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I modi del costruire di Maria Letizia Gualandi Storia dellarte Einaudi 1

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I modi del costruire

di Maria Letizia Gualandi

Storia dell�arte Einaudi 1

Edizione di riferimento:in Civiltà dei Romani. Il rito e la vita privata, a curadi Salvatore Settis, Electa, Milano 1992

Storia dell�arte Einaudi 2

Indice

I materiali e le tecniche: la pietra 5

L�opera poligonale, l�opera quadrata e l�opera a telaio 7

Le macchine elevatorie 9

Il legno, l�argilla e la terracotta 9

L�opera cementizia 11

La calce 12

I ponteggi 14

I paramenti: l�opera incerta, l�opera reticolata, l�opera mista e l�opera vittata 15

Il paramento di mattoni 17

L�innovazione architettonica 19

Il cantiere: organizzazione ed efficienza 22

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Anche quando tra gli studiosi era diffusa la tenden-za a considerare l�arte romana un�espressione tarda edecadente di quella greca, a questo giudizio negativogeneralmente si sottraeva l�architettura, nelle cui mol-teplici realizzazioni, sopravvissute nella loro imponen-za ad oltre un millennio di abbandono, distruzioni e spo-liazioni, era palese tanto l�originalità rispetto ai model-li da cui aveva preso le mosse, che il suo ruolo normati-vo nei confronti dei successivi sviluppi dell�architettu-ra occidentale. Per secoli infatti � e dal Rinascimento inpoi con esplicita programmaticità � i monumenti roma-ni costituirono la palestra per generazioni di architetti,che li studiarono fin nei minimi dettagli per far tesorodella lezione degli antichi. Scriveva Leon Battista Alber-ti nel VI libro del De re aedificatoria (1452): «Tutti gliedifici dell�antichità che potessero avere importanza perqualche rispetto, io li ho esaminati per poterne ricava-re elementi utili. Incessantemente ho rovistato, scruta-to, misurato, rappresentato con schizzi tutto quello cheho potuto per potermi impadronire e servire di tutti icontributi possibili che l�ingegno e la laboriosità umanami offrivano». E tre secoli dopo, Giovan Battista Pira-nesi dedicava molte delle sue tavole ai dettagli tecnicidelle costruzioni romane, per sostanziare la sua riven-dicazione della superiorità dell�architettura romana suquella greca, esaltata dai seguaci di Winckelmann.

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Tuttavia dovettero passare molti secoli prima chesorgessero i grandi monumenti imperiali � la DomusAurea, i palazzi sul Palatino, i Fori, le terme, gli anfi-teatri � che rivoluzionarono la tradizione architettoni-ca dell�antichità; secoli durante i quali i Romani, abban-donate le capanne di frasche e strame di tutti i popoliprimitivi, edificarono templi, edifici pubblici e case pri-vate con tecniche e tipologie architettoniche non diver-se da quelle dei vicini Etruschi e, in seguito, dei Greci.Dalla tradizione greca derivò anche gran parte del les-sico architettonico, come dimostra il De architectura diVitruvio Pollione, l�unico trattato giunto per intero finoa noi e pertanto principale fonte delle nostre conoscen-ze di architettura, ingegneria e tecnica edilizia romana.Ma proprio nel I secolo a.C., fra l�età di Cesare e quel-la di Augusto, quando Vitruvio riassumeva nei suoi diecilibri il sapere tecnico e teorico del tempo, la pratica delcostruire stava esplorando nuove vie, grazie alle straor-dinarie possibilità offerte dall�opera cementizia, unamuratura costituita da un impasto di malta e scaglie dipietra scoperta da oltre un secolo e fino ad allora impie-gata esclusivamente come surrogato più economico eresistente dei materiali tradizionali (legno, pietra e argil-la). Oltre alla solidità e alla durata nel tempo, che la ren-devano ideale per fondazioni ed elevati, l�opera cemen-tizia presentava infatti caratteristiche di elasticità e leg-gerezza che nessun altro materiale allora poteva offriree che aprirono la strada alla creazione dei nuovi tipiarchitettonici dell�età imperiale.

I materiali e le tecniche: la pietra

Quando cominciarono a costruire edifici stabili, nelVII secolo a.C., come tutti i popoli antichi anche iRomani si servirono dei materiali reperibili in loco e

