suoi alti camini dipietra, le sue torri di vedetta appuntite, crea una regio-ne particolare per la fantasia umana. Essa supera il pro-prio tempo, e nel Nord accoglie il pensiero del Rinasci-mento, a Praga, città di cabalisti, come a Bourges, capi-tale della monarchia francese minacciata, ad Anversa, adAugusta, a Digione. La ritroviamo nelle rozze xilogra-fie della Cronaca di Norimberga, ed è ancora una similecittà che si delinea misteriosamente, vicina e lontana aun tempo, sulla roccia ai piedi della quale medita il SanGerolamo di Dürer.

1 [Recentemente m. meiss, Painting in Florence and Siena after theBlack Death, Princeton 1951, ha analizzato gli inizi di questo orienta-mento di sensibilità; cfr. anche i due articoli di e. c. williams, TheDance of Death in Painting and Sculpture in the Middle Ages, in «Jour-nal of the British Archaeological Association», 1937, pp. 229 sgg. e

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Mural Paintings of the Three Living and the Three Dead in England, in«Journal of the British Archaeological Association», 1942, pp. 31 sgg.;cfr. inoltre w. stammler, Der Totentanz, Entstehung und Deutung,München 1948; l. guerry, Le thème du Triomphe de la mort dans lapeinture italienne, Paris 1950].

2 [Per quanto riguarda l’astrologia cfr. la fondamentale opera di f.saxl e h. meier, Catalogue of Astrological and Mythological Manuscriptsof the Latin Middle Ages, III: Manuscripts in English Libraries, a cura diH. Bober, London 1953. I volumi I e II furono pubblicati dalla Heil-delberger Akademie der Wissenschaften nel 1915 e nel 1927].

3 La sala in cui ebbe luogo «le vœu du Faisan» (1454) era decora-ta da un arazzo che rappresentava le dodici fatiche di Ercole, miticoavo dei duchi di Borgogna. Conserviamo tuttora alcune grandi serie ditappezzerie di soggetto romanzesco, il Roman de Troie, disperso tra lacattedrale di Zamora, il Metropolitan Museurn di New York e il Bar-gello; il Roman de Thèbes, della cattedrale di Zamora; il Chevalier auCygne (Santa Caterina di Cracovia, Kunstgewerbemuseum di Vienna);il Roman d’Arthur (New York), ecc. [Per i temi arturiani cfr. r. s. loo-mis, Arthurian-Legends in Mediaeval Art, London e New York 1938. Unarazzo del tardo xiv secolo con i Nove Prodi è stato studiato da j. j.rorimer e m. b. freeman, in The Nine Heroes Tapestries at the Cloi-sters, in «The Metropolitan Museum of Art Bulletin», 1948-49, pp.243-60].

4 [Questo importante aspetto dell’arte del tardo Medioevo è statorivelato da un libro di j. baltrusaitis, Le Moyen-âge fantastique, Paris1955].

5 [I termini soufflet, mouchette e, piú avanti, redent indicano parti-colari forme del disegno fiammeggiante riconoscibili nel fastigio dellegrandi finestre a elementi multipli. Il soufflet, disposto verticalmentee simmetricamente rispetto all’asse della finestra, ricorda vagamente laforma di un cuore e deriva dalla trasformazione dell’oculo. La mou-chette, disposta diagonalmente rispetto all’asse della finestra, è piutto-sto fusiforme e, a sua volta, deriva da un certo tipo di arco particolar-mente acuto creato per assortirsi al disegno degli oculi. Il redent è unasorta di ispessimento cuspidato che viene a rinforzare le traverse cur-vilinee del fastigio delle finestre nei punti di maggiore sforzo].

6 a. saint-paul, L’architecture française et la guerre de Cent Ans, in«Bulletin monumental», 1908 e 1909. Le arcatelle degli archi rampantiche circondano il coro di Amiens presentano caratteri di gotico fiori-to; per lungo tempo si credette che fossero datate del 1269, perché taledata compare sopra una delle finestre alte; ma queste arcatelle non sonoanteriori al secolo xv. Le finestre delle cappelle del coro, nella catte-drale di Narbona, sono state rimaneggiate, nella medesima epoca, e cosípure nella cattedrale di Tolosa. Per l’esempio fornito da Saint-Bertrand-

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de-Comminges cfr. la discussione di r. de lasteyrie, L’architecture reli-gieuse en France à l’époque gothique cit., II, pp. 41-44. [La questionenon ha progredito molto dalla pubblicazione del manuale di R. deLasteyrie in poi. m. m. tamir, The English Origin of the FlamboyantStyle, in «Gazette des Beaux-Arts», 1946, I, pp. 257-268, si limita asottolineare con maggior vigore le differenze tra le tradizioni architet-toniche inglesi e quelle francesi nel xiv e nel xv secolo. Il recente volu-me di j. baltrusaitis, Le Moyen-âge fantastique cit., contiene un capi-tolo importante sull’origine della controcurva e sulle sue diverse inter-pretazioni in Inghilterra ed in Francia].

7 Recinto del coro nella cattedrale di Canterbury (1304), nicchie frale finestre della torre centrale di Ely (1322-35), stalli del coro di Bri-stol (1330), tomba di William de la Marcia (m. nel 1302) a Wells, diAymer de Valence (m. nel 1323) a Westminster, del vescovo Gower(m. nel 1328) a St David, di Eleanor Percy alla collegiata di Beverley(1336-40), ecc. f. bond, Gothic Architecture in England, London 1905,cap. XXXIII, cita un gran numero di finestre del medesimo stile ante-riori al 1350.

8 Le nervature supplementari (rese necessarie dalla disposizionedell’apparato murario) compaiono in Inghilterra nelle gallerie orienta-li di Selby (1234-52), nel coro di Lincoln (1235-80), a Lichfield (secon-da metà del secolo xiii). Il primo esempio francese è quello della cro-ciera del transetto di Amiens (1260). Il procedimento riappare un seco-lo piú tardi nella medesima cattedrale, nella cappella di san GiovanniBattista (verso il 1375) e si generalizzava all’inizio del secolo xv. Acca-de a volte che le nervature supplementari eliminino i costoloni (Ambier-le, cattedrale di Tours).

9 Fra i numerosi esempi del Nord e dell’Est della Francia, quellidella cappella dello Spirito Santo a Rue e di Saint-Nicolas-du-Portsono i piú notevoli.

10 Nella cappella della Vergine a La Ferté-Bernard le nervaturedella volta non portano piú vele in muratura, bensí lastre.

11 [Questo fenomeno si manifestò presto in Inghilterra, per esem-pio nelle costruzioni monastiche di Fountains o nel vestibolo del-l’aula capitolare della cattedrale di Chester (ambedue le costruzionirisalgono alla prima metà del secolo xiii). Questa soluzione venneadottata anche in Normandia assai precocemente, verso la metà delxiii secolo la si trova nel lato meridionale della navata di Saint-Pier-re a Jumièges: cfr. g. lanfry, L’église carolingienne Saint-Pierre del’abbaye de Jumièges (Seine-Maritime), in «Bulletin monumental»,1939, pp. 47-66].

12 Cfr. la bella analisi dell’arco rampante teso e traforato fornita dae. viollet-le-duc, Dictionnaire raisonné de l’architecture ecc. cit., I,voce Arc-boutant, p. 76. Egli indica l’eccesso senza condannare il prin-

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cipio. A p. 79 il Viollet-le-Duc studia gli archi rampanti a curve com-poste della fine del Medioevo e del Rinascimento, soprattutto a Saint-Vulfran di Abbeville (inizio del secolo xvi). In seguito a fenomeni diassestamento nei pilastri di sostegno s’è verificata una rottura al puntod’attacco, avendo la tecnica usata impedito lo sdrucciolamento chepoteva prodursi senza gravi danni.

13 Cfr. il nostro studio, Quelques survivances de la sculpture romanedans l’art français, in Mediaeval Studies in Memory of A. K. Porter, Kam-bridge (Mass.) 1939 [ristampato in h. focillon, Moyen-âge. Survivan-ces et réveils, Montreal 1945].

14 [I legami tra l’architettura francese e quella dei Paesi Bassi nelxv secolo sono stati sottolineati da p. heliot, La façade et la tour desabbatiales de Saint-Bertin et de Saint-Riquier, in «Revue belge d’ar-chéologie et d’histoire de l’art», 1949, pp. 12-26 e id., Les églises dumoyen-âge dans le Pas-de-Calais, in Mémoires de la Commission dépar-tementale des Monuments Historiques du Pas-de-Calais, VII, Arras1951-53].

15 Si manifesta per la prima volta nella cattedrale di Gloucester(1340). È di regola a partire dal 1360 circa. [Si sono riconosciute leprime manifestazioni dello stile perpendicular nelle opere di due mae-stri di Londra: l’architetto William Ramsey, costruttore dell’edificiocapitolare e dei chiostri della cattedrale di St Paul nel 1332 ed il mae-stro carpentiere William Hurley che assunse la direzione dei lavori del-l’ottagono della cattedrale di Ely tra il 1326 ed il 1334. Cfr. j. h. har-vey, Saint-Stephen’s Chapel and the Origin of the Perpendicular Style, in«The Burlington Magazine», lxxxviii, 1946; j. m. hastings, Saint-Stephen’s Chapel and its Place in the Development of Perpendicular Archi-tecture in England, Cambridge 1955, nel risalire alle origini del nuovostile giunge fino all’ultimo decennio del secolo xiii].

16 [Non è senza importanza il fatto che uno dei creatori dello stileperpendicular sia stato il maestro carpentiere William Hurley. Glouce-ster è un esempio stupefacente di carpenteria in pietra].

17 [Questo tipo di volta, caratterizzato da un fitto intreccio di ner-vature e dalla misura ridotta delle penetrazioni, ebbe le sue origini nel-l’Anjou all’inizio del xiii secolo; subí quindi una complessa evoluzionenella quale l’Inghilterra sostenne un ruolo importante. Bisogna distin-guerne tre varianti principali: a) volte a padiglione su pianta quadrata,con modeste penetrazioni ortogonali. Queste volte sono Frequenti nel-l’Anjou a partire dal 1210 circa, per esempio a Saint-Florent presso Sau-mur, a La Toussaint e a Saint-Serge di Angers, ecc. Volte simili, macon una curvatura meno accentuata si trovano nella torre-lanternadella Liebfrauenkirche a Treviri, del 1253, e, poco prima, nella cap-pella sud-ovest (la Concistory Court) della cattedrale di Lincoln. Forsefu questo in origine il tipo di volta usato nella torre-lanterna di Lin-

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coln; comunque anche la volta attuale, costruita nel 1360-80 circa, siconforma a questo tipo e fu copiata, poco dopo, nelle cattedrali di Yorke di Louth. La cappella della Vergine a Dol in Bretagna, del tardo xiiisecolo, e la parte centrale della cripta della cattedrale di Glasgow, sonoaltri esempi di una precoce propagazione di questo sistema di volta. b)Volte a padiglione su pianta poligonale, come la cappella della Vergi-ne a Wells, del 1315 circa, o il portico esagonale nord di St Mary Red-cliffe a Bristol, del 1325-30 circa; possono essere state influenzate daicimborios spagnoli: la Prior’s Kitchen a Durham, 1366-71, che mostrala stessa riduzione delle penetrazioni, può costituire una confermatarda di queste origini spagnole. c) L’ultimo tipo si basa sulla struttu-ra di una volta a botte. Appare, all’inizio del xiii secolo, a La Tous-saint di Angers, poi ad Airvault, Saint-Jouin-de-Marnes e Saint-Ger-main-sur-Vienne. Il Sud-ovest dell’Inghilterra adotta questo genere divolte nel 1320 circa: tra i vari esempi ricordiamo le navatelle del corodella cattedrale di Bristol (dove tali volte sono usate a guisa di volte abotte trasversali), coro di Wells, navata e coro di Ottery-Saint-Mary,navata di Tewkesbury, coro di Gloucester. I primi esempi tedeschi sitrovano nella regione del Baltico: ad esempio la cripta di Marienburg,del 1335 circa, dove compare il tipico reticolato di nervature come inInghilterra; tuttavia questo sistema di volta divenne popolare soltantocon Peter Parler, dopo il 1350, questa volta con nervature intrecciatea formare losanghe, probabilmente sull’esempio di Wells: cfr. k. h. cla-sen, Deutsche Gewölbe der Spätgotik, Berlin 1958].

18 Cfr. c. enlart, in Histoire de l’art cit., a cura di A. Michel, III,parte I, pp. 56-60. [Da allora due articoli hanno gettato una nuova lucesulla questione: p. frankl, The Secret of the Mediaeval Mason, in «ArtBulletin», 1945, pp. 46-64 e j. s. ackermann, Ars Sine Scientia NihilEst: Gothic Theory of Architecture at the Cathedral of Milan, in «Art Bul-letin», 1949, pp. 84-111].

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Capitolo secondo

Sluter e van Eyck

I.

Sullo sfondo di questo ricco repertorio ornamentalesi staglia un nuovo mondo di figure. Due grandi nomi,Sluter e van Eyck, l’uno e l’altro legati al Medioevo damotivi profondi, l’uno e l’altro profeti e propagatori diuna nuova concezione dell’uomo e della natura. Ambe-due sono animati da uno spirito occidentale e medieva-le, ma gli conferiscono una tale potenza e sono dotati ditali mezzi che esso sembra rivoltarsi contro se stesso edistruggere l’ordine antico. Sluter concepisce la scultu-ra come un grande pittore e come un poeta epico; sosti-tuisce alla regola monumentale, che pur avverte istinti-vamente, un’altra regola che trae il proprio vigore dal-l’opera stessa e dalla sua qualità espressiva: egli crea unostile. Van Eyck sfonda lo spazio dietro le immagini,trova una dimensione nuova, la trasparenza, e, in ununiverso illimitato, che gli occhi percorrono senza incon-trare ostacoli, la sua rigorosa analisi fissa la figura del-l’uomo e dell’oggetto; egli crea una verità piú convin-cente della vita stessa: cosa che il termine «realismo»non definisce che limitatamente.

Entrambi, l’uno a Digione e l’altro a Bruges, appar-tengono a quella grande Borgogna ducale estesa alleFiandre, che ha conosciuto, alla fine del secolo xiv enella prima metà del xv, la pienezza della sua vita sto-

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rica. Filippo l’Ardito e Filippo il Buono sono della stes-sa schiatta, hanno lo stesso istinto e il medesimo biso-gno di magnificenza di Jean de Berry, ma con orizzon-ti piú larghi e un’azione politica fondata sopra un piúpotente appannaggio1. Amano le cose belle, non comecollezionisti, ma come principi per i quali esse sono unnecessario complemento, e fanno parte dell’arte di vive-re, cosí come le feste chiassose e singolari, i lunghi ban-chetti, e i racconti cavallereschi. Le cronache, gli inven-tari ci restituiscono i particolari e lo splendore dei fastisignorili della grande feudalità, quasi un romanzo vis-suto, alla vigilia dei tempi in cui essa avrebbe subito irudi colpi di un re borghese. Essi avevano il privilegiodei Valois di pretendere per sé ciò che vi era di grandee di raro, di adornarsene come di un gioiello, ma, nelleloro operose città delle Fiandre, le istituzioni munici-pali e il patriziato mercantile non erano certo menofavorevoli alle imprese e agli ingegni. Era naturale chei duchi facessero venire a Digione maestri dei PaesiBassi; non era una novità: quest’ultimi, nel secolo xiv,erano numerosi a Parigi e nelle botteghe reali, e l’artefiamminga non si distingueva a quel tempo dall’artefrancese che per un leggero variare del segno, per l’a-bitudine a certe materie, come la pietra dei paesi dellaMosa, e per quelle sfumature che non sono che levarianti di uno stesso stile.

L’aspetto assunto dalla scultura francese alla fine delsecolo xiv ci è documentato dalle statue dei Quinze-Vingts e di Poitiers e, in uno stile piú greve, da quelledei contrafforti di Amiens2. Sono risultati di un estre-mo equilibrio e già si è visto quanto ancora conservinodi sostanza monumentale nella loro studiata calibraturae nella morbida unità del modellato: la pacatezza dellaluce e l’espressione di una calma profonda e della armo-niosa vita delle forme. Ma questo è il tono di Parigi edelle botteghe reali, e non bisogna dimenticare che la

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scultura funeraria, dal mausoleo di Cosenza alla tombadel cardinale di Lagrange, aveva fissato con violenza ildisordine della vita nell’immagine stessa della morte.Niente nell’arte fiamminga, se non forse la densità dicerti volumi, lascia presagire una evoluzione della pla-stica. Questo tratto è piú sensibile ancora in Germania,in un certo lusso di panneggi, a partire dalla secondametà del secolo xiii, particolarmente nelle belle statuedel coro di Naumburg. Ma certo conviene ammettereche il genio consiste, piú che nel dar figura a una tradi-zione o allo spirito di un’epoca, nel crearli. Claus Slu-ter fu in relazione con i maestri che operavano a Mehun-sur-Yèvre per Jean de Berry; nella stessa Digione fu perqualche tempo sotto Jean de Marville, prima di succe-dergli. I documenti lasciano pochissimi dubbi sulla suaorigine: veniva dalla contea d’Olanda3.

Tre sono i gruppi di opere che gli spettano, o che siricollegano direttamente alla sua influenza, ancora visi-bili a Digione: il portale della cappella dinastica deiduchi, alla certosa di Champmol, e, poco lontano, labase di un Calvario decorata con figure di profeti, cono-sciuta sotto il nome di Pozzo di Mosè; infine le duetombe del museo. Il progetto forse attuato su di una ideadi Marville, è sicuramente suo, e sue sono anche alcuneparti, mentre il resto dell’opera è dei suoi seguaci: ilnipote Claus de Werve, Juan de La Huerta e AntoineLe Moiturier. Si conserva ancora qualche frammento delCalvario, particolarmente la testa di Cristo su un fram-mento del busto. Ciascuno di codesti esempi memora-bili, e non solo il Pozzo di Mosè, merita l’attenzione par-ticolare dovuta ad un’arte che impone al proprio secolol’esempio e l’ascendente della propria originalità. Senzadubbio non ci si potrebbe aspettare di vedere il portaledi Champmol, cappella funeraria, composto come unportale di cattedrale: è naturale vedervi rappresentati ifondatori e i loro santi patroni. Ma le statue non si

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appoggiano piú al muro, non si ergono su piedritti, masu mensole. Le une sono in piedi, le altre inginocchia-te, e le tre figure che si ergono in tutta la loro altezza,la Vergine, san Giovanni e santa Caterina, sono comespinte avanti dal loro movimento.