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facilmente estraibili e lavorabili: legno, argilla e pietrevulcaniche, come il cappellaccio e il tufo del Campido-glio. Con le conquiste militari, l�incremento dei com-merci e il progresso delle tecniche di estrazione e tra-sporto dei materiali, via via arrivarono a Roma tufi dimiglior qualità dalle cave di Fidene, di Grotta Oscura,dell�Aniene e di Monteverde; da Albano fu importato ilpeperino, da Tivoli il travertino e, più tardi, il marmoda Carrara. Un po� alla volta le banchine del porto sulTevere si riempirono di pietre pregiate da rivestimento,provenienti da regioni sempre più lontane, come i marmipentelico e pario, il cipollino, il rosso antico, il porta-santa, il serpentino e il verde antico dalla Grecia e dalleisole dell�Egeo, il pavonazzetto e il luculleo dall�AsiaMinore, il giallo antico dalla Tunisia, i graniti, il basal-to nero e il porfido rosso dall�Egitto. Le cave erano sca-vate in galleria, come quelle di tufo dell�Aniene, o a gior-no, come quelle di marmo nelle Apuane. Servendosi distrumenti non molto diversi da quelli tuttora in uso �doppia ascia, mazzette, punteruoli, cunei, squadre � icavatori (lapicidinarii) incidevano la pietra sia in verti-cale che in orizzontale, per ricavarne i blocchi che poi,a prezzo di sforzi titanici, erano fatti scivolare fuoridella cava su rulli o slitte trainate da uomini e animali equindi portati a destinazione su pesanti carri o, appenapossibile, per via d�acqua, su chiatte e navi apposita-mente costruite. Le tecniche di estrazione variavano aseconda del tipo di pietra. Per pietre pregiate come ilmarmo si ricorreva ad una tecnica più lenta e laboriosa,che però garantiva tagli più netti e minor spreco dimateriale: l�incisione nella parete era praticata conun�apposita sega (serra), che veniva bagnata di continuocon acqua mista a sabbia, perché non si surriscaldasse.Sfregata dalla lama, la sabbia con il suo potere abrasivofacilitava il taglio (Plinio, N.H. XXXVI, 51). Per roccetenere e vulcaniche come i tufi, Vitruvio consiglia l�e-

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strazione nei mesi estivi e lo stoccaggio dei blocchi peralmeno due anni all�aria aperta, allo scopo di far perde-re loro l�umidità e selezionare i migliori. Una volta rifi-niti dagli scalpellini (quadratarii o lapidarii) e, se neces-sario, levigati, i blocchi erano pronti per essere messi inopera, con tecniche murarie che si distinguono per ildiverso taglio e la differente disposizione delle pietre.

L�opera poligonale, l�opera quadrata e l�opera a telaio

L�opera poligonale, detta anche ciclopica, pelasgica oopus siliceum, è costituita da grossi blocchi di formairregolare sovrapposti senza malta. La sua struttura mas-siccia e potente la rendeva particolarmente adatta per lefortificazioni: mura poligonali si trovano infatti già nelmondo miceneo, ma ovviamente non v�è alcun rappor-to fra queste, che risalgono al XIII secolo a.C., e quel-le che, fra il V e il III secolo a.C., cinsero tutte le prin-cipali città dell�Italia centrale, se non il comune deside-rio di frapporre un ostacolo possibilmente insuperabilefra sé e i potenziali aggressori. Ebbero bastioni in operapoligonale Segni, Circeii, Ferentino, Cori, Norma, Ter-racina, Alba Fucens, Arpino, Alatri, Cosa, Palestrina,Spoleto, ma non Roma, che fin dall�epoca del re ServioTullio, ossia dalla metà del VI secolo a.C., si era dota-ta di una cinta muraria in opera quadrata di cappellac-cio. La particolare robustezza dell�opera poligonale siaddiceva anche a costruzioni non militari, come i gran-di muti di terrazzamento con cui i Romani modificaro-no a loro piacimento il profilo naturale di intere colline� ad esempio a Palestrina (III secolo a.C.), per la costru-zione del santuario della Fortuna Primigenia, e a Pie-trabbondante per la realizzazione del teatro (fine del Isecolo a.C.) � o come i muri di contenimento dei terra-pieni su cui correvano le grandi strade consolari, come

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l�Appia fra Terracina e Formia (fine del V secolo a.C.)e la via Flacca sulla costiera fra Sperlonga e Gaeta (finedel III-inizi II secolo a.C.).

Più diffusa, sia in Grecia e nell�Italia meridionale chenella Roma repubblicana, è l�opera quadrata, un tipo dimuratura costituito di pietre tagliate in forma di paral-lelepipedo e poste una accanto all�altra in file orizzon-tali per testa (ovvero mostrando all�esterno la facciaminore), per taglio (esponendo la faccia maggiore) o inmodo alternato e con la faccia a vista liscia o «a bugna-to». I blocchi erano generalmente fissati l�uno all�altroda grappe di piombo, ferro o bronzo, a «doppia coda dirondine», a «doppia T» o a «P greco», che furono ogget-to, come tutti i metalli, di spoglio sistematico dopo l�ab-bandono degli edifici (di qui i fori regolari tuttora visi-bili su gran parte dei ruderi).

Un modo completamente diverso di disporre i bloc-chi di pietra nella muratura è quello dell�opera a telaioo opus africanum, diffusa soprattutto nell�Africa setten-trionale, ma attestata anche in Sicilia, in Sardegna e nel-l�Italia meridionale, dove fu introdotta dai Cartaginesi.La struttura portante del muro è formata da pilastri digrandi blocchi squadrati di varie dimensioni, dispostil�uno sull�altro alternativamente per testa e per taglio;ad essi si appoggiano pietre assai più piccole, murate asecco o con malta.

Presupposto di ogni buona costruzione è la solidità:la firmitas è infatti la prima delle tre regole auree detta-te da Vitruvio (I, 3, 2; le altre sono l�utilitas, ossia la per-fetta rispondenza della costruzione allo scopo per cui èprogettata, e la venustas, l�eleganza e l�armonia delle sueparti). La firmitas � su questo punto i precetti di Vitru-vio sono molto espliciti � dipende innanzitutto dal mododi fondare l�edificio: una buona fondazione doveva pog-giare su terreno solido o reso tale da pali d�ontano o d�o-livo induriti dal calore della fiamma (V, 12) ed essere

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realizzata senza risparmi sulla quantità e qualità delmateriale impiegato.

Le macchine elevatorie

Per porre in opera i blocchi di fondazione era suffi-ciente farli scivolare su rulli lungo rampe di terra chescendevano nella fossa appositamente scavata. Assai piùcomplicato era issare i blocchi sempre più in alto, manmano che il muro cresceva (si pensi, ad esempio, che unblocco di calcare di 80x60x50 centimetri pesa più di 500chilogrammi). Si ricorreva allora a macchine diverse(machinae tractoriae) in proporzione al carico da solle-vare: da semplici carrucole, verricelli e paranchi (orbi-culi, suculae e trochleae) a congegni più complessi, comee l�argano (rechamus) descritto da Vitruvio (X, 2, 1) espesso presente nelle scene di cantiere raffigurate sullepitture murali o sui rilievi. Aumentando i bracci del-l�argano e soprattutto la forza motrice (gli schiavi), lapotenza della macchina poteva elevarsi fino a decine ditonnellate: in questi casi i verricelli erano sostituiti dauna grande ruota cava (rota calcatoria), fatta girare danumerosi schiavi che si arrampicavano al suo interno,come nella macchina elevatoria raffigurata nel rilievofunerario degli Haterii. Per facilitare le operazioni, tal-volta si operava in modo da diminuire la dimensione deiblocchi man mano che cresceva l�altezza della costru-zione, come vediamo ad esempio nel muro del peribolodel tempio di Bel a Palmira.

Il legno, l�argilla e la terracotta

Anche quando il materiale da costruzione era la pie-tra, come nelle tecniche edilizie viste finora, molte parti

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degli edifici erano realizzate con altri materiali, quali illegno, l�argilla e la terracotta. Utilizzato in origine ancheper strutture portanti come colonne, pilastri e architra-vi, con il passare del tempo il legno rimase fondamen-talmente in uso per le coperture di tetti e solai e in gene-re per tutte le opere di carpenteria, realizzate con travie travicelli interconnessi e legati con grappe di bronzo,piombo o ferro. Vitruvio (II, 9) ci informa che il legna-me migliore era quello tagliato in autunno o in inverno,prima cioè che cominciasse a soffiare il Favonio, por-tando con sé la primavera e la stagione dei germogli: inquel periodo infatti gli alberi effondono le loro energievitali in foglie e frutti e le fibre si dilatano, perdendogran parte della loro resistenza.

Qualunque essenza arborea, anche le più forti comela quercia, il castagno o il noce, dura molto più a lungose è protetta dalle intemperie. Ecco perché fin dall�epocaarcaica le strutture lignee furono coperte con tegole,coppi, antefisse, lastre e gocciolatoi in terracotta, spes-so colorati a tinte decise allo scopo di vivacizzare un�ar-chitettura ancora estremamente semplice ed austera.L�uso di decorare gli edifici con terrecotte architettoni-che dipinte tuttavia continuò anche in seguito, finoall�età imperiale avanzata, e determinò una produzionein serie di pezzi di qualità estremamente varia, dai piùsemplici, decorati con motivi geometrici e floreali, pro-tomi animali o gorgoneia, ai più raffinati, come le lastreo cosiddette Campana (dal nome del loro più famoso col-lezionista moderno), prodotte a Roma fra il I secoloa.C. e il I d.C. e decorate con scene figurate.

La scoperta che l�argilla cotta in fornace è un mate-riale inattaccabile dagli agenti atmosferici e pratica-mente eterno risale ad epoca antichissima, ma ci volle-ro molti secoli perché la terracotta, oltre che per lecoperture, fosse utilizzata come materiale da costruzio-ne sotto forma di mattoni. A lungo infatti nei muri si

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continuò ad usare l�argilla cruda, semplicemente pressataall�interno di un�intelaiatura lignea (pisé) oppure in paniseccati al sole (mattoni crudi o lateres), secondo tecnicheedilizie che, nella loro semplicità, si sono mantenutesostanzialmente inalterate fino ai nostri giorni in tutti ipaesi del Mediterraneo, dalla Spagna alla Sardegna, dallaSicilia all�Africa del nord, dai paesi medio-orientali allaTurchia e alla Grecia.