La Vergine del trumeau, attribuita tradizionalmentea Jean de Marville, non ha nulla in comune con le Ver-gini francesi del secolo xiv, ancora meno con quelle delxiii. Essa lascia infatti l’architettura, sembra avanzarsiverso di noi in un gran frusciare delle vesti che racco-glie a sé vigorosamente. I panneggi di Sluter sono com-posizioni drammatiche che valgono per se stesse. Ilcorpo che li abita e che essi nascondono ha il solo com-pito di sostenerne i movimenti, le cadute, il generosofluire. Il corpo è piú un insieme di forze che un organi-smo che vive, un sistema di assi, che regge e insiememodella i gran mazzi di pieghe, attraversati da ombreprofonde e mosse. Minor lusso è nei pleurants delletombe, ma non minore autorità: costoro non sono mona-ci, ma i parenti, i vassalli, gli ufficiali e i famigli deiduchi, rappresentati, nella liturgia dei funerali, vestiti diquei sai, di quelle cappe di panno nero la misura deiquali è ricordata nei conti del feudatario. Non è la primavolta che si trova sui fianchi di una tomba l’immaginedi una cerimonia funebre, ma qui ha un’ampiezza, unavarietà fino a quel tempo sconosciute. La processione deipleurants, preceduta dal clero, s’avanza al riparo di fra-gili arcatelle di marmo. Ognuna di quelle figure è frut-to di uno studio non di rado spinto a limiti estremi.Alcune, fra le piú recenti, tradiscono il gusto aneddoti-co del secolo e anche quella familiarità di tono che ilMedioevo, in ogni tempo, ha fuso alle immagini e alleconcezioni piú solenni. Ma molte hanno anche quellacompattezza di blocco che manca alle figure del portalee che è mirabile nelle migliori statue del pozzo di Mosè.Se si cerca di isolarle e di immaginarle ingrandite fino a

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proporzioni umane, si nota che possiedono quella parti-colare forza monumentale che, anche quando le regoledell’accordo con l’architettura sono dimenticate, viveancora nelle figure tagliate con larghezza di concezione,compatte, conchiuse come un gruppo statuario e monu-mentali in se stesse e soltanto per sé. È possibile ren-dersene conto alla fine del secolo xv, in un capolavoroche si rifà alla stessa ispirazione e che ne supera le misu-re: la tomba di Philippe Pot, signore di La Roche-Pot egran siniscalco di Borgogna in nome di Luigi XI. Ma ipleurants di Philippe Pot risultano di una architetturaumana piú forte e risentita di quanto non siano le colon-nette e gli archi delle tombe dei duchi; essi portanosulle loro spalle, segnate dal peso della lastra, il lorosignore morto che giace in armi. L’insieme ha la gran-diosità dei monumenti primitivi dei celti, composti damassi infissi nel suolo sui quali è stata posata una pesan-te lastra di pietra.

Questa imponenza monumentale che appartiene allastoria e ne supera i limiti è anche quella del Pozzo diMosè. Iconograficamente, Sluter interpreta l’antica cor-rispondenza dei due Testamenti che compariva già negliantichi portali, ma il corteo degli annunciatori che intro-duceva i fedeli alla chiesa del Cristo si è trasformato inun basamento sovrumano che sorregge la Passione.Indubbiamente abbiamo qui l’esempio piú notevole del-l’accordo fra il teatro e l’arte figurativa, che è uno deicaratteri peculiari della fine del Medioevo, e, se non latrasposizione nella pietra, almeno un ricordo, attraver-so il soggetto, forse attraverso i costumi, di un drammagrandioso, i profeti giudici del Signore. Ma possiamomisurare le diversità fra uno sviluppo scenico e la genia-le unità di una soluzione da grande scultore che fa deimaestri dell’antica legge altrettanti cariatidi del Vange-lo. Raggruppati sulle facce di un blocco poliedrico, sor-montato da angeli in lacrime che sostengono la cornice

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al di sopra della quale si ergeva la croce, fra la Verginee san Giovanni, essi sono a un tempo i testimoni dellavita contemporanea, di cui alcuni hanno l’aspetto e lafigura, e i misteriosi visionari delle scritture. Mosè èfuori del tempo. Forse è un ritratto, ma trasfigurato. Lasua formidabile senilità non è quella dell’uomo, ma quel-la di una razza piú antica. Ha la testa riversa, gli occhiinfossati sotto l’arco sopracciliare, la lunga barba a duepunte gli fluisce sul petto, il suo corpo robusto e tozzoè reso ancor piú possente dalle pieghe trasversali dellasua tunica: bisogna riconoscere nel genio del maestro chel’ha concepito non l’eco di un momento personale, mala continuità di una dinastia spirituale che inizia forsecon maestro Mateo e che continua fino a noi attraver-so Michelangelo e Rodin.

L’arte di Claus Sluter e dei maestri della sua botte-ga definisce l’arte borgognona del secolo xv. Certo, conil trascorrere degli anni, esso si sfuma di inflessioni chegli derivano dalla Francia centrale, dalla Loira e daipaesi del Reno, ma conserva l’impronta dei suoi inizi eha la costanza di una maniera. Il tipo delle Vergini bor-gognone, non troppo slanciate, compatte, chiuse neiloro panneggi, si diffonde con la stessa larghezza delleVergini flessuose del secolo xiv. Non altrimenti il tipodel vegliardo profeta. Nello stesso tempo, la scultura sistacca sempre piú dall’architettura, accetta le sugge-stioni della pittura e del teatro nelle pale d’altare, inlegno o in pietra, a personaggi multipli in scene a scom-parti, formicolanti di episodi, di invenzioni e di gestigarbati: la monumentalità è sopraffatta dalla familiarità.Le statue, abbandonati i portali, si raggruppano nellascena della Sepoltura del Cristo, ben rappresentata daottimi attori. A Tonnerre, a Chaumont, a Solesmes, piútardi a Saint-Mihiel e piú tardi ancora in Bretagna, dovel’arte dei Calvari e dei Sepolcri, sotto una forma popo-lare, ha un carattere rozzo che non è privo di bellezza;

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in modo piú generale, in tutto l’Occidente, l’ultimo attodel dramma della Passione riesce a spezzare i legami cheancora univano la plastica monumentale e l’architettu-ra. Nella penombra delle cappelle, i personaggi grandial naturale, e talvolta messi in risalto da vivi colori,compongono un quadro vivente destinato a colpire l’im-maginazione con la singolarità dell’effetto, con la vero-simiglianza, con le risorse di una drammaturgia ele-mentare. Tali caratteri non escludono affatto la poesiadel talento. Questa non è meno sensibile nelle Pietà,immagini spesso assai belle del compianto della Madre,di cui le Meditazioni dello Pseudo-Bonaventura hannodivulgato il culto, il gusto e l’imitazione. Si tratta d’al-tronde di un mirabile tema formale: una composizionea due corpi, di cui l’uno riposa, riverso, sulle ginocchiadell’altro. Rigido e teso dalla morte, oppure flessibile,ancora caldo della vita che lo ha appena abbandonato,il Figlio, nelle braccia della Madre curva su di lui, è l’e-spressione piú patetica di quella religione del dolore edella morte cosí cara alla fine del Medioevo. Nelle bot-teghe della Champagne meridionale, a Troyes, nel legnoo nella pietra, i maestri di quest’epoca e i loro succes-sori, nel corso del secolo xvi, ne hanno eseguito nume-rosi e stupendi esemplari, le cui variazioni sul temaunico rivelano a un tempo la sensibilità singolarmenteraffinata e il virtuosismo. Sono questi gli scultori chedovevano raggiungere negli jubés delle chiese, invasi dauna esuberante vegetazione di forme ornamentali, fusao piuttosto sospesa all’architettura piú fantasiosa, il tonoultimo di quel barocco gotico che sopravvive, incorpo-randoli, agli apporti di forme italiane.

Fin dalla metà del secolo xv, nelle rappresentazionifigurate, la indipendenza della scultura nei confrontidegli sfondi monumentali, la ricerca di una monumen-talità in sé, d’altronde combattuta dal sentimento aned-dotico, dal fasto della messa in scena e della tecnica pit-

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torica, tutti questi caratteri, uniti a quelli che la misti-ca e l’estetica del dolore imprimono all’arte del tempo,ci rivelano nella maniera piú viva come questo roman-ticismo gotico s’opponga all’ordine, alla pacatezza lumi-nosa, all’ottimismo cristiano del secolo xiii.

II.

Quando l’architettura cessa di esercitare sulle altrearti quella influenza che sottomette alle proprie leggi ladisposizione e la forma stessa delle immagini, la pitturadiviene il luogo delle esperienze sullo spazio. Qui è certoil fatto piú notevole del secolo xv in Occidente e in Ita-lia. Per quest’ultima, vedremo in che modo esso possa,senza contraddizione, accordarsi con la nascita o la rina-scita di uno stile architettonico. Gli indizi di un muta-mento fondamentale a questo riguardo non si devonocercare nella pittura murale gotica. Essa è ancora infat-ti legata alla parete, ed è in base ad altri elementi che siriconosce in essa lo spirito del secolo, il suo delicato sen-timento profano: l’ampiezza dei panneggi, l’allunga-mento delle figure, nella rappresentazione delle Virtú edei Vizi, delle Sibille, e, nella Danza dei morti – da quel-la del cimitero degli Innocenti, a Parigi, oggi scompar-sa, fino alle memorabili pitture di La Chaise-Dieu e aquelle che ornano, sotto una volta carenata, la cappelladi Kermaria-Nisquit, in Bretagna4 –, l’ossessione dellamorte fusa con un sentimento egualitario che, in manie-ra piú pacata e piú grave, già esprimevano i rilievi delGiudizio finale nelle cattedrali del secolo xiii. Nei mano-scritti occorre studiare i progressi di una ricerca che, allapienezza delle superfici decorate, doveva a poco a pocosostituire l’illusione della profondità, presentata dap-prima come un artificio magico, la trasparenza dell’ariae infine una costruzione razionale dello spazio. Forse è

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la conseguenza naturale di quella vasta scoperta delmondo di cui l’arte gotica ci ha fatto percorrere le tappemolto prima del Rinascimento italiano, ma questa con-seguenza le si rivolta contro. Forse è in germe in ognitentativo di «razionalizzare» la forma, nella geometriadi Villard de Honnecourt e nella fisica di Robert Gros-seteste, per esempio. Ma essa conserva a lungo, pur nelsempre maggiore avvicinamento al possesso del «reale»e dell’«oggetto», il suo carattere di irrealismo o, se sivuole, la sua qualità poetica particolare. In altri termi-ni, la vita è piú che mai una meraviglia; sulle pagine,delicatamente miniate, essa è a un tempo un quadrodella verità e un racconto favoloso. Riguardiamo unmomento ancora il piú famoso dei manoscritti di que-sto tempo. Il calendario delle Très Riches Heures du ducde Berry5 continua il vecchio calendario di pietra dove loscultore delle cattedrali compendiava, in qualche sobriafigura, i mestieri e i giorni dell’anno cristiano, ma, die-tro i lavoratori, i vignaiuoli, i pastori, i servi addetti aicani e i signori, compare il profilo della terra, con il pen-dio delle praterie, la cortina delle foreste reali, i castel-li del principe, trattati con squisita minuzia, come capo-lavori di oreficeria o come quei modelli di chiese che idonatori offrono alla Vergine reggendoli con il palmoaperto. Le cose sono a un tempo vicine e lontane, dispo-ste come su piani distinti e in successione, secondo arti-fici che richiamano la «cartografia» senese6, ma senzal’impazienza di approfondire l’orizzonte. Nello stessotempo, le Très Riches Heures fan posto a quei paesaggivisionari che non hanno nulla delle realtà terrestri eche, accanto al paesaggio feudale e rurale, dànno uncorpo e una figura ai miracoli dell’immaginazione cri-stiana. Rocce scoscese, strapiombi impossibili, unmondo svuotato come una caverna, una luce d’oro, fissae cangiante insieme: ritroveremo questi elementi dellafantasia del secolo non soltanto nei primi tre fogli delle

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Antiquités judaïques, che appartengono alla stessa tradi-zione, ma anche nei fogli successivi di questa raccolta ein tutta l’opera di Jean Fouquet, fusi alla poesia pacatae mattinale della Loira e ai ricordi d’Italia.

Ma, prima d’essere in qualche modo filtrato in raggisottili, in note sensibili che sono quelle della «vera» lucee insieme di un mondo chimerico, l’irrealismo dell’oro,alla maniera senese, domina, nelle botteghe del Nord,la concezione dello spazio presso i pittori di tavole ante-riori a van Eyck. Queste tavolette hanno la funzione diintermediarie fra la pittura murale e la miniatura. Dellaprima hanno talora la vasta estensione e, sopra unasuperficie di tela incollata sul legno, lo strato di gessoche riceve il colore fa come da supporto murale. Delleseconde hanno la qualità preziosa del colore, quella fre-schezza costante che non coincide con la limpidezza,infine il risplendere dell’oro. I preeyckiani piú attentialla vita delle forme sono ancora fermi alla poesia dellebelle superfici e a un’armonia di toni attenuati. Si com-prende come siano stati preceduti, nelle esperienze sullospazio, dai miniatori, non dovendo questi ultimi teme-re di aprir finestre in un muro e potendo affidare aoggetti di piccole dimensioni, alla pagina di un libro,ricerche di un’audace raffinatezza sulla profondità deipaesaggi. Ma gli uni e gli altri, i Malouel e i Broederlamcome i de Limbourg, lavoravano, se cosí si può dire, nelmedesimo universo ad acquerello. Ciò che si chiamamolto impropriamente la scoperta della pittura a olio èanzitutto la trasposizione della «qualità preziosa» inun’altra materia, piú ricca dell’oro, piú profonda esoprattutto piú varia. L’oro riflette la luce, crea attor-no alle figure un alone astratto, di una purezza mono-tona: gli sforzi compiuti dai pittori per conferirglivarietà, per farlo vibrare con una specie di falsa diver-sità di toni, ne sono precisamente la prova. Il colore deivan Eyck accoglie la luce, l’assorbe senza smorzarla

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attraverso il suo cristallo e la riflette viva e calda. Eccoil grande mutamento. È possibile che Margaritone d’A-rezzo abbia conosciuto il procedimento, è peraltro certoche i registri dei conti di Jean le Bon ricordano la pit-tura a olio, ma l’impiego sistematico di un mezzo che dàalla materia pittorica la trasparenza e lo splendore, virtúormai acquisite per sempre alla pittura., è dovuto allebotteghe fiamminghe, ai van Eyck7.

Esso implicava altre conseguenze, non solo la nuovabellezza della materia e della luce. Veniva a creareattorno alle forme un involucro atmosferico fluido chela vista percorre e penetra senza incontrare ostacoli;l’orizzonte stesso non è piú una barriera, è la sugge-stione indefinita di un aldilà donde sembrano venire anoi le figure per accrescersi in grandezza, in verità ein splendore. È, in certo modo, un mezzo di «illumi-nare» lo spazio e di farne sentire la purezza cristalli-na, anche nei corpi che vi agiscono. Infine il nuovomodo di usare il pennello apre allo spirito analitico deipittori possibilità fino a quel tempo sconosciute, per-mettendo alla mano di tirare il colore, senza che essocoli in sbavature, e di conservare una costante densitàin una materia che, nel corso dell’esecuzione, nonperde nulla della sua duttile freschezza. Cosí nasconoper i nostri occhi opere tre volte pregevoli per bellez-za di colore, trasparenza di atmosfera, fermezza d’a-nalisi. È nata la pittura moderna.

Ma il genio di van Eyck si lega ancora strettamenteal Medioevo e al suo secolo: per i partiti iconografici, èchiaro, ma soprattutto per il suo concetto dell’arte, forseanche per una certa filosofia del microcosmo, di cui sidovrà definire il carattere e cercare le origini. A misurache scadono i principî dell’arte monumentale e che lapittura si sostituisce alla scultura come mezzo espressi-vo, e soprattutto come mezzo di conoscenza dell’uni-verso, si vede svilupparsi il gusto dell’infinitamente pic-

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colo. Questa passione del particolare minuziosamenteeseguito deve forse qui essere confusa con l’attitudinevolgarmente passiva e cui si dà comunemente il nome direalismo? Se noi vedessimo la realtà con tali occhi,avremmo le vertigini. Contemplando questi immensi eminuscoli paesaggi di città, sulle cui piazze vanno e ven-gono esseri appena discernibili, e tuttavia costruiti conesattezza per rispondere a tutte le necessità della vita,ci si chiede se il pensiero dell’artista non si rifaccia o nonsi ricongiunga a quello degli astrologi o dei mistici e sela sua intenzione non sia stata quella di inserire, nelmondo di Dio, un mondo dipinto che ne colga infinite-simalmente le misure, come la figura umana sta nel cen-tro del cerchio zodiacale quale microcosmo al centrodel macrocosmo. Mi pare che se ne abbia una provanello specchio circolare e convesso appeso al muro dellastanza nuziale dove i due Arnolfini si impegnano a reci-proca fedeltà (Londra)8. Non è una fantasia pittoresca,un accessorio di arredamento questa specie di strumen-to ottico posto giusto al centro della composizione e chea un tempo si apre sulle regioni del vero e dell’immagi-nario. Non è vuoto, bensí contiene come in un micro-cosmo, la scena vista alla rovescia; anzi dietro all’im-magine riflessa dei due sposi, compaiono due testimoniche non appartengono al mondo del quadro. Inversionee riduzione che traspongono in un universo vicino elontano la cerimonia di cui l’artista ha fornito l’imma-gine come certificato: «Iohannes de Eyck fuit hic».

Certo i progressi della scienza chiamata prospettivaresero possibili accordi come questi o piuttosto diederoal mistero un’aria di verosimiglianza. Ma, nel quadrodella prospettiva, la piccolezza delle figure allontanatenon è che un elemento, entro molti altri, della struttu-ra razionale dello spazio, ed è per tale accordo di tuttele fonti che la prospettiva è «naturale», cioè perfetta-mente illusionistica. Siamo tanto assuefatti per abitudi-

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ne visiva, e per la comune conoscenza di opere d’arte«bene in prospettiva», alla diminuzione delle figure suipiani lontani, che ci occorre uno sforzo per riconoscer-le piccole, in quanto non lo sono affatto e non ci sem-brano tali. Ma gli artisti che per primi hanno applicatole regole della prospettiva ne hanno considerato gli effet-ti come singolarità che meritavano attenzione e checomportavano una poesia particolare. I piani di fondo,con le loro piccole figure, costituivano ai loro occhi unaforma diminutiva dell’universo. L’immagine ridottadello specchio convesso accentua la distanza in quantodiminuisce la misura delle figure. Il semplice rifletteredello specchio piano non fa che raddoppiare la distanzache lo separa dall’immagine. La superficie convessacoglie la profondità e la curva del mondo. Cosí, nella cir-conferenza della cornice, una prospettiva resa arbitrariarisuscita il microcosmo; cosí l’universo contiene la suacopia, minuscola e rovesciata, a portata di mano e tut-tavia inaccessibile.

Questo «realista» cosí attento, questo borghese fiam-mingo, strettamente inserito nella sua classe dalle isti-tuzioni municipali, è dunque esattamente il contrario diun osservatore passivo, incatenato al disordine delle evi-denze. La disposizione segreta delle sue composizioni,forse stabilite su di una rete geometrica, è mirabile, nonsoltanto per il modo in cui le masse si equilibrano e sicontrobilanciano, ma per il profilo stesso delle parti chele compongono. Hanno una larghezza, una maestositàche prevalgono sulla profusione dei panneggi di tipoborgognone, su quei bei cumuli di panni o di lini dispo-sti a piani e a pieghe come le strutture dell’Appenninoviste da Leonardo. La cosiddetta Vergine del canonicovan der Paele, a Bruges, ne offre forse il miglior esem-pio, ma se ne ritrova la sapienza e il mistero anche nellacomposizione dei ritratti. In modo piú generale, ognirealtà per van Eyck è misteriosa. Egli si trova davanti

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all’oggetto come se lo scoprisse per la prima volta, lo stu-dia come se volesse, a forza di pazienza poetica, rubar-gli la chiave di un enigma, affascinarlo e dotare la suaimmagine di una seconda vita silenziosa. Tutto per luiè unico e, nel senso proprio del termine, singolare. Inquesto universo dove nulla è intercambiabile, l’accesso-rio, l’inanimato acquisiscono il valore fisionomico di unvolto. Nella stanza chiusa dove stanno in piedi l’Arnol-fini e sua moglie, l’alto cappello del marito, il lampada-rio lavorato che pende dal soffitto come un fiore difuoco, lo specchio di cui abbiamo cercato di spiegare lafunzione, tutto è fantasticheria sulla peregrinità dellecose ordinarie, e la città che, fra le colonnette e sottogli archi della cosiddetta Vergine del cancelliere Rolin(Louvre), svolge sulle due rive di un largo fiume il suodoppio paesaggio di tetti, è forse Lione o Liegi, o Maa-stricht, in base a incerte identificazioni, ma è anzitut-to, nella trasparenza dell’aria immobile, nella serenità diun tramonto, azzurro e dorato, una fantasia di vanEyck. Quale ampiezza assume codesta attitudine aimmaginare il vero e a sentirlo, nelle regioni del racco-glimento in Dio e della vita mistica! A San Bavone diGand, il Polittico dell’Agnello mistico risuscita un’an-tica concezione cristiana, come se la fine del Medioevosi rivolgesse verso gli inizi della fede, in un paesaggio ter-restre e celeste, reale e paradisiaco, che accorda i profi-li e i monumenti dei Paesi Bassi con gli elementi di unsogno piú remoto. La vegetazione divisa in zone benprecise, dalle graminacee alle conifere, si allontana versoun orizzonte dal quale si alzano chiese riconoscibili eidentificabili, come la cattedrale di Utrecht, mescolatead altri edifici che sono trasposizioni o costruzioniimmaginarie. I buoni cavalieri e i giudici integri hannoil carattere immediato e vigoroso della vita stessa; essinon si sottraggono alla loro pesantezza, sono esseri dicarne, ma la loro materialità è improntata da un segre-

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to piú bello, creato dall’energia dello stile, dallo splen-dore del tono e dalla qualità meditativa.

Le grandi figure che li accompagnano sono di unostile ancor piú elevato: Dio Padre nella sua maestosità,ha la grandezza epica del Dio dell’Apocalisse, Adamo edEva, nella loro umanità senza reticenza, hanno qualco-sa di torpido e di primordiale insieme.

III.

Questa pace profonda di un’arte ad un tempo inten-sa e raccolta è forse il carattere di un ambiente sociale,il tratto tipico di una razza, come si è detto fino allasaturazione? È, piuttosto, la prerogativa di una famigliadi spiriti. Questa armonia concentrata che coordina,subordina e lega strettamente le parti della composizio-ne in un mondo trasparente e compatto è forse un’ere-dità della miniatura? Si deve considerare d’altro lato ilritmo sapiente e la bella disposizione di Rogier van derWeyden9 come il risultato dell’influenza dei grandi araz-zi decorativi o delle tele dipinte? È certo che i pittori egli arazzieri collaboravano. Jean de Bruges, autore deicartoni dell’Apocalisse, eseguita da Nicolas Bataille, apartire dal 1370, non è un’eccezione, tutt’altro. Se nonabbiamo piú le famose composizioni di Rogier che deco-ravano la sala di Giustizia del municipio di Bruxelles,sappiamo che sono riprodotte negli arazzi di Berna.Attraverso codesti grandi arazzi poteva conservarsiancora l’antica grandezza dello stile10.

L’arte dell’arazzo d’alto liccio fu per l’Europa occi-dentale ciò che l’affresco fu per l’Italia e, con la vetra-ta, è forse l’espressione piú originale del suo genio.Senza dubbio i maestri frescanti sono ancora numerosiin Francia nel secolo xv. La Danza dei morti di La Chai-se-Dieu, le Arti liberali di Le Puy bastano a suggerirne

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l’importanza e l’interesse. Ma la qualità monumentale siavverte con maggior intensità negli arazzi. Le loro altefigure tessute ora su un fondo di zolle erbose, ora su pae-saggi in parte immaginari e in parte realistici, fannorivivere attorno ai signori feudali i sogni cavallereschi,le cacce e i giochi di cui fecero ornamento e emblemadella propria vita, cosí come il sogno di una vita idilli-ca, lungi dalle nugae curialium, di cui Jacques de Vitryaveva già esaltato gli incanti, nel Dit de Franc-Gontier.Nelle chiese di Francia l’arazzeria sviluppa con un’am-piezza ciclica talora impressionante un quadro della vitaumana in cui, dalla Creazione al Giudizio finale, gliavvenimenti o le allusioni storiche si fondono alle lezio-ni del Vangelo, alla battaglia dei Vizi e delle Virtú.Senza dubbio l’Apocalisse d’Angers è ancora impregna-ta dell’arte delicata del secolo xiv e deve ancora moltoallo stile minuto delle botteghe parigine; i mostri a cuila crisi morale del secolo seguente restituirà una vita pos-sente e terribile, una vita romanica, hanno ancora l’ele-ganza araldica degli animali da blasone.

Sessant’anni piú tardi, nelle botteghe di Arras e diBruxelles, l’arazzo, liberandosi dall’influenza dellaminiatura, ha conquistato il suo stile e le sue dimensio-ni. Piú che per certi rapporti con gli accessori, le variestazioni e la messa in scena dei misteri, esso ci colpisceper il carattere epico della composizione, per il numero,la statura e la diversità delle folle che la stipano. Sospe-so contro i muri delle cattedrali, l’arazzo è in scala conla loro enorme misura. La materia di cui è costituito èpiú calda e fine della materia murale; essa soddisfa ilgusto della cosa rara, preziosa, lentamente elaborata cheè al centro di codesta civiltà, e nello stesso tempo nonle fa abbandonare l’ordine delle grandezze monumentali.Il compito di coloro che disegnano i cartoni è dunqueconsiderevole, non soltanto nella storia della arazzeriama, in virtú degli scambi e delle reazioni, nella storia

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della stessa pittura e nella vita dello spirito. Tuttavia nelcaso di Rogier e, forse di Hugo van der Goes, bisognafar intervenire un dono particolare che apparenta il pit-tore di Tournai agli scultori e che lo pone al primo postofra quei maestri che, in pittura, furono scultori.

Le tavole centrali della pala del Giudizio finale con-servata nell’ospizio di Beaune sono composte come untimpano di portale, con la parte inferiore occupata dallaresurrezione dei morti divisi in due schiere dall’angeloche pesa le anime; al di sopra compare la figura del Cri-sto giudice e ai lati si dispongono simmetricamente laVergine e i santi in preghiera. I nudi, cosí semplici, cosífermi, quali si vedono sui vecchi architravi di Francia,hanno la qualità dei nudi di Degas, pittore e scultore.Per un istinto da scultore non va perduto ancora il sen-timento della forma monumentale e, nei volti, la sobriaeconomia d’un modellato senza eccessi di osservazionianalitiche che raggiunge la potenza espressiva con mezzisemplici. E sebbene nessun’arte sia piú patetica, il dolo-re non si traduce in convulsioni: nella Deposizione dellacroce dell’Escuriale esso sembra fluire lentamente nelcuore di tutti i personaggi, fermare la vita della Vergi-ne, che si accascia, sostenuta a un braccio, mentre l’al-tro sfiora il suolo, nello stesso gesto d’abbandono iner-te del Crocefisso.

Non sarebbe difficile ritrovare principi ordinatorianaloghi a quelli del Giudizio finale in altre opere di vander Weyden, anche ambientate all’aperto come la Depo-sizione nel sepolcro degli Uffizi, dove le teste dei per-sonaggi, ora erette ora chinate, disegnano sul rettango-lo del sepolcro aperto il profilo arcuato di un timpano.Se volessimo esercitarci con estremo rigore di analisi supezzi discussi come l’Annunciazione de Mérode, con-stateremmo che essa, per tale aspetto, si distingue dallostile del maestro. È un’opera molto felice, ma quel tantodi divertimento che vi si scorge è sconcertante. La com-

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posizione è soffocata, multipla, aneddotica, con unaprofusione di particolari intimi senza grandezza, se nonsenza poesia. Qui non c’è nulla che annunci l’arte gran-diosa di Rogier, o forse soltanto la figura dell’angelo,troppo vasta per codesto squisito interno da bambola.Una pace piú profonda e larga si diffonde nell’Annun-ciazione del Louvre, che è un po’ piú tarda (verso il1430): ma non è forse ancora eyckiana per molti parti-colari accessori, e per certi aspetti dei tipi, infine perquella serenità misteriosa che ci riconduce quasi allaVergine del cancelliere Rolin? In breve, a mio parere,vi sono piú dubbi per queste attribuzioni che per il Giu-dizio finale, in cui si esprime, in una cornice monu-mentale, una concezione capace di riempirne lo spazioe, se cosí può dirsi, in base a una analoga scala metrica.

È dunque tutto qui van der Weyden? Forse è l’es-senziale, a condizione che un’esagerazione di conformi-smo stilistico nell’analisi non ci porti a ridurre la dimen-sione di una cosí bella figura d’artista. E non si può certoandare piú a fondo se non si studiano i suoi ritratti.Quelli che ci ha lasciati di Meliaduse d’Este (New York)e di Philippe de Croy (Anversa) sono di una decisione,di una acutezza, di un taglio che rasenta la violenza. Ilgrande cancelliere di Borgogna in preghiera davanti allaVergine, o quell’uomo di cui la forte mano regge condelicatezza indifferente un garofano, appartengono sicu-ramente a un tipo umano diverso dalle figure di vanEyck. I grandi donatori dell’Agnello, Iodocus Vijdt e suamoglie Isabella, sembrano calati in un torpore maesto-so, chiuso alle passioni umane; i modelli di Rogier sonoinvece disposti a vivere queste passioni imperiosamen-te come già annuncia il loro profilo acuto. Cosí si pre-sentano a noi i diversi aspetti di un’arte la cui qualitàaffettiva, se non piú ricca, è certo piú ardente di quelladi van Eyck e che, nelle sue espressioni piú larghe, si rifàallo stile monumentale piú che a quello della miniatura.

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Forse sono queste le due direzioni della pittura fiam-minga nel secolo xv e, in maniera piú generale, di tuttele diverse scuole pittoriche di quell’epoca. Da van derWeyden, Dirk Bouts di Haarlem, stabilitosi a Lovanio(1420-75), ha ricevuto un dono di intensità patetica equella tenera fierezza del dolore di cui vibrano i suoi Cri-sti e le sue Vergini di pietà11. Alla stessa tradizione sirifà, con la grandezza e l’accento del suo disegno, Hugovan der Goes, maestro a Gand nel 1467, morto al mona-stero di Rougemont (1481) in preda alla follia e all’in-canto della musica. Ma se Lemaire de Belges ha giusta-mente lodato, nel secolo seguente, «Hugues de Gandqui tant eut les tretz netz», cionondimeno egli fu ancheun colorista di quel ricco filone, profondo e magico, chei van Eyck inaugurarono e che, con la sua Natività degliUffizi, si fonde ai destini della pittura fiorentina12. Dagliultimi anni del Medioevo e fino ai primi anni del seco-lo xvi, se ne vede brillare il sottile splendore e la squi-sita nota nell’arte di Gerard David (morto nel 1523) esoprattutto in Memlinc (morto nel 1494): è un renano,senza dubbio allievo di van der Weyden, stabilitosi aBruges, in pieno ambiente eyckiano. Forse si indivi-duano in tal modo le diverse fonti e le diverse sfumatu-re della sua arte, ma non il segreto della dolce unità chele lega, fondendo alla purezza miracolosa dell’esecuzio-ne e all’incanto mattinale del colore la fermezza d’ac-cento e la grandezza della forma: il ritratto di Martinvan Nieuvenhowe all’Hôpital Saint-Jean di Bruges ne èun esempio tra gli altri. Ma la luce che attraversa le fine-stre rettangolari dell’oratorio in cui questo signore è inpreghiera è filtrata da tutti i sogni di van Eyck13.

Il mondo in cui vivono queste figure, immobili sottoi nostri occhi, nella pace meravigliosa degli oggetti, degliesseri e dei pensieri, insensibile a ogni impulso esternonon alterabile dalle ombre del tempo, sembra librarsi aldi sopra dei secoli e della vita come per un incanto. Ma

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ecco che subito si verifica una esplosione silenziosa.Questo universo cosí fermo, dagli spigoli netti, ove ognicosa sembra definita per l’eternità, vacilla, si frantumae i suoi frammenti volteggiano nell’aria. Le regole del-l’umanesimo in Dio, la sapiente architettura del micro-cosmo sono distrutte da una potenza nuova, da undemone dell’Anticosmo. I limiti che separano i regnidella natura sono superati, l’inanimato assume vita efigura, l’oggetto fatto dall’uomo acquista la figura del-l’uomo, il suo viso, le sue membra, la sua ansia, i suoidesideri. Un furioso sentimento di rivincita si scatenacontro il divino, e tuttavia è sempre una pia concezio-ne a ispirarlo. Si rivela una nuova Apocalisse, ma èun’Apocalisse giocosa. Demoni cornuti, villosi, armati diforche, sospesi in aria da ali membranose, ibride com-binazioni di insetto, mammifero e uomo, sciamano in uncrepuscolo illuminato da fuochi di fucine e da bracieridi incendi. Macchine volanti guizzano nel cielo. All’en-trata di una caverna tutto l’inferno assedia e tormentai santi eremiti. Un allucinato viaggio di diporto rapiscesulle acque di un golfo la nave dei folli, dove siedonogioiosamente a tavola viziosi e lunatici pallidissimi. Talel’arte, tali le visioni di Hieronymus Bosch, pacifico pro-vinciale di Boscoducale, dove visse dal 1460 al 1516,lavorando per Margherita d’Austria. È un pittore affa-scinante, ricco di toni delicati, che precorrono la gamma«fiamminga» del secolo xvii, ma con brusche note piúrisentite, aggressive, che ricordano i colori delle carte dagioco e delle vetrate; un grande poeta comico, e unfenomeno ancor piú curioso14.

Le regioni celate del Medioevo si spopolano, si sve-lano le sue lande sotterranee, piene di lazzi, di follie, disogni impuri, di slanci verso Dio. Quella grande epocasarebbe stata incompleta, inesplicabile, se non avesseavuto tali aspetti segreti. Essa li ha avuti sempre, mavelati dalla disciplina della pietra, nelle parti piú alte

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delle torri, nello zoccolo dei portali, nell’ombra di unarchivolto. I doccioni, ultimi resti della biologia roma-nica, combinata alle funzioni dell’architettura, ne con-servavano l’immagine tesa, irrigidita, alla sommità deicontrafforti. I mostri di fantasia assoggettati ai partitidecorativi testimoniano, in pieno secolo xiii, della gran-dezza di un’altra età, inesauribile creatrice di esserimostruosi. Anche nella scultura delle chiese il goticofiammeggiante li ha risvegliati: nelle sinuosità dei moti-vi ornamentali rivive la teratologia romanica, ma inlibertà sregolata e senza freni; ed è anche il tempo in cuila calligrafia gotica risuscita i motivi a intreccio, comese il Medioevo, prima di morire, abbandonasse precipi-tosamente tutte le sue fantasie e si riconducesse alle piúantiche tra di esse. La stupefacente facilità grafica diBosch, nell’attesa di Bruegel il Vecchio, rianima le pic-cole creature, incredibilmente vive, del Salterio di Utre-cht. Il suo capolavoro è la Tentazione di sant’Antonio(Lisbona). Tema antichissimo, nato dalle vite dei padridel deserto e che figura su alcuni capitelli romanici,dopo una momentanea eclisse ricompare nel secolo xiv,e soprattutto nel xv, con i progressi dell’ordine degliantoniani, abili nel guarire il fuoco di sant’Antonio. Losi ritrova nella miniatura e nella pittura di cavalletto,particolarmente a Siena, ove è trattato con gentilezzapoetica e con un inimitabile candore. Fra le novità o frale riprese dell’iconografia, occupa un posto tanto impor-tante (ma in senso opposto) quanto il tema cardinalizioe umanistico di san Gerolamo, l’asceta esemplare e l’in-tellettuale tipo. Quest’epoca crudele schiaccia il Cristosotto il frantoio mistico, conficca nel cuore della Vergi-ne le sette spade dei sette dolori, e scaglia un nembo dispauracchi puerili e terribili su sant’Antonio, tutte leforme che, nei suoi incubi, mette a disposizione delNegotium perambulans in tenebris: una Genesi alla rove-scia che distrugge ciò che Dio ha fatto. È il romanzo del

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diavolo, è una tregenda, come la può concepire il devo-to di una piccola città che ama i bei racconti e che temeil buio della notte. Nasce proprio da Bosch il paesaggiofantastico, irto di blocchi isolati, alti come torri di chie-se e scavati alla base da grotte ove meditano pii asceti?Patenier si rifà per parecchi aspetti al maestro di Bosco-ducale, ma questo universo di cataclisma si profila, benprima di essi, nelle miniature dei Limbourg, e si può direche sia un aspetto essenziale del romanticismo medie-vale, uno dei suoi ornamenti preferiti. Superata la cintadella piccola città, oltrepassato il crocicchio dove si alli-neano sapientemente le alte case a tetto spiovente, ci sitrova in uno dei giorni del diluvio. Su questo terrenoaperto da crepacci e sconvolto da sussulti, in cerchi dialte montagne che si alternano a golfi marini, lavore-ranno fra pochi anni i pittori della torre di Babele. Que-sto sogno rimane caro agli uomini dei Paesi Bassi, ma sifa meno sentire fuori della loro cerchia, mentre la dif-fusione dello stile di van Eyck e di van der Weyden èimmensa.