L�opera cementizia

Intorno alla fine del III secolo a.C., un paio di seco-li prima che i mattoni cotti in fornace facessero la lorocomparsa nell�edilizia romana, gli attivissimi cantieridell�Urbe cominciarono a sostituire le tecniche edilizietradizionali a blocchi di pietra con un sistema di mura-tura assolutamente rivoluzionario per i suoi costi ridot-ti, la rapidità di esecuzione e le prestazioni in terminidi durata e versatilità: l�opera cementizia (Vitruvio lachiama structura caementorum), un impasto di maltaliquida e scaglie (i caementa, da cui prende il nome) dipietra, terracotta o ghiaia che, una volta solidificatosi,diventava estremamente solido e nello stesso tempo leg-gero ed elastico. È antica almeno quanto quella dellaceramica la scoperta che cuocendo determinati tipi dirocce si ottiene la calce, un legante assai più resistentedell�argilla. In Siria, Fenicia, Cipro e Grecia la calce èattestata fin dal V, se non addirittura dal VI secoloa.C., come componente di mastici particolari, usati adesempio per incollare gemme sui mobili. In Magna Gre-cia, ad esempio a Pompei, la troviamo già usata nell�e-dilizia prima dell�arrivo dei Romani; ma a questi ultimispetta il merito di aver reso sistematico l�uso della calce,studiandone la composizione ottimale nella fabbricazio-ne della malta e quindi di aver messo a punto quell�o-

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pera cementizia che è il presupposto indispensabile allarealizzazione di edifici alti e vasti.

La calce

La calce (calx) si ottiene cuocendo in fornace la pie-tra calcarea (ossia composta prevalentemente di carbo-nato di calcio), che intorno ai 1000°C libera anidridecarbonica e si trasforma in ossido di calcio: la cosiddet-ta calce viva. Immersa nell�acqua, dopo una prima, vio-lenta emissione di calore che può arrivare fino a 300°C,la calce si «spenge» e finalmente può essere usata perottenere la malta, mescolata con sabbia purissima (bare-na) o pozzolana (pulvis puteolanus), un composto di ori-gine vulcanica che prende nome da Pozzuoli, dove neesistevano giacimenti di ottima qualità. Per uno di queicuriosi paradossi di cui è costellata la storia, proprio lacalce, che come componente del cementizio tanto con-tribuì al progresso dell�architettura romana, fu ancheuna delle maggiori responsabili della distruzione di granparte degli edifici antichi, ridotti in molti casi allo statodi ruderi informi. Per secoli infatti, a partire già dallatarda antichità e soprattutto nel medioevo, un vero eproprio esercito di predatori spogliò i monumenti roma-ni di tutto ciò che poteva essere riutilizzato, tra cuimarmi e travertini.

Quando non furono reimpiegate nella realizzazione dinuove costruzioni, queste pietre ricche di carbonato dicalcio e quindi adattissime per fabbricare la calce, furo-no bruciate in un�infinità di apposite fornaci (denomi-nate calcare), insediatesi come voraci parassiti accantoe talvolta addirittura all�interno dei monumenti che for-nivano la materia prima. Famose, ad esempio, furono lacalcara di Sant�Adriano, che si alimentava con i marmidei Fori imperiali, quella dell�Agosta, che si riforniva nel

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Mausoleo di Augusto, e quella della Pigna, che sfrutta-va la «cava» dell�Iseo e delle terme di Agrippa (R. Lan-ciani, The Destruction of Ancient Rome, New York-Lon-dra 1899).

I resti archeologici ci consentono di datare l�inven-zione dell�opera cementizia alla fine del III secolo a.C.:la prima attestazione sicura è infatti il tempio dellaMagna Mater sul Palatino, che risale al 204, seguitopochi anni dopo dalla porticus Aemilia, un grande magaz-zino di stoccaggio nei pressi dell�Emporium, il porto diRoma, iniziato probabilmente verso il 193 dagli edili M.Emilio Lepido e M. Emilio Paolo e terminato nel 174dai censori Q. Fulvio Flacco ed A. Postumio Albino.L�eccellente qualità del cementizio impiegato in questecostruzioni ci autorizza a considerare ormai conclusa inquest�epoca la prima fase di sperimentazione della nuovatecnica edilizia. È stato notato come l�affermarsi di unsistema di costruzione che prevede l�impiego di scagliedi pietra non lavorata e di minute dimensioni � i gran-di blocchi squadrati da allora in poi furono riservatiesclusivamente alle parti «nobili» degli edifici � corri-sponde al periodo delle grandi conquiste militari deiRomani (seconda e terza guerra punica contro i Carta-ginesi, vittorie del 197, 190 e 146 su Macedoni e Grecie del 133 sui Celtiberi in Spagna), che segnarono l�arri-vo a Roma di una quantità impressionante di schiavi:manodopera poco qualificata, che tuttavia la nuova tec-nica edilizia, per la quale non era richiesta un�eccessivaspecializzazione, consentiva di impiegare nei cantieridopo un breve apprendistato. Bastava infatti un capo-mastro esperto per dirigere un gran numero di operai,il cui compito era in definitiva solo quello di assembla-re materiali prefabbricati, prodotti in gran quantità eadattabili a tutti i tipi di costruzione, indipendente-mente dalle dimensioni e dalla destinazione. La ridu-zione dei tempi di lavoro e dei costi che ne derivava si