IV.

Una volta ancora è dalle regioni occidentali che giun-ge in Germania l’ultima grande concezione del Medioe-vo. Essa ne accoglie le regole, che accorda ai propriistinti, prima di dare, all’inizio del secolo xvi, la magi-strale triade, Grünewald, Holbein, Dürer. Queste nuovelezioni si esercitavano su ambienti assai tradizionali, dilenta vitalità, indebolita dalle rivoluzioni urbane delsecolo xiv. Agivano con asprezza, come agisce piú tardil’influenza di Courbet sul romanticismo languente diDüsseldorf. La vecchia pittura preeyckiana in Germaniaoscilla, a seconda delle botteghe, dalla violenza alla lezio-saggine. Negli ambienti provinciali del Nord, attorno a

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Soest, a Dortmund e a Münster in Vestfalia, si conser-va un certo bizantinismo campagnolo. Con maggior abi-lità e sapienza, unite alla veemenza del dramma popo-lare, dipingono i pittori dell’Hansa: Meister Bertram,autore dell’altare di Grabow, e soprattutto il suo disce-polo, Meister Francke. Ai sentimenti che Rogier e Boutsraffrenano conferendo loro maggior grandezza, la Ger-mania concede un fasto espansivo. Tratto piú sensibileancora nel Sud, in Franconia, attraverso le influenzedella Boemia e dell’Italia settentrionale, per esempionell’altare di Bamberga (1426, Monaco). Sul Reno, inve-ce, un’arte devota, una mistica borghese che nasce dauna interpretazione senese delle visioni di HeinrichSuso, crea le tenere Vergini di Colonia, fanciulle gras-sottelle, rosee e serene. Ricca serie di immagini, il cuitipo sembra quasi fissato con la deliziosa Veronica delmuseo Wallraf (verso il 1426), ma a cui Stephan Loch-ner, venuto da Costanza, dà, con maggiore pienezza erisalto, una nota di femminilità mondana e la grazia deisuoi pii mazzetti di fiori. In pieno secolo xv, nella vec-chia città degli orafi, si dipinge ancora su fondo d’oro.

Questo l’ambiente, queste le tradizioni, e l’arte fiam-minga vi appare subito come una stupefacente novità.Privati cittadini acquistano o commissionano opere aimaestri dei Paesi Bassi, ma è il soggiorno di Rogier aColonia nel 1451, lo stesso anno della morte di Loch-ner, che determina il mutamento, con un notevole vigo-re. Di ritorno da Roma, egli dipinge per la chiesa di St.Columba il trittico dei Re Magi, e una scuola si formaintorno a lui, il Maestro della Vita della Vergine, ilMaestro della Glorificazione della Vergine, ed altriancora, fra cui il Maestro della Deposizione dalla crocedel Louvre, traduzione nel linguaggio di Colonia, riccodi amabili inflessioni, del grande stile statuario diRogier. Con minore autorità, e attraverso vie seconda-rie, i modi fiamminghi s’introducono in Franconia. A

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Norimberga, il mediocre Pleydenwurff fa rimpiangere lagrandezza e l’austerità di un’arte piú antica, quale sirivela nell’altare Tucher. Rimane però ancora unadiscordanza fra l’apporto esterno e la vecchia maniera,e l’accordo si verifica solo nell’alto Reno con MartinSchongauer. Si può dire che egli abbia fuso lo stile diColonia e lo stile di van der Weyden, e la cosa è veranella misura in cui i contrari non si escludono. Inoltrenon bisogna dimenticare che il maestro di Colmar, chenon è né un copista né un accolito non ha conosciutol’arte dei Paesi Bassi attraverso il solo Rogier, bensíincontestabilmente è stato sensibile anche alle novità divan der Goes. Erede di una tecnica da orafi, questo inci-sore era sensibile ai «tretz netz» del pittore della Nati-vità Portinari. Il vigore del grafismo germanico, traspo-sto nella linea incisa sulla lastra o risparmiata sulla tavo-letta di legno, è in lui un elemento determinante. In talecampo la Germania, utilizzando ad un tempo i fini stru-menti delle arti preziose e il mestiere piú rozzo della vec-chia xilografia popolare, ha indubbiamente trovato lasua espressione piú concisa ed energica.

Questo vasto fenomeno di penetrazione trova un ter-reno favorevole in ambienti già internazionali come legrandi città dei concili, Basilea e Costanza: da que-st’ultima città Lochner era venuto a stabilirsi a Colonia.La prima generazione borgognona ma di ascendenzaneerlandese vi era nota; i Malouel, i Broederlam, gliscultori di Champmol erano ammirati e indicati comemodelli, conformemente a una tradizione secolare cheuní sempre le due regioni alle pendici del Giura. Il vigo-roso genio di Konrad Witz si nutre di tali esempi, macon eccezionale potenza inventiva e grandezza, di cui laPesca miracolosa di Ginevra, frammento di un grandetrittico eseguito prima del 1443, è la piú completaespressione. Qui il Medioevo si unisce a un sentimentomoderno dei rapporti dell’uomo e della natura, e nes-

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sun’opera, forse, ci è piú vicina. Essa supera ogni defi-nizione fondata su di una somma o un complesso diinfluenze, cosí come l’opera del tirolese Michael Pacher,scultore in legno, architetto e pittore di grandi pale d’al-tare, interessato alle esperienze padovane, ma non ita-lianizzato.

Pacher non è un isolato nel suo paese e nelle regionilimitrofe; da un secolo esse hanno continuato a dare arti-sti di buona qualità, nei quali si ritrovano, con uno stilespesso personale, i diversi momenti della pittura allafine del Medioevo. Da principio Praga e la Boemiadominarono questo ambiente, con l’incanto e lo splen-dore di una cultura raffinata. In nessun luogo, forse, lalezione di Siena e di Parigi era stata meglio intesa,meglio assimilata, e in maniera piú originale. I grandicicli di affreschi profani ne sono la prova, ma la picco-la incantevole tavoletta, nera e oro, della collezioneMorgan, basterebbe a riassumere la nota squisita di taleciviltà, nell’unità dello «stile internazionale». Nell’Au-stria stessa, con altri mezzi, si ritrova una sonorità ana-loga: nel Maestro di Heiligenkreuz e anche piú tardi, frail 1420 e il 1440, nel Maestro dell’abbazia di SanktLambrecht, la cui Vittoria di Luigi di Ungheria sui tur-chi (Graz) è il seguito naturale delle imprese guerreschee delle cacce che affascinarono il secolo xiv. Passa unagenerazione e, verso il 1470, il Maestro dello Schotten-stift apre, dietro la sua Fuga in Egitto, un paesaggioimmenso, impregnato di aria: una veduta di Viennaricca di particolari e microscopica come un paesaggio divan Eyck. Ma né l’esempio dei fiamminghi, né l’ascen-dente del Mantegna spiegano Michael Pacher (attivonel 1467, morto nel 1498) e quella linfa contadina chesi mescola alla sua scienza profonda. Un prelato assassi-nato, steso su di una rozza barella e ricoperto di un len-zuolo funebre, è circondato dal suo clero, in una catte-drale che non è un modello di oreficeria, bensí un edi-

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ficio costruito con mano artigiana, il cui portale lasciaintravedere il prolungarsi di una piccola strada. Si vedeil cadavere da dietro in avanti, in uno scorcio che nonaltera le proporzioni del suo bel viso addormentato.Cosí Pacher concepisce i Funerali di Thomas Becket(Graz), di cui ha dipinto pure l’assassinio, con vigore econcretezza. La carne, come le pietre e il legno, ha unpeso; lo spazio stesso è un solido tridimensionale e laforma monumentale vi riprende ampiezza e autorevo-lezza. Pacher è dello stesso ordine di grandezza di Kon-rad Witz, ma con una inflessione meridionale che divie-ne piú sensibile ancora nelle opere di bottega, come gliepisodi della vita di san Lorenzo (Vienna).

Quali sono dunque le costanti di quest’arte germani-ca, volta a volta affascinata da Siena, dall’Italia setten-trionale, dalla Boemia, dalla Borgogna, da van der Wey-den, e che si presenta tuttavia a noi sotto tratti cosíinconfondibili? Forse questo bisogno di intensità espres-siva, questa «fisiognomonia» teatrale di cui la sua scul-tura religiosa ci dà testimonianza fin dal secolo xiii.Non è piú la pace raccolta di van Eyck né l’ardore con-tenuto di van der Weyden, ma l’esigenza di confessio-ni piú esplicite, che non è priva di forza e di bellezza.È quanto spinge Konrad Witz a render piú densi eprofondi i colori, con una ricchezza inaudita, e a dareai bianchi stessi la lussuosa autorità di un colore sono-ro: ma questo tratto non appartiene soltanto al grandepittore, lo si ritrova fin presso i maestri danubiani. Restaforse un carattere fondamentale della pittura in Ger-mania, che conserva tuttora questa tendenza a toni piúfondi, quasi vetrificati. Ed è sempre la stessa esigenzache guida con un rigore inflessibile lo strumento del-l’incisore tedesco nella sua ricerca analitica sulla geo-grafia delle forme viventi. Questa virulenza si riconoscenaturalmente anche in Dürer. Prima di lui essa immet-te una linfa bruciante nelle vegetazioni araldiche del

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secolo xv in Germania, nelle capricciose ramosità delferro battuto, nella sigla chiomata dei calligrammi e finnella vigorosa immagine del corpo umano dalle membrarobuste e dalle forti giunture.

Cosí, nel momento stesso in cui uno stile allarga lasua influenza con forza e si manifesta con unità di modi,esso si rivela anche come un tema su cui s’esercitano levarie famiglie di spiriti. Non è stato cosí anche per quel-l’arte del secolo xiv, che presenta forse ovunque com-ponenti analoghe, ma con varietà infinite di tono e diinflessione? Tale differenziazione è notevole, quantol’ardore con cui le forme nuove sono accettate e fattefruttare a loro volta. Fenomeno piú rapido e di inten-sità ben piú variabile della vita delle lingue, nel quale laparte della reazione individuale e dell’attitudine parti-colare non deve mai essere trascurata. Studiando la dif-fusione della pittura senese in Spagna, e particolarmen-te in Catalogna, in Aragona, nel regno di Valencia, tro-veremo prove numerose di ciò che si potrebbe chiama-re provvisoriamente il vigore idiomatico delle formeimportate; in effetti esse assumono l’accento e la caden-za locale, come il viaggiatore straniero che si stabiliscain un paese lontano. Anche l’opera piú «senese» delmuseo catalano di Vich, può forse essere impunementeappesa nella sala di un museo di Siena? Ferrer Bassa,Luis Borrassá, Jaume e Pere Serra, pittori delle Verginidel latte, pittori di pale ricche di episodi, non sono sol-tanto gli allievi provinciali di una scuola eccellente. Laloro lingua è la depositaria di un istinto e di una cultu-ra esclusivamente locali. In questo piccolo ambientevivacissimo, l’influenza fiamminga agisce dapprima inmodo clamoroso e sembra dover cancellare tutto quan-to l’aveva preceduta, con quel centone troppo esaltato,che è il retablo dei Consiglieri, di Luis Dalmau. MaJaume Huguet, uno dei piú grandi e singolari artisti diquesto tempo, l’accoppia nello studio delle figure, inte-

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se come ritratti, con il suo largo senso monumentale ela sua fedeltà nell’uso degli ori, cioè con una concezio-ne decorativa dello spazio.

Il passaggio di van der Weyden a Colonia orientò ipittori di Germania verso le nuove vie. Il viaggio di Janvan Eyck a Lisbona (1427-28) fece conoscere alla Spa-gna l’arte dei Paesi Bassi. Quando si tratta di uomini ditale statura, l’ascendente della presenza ha una forza sto-rica. In Portogallo, van Eyck dipinse il ritratto di donnaIsabella, figlia di Giovanni I; lavorò certamente anchein Castiglia: il Prado conserva la copia di una Fontanadella vita che avrebbe eseguito per la cattedrale di Palen-cia. A partire da quegli anni la maniera fiamminga sidiffonde nella penisola con una potenza di divulgazio-ne che prova il suo valore universale e umano. Van derWeyden è presente a sua volta, con il trittico di Mira-flores (1445), oggi a Berlino, e i quadri fiamminghiabbondano nell’inventario della ricca collezione dei recattolici, siano essi fiamminghi di Fiandra o ispano-fiamminghi. Perfino in Andalusia, con Juan Nuñez, madapprima in Castiglia con Nicolás de León, Jorge Inglèse soprattutto il maestro di Salamanca, Gallego, la formadefinita a Bruges e a Tournai per una precisa poetica,una particolare arte del vivere, diviene familiare e natu-rale agli abitatori dei vecchi palazzi mudejar e ai loro pit-tori. Quale accordo spirituale trovarono questi commit-tenti fra questo linguaggio, cosí ricco di evidenze e disegreti, e le loro esigenze? Se si esclude il gusto per l’og-getto esotico, l’incanto dell’esecuzione miracolosa, laprofonda bellezza di una materia capace d’essere a untempo smalto, carne, pelliccia e velluto, fu forse la gran-de fantasia irrealista ad attrarli, e soprattutto il doloredi Dio e della madre di Dio che mai fu piú commoven-te; e infine quella specie di tensione superiore, che sioppone alle tenere facilità, all’elegante effusione dell’I-talia. Si crede di individuare compiutamente questo

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fenomeno in Pedro Berruguete, che ispanizzò tale mate-ria, forse insistendo su di essa con un eccesso di rigore,con una crudeltà esacerbata, unita alle sue inflessibiliarchitetture, alle sue ombre rossastre. Non toccò però alui, nella sua bottega di Ávila, la fortuna di creare ilcapolavoro della pittura gotica nel suo paese, ma, unagenerazione prima di lui, al lusitano Nuno Gonçalves,pittore d’Alfonso V nel 1450, con il retablo di san Vin-cenzo (Lisbona). Opera fuori dell’ordine comune peruna iconografia appassionata e romanzesca, per le santeavventure di un principe prigioniero e di una dinastia inlotta con l’Africa, per le impenetrabili grandi figure,d’immortale bellezza. Dalle foci della Schelda a quelledel Tago, l’Occidente fissa per sempre le sue parentelee le sue diversità morali in uno stile sontuoso, severo eprofondo, che coglie tutti gli aspetti della vita.

V.

Ma questo stile ha ovunque ugualmente dominato?Si è sostituito totalmente a tradizioni antiche negliambienti che, dianzi, concepivano e propagavano unadefinizione ecumenica del pensiero occidentale? L’artedi van der Weyden non è forse essa stessa alla con-fluenza dell’arte degli scultori francesi e della pitturaeyckiana? Certo l’Homme au verre de vin è il fratellogemello dell’Uomo dal garofano. Nelle città del Nord,ad Amiens, a Valenciennes, patria di Beauneveu, diCampin, piú tardi, dell’enigmatico Simon Marmion15,cioè nel raggio immediato delle grandi botteghe deiPaesi Bassi, l’azione di questi ultimi è diretta e profon-da. O piuttosto è lo stesso spirito, è lo stesso paese. LaBorgogna, anch’essa, è terra fiamminga a partire da Jeande Beaumetz, Malouel e Bellechose. È naturale cherimanga a lungo fedele alle lezioni dei maestri del Nord,

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anche quando, nella seconda metà del secolo xv, acco-glie altri influssi – forse quello di Konrad Witz – masempre sulla base della grande tradizione di van derWeyden, nelle pitture murali di Beaune e d’Autun, negliarazzi con storie della Vergine disegnati da Pierre Spi-cre. Ma esistono numerosi altri centri, sia vecchi chenuovi; Parigi, ove si compiono tante esperienze, la Loiradi Carlo VII e di Luigi XI, nuovo asse della vita fran-cese, l’Anjou di re Renato, il vasto Mezzogiorno, che sistende da Nizza alla Catalogna, con una grande città dipittori, Avignone. Parigi conserva il suo carattere, mal-grado la sua vitalità sia stata un po’ indebolita dallaguerra; conserva un raffinato equilibrio tra forze diver-se, messe a punto, filtrate da un gusto esigente, e dal-l’aurea misura della urbanità. In un’epoca in cui lo stile«fiammingo» non era affatto acquisito, nell’ambientereale, almeno in parte, lo si accoglie a poco a poco attra-verso ricerche successive e accordi delicati con la tradi-zione di Parigi. L’accento di Parigi si conserva ed èriconoscibile in molte opere di miniatura, dalle Heuresde Bedford a certe pagine di maestro François. L’osses-sione del determinismo geografico e del paesaggio dellaTurenna non deve impedirci di riconoscere questoaccento nello stesso Fouquet. In questo gran secoloromantico, è un indizio, non di regresso, ma di misura,di sottile analisi e di serenità morale. Un filtro dalla retefitta, intessuta da secoli, non lascia passare ogni cosa.

È possibile rendersene conto con un paragone, con-frontando l’eredità dei de Limbourg in questi maestri eciò che essa diviene nell’Ovest, presso il miniatore delleHeures de Rohan (Parigi, Bibliothèque Nationale)16. Sidirebbe che questo genio sconvolgente sorga dalleprofondità del Medioevo e che, per un fenomeno direcupero, forse comune a ogni periodo estremo di ungrande ciclo storico, egli risusciti improvvisamente leantiche visioni apocalittiche combinandole alle osses-

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sioni tragiche del secolo. Realismo e irrealismo contra-stano nella sua arte con potenza inaudita; realismo disognatore che tende all’abnorme e che conferisce nonsolo a Dio, ma al pastore dormente dell’Annuncio aipastori proporzioni colossali. Il corpo del defunto davan-ti al suo giudice, è un cadavere secco, rigido e nudo, suun campo di ossami, dinnanzi a un terribile giustiziere,che è a un tempo l’Antico dei giorni e il Cristo di pietà.Questa figura straordinaria presiede al Giudizio finale,dove gli angeli strappano i corpi esili e pallidi dei risu-scitati dal macabro terriccio di un cimitero. Nella Depo-sizione dalla croce, la Vergine è come spezzata nellebraccia di san Giovanni, e si china sopra il Figlio, finoa cadere, mentre il viso enorme del Padre Eterno con-templa la scena. Questa strana arte, che pare confonde-re l’ordine dei tempi, precede tuttavia di pochi anni l’e-quilibrio pacato e raffinato di Jean Fouquet, cosí comele delicate ricerche di luce e la sensibilità tutta cortesee mondana del maestro che ha dipinto per re Renato leminiature del Cuer d’Amours Espris (Vienna)17. È certoun carattere delle epoche di tal genere, favorito dall’e-clettismo dei gusti e dai contatti inattesi, quello di libe-rare grandi forze originali che uniscano in sé i contrari.

La Francia meridionale ce ne offre piú di un esempio.Essa si conserva fedele alle sue preferenze e alla sua tra-dizione, ma è, come ogni ambiente vivo, un terreno d’in-contri. La Pietà di Villeneuve-les-Avignon si avvicina aifiamminghi, se si vuole, per il ritratto del donatore, èpreeyckiana per il fondo d’oro, ma la figura della Mad-dalena e il cadavere del Cristo, nervosamente inarcato,in una rigidezza funebre che conferisce un accento pate-tico alla eleganza della forma, non possono riferirsi a nes-sun’altra opera dell’arte delle scuole settentrionali o del-l’arte italiana. Nella stessa regione, fra Aix e Avignone,lavorano pittori molto diversi come Enguerrand Cha-ronton, della diocesi di Laon, il Maestro dell’Annuncia-

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zione di Aix e Nicolas Froment di Uzès18. Ciò che è sicu-ro è che essi hanno rinunciato alle lezioni senesi e che pervie diverse sono sempre piú o meno toccati dalla manie-ra fiamminga; ma restano fedeli a una tradizione antica,e Charonton piú profondamente di tutti, nella Incoro-nazione della Vergine del 1453, anch’essa composta atimpano (non, a dire il vero, secondo il tipo iconografi-co fissato a Senlis e modificato a Notre-Dame di Parigi,e tuttavia secondo una divisione delle masse e delle figu-re che deriva dall’ordine monumentale)19. Si può anchedire che la concezione è tutta romanica, e non gotica, enon è questo l’elemento meno notevole di un’opera, checonferma singolarmente ciò che abbiamo detto a propo-sito del «risveglio» romanico alla fine del Medioevo. Illargo paesaggio della Crocefissione, al di sopra del qualeriposa l’insieme, è un’architrave; nella parte superioreDio Padre e Cristo, esattamente simmetrici e anchesovrapponibili, compongono per via della loro intimaunione con Maria, posta al centro, un personaggio tri-plice, che la cifra ornamentale dell’ampio mantello dellaVergine, abbraccia e conchiude. Da una parte e dall’al-tra gli angeli, i santi e gli eletti obbediscono alla regolagerarchica delle proporzioni che, dall’architrave al tim-pano, e dalla cornice esterna al centro, accresce o dimi-nuisce la dimensione dei personaggi. Esempio non anco-ra ben inteso della ripresa dei procedimenti antichi, tantevolte attuati nelle chiese del secolo xii. Cosí si viene adarricchire la nostra serie di «pittori di timpani», il cuisguardo, rivolto al passato, valica lo stadio gotico delGiudizio finale di Beaune. Cosí comincia a definirsi ainostri occhi una schiera di maestri che si rifanno agli scul-tori delle chiese e che conservano nelle loro tavole leregole delle composizioni architettoniche. A Rogier diTournai, a Enguerrand Charonton bisogna aggiungereFouquet, ma per altri motivi.

Una rapida analisi dell’opera di Fouquet20, pittore di

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Carlo VII e di Luigi XI, nato a Tours verso il 1420,mette di solito in maggior luce nella sua arte l’incanto,l’equilibrio, la misura dei paesi della Loira, che diven-gono via via, fra le regioni del Nord e le regioni meri-dionali, un centro attivo della nostra civiltà; il suo talen-to rappresenterebbe, con quello dello scultore MichelColombe, ciò che si è definita la «détente» francese,dopo le violenze e le convulsioni dell’ultimo Medioevo.Noi lo conosciamo attraverso i libri dei conti regi, letestimonianze dei contemporanei, attraverso le minia-ture indubitabili delle Antiquités judaïques, e un buonnumero di altre opere che possono essergli attribuite consicurezza. Le Heures d’Etienne Chevalier, conservate aChantilly, per questo riguardo, non dànno luogo a incer-tezze. Ha viaggiato in Italia, dove il suo ritratto del papaEugenio IV gli procurò gran fama. Nella sua città nata-le fu una specie di sovrintendente alle arti, esperto efamoso in ogni tecnica. La sua arte è moderna per lasapienza profonda delle forme della vita, per la squisitapoesia del paesaggio e per la sua misura, per il senso dellegrandezze della storia. Ma Fouquet anzitutto appartie-ne al Medioevo francese, non soltanto per la sua misti-ca, per l’iconografia del suo paradiso, composto, comeun portale di chiesa, da archivolti di eletti e di serafini,non soltanto per l’accordo con le rappresentazioni tea-trali e per la viva immagine del mistero di santa Apol-lonia, ma per i legami che lo allacciano alla sculturamonumentale nei suoi grandi ritratti, dipinti con unaausterità sorprendente, se si pensa all’incanto dell’in-venzione, alla sensibilità delle sue miniature. Che sitratti di Carlo VI, d’Etienne Chevalier, di GuillaumeJouvenel des Ursins o della Vergine sotto i lineamentidi Agnès Sorel, egli interpreta la figura come un solidonello spazio, come un blocco di pietra tenuemente rosa-ta che inserisce nell’ambiente circostante con larghezza.Ha fatto grande l’uomo nel senso che gli ha restituito

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tutta la sua pienezza. Mentre van Eyck procede pazien-temente nei dettagli dell’analisi, conduce la sua ricercasulla particolarità del disegno e del gioco dei valori, finoall’infinitamente piccolo della sostanza vivente, presen-tando il suo modello in modo che ne risulti sottolineatatutta l’intensità dello studio, Jean Fouquet costruisce isuoi ritratti con masse larghe, con piani semplici, dol-cemente stesi. Questa vigorosa semplicità di taglio, que-sta tenerezza di modellato si ritrovano già nella scultu-ra francese delle botteghe reali, alla fine del secolo xiv.Fouquet ne ha raccolto l’eredità.

Ecco l’essenziale, l’originalità profonda di questagrande scuola francese del secolo xv: la qualità monu-mentale. Essa permette infatti di distinguere con cer-tezza lo spirito della forma e la sconcertante costanza diuna tradizione. La si misconosce, se ci si limita a pesa-re convenzionalmente le influenze fiamminghe e quelleitaliane. Le prime sono notevoli, le seconde comincianoa delinearsi, ma come apporti esotici, e tuttavia le unee le altre sono fenomeni secondari nei maestri francesi.Bisogna anzitutto ricordare le loro origini, la terra su cuisono cresciuti, la piú ricca di monumenti in pietra, lelunghe dinastie di scultori. Si può credere, a prima vista,che il Maestro di Moulins, al tramonto del secolo, sfug-ga a questa regola, ma le figure della Natività d’Autunsono della stessa famiglia, hanno la stessa densità deisanti scolpiti sotto i portici delle chiese; la Vergine dellacattedrale di Moulins appare come in una teofania, cir-condata da angeli che occupano tutto lo spazio libero21.Bourdichon, continuatore di Fouquet, è squisito, masolido, le sue morbidezze di modellato sono possibili solosu volumi resistenti, solidi, distesi. Al tramontare delMedioevo, ormai ai primi anni del secolo xv, e anche piútardi, lo spirito medievale si conserva in ciò che vi è dipiú intrepido. L’arte francese ne conserverà il privilegiofondamentale attraverso le sue piú ardite esperienze.

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1 [Cfr. h. david, Philippe-le-Hardi, duc de Bourgogne et co-régent deFrance. Le train somptuaire d’un grand Valois, Dijon 1947].

2 [Sulla situazione della scultura in Francia alla fine del xiv secolocfr. g. troescher, Die burgundische Plastik des ausgehenden Mittelaltersund ihre Wirkungen aul die europäische Kunst, Frankfurt-am-Main 1940.La discussione rimane ancora aperta su parecchi punti come, ad esem-pio, la esatta definizione dello stile e dell’influenza di André Beaune-veu. A questo riguardo cfr. p. pradel, Les tombeaux de Charles V, in«Bulletin monumental», 1951, pp. 273-96; l. labande-mailfert, LePalais de Justice de Poitiers, in Congrès archéologique de Poitiers, 1951,pp. 27-43; h. bober, André Beauneveu and Mehun-sur-Yèvre, in «Spe-culum», 1953, pp. 741-53].

3 Il cartulario dell’abbazia di Saint-Etienne a Digione ricorda, indata 7 aprile 1404: «Claus Sluter de Orlandes, ouvrier d’ymages».«Orlandes» è tradizionalmente interpretato come una particolare gra-fia di «Hollande». Lo Andrieu vede in questa parola la trascrizione diuna località del Boulonnais. Sappiamo d’altra parte che Claus deWerve, nipote di Sluter, era di Hatheim in Olanda, ciò che confermal’origine olandese della famiglia. Infine un atto di remissione, scoper-to da H. Stein, segnala a Bourges, nel settembre 1385, un certo Clausde Sleusseure, «dit de Mayence». Sluter lavorava nel marzo del mede-simo anno a Digione come aiuto di Jean de Marville, al quale succe-dette nel 1389. Nel 1392 si recò a Parigi, nel 1393 a Mehun-sur-Yèvre, ove studiò le opere di André Beauneveu; nel 1395 era a Liegi.Oltre alla tomba di Filippo l’Ardito, progettata da Jean de Marville (?),il portale della Certosa e il pozzo di Mosè, eseguí numerosi lavori, spe-cialmente nei castelli di Argilly e di Germolles (1397-99). Si presumeche sia morto nel gennaio 1406, dopo essersi ritirato (1404) nell’abba-zia di Saint-Etienne. Claus de Werve lavorò con suo zio a partire dal1396. Condusse a termine nel 1410 la tomba di Filippo l’Ardito (mortonel 1404). L’esecuzione della tomba di Giovanni senza Paura e diMargherita di Baviera fu rinviata al 1435. Non era finita nel 1439,anno della morte dell’artista, a cui Filippo il Buono diede come suc-cessore l’aragonese Juan de La Huerta (1443-62), sostituito a sua voltada Antoine Le Moiturier, scultore di Avignone. La tomba fu termina-ta nel 1476. Al Le Moiturier è attribuita la tomba di Philippe Pot, laquale è però superiore alla qualità ordinaria di questo maestro. [Lamonografia piú recente su Sluter è quella di h. david, Claus Sluter, Paris1951, dove purtroppo non sono presi in esame il problema delle origi-ni dello stile di Sluter e quello delle sue prime opere, antecedenti alperiodo di Digione. Riguardo a queste delicate questioni, oltre agliimportanti contributi di G. Troescher, cfr. j. duverger, De brusselschesteenbickeleren der XIVe en XVe eeuw... Klaas Sluter ecc., Ghent 1933; id.,Brussel als Kunstcentrum in de XIVe en de XVe eeuw, Antwerp-Ghent

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1935; a. liebreich, Récherches sur Claus Sluter, Bruxelles 1936; d.roggen, Klaas Sluter voor zijn Vertrek naar Dijon in 1385, in «GentseBijdragen tot de Kunstgeschiedenis», 1945-48, pp. 7-40. Sluter si erastabilito a Bruxelles nel 1380 e gli si possono attribuire, con una certasicurezza, un buon numero di capitelli scolpiti del municipio di Brugese alcuni Profeti provenienti dal municipio di Bruxelles].

4 [Questi dipinti sono stati descritti da m. thibout, La chapelle deKermaria-Nisquit et ses peintures murales, in Congrès archéologique deSaint-Brieuc, 1949, pp. 70-81].

5 Verso il 1410, quando Jean de Berry aveva quasi settant’anni, leTrès Riches Heures (Chantilly) furono iniziate da tre nipoti di JeanMalouel, ai quali fu dato il nome della città donde erano originari, Lim-bourg, nella Gheldria. I due primogeniti, Pol ed Hennequin, erano giàal servizio del duca nel 1402. Il loro fratello minore, Hermant, eraapprendista nel 1399, dapprima come orafo. Nel 1411, tutti e tre ave-vano il titolo di «valet de chambre» del principe. Alla morte di Jeande Berry, nel 1416, erano state portate a termine trentanove grandiminiature, ventiquattro piccole e ottantasei iniziali ornate. Alcunecomposizioni erano rimaste allo stato di disegno. Alla fine del secoloCarlo di Savoia ne affidò il compimento a Jean Colombe (1485), fra-tello di Michel Colombe, il quale eseguí ventitre grandi miniature etrentotto piccole (ff. 52-199) oltre alle iniziali che mancavano: Cfr.paul durrieu, Les Très Riches Heures du duc de Berry, Bibliothèque del’Ecole des Chartes, LXIX, 1903; g. hulin de loo, Les Très RichesHeures de Jean de France, in «Bulletin de la Société d’histoire et d’ar-chéologie de Gand», 1903; h. malo, Les Très Riches Heures du duc deBerry, Paris 1933.

6 [L’origine italiana dei paesaggi che illustrano le Tres Riches Heu-res e il Libro d’Ore già nella collezione Chester-Beatty, anteriore dipoco, è stata dimostrata da o. pächt, Early Italian Nature Studies andthe Early Calendar Landscape, in «Journal of the Warburg and Cour-tauld Institutes», XIII, 1950, pp. 13-47].

7 Jan van Eyck, originario della Gheldria, nacque tra il 1385 e il1390. Aveva senza dubbio lavorato prima del 1417 per Guglielmo diBaviera, conte d’Olanda (collaborazione alle Ore di Milano e a quelledi Torino?), e, dopo il 1422, per il fratello di quest’ultimo, Giovannidi Baviera. Entra nel 1425 al servizio di Filippo il Buono. Dal 1425 al1430 viaggia nel Portogallo e nella Spagna. Stabilitosi a Bruges nel1432, vi termina l’altare dell’Agnello Mistico. Sposatosi nel 1433 epadre d’un figlio nel 1434, nel medesimo anno dipinse il ritratto degliArnolfini. Si presume che la Vergine del cancelliere Rolin sia contem-poranea alla pace di Arras (1435). La Vergine del canonico van derPaele è del 1436. Jan van Eyck morí a Bruges prima del 9 luglio 1441.Suo fratello Hubert, morto nel 1426, avrebbe iniziato l’altare dell’A-

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gnello Mistico. Nulla di preciso si sa circa la sua attività e la sua colla-borazione con Jan è stata molto discussa: cfr. k. voll, Die Werke desJan Van Eyck, eine Kritische Studie, Strassburg 1900; m. friedländer,Altniederländische Malerei, vol. I, Berlin 1924, e soprattutto e. renders,Hubert Van Eyck, Paris e Bruxelles 1933. La tesi tradizionale è accet-tata da a. schmarsow, Hubert und Jan Van Eyck, Leipzig 1924, c f.winckler, Die flämische Buchmalerei des XV. und XVI. Jahrhunderts,Leipzig 1925. [A partire dal 1938 sono state dedicate moltissime pub-blicazioni ai fratelli van Eyck. È di particolare importanza il volumedi c. de tolnay, Le maître de Flémalle et les frères Van Eyck, Bruxelles1939, che, in contrasto col punto di vista tradizionale, dimostra cheparecchie invenzioni attribuite ai van Eyck erano in realtà già presen-ti nelle opere, un poco anteriori, di Robert Campin (il Maestro di Flé-malle). Questa ipotesi ha riscosso larga approvazione. La situazioneattuale degli studi sulla pittura fiamminga risulta dal volume di e.panofsky, Early Netherlandish Painting. Its Origins and Character, Cam-bridge (Mass.) 1953; cfr. anche l. van puyvelde, The Flemish Primi-tives, Bruxelles 1948; id., La peinture flamande au siècle de van Eyck,Bruxelles 1953 e l’eccellente messa a punto di o. pächt, A New Bookon the Van Eycks, in «The Burlington Magazine», 1953, pp. 249-53,scritta come recensione a l. van baldass, Jan Van Eyck, London 1952.Ancora molto dibattuto è il problema del Libro d’Ore di Torino; l’at-tribuzione della «mano G» ad un maestro olandese proposta per primoda M. Dvorák ed accettata, tra gli altri, da C. de Tolnay e O. Pächt,è respinta da E. Panofsky, che propende piuttosto per l’attribuzionedi queste miniature a Jan van Eyck durante il suo soggiorno all’Aja nel1422-24. Riguardo al problema di Hubert van Eyck, nonostante l’at-teggiamento negativo mantenuto da e. renders, Jan van Eyck et lepolyptyque: deux problèmes résolus, Bruxelles 1950, la sua esistenza èora accettata da molti studiosi e il volume di p. b. coremans, L’AgneauMystique au laboratoire ecc., Collezione «Les Primitifs Flamands», serieIII, vol. II, Antwerp 1953, getta piú solide basi in favore dell’ipotesidi una partecipazione comune dei due fratelli nella pala d’altare diGand. Per quanto riguarda l’aspetto tecnico della pittura fiammingacfr. j. maroger, The Secret Formulas and Techniques of the Old Masters,New York 1948 e p. b. coremans, r. j. gettens, j. thissen, La tech-nique des primitifs flamands, in «Studies in (Etudes de) Conservation»,I, 1952].