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può facilmente immaginare: se ci volle un secolo percostruire il tempio di Giove Capitolino, che secondo latradizione fu iniziato da Tarquinio Prisco negli ultimianni del suo regno, ossia alla fine del VII secolo a.C.(Dionigi di Alicarnasso III, 69, 4-6), terminato da Tar-quinio il Superbo e consacrato dal primo console, M.Horatius Pulvillus, nel 509 a.C. (Dionigi di Alicarnas-so V, 35, 3; Livio II 8, 4), per costruire il Pantheonoccorsero soltanto sette anni e per le gigantesche termedi Caracalla (132.000 metri quadrati di superficie) addi-rittura appena cinque.

I ponteggi

Le ridotte dimensioni dei materiali da costruzioneimpiegati per l�opera cementizia certamente risolseroanche molti dei problemi legati al sollevamento dei gran-di blocchi di pietra: per innalzare fino ai piani di posa icaementa, i pani di calce, i secchi di malta e gli strumentida lavoro bastavano infatti le braccia degli schiavi equalche carrucola, con cui si potevano sollevare fino a30 chilogrammi senza troppi problemi. Cambiò tuttaviaradicalmente il modo di tirar su i muri: se per costruireuna struttura in opera quadrata gli operai potevanoinfatti camminare, lavorare e posare i blocchi diretta-mente sul muro stesso, servendosi tutt�al più di lunghescale per arrampicarsi fino alla sommità, nel caso dellestrutture in opera cementizia i muratori furono obbligatiad innalzare, parallelamente alla costruzione, un�inca-stellatura provvisoria di legno a più piani: il ponteggioo machina scansoria. I ponteggi erano strutture leggere,predisposte per sorreggere esclusivamente gli operai, gliattrezzi da lavoro e i materiali minuti, da non confon-dere pertanto con armature e centine, destinate al con-trario a sopportare tutto il peso della costruzione e per-

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ciò fabbricate con carpenteria di maggior spessore. Persicurezza, negli edifici più alti erano ancorati al murostesso, man mano che questo cresceva in altezza, permezzo di traverse infilate in appositi buchi della mura-tura: quei buchi allineati, posti a distanza regolare chesi vedono spesso sui muri antichi, ma che in origine unrivestimento, oggi scomparso, nascondeva alla vista.

I paramenti: l�opera incerta, l�opera reticolata, l�operamista e l�opera vittata

A fronte di tante qualità positive, l�opera cementiziapresentava però un inconveniente, uno solo, ma parti-colarmente grave: era brutta da vedersi. Perfetta per lefondazioni, che rimanevano sotterrate, la sua superficiescabra, dalla quale affioravano in modo irregolare cae-menta di forma, dimensioni e materiali diversi, non pote-va essere lasciata in vista nell�alzato degli edifici. Dove-va pertanto essere coperta con un paramento che fossecoerente con il nucleo cementizio e che nello stessotempo avesse un aspetto meno grezzo e tale da essereeventualmente rivestito con materiali nobili oppure into-nacato.

Il primo paramento che troviamo associato ai cemen-tizi più antichi, ad esempio nel tempio della MagnaMater e nella porticus Aemilia, fu l�opera incerta (Vitru-vio II, 8), costituita sostanzialmente dalle stesse pietreirregolari usate nel nucleo cementizio, disposte però concura una accanto all�altra, in modo da ridurre al mini-mo gli interstizi ed esibire una superficie abbastanzaomogenea e regolare. Fu negli anni fra il II e il I secoloa.C. che l�opera incerta conobbe il suo massimo svilup-po, con realizzazioni accuratissime � ad esempio neigrandi santuari laziali della Fortuna Primigenia a Pale-strina o di Giove Anxur a Terracina � che tuttavia pre-

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ludono al suo imminente abbandono, in nome di un�ul-teriore standardizzazione dei materiali e delle procedu-re di lavoro.