8 Cfr. e. panofsky, Jan Van Eyck’s Arnolfini Portrait, in «The Bur-lington Magazine», 1934. Il quadro che commemora e certifica l’unionedi Giovanni Arnolfini da Lucca, residente a Bruges prima del 1421, piútardi consigliere del duca di Borgogna, poi direttore delle finanze inNormandia, e di Giovanna Cenami, essa pure lucchese, ma di una fami-glia stabilitasi a Parigi, figura, senza contestazione, nell’inventario di

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Margherita d’Austria, in cui l’Arnolfini è detto «Hernoul le fin». Fudescritto dal van Mander, che non l’aveva visto, nella sua biografia divan Eyck (1664): interpretando l’espressione «per fidem», che nonsignifica altro che l’impegno di una fede giurata, codesto autore feceintervenire nella sua descrizione immaginaria una personificazione alle-gorica della Fede che unisce le mani degli sposi, eccellente esempio diun equivoco che genera una notizia falsa. Tutti gli elementi della com-posizione, distribuiti con una simmetria solenne, evocano il sensoprofondo della cerimonia nuziale, a cui Jan van Eyck attesta d’esserstato presente. Non soltanto il cane, simbolo della fedeltà ma l’unicacandela che brucia sul lampadario, cero nuziale, ricordo dell’anticataeda, ecc. Se la mano sinistra del promesso sposo si stringe alla destradella promessa sposa, è per consentire all’Arnolfini di alzare la manodestra nel gesto della preghiera, equilibrando cosí il volume del corpoe «chiudendo» questa parte della composizione. Questa pagina miste-riosa, quasi mistica, trasfigura l’evento.

9 Rogier de la Pasture, o van der Weyden, nacque a Tournai allafine del secolo xiv. Un documento d’archivio del 1426 gli attribuisceil nome di maestro e ci fa sapere che la città di Tournai gli accorda ottomisure di vino, rendendogli con ciò maggior onore che allo stesso vanEyck. Lo si trova stabilito a Bruxelles nel 1436, anno in cui è pittoreufficiale della città, il che induce a credere che egli vi si fosse stabili-to e reso noto già da un certo tempo. La Deposizione dalla croce del-l’Escuriale fu dipinta nel 1435 o nel 1436 per i balestrieri di Lovanio.Il Giudizio Finale dell’ospizio di Beaune è anteriore al 1445. Nel 1450fece un viaggio a Roma e rimase in relazione con Francesco Sforza econ la duchessa di Milano che gli raccomandarono un artista milane-se, Zanetto Bugatto. Il Trittico che rappresenta il Cristo fra san Gio-vanni e santa Maddalena (Louvre) fu dipinto per Jean de Braque nel1451 o nel 1452. Morí pieno di gloria e di onori nel 1464, a Bruxel-les, e fu sepolto a Sainte-Gudule. D’altra parte, un documento scopertoda Alexandre Pinchart nel 1867 indica che un certo Rogelet de la Pastu-re era entrato come apprendista nella bottega di Robert Campin (Valen-ciennes 1378 - Tournai 1444) a Tournai, nel 1427, e che ottenne l’au-torità di maestro nel 1432. Come si può ammettere che il medesimopittore sia stato già famoso a Tournai nel 1426 e nello stesso tempo viinizi il proprio apprendistato l’anno seguente? E come distribuire leopere della prima maniera? Si è tentato di raggrupparle intorno ad untrittico che apparteneva alla famiglia de Mérode e dato come prove-niente dall’ipotetica abbazia di Flémalle, e si postulò l’esistenza di unMaestro di Flémalle, identificato dapprima con Jacques Daret, condi-scepolo di Rogelet presso Campin, poi col medesimo Campin, quandoHulin de Loo scoprí opere sicure di Daret, assai inferiori. Paul Jamotrestituisce a van der Weyden l’Annunciazione de Mérode (dipinta tra

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il 1425 e il 1428). Secondo jules destree, Roger de la Pasture, Paris eBruxelles 1930, il pittore di Tournai Rogier de la Pasture e il pittoreRogelet de la Pasture, pure di Tournai, contemporaneo del primo,sono una persona sola e l’arte di Tournai, città di tradizioni francesi,è assai diversa dall’arte di Bruges. Secondo e. renders, Rogier van derWeyden et le problème Flémalle-Campin, Bruges 1931, Rogier de laPasture stabilitosi a Bruxelles all’epoca in cui Rogelet lavorava pressoCampin, è un grande pittore compenetrato della scienza eyckiana, alquale bisogna restituire la maggior parte delle opere attribuite al Mae-stro di Flémalle, mentre Campin è un decoratore mediocre e uno scan-daloso demagogo, Rogelet un pittore oscuro e Tournai un ambienteestraneo alle arti. Cfr. gli articoli di p. jamot, Roger van der Weyden etle prétendu Maître de Flémalle, in «Gazette des Beaux-Arts», 1928 (tesiRenders); di e. michel, in «Gazette des Beaux-Arts», 1931 (tesiDestrée), e di m. friedländer, in «Monatshefte für Kunstwissen-schaft», 1931, (tesi Renders). [L’importanza di Campin è stata riven-dicata da ch. de tolnay, Le Maître de Flémalle et les frères Van Eyck,Bruxelles 1939, le cui opinioni, nonostante qualche discordanza nelleattribuzioni, sono state praticamente accettate da e. panofsky, EarlyNetherlandish Painting. Its Origins and Character, Cambridge (Mass.)1953. Su Rogier van der Weyden, oltre all’opera di E. Panofsky, cfr.h. beenken, Rogier van der Weyden, München 1951].

10 [Cfr. j. maquet-tombu, Les tableaux de justice de Rogier van derWeyden à l’Hôtel de Ville de Bruxelles, in «Phoebus», 1949, pp. 178e sgg].

11 [Su Dirk Bouts cfr. w. schöne, Dieric Bouts und seine Schule, Ber-lin 1938, e l. von baldass, Dirk Bouts, seine Werkstatt und Schule, in«Pantheon», 1940, pp. 93 sgg.].

12 Hugo van der Goes fu parimenti autore di tele dipinte e di car-toni per arazzi di straordinaria ampiezza e magnificenza: cfr. f. h. tay-lor, A Piece of Arras of the Judgment ecc., in «Worcester Art MuseumBulletin», 1935-36, pp. 1 sgg. Il Giudizio finale di Worcester appar-teneva ad una serie di otto arazzi che rappresentavano la storia alle-gorica del Cristianesimo. I rapporti con la messa in scena dei misterinon mancano. Esso fu eseguito in occasione delle nozze di Carlo ilTemerario e di Margherita di York (1486) dei quali vi compaiono iritratti. Vi si legge altresí il nome del maestro-tessitore, Philippe deMol, famoso a Bruxelles in quell’epoca, al quale si devono altre seriecelebri, la Vita della Vergine di Madrid, i Trionfi del Musée des Artsdécoratifs di Lione, ecc.

13 [Oltre a k. voll, Memling, Des Meisters Gemälde, Stuttgart eLeipzig 1909 (Klassiker der Kunst, vol. XIV), cfr. l. von baldass,Hans Memling, Wien 1942 e m. j. friedländer, Memling, Amster-darn 1950].

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14 [L’opera fondamentale su Bosch si deve a ch. de tolnay, Hie-ronymus Bosch, Basel 1937. Si può trovare un elenco delle pubblicazionipiú recenti in: g. ring, Hieronymus Bosch, in «The Burlington Maga-zine», 1950, pp. 28-29; c. d. cutler, The Lisbon Temptation of St.Anthony by Jerome Bosch, in «Art Bulletin», 1957, pp. 109-26].

15 Si incontra Marmion ad Amiens tra il 1449 e il 1454, a Valen-ciennes nel 1458. Eseguí un Libro d’Ore per Filippo il Buono tra il1467 e il 1470. Morí nel 1489. L’opera base che permette di avanza-re altre attribuzioni sono le Storie di san Bertin (Berlino e Londra),senza dubbio da lui eseguite tra il 1454 e il 1459 per l’abate Guillau-me Fillastre a Valenciennes, dove Marmion era il miglior pittore. Intor-no a questa opera praticamente sicura si sono raggruppate alcune tavo-le, l’Invenzione della vera Croce al Louvre, la Crocefissione e il SanGirolamo della collezione Johnson (Filadelfia), la Pietà di Strasburgo,nonché alcuni manoscritti come il Pontifical de Sens, il Livre des sept âgesdu monde, il Fleur des Histoires, tutti e tre a Bruxelles, ecc.: cfr. f.winckler, Simon Marmion als Miniaturmaler, in «Jahrbuch der K.Preussischen Kunstsammlungen», 1913; e. michel, A propos de SimonMarmion, in «Gazette des Beaux-Arts», 1927.

16 Secondo p. durrieu, in «Revue de l’Art», 1912, il Maestro delleHeures de Rohan è in realtà un maestro provinciale. Secondo a. hei-mann, Der Meister der Grandes Heures de Rohan und seine Werkstatt, in«Städel Jahrbuch», 1932, che distingue le opere del maestro da quel-le della sua bottega, si tratta di un atelier parigino che si ricollega all’ar-te delle Heures de Boucicaut e dei fratelli de Limbourg. L’attività di que-sto maestro si colloca tra il 1415 e il 1430. m. meiss, in «Gazette desBeaux-Arts», 1935, riconosce la maniera del Maestro delle Heures deRohan in un disegno del museo di Braunschweig, già studiato da p.lavallee, Le dessin français du XIIIe au XVe siècle, Paris 1930: stesso stileallungato delle figure, medesima qualità lineare, medesimo sentimen-to patetico. [Per quanto riguarda questo maestro, ora cfr. j. porcher,Les Grandes Heures de Rohan (Les Trésors de la Peinture Française, I,7), Genève 1943; id., Two Models for the «Heures de Rohan», in «Jour-nal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1945, pp. 1-6; id., TheRohan Book of Hours, London 1959; e. panofsky, The de Buz Book ofHours, a New Manuscript from the Workshop of the Grandes Heures deRohan, in «Harvard Library Bulletin», 1949, pp. 163 sgg. Attual-mente anche una tavoletta dipinta del museo di Laon è attribuita alMaestro delle Heures de Rohan: cfr. g. ring, A Century of French Pain-ting, 1400-1500, London 1949, n. 89, tavv. 41-42].

17 [Cfr. e. trenkler, Das Livre du Cuer d’Amours Espris des HerzogRené von Anjou, Wien 1946].

18 Nicolas Froment è noto per due trittici l’uno al Museo degli Uffi-zi, firmato e datato 1461, del quale la parte di centro rappresenta la

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Resurrezione di Lazzaro, l’altro nella cattedrale di Aix (1475-1476),con l’episodio del roveto ardente. Il re Renato e sua moglie, Jeanne deLaval, sono ritratti sulle ante laterali di quest’ultimo. Renato d’Angiò,conte di Provenza, re di Sicilia, anch’egli pittore, è un esempio dell’e-clettismo del gusto presso i grandi amatori d’arte del tempo. In basead una nota di Jean Robertet, van der Weyden e il Perugino eranoannoverati fra i pittori del «feu roi de Sicile». [Sul tema del rovetoardente cfr. e. harris, Mary in the Burning Bush: Nicolas Froment’sTriptych at Aix-en-Provence, in «Journal of the Warburg Institute»,1938, pp. 281-86].

19 [Questo famoso dipinto è stato oggetto di una monografia daparte di c. sterling, Le Couronnement de la Vierge par EnguerrandQuarton, Paris 1939].

20 La ricostruzione dell’attività di Fouquet si fonda su di una notadi François Robertet, che lo designa quale autore di undici delle minia-ture che decorano un manoscritto delle Antiquités judäiques comincia-to per Jean de Berry da un maestro della bottega dei de Limbourg (Pari-gi, Bibliothèque Nationale, ms fr. 247). Sappiamo d’altra parte chedipinse alcune tavole per l’ordine di San Michele e la BibliothèqueNationale di Parigi possiede un esemplare degli statuti dell’Ordine conuna bella miniatura che rappresenta Luigi XI in atto di presiedere uncapitolo dei dignitari (ms fr. 19 819). Un medaglione a smalto, col suoritratto e col suo nome (Louvre), faceva parte di un dittico, un tempoa Notre-Dame di Melun, che mostrava su uno degli sportelli EtienneChevalier in atto di pregare, accompagnato dal suo santo patrono (Ber-lino), e sull’altro la Vergine col Bambino (Anversa). Strette parenteledi stile consentono di raggruppare intorno a queste tavole il Guillau-me Jouvenel des Ursins e il Carlo VII del Louvre. L’Etienne Cheva-lier, ritratto nel Libro d’Ore già appartenuto a questo signore (Chan-tilly), è del medesimo maestro dell’Etienne Chevalier di Berlino, e leminiature di questo manoscritto sono imparentate con quelle delleAntiquités judäiques, quelle del Boccaccio di Monaco e quelle delleGrandes Chroniques de France (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms fr.6465), ecc. Il nome di Fouquet ritorna piú volte nei libri dei conti, el’abbiamo trovato usato anche da pittori di Angers in un’epoca piú anti-ca. Il viaggio in Italia e il ritratto (perduto) di Eugenio IV ci sono notiattraverso il Filarete e Vasari. Un documento di Tours (1481) parladella vedova del pittore. Sull’arte di Fouquet, oltre ai lavori di P. Dur-rieu, cfr. il nostro studio, Le style monumental dans l’art de J. F., in«Gazette des Beaux-Arts» 1936. [Dopo il 1938, due sono le monografiededicate a Fouquet: k. g. perls, Jean Fouquet, Paris e London 1940 ep. wescher, Jean Fouquet und seine Zeit, Basel 1945. Cfr. anche gliimportanti articoli di o. pächt, Jean Fouquet: a Study of his Style, in«Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1940-41, pp. 85

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sgg., e di j. white, Developments in Renaissance Perspective, I, in «Jour-nal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1949, pp. 58 sgg. spe-cialmente pp. 61-67].

21 [Il Maestro di Moulins fu pittore sia di vetrate che di tavole; puòessere identificato con Jean Prévost, chiamato anche Jean le Peintre oJean le Verrier, la cui carriera si può seguire da Lione a Moulins, dovegiunse nel 1498: cfr. p. durieux, Les Maîtres de Moulins, Moulins 1946.Recente è la monografia di m. huillet d’istria, Le Maître de Moulins,Paris 1961].

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Capitolo terzo

Il Medioevo nel Rinascimento italiano

I.

Potrebbe anche sembrare che noi abbiamo cosí esau-rito un ciclo storico, che l’Italia non ci appartenga piúe che, se ne tentassimo lo studio nella prima metà delsecolo xv, entreremmo in un’altra età e in un mondonuovo. In verità, la nozione di Rinascimento, anche seresa piú storica dall’analisi dei fenomeni di transizionepesa ancora su noi con il suo valore assoluto. Forse la cri-tica dei secoli xvii e xviii vedeva piú esattamente quan-do definiva «gotiche» le forme precedenti a Raffaello.Alcune osservazioni preliminari ci aiuteranno a vederein una prospettiva piú esatta questi cinquant’anni diciviltà italiana, che si contano fra le grandi epoche dellastoria dell’uomo, ma che non potrebbero essere isolatisenza commettere un errore fondamentale. Se il Medioe-vo italiano è già toccato da ciò che si suole chiamare spi-rito della rinascenza, il Rinascimento italiano ai suoiinizi è essenzialmente un fatto medievale.

L’Italia dei secoli xiii e xiv accoglie pienamente laconcezione gotica del mondo, con inquietudine invecequella romana. L’una le conferisce uno stile, cioè unaforma della vita, una forma dello spirito, l’altra le ispi-ra una nostalgia che trova solo eccezionalmente la suaforma. La prima non riesce a imporsi nel campo del-l’architettura, ma da essa nascono tre figure di uomini

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che hanno un significato universale, san Francesco,Dante, Giotto. La seconda trova solo sporadicamente ilsuo momento, il suo modello e l’artista che le dà figura:Cavallini, Nicola Pisano. La Capua imperiale non è altroche un fatto episodico e forse solo la vecchia Romacavalliniana, la città della grande tradizione pontificia,avrebbe potuto rapidamente concretare questo sogno inuna reale e vigorosa vita artistica senza la cattività avi-gnonese, ma cosí non fu. A lungo, per la grandezza del-l’arte italiana, il nostalgico sogno della rinascita classi-ca ha conservato, se si può dire, una qualità puramentetonale, capace di dare una sfumatura inconfondibile auno stile, di imprimergli un certo accento, ma non dipiegarlo alle forme dell’imitazione.

Non era soltanto nostalgia in verità, bensí appassio-nato amore che, in un senso piú generale, superava l’o-rizzonte dell’umanesimo e che, durante la prima metàdel secolo xv, lavorò con mirabile lena a ogni specie dirinnovamento. Ma l’Italia vive con l’Europa, segue –con qualche lentezza – la stessa curva del tempo e que-sto «risveglio», questa attività non sono fenomeni spe-cificatamente italiani. Negli stessi anni, le botteghe bor-gognone e fiamminghe ne davano esempi di cui abbia-mo già considerato l’importanza. Claus Sluter precedeDonatello e van Eyck precorre i costruttori dello spazioe crea una nuova materia pittorica. La storia dell’archi-tettura fiammeggiante non è quella di un esaurimento,ma di una profusione, di una forma prorompente divitalità. Se è giusto dire che si basa su deviazioni eanche su controsensi, da questi stessi ha tratto una note-vole ricchezza d’effetti. Infine, il possente accordo delleforme superiori dell’attività spirituale con la vita e lepassioni degli uomini, il gusto dei principi e l’interessedelle città per le cose belle, è un carattere comune a ognicultura occidentale in quest’epoca, come lo provanoCarlo V, Jean de Berry, i duchi di Borgogna, le città

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fiamminghe e tedesche, Bruges, Gand, Tournai, Col-mar, Basilea, Norimberga.

Gli storici del Rinascimento si sono giustamentededicati a mettere in luce una caratteristica costantedella vita italiana, il suo aspetto mediterraneo, l’attitu-dine alla felicità, che assume in quegli anni una forzaespansiva e che, risvegliandosi via via nelle diverse figu-re della vita, le riempie di un sentimento nuovo, di unagioia, di una felice accettazione del destino che ilMedioevo non avrebbe mai conosciuto. Ma il Medioe-vo occidentale, se lo si studia in Francia, nella icono-grafia e nello spirito delle cattedrali, non ci mostra forsel’armonia di un ottimismo cristiano che accetta il mondoe se ne compiace? La vasta immagine della vita che esseci presentano rivela non il terrore dell’aldilà, ma la sere-nità dei lavori allegramente compiuti, il pieno possessodei destini dell’uomo, e, con il sorriso degli angeli diReims, le cattedrali di Francia ci rendono partecipi diun gioioso messaggio di giovinezza. Testimoniano forsein minor grado quella curiosità per le cose della terra eper le meraviglie della natura che provò l’Italia del seco-lo xv? E quel sentimento del meraviglioso che è nellacreazione, in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue forme,quel desiderio di impadronirsene in ogni suo segreto edi accoglierlo senza eccezioni o reticenze, non è anchequesto un carattere essenziale dell’arte del Medioevo?Solo tardivamente l’Italia s’è svegliata a questa passio-ne enciclopedica per tutte le forze e per tutti gli aspet-ti della vita, uomini, bestie e piante... E il xiii secolofrancese, concedendo alla figura umana un posto e uncompito preponderante in quelle gerarchie naturali,aveva già definito un umanesimo piú largo, piú com-prensivo di quello che poteva nascere dai testi letti e daisarcofagi copiati. Si commetterebbe però un grave erro-re interpretando Villard de Honnecourt nelle sue ricer-che sull’ordine canonico delle forme, nei multipli aspet-

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ti delle sue curiosità, come un precursore, come un’an-ticipazione del Rinascimento: mai piú energicamente siappartenne al proprio tempo. Si può dire al contrarioche l’Italia a questo riguardo fu insieme magnifica elenta: la concezione di Pisanello e ancor piú quella diLeonardo appartengono al Medioevo.

II.

È un’illusione credere che il Quattrocento si riallac-ci al Trecento per via di alcuni anni di raccordo e che,dopo pochi maestri di «transizione», Gentile da Fabria-no, Masolino da Panicale, Pisanello, la pittura inUmbria, a Firenze e nell’Italia del Nord segua ormai laregale via della novità, sulla quale procede per progres-sive acquisizioni. In effetti alcuni maestri profonda-mente legati allo spirito e alle forme medievali vivonoaccanto ai novatori, di cui non ignorano d’altra parte lericerche, e questi ultimi appartengono ancora al passa-to per tutto un aspetto del loro genio1. A Verona Pisa-nello, pittore e medaglista, una delle figure piú enigma-tiche e attraenti di un’epoca che molte ne annovera, èsenza dubbio il maggior poeta di questa interminabilevena fantastica che percorre tutti gli ultimi anni delMedioevo occidentale; forse ne ha conosciuto l’incantoattraverso le miniature, attraverso gli arazzi, che giun-gevano dalla Francia nelle città italiane del Nord pas-sando per la Lombardia, ma vi era stato predispostosoprattutto dall’esempio del grande Altichiero e da ungenio nascosto. Egli ne ha riunito i caratteri precipui neisuoi affreschi di Sant’Anastasia, consacrati alla leggen-da cavalleresca di san Giorgio e della principessa di Tre-bisonda, ambientata in un paesaggio di rocce e di castel-li romantici. I disegni della raccolta Vallardi sono lamirabile testimonianza di una ricerca sulle meraviglie

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della forma animale e della forma umana, colte nellaornata calligrafia dei profili e dei contorni, nella veritàdelle strutture e dei pelami e in uno spazio in cui ladiversità del punto di vista rivela la sconcertante varietàdegli aspetti di una figura. I costumi di corte trasfor-mano l’uomo e la donna in favolosi uccelli dal corpoallungato. Le medaglie di Pisanello risuscitano una tec-nica dell’antichità, ma sono cosí ricche di materia e dicolore che, ingrandite, potrebbero ornare una facciata.Ecco il compendio di una di quelle vite che apparten-gono contemporaneamente all’ordine delle nuove espe-rienze costruttive e alle ultime grandi fantasie medievali.

Ma ve ne sono di piú unitarie, che si riflettono conlimpidità in opere dove l’arte dei miniatori rivive senzaalcuna alterazione. Cosí si succedono come artigiani disogni serafici, Gentile da Fabriano, il Beato Angelicoe lo stesso Benozzo Gozzoli. Al convento di SanMarco, a Firenze, sotto la luce immacolata di quelcielo toscano che sembra l’immagine dell’eternità,l’Angelico sembra fuori del tempo, in possesso del pri-vilegio di una perpetua infanzia. E tuttavia egli nonignora affatto le ricerche del suo secolo, anzi ne traeun gran profitto, ma si potrebbe credere che i suoidipinti e gli affreschi stessi siano le piú belle miniatu-re del Medioevo e, con la loro profonda pace, la lororicchezza simbolica, la loro qualità aerea e vivida,potrebbero sembrare piú antichi del loro tempo. Lastessa concezione della vita, della forma e del coloreispira il corteo dei Re Magi, che Gozzoli dispiega suimuri della cappella Riccardi con un fasto orientale giàda lungo tempo familiare al genio toscano, rianimatosenza dubbio dal soggiorno a Firenze dell’imperatoreMichele Paleologo, in occasione del concilio per lariappacificazione delle due Chiese. Se si paragona lasua interpretazione della vita di san Francesco a Mon-tefalco e quella che ne ha dato Giotto nella chiesa di

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Assisi, ci si rende conto che quest’ultima è piú moder-na in quanto piú monumentale e in quanto getta le basidella grande pittura italiana avvenire. Anche nellasequenza biblica del Camposanto di Pisa, in cui le por-tatrici di pane e gli operai di Babele si annoverano trale piú belle e le piú fiere figure del Rinascimento, con-tinua quell’incanto aneddotico che rivela un deliziosoillustratore e insieme un decoratore di vaste superfici2.

Certo questi pittori sono molto attenti al tumulto d’i-dee del loro tempo, al lavorio teorico, alle ricerche spe-rimentali sulla natura dello spazio e sulla sua strutturarazionale, indagine alla quale matematici come Manet-ti collaborano con i pittori e con quell’uomo universa-le, primo di tutta una dinastia di spiriti, egli stesso pit-tore, scultore, grande architetto, grande umanista, atle-ta e infine filosofo, che fu Leon Battista Alberti. Siamoal centro del rinnovamento, al termine di quelle inquie-te ricerche sulla prospettiva, di cui si trovano tracce findal secolo precedente nei giotteschi di Toscana. Il Trat-tato della pittura dà forma per la prima volta a una seriedi accorgimenti pratici fondati sull’assuefazione allavisione naturale, ma giustificati per mezzo del reticologeometrico della «piramide visiva». La diffusione diquesti accorgimenti minaccia direttamente l’ordinemonumentale del Medioevo, abolendo l’unità dellesuperfici, la solida pienezza dei muri, e applicandosinon solo alla pittura, ma a tutte le arti, di cui la pro-spettiva favorisce la fusione illusoria attraverso gli arti-fici del «trompe-l’œil». Ed è tuttavia nel Medioevo chesi devono individuare le origini delle ricerche albertia-ne, nei trattati arabi di ottica e nelle teorie di RobertGrosseteste, maestro di Bacone, sulla propagazione dellaluce. È d’altra parte curioso vedere un pittore comePaolo Uccello, uno dei pittori piú tormentati dai pro-blemi di prospettiva, restare profondamente medievalenei suoi quadri di battaglie, non diversi dalle scene di

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battaglia dipinte nel Medioevo, solo arricchiti di mira-bili studi di cavalli, visti di dorso, di tre quarti, di pro-filo, e di fronte, come certi disegni della raccolta Val-lardi. La composizione e la gamma dei colori, per il pre-valere dei toni locali (i grandi bianchi, i neri e i rossi)richiamano l’arte dei pittori di vetrate. La prospettivadi Paolo Uccello non si limita a garantire la verosimi-glianza, essa si combina con altri elementi per realizza-re composizioni ornamentali.

Essa è però anche un procedimento ingannevole, ilmezzo di far apparire un rilievo là dove non esiste altroche una superficie piana abilmente trattata, e ancora ilmezzo di dare tutte le apparenze della scultura al monu-mento funerario del condottiero inglese GiovanniAcuto, dipinto da Paolo Uccello, come alle statue inpiedi di Boccaccio, di Farinata degli Uberti, di PippoSpano, dipinte in false nicchie da Andrea del Castagno,ora nel convento di Sant’Apollonia3. Questa sapientemenzogna, piacevole a vedersi, che lusinga e sconcertail nostro senso dello spazio, non è il primo frutto di un’e-sperienza che per capriccio traligna fin dai suoi inizi:l’arte italiana vi resterà costantemente fedele e simostrerà eccezionalmente abile, per esempio, nelle ardi-tezze delle architetture e delle scenografie teatrali, manon in minor grado nella grande pittura ad affresco e neidipinti di cavalletto. Fin dagli inizi del secolo xv, la pro-spettiva dà il suo capolavoro nella scultura con le porteche Lorenzo Ghiberti ha eseguito per il Battistero diFirenze, mirabili per la distribuzione e l’incorniciaturadelle formelle, per la loro ricchezza inventiva, per la flui-da eleganza e per il nobile sentimento che anima quellestorie. Il rapporto del rilievo secondo la falsa distanzadai piani, il passaggio calcolato dal tuttotondo al rilievomolto aggettante, da quest’ultimo al bassorilievo e infi-ne al modellato quasi appiattito della medaglia, la fugarigorosa dell’architettura, il suggerimento nel bronzo di

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un paesaggio aperto e arioso colpirono come una rileva-zione miracolosa l’immaginazione popolare: le porte delBattistero furono ben presto le porte del paradiso. Nonè difficile avvertire tutto ciò che separa quest’insiemememorabile dalle grandi pale d’altare eseguite all’incir-ca nello stesso periodo nelle regioni piú occidentali diEuropa: la scienza, la dignità e la qualità, i grandi model-li antichi; ma sebbene le opere non italiane si vadanosempre piú affollando di figurine e di elementi accesso-ri, il principio che le regge è lo stesso.

III.

Esiste d’altra parte un certo numero di elementi dura-turi con i quali l’Italia fin dalla prima metà del secoloxv innesta vigorosamente nell’arte europea un ordine dipensieri, una poetica, uno stile la cui diffusione è unodegli indici piú manifesti, di una nuova età della storia.Nel momento in cui l’architettura gotica è quasi soffo-cata dalla sua ricchezza, Firenze crea un’architetturache si può definire nuova e personale, in quanto anchese Brunelleschi ne attinge la suggestione dai monumen-ti della Roma antica, anche se ha ripreso il motivo dellebasiliche cristiane a San Lorenzo, i suoi palazzi fioren-tini, cosí come quelli dei suoi continuatori Michelozzoe Alberti, malgrado l’uso di bugnati colossali e la sovrap-posizione dei piani, non sono dei centoni di arte impe-riale, ma una definizione personale e vigorosa dellamassa monumentale, posta sopra un basamento similealle fondazioni di una cittadella etrusca, limitata in altez-za dalla robusta ombra del cornicione. Anche in quellefortezze cubiche, quali sono ancora per molti aspetti ilpalazzo Rucellai e il palazzo Medici, si scorge l’avveni-re di un’arte che non ponendosi ormai piú problemicostruttivi – se si esclude quello della copertura a cupo-

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la di cui Brunelleschi fissa le regole e offre un primomodello moderno nella cattedrale di Firenze – vale perl’eleganza delle misure e la qualità sfumata degli effet-ti. La cappella dei Pazzi basta a dare la misura del suogusto e della sua facoltà inventiva, facendoci compren-dere ciò che la stringata essenzialità toscana contrappo-ne alla fase barocca del gotico fiammeggiante. D’altraparte la pittura ritrovava al di là dei giotteschi la gran-de linea tracciata da Giotto e ritornava, con gli affreschidi Masaccio alla cappella Brancacci, alla larghezza e allaschiettezza dello stile monumentale. Ecco la regolaimmortale dell’arte italiana e l’esempio della grande pit-tura decorativa: una capricciosità istintiva illusoria eavventurosa tende talvolta a sviarla da tutto ciò, masempre vi ritorna, come alla espressione autentica e defi-nitiva della sua migliore qualità. Si può credere che fraMasolino da Panicale e Masaccio, quasi contemporaneie collaboratori al medesimo complesso, intercorra iltempo di due generazioni; Masolino è un vero maestro,i suoi affreschi molto deperiti di Castiglione Olona4

hanno tuttora, in alcuni elementi ancora ben conserva-ti, la poesia della loro insidiosa purezza, le sue figure diAdamo ed Eva, alla cappella Brancacci, hanno l’incan-to dei bei nudi italiani dell’età che precede la maturitàstorica. Masaccio invece ama il peso dei panneggi, ilritmo lento, la calma dello spazio fra le figure e quellaricchezza di sostanza che, senza intaccare la superficiedel muro, dà alla pittura la piena e calma autorità dellastatuaria. Infine la stessa scultura nell’arte del seneseJacopo della Quercia e del fiorentino Donatello innestala virile poesia della forma monumentale, non su sterilicopie dell’antico o su ricerche di effetti pittoreschi, masu un accordo apparentemente sconcertante e quasiimpossibile fra la statuaria greco-romana e quella dellebotteghe nordiche. La prima conferisce a questo accor-do l’armonia e la gravità, la seconda gli assicura il con-

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tatto con la vita. Jacopo della Quercia si pone fra ClausSluter, di cui sembra talvolta il discepolo, e Michelan-gelo, di cui è la prefigurazione e il profeta. A Lucca, l’al-tare di San Frediano potrebbe essere di un maestro scul-tore influenzato dalle ultime scuole gotiche; a Bologna,i rilievi di San Petronio, monumentali e quasi colossalinelle loro piccole dimensioni, rinunciano al lusso deipanneggi e alla profusione delle pieghe e illustrano configure nude, senza architetture, senza paesaggi, unaGenesi scolpita nel marmo. Nulla si contrappone piúnettamente alla modellazione pittorica del Ghiberti; lasuggestione dell’arte classica porta Jacopo della Querciaa risultati piú vigorosi e imponenti, forse per qualchericordo del Medioevo. È lecito pensare a quegli archi-travi popolati dai nudi della Resurrezione dei morti.Donatello stesso rivela due aspetti. Con i suoi profeti delcampanile, con lo Zuccone, sembra appartenere alla tra-dizione sluteriana; la sua collaborazione con Brunelleschie Michelozzo lo indirizzò allo studio dell’antico, manon lo obbligò a una maniera e, scultore di tombe, nonfu mai un marmista da sarcofagi. Il suo Gattamelata,davanti al Santo di Padova, non era certamente la primastatua equestre che si fosse eseguita dopo il periodoimperiale, e neppure la prima ispirata dal Marco Aure-lio del Campidoglio, basta pensare alle statue romanichedi Costantino, ma, come gli scultori della Saintonge delsecolo xii che traducevano l’antico secondo il gustomedievale, Donatello sa conservare la fierezza propria alsuo genio. La forma ha sempre nelle sue opere quellaqualità profilata che distingue i grandi artisti di Firen-ze. Cosí l’atticismo toscano combatte e corregge la roz-zezza e la profusione di figure della scultura romana eritrova spontaneamente ciò che di puro, di ardito e disensibile c’è nell’arte ellenistica. Donatello è forse ilcreatore di uno stile, ma a questo stile egli non si dàcompletamente e non rinuncia alla sua impaziente ricer-

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ca. Il genio drammatico del secolo xv e l’istintivo amoredell’animo italiano per la felicità se lo disputano alter-natamente. A guardare l’altar maggiore di Padova, sicrede di vedere, in quel tumulto di bronzo, il contrastodi due mondi o meglio di due aspetti dell’uomo.

La fine del secolo ci offre un esempio ancor piú sor-prendente. Leonardo è ancora, per molti aspetti, unpensatore medievale. Il reticolo che l’Alberti compone,come con fili tesi, sulla sua finestra aperta, non contie-ne per Leonardo tutto l’universo. Altri segreti, piú affa-scinanti, guidano la composizione delle forme. Comerenderli sensibili attraverso l’arte del pittore, strumen-to della conoscenza? Pare di veder rivivere con Leo-nardo una scienza dimenticata, l’alchimia delle meta-morfosi. Si dice che, nella sua giovinezza, prendendouna lucertola sul cui dorso applicava delle ali, si dedi-casse, come per gioco, a sconvolgere le leggi della natu-ra. Questa irruzione di creature immaginarie, questasfida apparente all’ordine divino rispondono certamen-te alla necessità di un genio bizzarro, ma sono anche unepisodio di quel «risveglio» che abbiamo riconosciutonelle cattedrali francesi e nella pittura fiamminga e di cuil’Apocalisse di Dürer ci mostra altri aspetti. Il maestroche, contemplando un muro screpolato dal tempo, cercanelle linee capricciose delle crepe il segreto di composi-zioni singolari, procede come i vecchi scultori dei seco-li xi e xii che, nel labirinto dei temi geometrici e dellecombinazioni astratte, sapevano riconoscere il gioco delmondo delle immagini. Se, come inventore di macchi-ne, Leonardo si rifà forse alla scuola dei «meccanici»bizantini, la sua concezione della natura è infinitamen-te piú ricca e moderna; ciononostante essa concede unospazio considerevole ai valori ornamentali. La manierain cui si legano le diverse posizioni di una figura inmovimento non è ancora sottoposta da lui alla nozionedi una legge, ma l’ornamento è una regola armonica che

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già può servire da chiave interpretativa. Egli istituiscealcune analogie, ad esempio quella tra i mulinelli origi-natisi in un corso d’acqua e l’avvolgersi di una chiomadi donna. Che la natura disegni figure regolari è una con-cezione medievale che abbiamo seguito in vari episodisia in età romanica che gotica, e abbiamo visto manife-starsi nel secolo xv il paesaggio rupestre che tocca la suapiú alta espressione in quelle scenografie da visionarioche sono il paesaggio della Gioconda e la grotta dellaVergine delle rocce. Le ombre della sera, che Leonardotrova esser tanto suggestive attorno alle servette sedu-te sulla porta delle locande, sono il crepuscolo delMedioevo. La fantasia religiosa della Cena ha un’origi-ne affatto diversa dall’arte degli atleti e dei falsi roma-ni. Cosí il Medioevo si prolunga e propaga nel Rinasci-mento italiano che, per lungo tempo, ne fu uno degliaspetti. Anche a Firenze, questa grande officina diforme e di tecniche, lo si ritrova ancora vivo e fervido.Nella pittura veneziana, a cui non mancano le sugge-stioni e i modelli del Nord, dura ancora per lungotempo. Roma accoglie indifferentemente i maestri ita-liani e quelli stranieri: il Beato Angelico e Jean Fouquetvi si incontrarono indubbiamente. Nel paese in cui Raf-faello trascorse gli anni dell’adolescenza, a Urbino, Fede-rico da Montefeltro accoglieva, nella sua galleria, vanEyck e Giusto di Gand. I viaggi degli artisti e delleopere uniscono l’Europa all’Europa, e non possiamo piúconsiderare come successive e come separate da unasoluzione di continuità forme contemporanee e interdi-pendenti della civiltà5. È vero peraltro che esse tendo-no a separarsi e che dopo questo accordo di piú genera-zioni si determina uno squilibrio di cui non è nostrocompito cercare i motivi, ma forse non è giusto credereche i piú importanti si debbano trovare nell’umanesimoclassicheggiante. L’umanesimo cristiano del secolo xiiici dimostra l’alta possibilità di coesistenza di questo

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modo di pensare con l’ordine formale e l’ordine storicodel Medioevo. La vita degli stili non dipende forse dauna regola piú generale, e gli esempi concreti che pre-senta alla nostra considerazione non ci aiutano forse acomprenderne il senso e lo sviluppo? È in effetti arbi-trario limitare le nozioni di classicismo e di umanesimoal ricordo e all’emulazione delle culture mediterranee:queste non sempre sono state «classiche», e la loro defi-nizione dell’uomo ha perduto parte del suo valore. È uncriterio piú storico riconoscere che ogni grande epocadella civiltà raggiunge il proprio classicismo, cioè il suomomento di larga intelligibilità e di pieno possesso, e cheproprio in tal momento essa contiene e diffonde il suoumanesimo. Questo momento di equilibrio per ilMedioevo gotico è il secolo xiii, e il suo momento criti-co il xv. L’architettura contrappone allora due sistemio piuttosto due modi di pensare. L’uno ha probabil-mente dato tutto quanto si poteva attendere dalle suepossibilità, e lo splendere di ciò che chiamiamo il suodeclino non deve nasconderci il suo disordine e il suodisagio. L’altro moltiplica le sue prime esperienze, tentavari stili prima di definirsi come stile, e di servire a fina-lità universali. Ma l’immagine dell’uomo conserverà lun-gamente il calore e la passione che gli derivano dalMedioevo; un Medioevo velato sopravviverà al trionfodella «classicità»: forse lo si sente vibrare nella Bibbiadi Rembrandt. Cosí le epoche non muoiono d’un trat-to, ma si continuano nella vita dello spirito.