Con l�opera reticolata (Vitruvio II, 8), che si affermòintorno alla metà del I secolo a.C., dopo una fase di tran-sizione rappresentata dall�opera «quasi reticolata», ilricorso a blocchetti di pietra tutti assolutamente ugualiconsentì di eliminare completamente quel lavoro, ancor-ché minimo, di selezione del materiale a seconda deltratto di muro da eseguire che pure era richiesto dall�o-pera incerta, riducendo di fatto il compito degli operaiad un mero assemblaggio di pezzi prefabbricati. L�ope-ra reticolata consiste infatti in un tessuto di blocchettiidentici, tagliati in forma di tronco di piramide a basequadrata e montati con il vertice all�interno e la baserivolta verso l�esterno del muro. Ne risulta una speciedi rete, le cui maglie sono inclinate di 45° per evitaregli allineamenti verticali, lungo i quali più facilmenteavrebbero potuto crearsi crepe e fratture.

Il teatro di Pompeo (ultimato nel 55 a.C.) è tradi-zionalmente considerato il primo edificio pubblico diRoma costruito con un paramento in opera reticolata.Da quel momento, e per tutto il I secolo d.C., il retico-lato fu adottato nella stragrande maggioranza dellecostruzioni, sia pubbliche che private, dell�Urbe e del-l�Italia centrale tirrenica, ma curiosamente non si diffuseal di fuori di quest�area così circoscritta: inesistentiinfatti, tranne rarissime eccezioni, le attestazioni a suddella Campania, a nord dell�Appennino e sulla costaAdriatica.

A partire dall�età di Claudio, l�opera reticolata comin-ciò ad essere associata sempre più spesso ai laterizi, chedi norma erano preferiti per gli angoli e le testate deimuri in quanto più regolari, e per gli zoccoli, in quantoostacolavano la risalita dell�umidità. Ricorsi orizzontalidi due o tre file di mattoni, inseriti ad intervalli regola-

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ri nella tessitura del reticolato, ne aumentavano inoltrela solidità, grazie ad una ripartizione dei carichi piùefficace, oltre a permettere agli operai un controllocostante sull�orizzontalità della muratura.

Questo tipo di paramento, denominato opera mista,ebbe notevole successo fra la fine del I e gli inizi del IIsecolo d.C., in concomitanza con l�eccezionale attivitàedilizia di Domiziano, Traiano e Adriano: non a caso èil paramento più diffuso e meglio conservato a Ostia,che proprio a questi tre imperatori deve il suo massimosviluppo urbanistico.

Talvolta, invece del reticolato, furono associati ailaterizi blocchetti di pietra tutti uguali, a forma di paral-lelepipedo, disposti con regolarità in file orizzontali:quasi un�opera quadrata in miniatura, che quando èusata indipendentemente dai mattoni prende il nome diopera vittata. Stranamente quest�ultimo tipo di para-mento, che a noi appare il più ovvio e convenzionale, fuusato in realtà solo in casi rarissimi prima dell�età augu-stea e spesso solo per restauri o interventi di ristruttu-razione, sia pure importanti, come quelli delle mura sil-lane di Segni e di Cori, della seconda metà del I secoloa.C. A Roma l�opera vittata non fu praticamente utiliz-zata prima della metà del II secolo d.C., quando comun-que fece la sua comparsa come componente dell�operamista, e soltanto con l�età di Massenzio e Costantino,nella prima metà del IV secolo, cominciò a diffondersisu larga scala.

Il paramento in mattoni

Fin dal I secolo d.C., dopo un incerto avvio in etàaugustea, il materiale «vincente» si rivelò il mattonecotto in fornace (testa). Non per nulla l�immagine piùfamiliare delle rovine di Roma antica è quella di un uni-

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verso di mattoni, nel quale solo sporadicamente fannocapolino resti di tufo, travertino o marmo: si pensi aiCastra Praetoria, alla Domus Aurea, alle imponenticostruzioni delle gradinate del Colosseo, ai mercati diTraiano, ai palazzi imperiali sul Palatino, al Pantheon,alle terme di Tito, Traiano, Caracalla e Diocleziano,alla basilica di Massenzio e alle mura Aureliane, pernon parlare di villa Adriana a Tivoli e delle grandi villesuburbane, dei Sette Bassi sulla via Latina e dei Quin-tilii sull�Appia. Le ragioni del successo dell�opera testa-cea sono strettamente legate alle esigenze sempre cre-scenti di pianificazione dei cantieri e standardizzazionedei materiali che, come abbiamo visto, si manifestaro-no nell�edilizia romana fin dall�età repubblicana. A que-ste esigenze il mattone rispondeva meglio di ogni altromateriale: poteva essere prodotto rapidamente e conpoca spesa in quantità industriali ed essere messo inopera con estrema facilità, grazie alla sua regolarità e allamaggior superficie portante; inoltre era leggero e prati-camente inattaccabile dagli agenti atmosferici. Ciò nontoglie che di norma i muri di mattoni fossero rivestitid�intonaco, per proteggerli meglio con uno strato «disacrificio» periodicamente rinnovabile, o addirittura dipietra (generalmente marmo o travertino) per imprezio-sire le costruzioni. I ruderi che vediamo oggi tradisco-no pertanto l�aspetto originario degli edifici, mostran-done soltanto l�ossatura edilizia privata del tegumentoesteriore.