Conclusione

Le influenze dell’Oriente e quelle del mondo barba-rico inaugurano il Medioevo, le influenze mediterraneeaccompagnano ed accelerano il suo declino. Fra questidue capitoli della sua storia, esso elabora una civiltà ori-

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ginale, un ordine di pensieri di cui l’espressione piú altaè data da un sistema monumentale originatosi nelleregioni occidentali dell’Europa dove ha affondato le suerobuste radici, senza però elaborare le proprie manife-stazioni in un ambito chiuso. Al momento in cui inizial’età romanica, le circostanze storiche sono piú che maifavorevoli agli scambi; il prestigio del vecchio Oriente,dell’Oriente bizantino, dell’Islam si esercita sulla cri-stianità con grande larghezza. Si potrebbe credere chel’Occidente stia per essere sommerso dalla ricchezza edalla diversità degli apporti lontani che gli derivano daciviltà stupende. Ma nulla di quanto accoglie è oggettodi una passiva accettazione, anzi esso moltiplica le espe-rienze costruttive all’interno dei dati che accetta e vi facomparire uno spirito nuovo.

Un’arte non è soltanto fatta di tradizioni interne e diinflussi esterni, ma anche di ricerche che le conferisco-no la sua legge propria, la sua originalità. La vita di que-sti diversi fattori e le relazioni che li uniscono mutanosecondo i tempi, i luoghi, e di tali variazioni è fatta lastoria. La tradizione antica non è una forza verticale cheriemerge direttamente dal fondo dei secoli, senza devia-zioni o rotture. All’inizio del Medioevo, essa ha perdu-to la sua vitalità creatrice, già incrinata nel iv secolo dal-l’insufficienza di mano d’opera e dalla dimenticanza diantiche tecniche, documentate dagli editti di Costanti-no. La restaurazione dell’impero con Carlo Magno, e poicon Ottone I, l’ha provvisoriamente risvegliata colle-gandola a un programma politico, ma in un’epoca già datempo impregnata di abitudini diverse. Riprende vigo-re alla fine del secolo xi nelle chiese cluniacensi, nellascuola architettonica del Sud-ovest, nell’arte romanicadel Rodano. Ma, se anche aggiunge una sfumatura, latradizione antica non è il tono dominante, piuttosto sisovrappone ad altri valori.

Tali valori, l’Occidente li deve tutti alla tradizione

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barbarica e di ascendenza orientale? L’apporto dei bar-bari è in effetti considerevole, poiché fa conoscereall’Europa le forme e lo spirito delle grandi culture pro-tostoriche, di cui certe regioni, non toccate dal cristia-nesimo, hanno mantenuto a lungo lo splendore e lapurezza: fino al secolo xi, la Scandinavia sviluppa earricchisce l’arte della decorazione a intreccio. Moltoprima, con le invasioni, i popoli nomadi e cacciatori,anche se già stabilizzati, avevano trasmesso ai popolisedentari, costruttori di città, le tradizioni e le tecnichedella steppa. È possibile che esse abbiano contribuito arisvegliare le tradizioni locali, assopite sotto la civiliz-zazione imperiale. È certo che queste tecniche sonostrettamente legate al genio del Medioevo, non nell’e-dilizia, secondo la vecchia ipotesi del secolo xix, manegli elementi ornamentali, quali il colore particolare, ola singolarità di accenti di un folklore ben individuato.

Quanto all’azione dell’Oriente, essa si è esercitata indue momenti, di qualità assai diversa. L’orientalismoromanico non è quello pre-romanico. Quest’ultimo risul-ta da una penetrazione profonda e continua giustificatadalle condizioni generali della storia. Dal iv al vii seco-lo, l’Asia Minore, l’Egitto, l’Africa del Nord hannocreato un’arte monumentale, facendo variamente uso, inun sistema coerente, degli apporti antichi e lontani.Mentre l’Occidente si sgretolava, esse vissero e prospe-rarono al riparo dell’impero bizantino fino alla conqui-sta mussulmana. L’Europa cristiana viveva allora su unvasto fondo comune mediterraneo e orientale, animatodagli scambi commerciali e dalle larghe ondate d’espan-sione. I progressi dell’istituzione monastica mescolava-no la cristianità copta alla cristianità d’Irlanda; l’inces-sante diaspora siriaca diffondeva nelle vecchie città deiGalli la fede, le abitudini e gli oggetti esotici.

È dunque vero che l’Islam distrusse questa comunità,come pensa il Pirenne, e tagliò l’Europa in due, bloc-

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cando le vie del mare e imponendo un carattere esclusi-vamente rurale e terriero all’impero di Carlo Magno?Malgrado il programma «romano», l’arte carolingia con-serva tratti orientali, come la pianta armena di Germi-gny e delle chiese asturiane. Ma tali tratti hanno perl’avvenire minor importanza di quanto ne abbiano vigo-rose innovazioni come la chiesa-portico, il deambulato-rio con cappelle radiali, il pilastro composito, la dispo-sizione delle torri. A tali dati essenziali, si è visto che ilgrande lavorio del secolo xi altri ne ha aggiunti, fin daisuoi inizi. Quando vengono convertiti, costretti allostanziamento o fermati gli ultimi barbari, e l’Islam è inritirata, le strade sbloccate, gli scambi ristabiliti, leinfluenze dell’Asia non si esercitano piú su di un’arteorientale di Occidente. Esse sono ancora importanti, mahanno cessato di essere decisive, in quanto si reagisce adesse con la scelta e con l’interpretazione. L’arte roma-nica si stacca in modo netto da ciò che vi è di piú carat-teristico nelle comunità orientali, quali gli edifici a pian-ta complessa o tramezzata, e rinuncia al tipo armeno diGermigny; sviluppa invece la sua concezione architet-tonica in basiliche di un tipo nuovo, l’esprime con pie-nezza in tre dei suoi problemi piú belli: un problema diprogettazione (quello di una chiesa fatta per il passag-gio di folle immense), un problema di costruzione (l’il-luminazione di una navata a volta) e un problema dimasse (la disposizione di un coro multiplo, la composi-zione armonica di una facciata).

Di questa vitalità, di questo spirito inventivo, già laprima arte romanica ci offre prove convincenti. Que-st’arte può essere considerata il retaggio accademico divecchie formule mesopotamiche e la sua espansione con-siderevole e rapida può far credere alla sua uniforme sta-bilità, ma si è visto che tale arte attua nelle sue costru-zioni ricerche piene di ardimento e varietà.

La scultura romanica riproduce la dialettica orna-

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mentale dell’arte sumera, ma la sottopone alla legge diun’architettura concepita come un ordine razionale, e,creando a sua volta una moltitudine di mostri, li accor-da all’edificio che decorano e a cui obbediscono in ogniloro parte. Senza dubbio l’Islam magrebino diffonde isuoi modiglioni a spirale, i suoi capitelli cordovani, le suecupole su trombe, le sue iscrizioni cufiche, i suoi cofa-netti d’avorio, i suoi archi polilobati dal tracciato geo-metrico. Il Poitou, la Saintonge, l’Alvernia, il Velayaccettano piú o meno e assimilano tali apporti; ma neiluoghi stessi in cui sono piú palesi e piú coerenti, lacostruzione in cui si incorporano è puramente romani-ca per la struttura, per le masse e per il peso. Niente èpiú contrario al sistema islamico, architettura d’ebani-sti, di questa architettura di muratori. I costoloni mus-sulmani sono elementi di un reticolato decorativo, quel-li dell’Europa occidentale sono membrature vigorose,concepite per sostenere non fragili cupolette, ma voltedi pesante muratura; il costolone armeno è opera di uncostruttore, ma è teso sotto volte a botte, cupole, sof-fitti piani. Infine l’arte di coordinare e di dedurre logi-camente le forme genera in Occidente uno stile che nonha niente in comune con quello che lo precede, il goti-co. Le sue forme prime hanno l’esigente purezza di unareazione contro ogni esotismo: esse si spogliano dell’O-riente e dei mostri, preferiscono essere nude. Quindicon le risorse delle regioni che le sono proprie, dei suoigiardini e delle sue foreste, l’arte gotica compone il suouniverso; ne estende la definizione alla stessa Bibbia.L’evangelo ellenistico, quello orientale assumono unaforma nuova, il Cristo si riveste di una nuova incarna-zione che lo rende piú vicino a noi e umanizza mag-giormente i suoi insegnamenti.

Gli ibridismi creati alla periferia o all’interno di que-sta vasta regione creativa dall’incontro degli apportiorientali e delle tradizioni locali mostrano, con i loro

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limiti nello spazio e nel tempo, a qual punto il rimanenteterritorio fosse ribelle a una penetrazione assoluta: sipensi all’arte mozarabica, all’arte mudejar, all’arte sicu-lo-normanna e; nel centro della Francia, al complessodelle cupole d’Aquitania ispirate da un modello ciprio-ta. D’altra parte l’estrema diversità dei gruppi romani-ci è la testimonianza di una attitudine all’invenzione.Cosí è nel corso dell’epoca seguente, per i gruppi goti-ci, che non bisogna annullare in un fenomeno di confor-mismo francese: il gotico inglese, il gotico-romanico diGermania, il gotico catalano. Sono questi gli aspettidiversi di uno stesso spirito, il cui principio è fondatosulla regola architettonica, o di cui tale regola ci dà lepiú alte testimonianze. Regola senza aridità, in quantoammette il colore, l’illusione e il calore della vita umana;regola poetica, che non muore con l’epoca che ha ani-mato del suo soffio.

L’umanità non si rinnova attraverso epurazioni mas-sicce. Rimangono sempre in essa degli ambienti intel-lettuali e morali che sono quelli del suo passato e chepossono servire al suo avvenire, dei tipi caratteristici cheun’epoca mette in piena luce e che un’altra epoca accan-tona fra disponibilità oscure: ma tali tipi sussistono. Ed’altra parte le forme lasciano un’impressione tutt’altroche effimera nella memoria storica. Anche quando per-dono la loro attualità le espressioni di uno stile riman-gono in piedi, sulle loro fondamenta con l’autorità deivalori concreti, con il prestigio che si rifà, attraverso levariazioni del gusto, alla grandezza e alla fermezza diun’arte. Se il Medioevo è forse il fermento del Rinasci-mento, se sono la sua autenticità, la sua qualità vissutache impediscono al Rinascimento d’essere una semplice«restaurazione», la sua vitalità è ancora piú lunga e piúforte nell’Occidente propriamente detto, in cui ha defi-nito il potere originale di invenzione. Si continua acostruire in gotico sino alla fine del secolo xvi, e piú

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tardi ancora, anzi si può dire che la tecnica della voltaa crociera costolonata non sia mai stata del tutto inter-rotta nei cantieri, come è provato dalle volte di parec-chie chiese, costruite in epoca classica. I pittori france-si che si recano in Italia nella prima metà del secolo xviiappartengono al Medioevo per le tradizioni della loroterra di origine. I maestri di Troyes, di Digione, di Lan-gres, di Lunéville dipingono ancora degli alberi di Jesse,dei ritratti in cui le caratteristiche della pietra e dellegno s’impongono al modellato. Non è un caso se, inGeorges de la Tour, la pacata unità dei volumi richiamasingolarmente l’arte degli scultori della Champagnemeridionale alla fine del secolo xv e all’inizio del xvi.L’elegante ordinatore di giostre e balletti alla corte diLorena, Jacques Callot, è medievale per la sua visionedel microcosmo, che gli deriva non tanto da Gassendiquanto da un’idea molto piú antica dei rapporti tra l’in-finitamente piccolo e l’infinitamente grande. Il baroccodel Bernini gareggia con il barocco gotico, e al profilodi un timpano, ad una struttura in pietra del secolo xiisembrano adattarsi le deformazioni e i contorcimenti delGreco. Nei maestri dei Paesi Bassi, non si riconosconosoltanto analogie o risvegli, ma una vera continuità. Ilpaesaggio fantastico vi si sviluppa come l’ultimo grandesogno del Medioevo, con le smisurate distese di rocce,le torri di Babele, gli oggetti di aspetto diabolico, unospirito di mascherata e l’ossessione dei sette peccaticapitali mescolata al sentimento di una catastrofe uni-versale. Bruegel ne dà l’immagine piú completa e piúsconvolgente e le figure di cui popola i suoi dipinti, conl’autorità della forma monumentale, hanno tuttavia l’a-ria di uscire confusamente dal Salterio d’Utrecht, dalcalendario delle Très Riches Heures o da certe paginedelle Heures de Rohan. Infine, nella contea di Olanda,che diede un tempo Claus Sluter e Dirk Bouts, il sognomisterioso di van Eyck si prolunga nella piccola strada

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di Vermeer e nel raccoglimento dei pittori d’interni.Cosí le affinità degli ambienti e dei talenti conserva-

no, calda e profonda, la vitalità del Medioevo: essa nonè scomparsa, non è stata cancellata, si direbbe anzi chel’Occidente la rimpianga. Questa nostalgia si fa coscien-te in Inghilterra fin dal secolo xviii con il neogotico caroa Walpole; prende maggior forza con i progressi delromanticismo, e il secolo xix infine le conferisce il tonoe la potenza di una forza storica, in lotta contro le ulti-me forme nel barocco mediterraneo e dell’accademismofrancese. Ma queste resurrezioni non sono possibili edefficaci se non sono profondamente innestate alla vitadell’intelligenza. Come il Rinascimento e l’epoca neo-classica avevano modellato l’immagine dell’antichità asomiglianza delle loro passioni, investigando di volta involta le vestigia dell’impero, di Roma repubblicana,quindi la Grecia e l’Egitto, infine, con gli ultimi segua-ci di David, il passato omerico, cosí il secolo xix ha, percosí dire, rivissuto il Medioevo a ritroso. Lo vediamorisalire dall’arte fiammeggiante al secolo xiii, quindiall’arte romanica. I primi studi di Lenoir, di Millin, diWaagen erano paralleli all’arte dei pittori preraffaellitiin Germania e in Francia. È l’inizio di una vasta ricer-ca che, partendo da una reazione del gusto, e sempresostenuta dalle forze piú vive, pervenne ad una cono-scenza piú larga del passato, ad un possesso piú completodell’uomo.

1 [Nell’Italia settentrionale si può notare come l’amore per il parti-colare dei maestri gotici abbia aperto la via al naturalismo del Rina-scimento. Esempi interessanti dell’intrecciarsi di queste tendenze sonoofferti dagli studi di animali di Michelino da Besozzo e Giovannino de’Grassi, 1400 circa, dalle eleganti illustrazioni di trattati farmaceuticicome i Tacuina Sanitatis e, piú in generale, dalle raccolte di schizzi chia-mate «ouvrage de Lombardie», con la loro caratteristica mescolanza direalismo e stilizzazione: cfr. o. pächt, Early Italian nature Studies and

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the Early Calendar Landscape, in «Journal of the Warburg and Cour-tauld Institutes», 1950, pp. 13-47].

2 [Per tutto il xv secolo Siena continuò ad essere la coscienza goti-ca di Firenze. Ciò non le impedí di assimilare, a suo modo, le nuovetendenze dell’epoca. Ne è, per esempio, prova la singolare figura di pit-tore-scultore-architetto Francesco di Giorgio Martini (cfr. a. s. wel-ler, Francesco di Giorgio, Chicago 1943)].

3 [Queste «statue dipinte» provengono dalla villa della Legnaia aSoffiano vicino a Firenze, andata in rovina, dove costituivano una gal-leria di personaggi famosi. Recentemente è venuta alla luce, sotto unostrato di intonaco, una splendida figura di Eva, in piedi sotto un por-tico in prospettiva: cfr. m. salmi, Gli affreschi di Andrea del Castagnoritrovati, in «Bollettino d’arte», 1950, pp. 295-308].

4 [Gli affreschi di Castiglione Olona sono stati energicamenterestaurati e sono ora molto piú leggibili. Databili al 1435 circa, risul-tano piú tardi della collaborazione tra Masolino e Masaccio al Carmi-ne, 1427-28. Sulla partecipazione rispettiva dei due artisti cfr. u. pro-cacci, Masaccio, 2a ed., Milano 1952; sul loro contrasto stilistico cfr.r. longhi, Fatti di Masolino e Masaccio, in «Critica d’arte», 1940].

5 [Altro esempio è Ferrara, dove, intorno al 1450, giungono, unodopo l’altro, Pisanello, Jacopo Bellini e, in seguito, Piero della Fran-cesca, Mantegna, Rogier van der Weyden. Lo stile tormentato e nobi-le che seguí con Cosmé Tura ed Ercole de’ Roberti, è uno degli aspet-ti piú interessanti del Quattrocento italiano: cfr. r. longhi, OfficinaFerrarese, Roma 1934, ristampata come quinto volume delle opere com-plete di Roberto Longhi, Firenze 1956; b. nicolson, The Painters of Fer-rara, London 1952].

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