La tipologia dei paramenti in laterizio non presentagrosse variazioni nel corso dei secoli, se non nello spes-sore dei mattoni e dei letti di malta fra un filare e l�al-tro, elementi che tuttavia non forniscono di per sé indi-zi sicuri per la datazione delle strutture. Fondamentalia questo scopo sono invece i bolli, ossia i marchi di fab-brica che le officine erano solite imprimere sui loro pro-dotti. Accanto al nome del proprietario della manifat-

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tura, a partire dall�età di Traiano sui bolli cominciaro-no a comparire una quantità di altre informazioni pre-ziosissime: il nome del proprietario della cava d�argilla,a volte anche quello dell�operaio che aveva material-mente prodotto i mattoni o del mercante che li com-mercializzava e spesso anche dei consoli in carica e addi-rittura l�indicazione del monumento cui erano destina-ti, senza tralasciare in qualche caso un�acclamazionebeneaugurante, del genere valeat qui fecit. Generalmen-te i bolli più antichi sono rettangolari, ma con il passa-re del tempo fu necessario ricorrere a forme che per-mettessero l�inserimento di testi più lunghi, ad esempioquella a crescente lunare, che via via si chiuse semprepiù, fino a diventare un cerchio. Sono quasi cinquemi-la i bolli noti che provengono dall�area di Roma, Ostiae Tivoli, sulla cui base non soltanto possiamo datare consicurezza una quantità di edifici � esemplare, a questoproposito, il caso del Pantheon, a lungo consideratoopera di Agrippa, come indica l�iscrizione sul pronao, mache invece fu ricostruito integralmente da Adriano,come dimostrano i bolli sui mattoni �, ma possiamoanche ripercorrere m buona parte il ciclo produttivo deilaterizi, ricostruire pertanto la storia delle fabbriche dimattoni, gli eventuali passaggi di proprietà per eredità,vendita o confisca, il numero e la condizione socialedegli operai che vi lavoravano, gettando così un po� diluce su realtà produttive sistematicamente dimenticatedalla storia ufficiale.

L�innovazione architettonica

Standardizzazione e produzione industriale dei mate-riali edilizi, ricorso a eserciti di operai guidati � più cheaddestrati con lunghi tirocini � a compiere lavori sem-plici e ripetitivi, pianificazione stupefacente dei cantie-

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ri: questi, come abbiamo visto, i primi effetti che l�in-troduzione del cementizio produsse nella storia dell�e-dilizia. Ma ancor più determinanti per gli sviluppi futu-ri dell�architettura furono gli effetti che si manifestaro-no con l�andar del tempo, quando la padronanza asso-luta della nuova tecnica permise agli architetti romanidi avventurarsi sul terreno della ricerca e della speri-mentazione di soluzioni architettoniche nuove rispettoal passato. Abbiamo visto infatti come l�opera cementi-zia, affermatasi alla fine del III secolo a.C. come surro-gato economico e spesso più funzionale dei materiali tra-dizionali, ben presto avesse soppiantato completamen-te le altre tecniche edilizie, ma per almeno due secolicontinuasse ad essere impiegata nell�ambito di tipologiearchitettoniche tradizionali e da tempo collaudate. Latecnica si andava affinando, ma si era ancora lontani dalcoglierne tutte le potenzialità, anche sul piano dellesoluzioni formali. Fu nel I secolo d.C. che la consape-volezza di queste nuove possibilità cominciò a farsi stra-da negli architetti romani, stimolandoli a creare archi-tetture non soltanto più grandiose e funzionali, maanche profondamente innovative.

L�elemento caratterizzante di tali novità fu princi-palmente l�uso della volta. Archi e volte a botte in realtàesistevano già prima: una tradizione, peraltro da dimo-strare, ne attribuisce l�invenzione agli Etruschi, che aloro volta l�avrebbero trasmessa ai Romani; ma è piùprobabile che la scoperta risalga al mondo greco e chequelli etruschi siano soltanto i primi esempi che i Roma-ni incontrarono sulla loro strada. Vero è che essi si impa-dronirono ben presto della tecnica dell�arco e della volta,diventando maestri insuperabili non soltanto nella scel-ta dei materiali, ma anche nel calcolo delle spinte, dellaportata e degli effetti nella statica degli edifici. Dallaseconda metà del II secolo a.C. archi e volte a bottefurono abitualmente impiegati in tutti i tipi di architet-

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ture, anche con dimensioni ragguardevoli: si pensi, adesempio, agli oltre 24 metri di portata di ognuna delledue arcate a sesto leggermente ribassato del ponte Fabri-cio, che dal 62 a.C. unisce l�isola Tiberina con la spon-da sinistra del Tevere.

Ma tutt�altra cosa sono le volte in opera cementizia:la loro portata poteva infatti essere dilatata fino a copri-re spazi di dimensioni assolutamente inusitate, graziealla maggiore stabilità di queste strutture, garantita nontanto dall�equilibrio, meccanico delle spinte, quantopiuttosto dalla forza di coesione del legante, che confe-riva all�insieme la consistenza di un monolito, e dallarelativa leggerezza del materiale utilizzato: spesso neicementizi delle volte si ricorreva infatti a scaglie di pie-tra leggera, come la pomice o la lava, o addirittura adanfore vuote, come nella volta del Mausoleo di Sant�E-lena, chiamato Tor Pignattara proprio dalle «pignatte»di cui è realizzata la cupola.

La più antica volta in opera cementizia datata concertezza è quella della sala ottagonale, di oltre 13 metridi diametro, che nel 64 d.C. Nerone fece costruire nellasua fastosa Domus Aurea; ma è alla fine del secolo, conDomiziano, che i grandi sistemi voltati diventano l�ele-mento base della nuova architettura e pochi anni dopo,non senza il concorso di Apollodoro di Damasco, archi-tetto ufficiale dell�imperatore Traiano, troviamo absidied esedre, cupole, semicupole e gigantesche volte com-posite impiegate con grande effetto scenografico in com-plessi architettonici di particolare prestigio, come leterme costruite sopra la Domus Aurea e i mercati allependici del Quirinale.

Tuttavia, il monumento che più di ogni altro riassu-me la sapienza tecnica raggiunta dai Romani agli inizidel II secolo d.C. è il Pantheon, in cui la grandiosa mae-stà delle proporzioni si fonda sull�estrema semplicitàdella struttura architettonica: una sfera perfetta, di oltre

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43 metri di diametro (la più grande mai costruita primadell�avvento del cemento armato), inserita in un cilin-dro dello stesso diametro e di altezza pari al suo raggio.La grande cupola, progettata in modo che all�esterno sene veda solo la sommità, fu costruita con un�unica get-tata di cementizio al di sopra di una titanica centina inlegno. Per alleggerirne il peso, si ricorse a caementa dilava anziché di pietra, mentre un complesso sistema divolte minori ed archi di scarico concentrava le spinte neipunti di maggior resistenza della muratura.

A dispetto delle mutilazioni e delle traversie subitenel corso dei secoli e dei terremoti che ne hanno piùvolte scosso le fondamenta, il Pantheon non presenta, aquasi duemila anni dalla costruzione, il minimo segno dicedimento, il che è la miglior dimostrazione della straor-dinaria capacità tecnologica di chi lo ha costruito.

Il cantiere: organizzazione ed efficienza

Per costruire un edificio come il Pantheon in solisette anni, dal 118 al 125, non sarebbero certamentebastate né la capacità tecnica dei progettisti né la dispo-nibilità economica del committente � che era l�impera-tore � senza una prodigiosa organizzazione del cantiereedilizio: nulla doveva essere lasciato al caso, dal coordi-namento della manodopera e delle forniture alla pro-grammazione dell�attività. Esemplare, a questo propo-sito, la costruzione di un altro «gigante» dell�architet-tura romana, il Colosseo: alto 50 metri e lungo 188,dotato di un�arena vasta un terzo di ettaro e di gradi-nate capaci di ospitare almeno sessantamila spettatori,per costruirlo ci vollero non meno di 100.000 metricubi di travertino e di 300 tonnellate di ferro per le grap-pe di fissaggio. Nulla sappiamo dell�architetto o degliarchitetti che lo progettarono, ma conosciamo il proce-

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dimento che seguirono: utilizzando un sistema simile aquello adottato nelle moderne costruzioni in cementoarmato, crearono dapprima una gabbia di strutture por-tanti, formata da pilastri di travertino collegati, in cor-rispondenza dei vari piani, da archi in cementizio e muriradiali, nonché da volte rampanti sulle quali avrebbepoggiato la cavea con le sue gradinate. Fu così possibi-le operare contemporaneamente ai diversi piani dell�e-dificio, con il vantaggio, per quelli inferiori, di potervilavorare anche in giorni di maltempo. Per accelerareulteriormente le operazioni, la costruzione fu suddivisainoltre in quattro quadranti, la cui realizzazione fu affi-data a quattro diversi cantieri in grado di procederesimultaneamente. Come per il Pantheon, il risultato ditanta ingegnosità si è dimostrato capace di uscire vitto-rioso dalle offese arrecate dal tempo e dagli uomini: perquanto malridotto, semifranato, puntellato in più partie spolpato come l�immensa carcassa di un animale prei-storico, il Colosseo conserva infatti ancora intatto ilmessaggio di grandiosità, potenza e razionalità che isuoi costruttori impressero indelebilmente nel suo codi-ce genetico.

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